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Indice:
La gara
Ringraziamenti 
Prefazione
La mano del destino
Cinque petali
Per il tuo bene
La regina del casting
L’abbonamento alla TV
Apocalisse
19 settembre 2009 – Due…
Sfiga
Rain
Donna morta
Accettazione
Parla con il Minotauro
Sostieni la nostra p…
Copyright
Una produzione

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La gara

Gara 9
UN RACCONTO PER UN CORTOMETRAGGIO
OTTOBRE 2009
antologia per BraviAutori.it
A cura di Alessandro Napolitano
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

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Ringraziamenti

Gara 9… quello che era partito come un gioco divertente ormai è diventato un appuntamento atteso da tutti, dai “vecchi braviautoriani” ai neofiti che contribuiscono alla crescita del portale. Nelle ultime edizioni sono stati messi in palio dei premi, ma non è certo questo che ci spinge a partecipare, bensì la voglia di metterci in gioco, di confrontarci e, perché no?, prenderci scherzosamente in giro. Ringrazio tutti coloro che hanno partecipato e anche coloro che hanno soltanto lasciato un commento e la loro preferenza. Ringrazio Manuela per aver scritto la prefazione, Max per la sua ospitalità e Dario alias “darOOts” che ha messo in palio un bellissimo premio: la realizzazione di un cortometraggio.
La sua scelta è caduta su “La mano del destino” di Cmt mentre il verdetto popolare ha dato la sua preferenza a “Cinque petali” di Manuela.
Complimenti a tutti e due e restiamo in trepida attesa del corto.
E ora bando alle ciance e si dia inizio alla lettura
Alessandro Napolitano

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Prefazione

“L'artista è l'ultimo a farsi illusioni a proposito della
sua influenza sul destino degli uomini”
(Thomas Mann)

La gara 9 era a tema libero. Impresa difficile perché il “tema libero” lascia spazio a qualunque scelta. E scegliere, a volte, è difficile.
Ha vinto il racconto di Cmt,La mano del destino” e, per uno strano e assurdo gioco non cercato e non voluto, sembra proprio che sia il destino a fare da filo conduttore ai racconti che hanno partecipato a questa gara.
Storie che raccontano la superstizione, incontri mai realizzati, attese infinite che rendono inermi, donne fatali e infallibili che sbagliano “nome”, dolori insopportabili che portano alla disfatta, apocalissi annunciate, mondi virtuali che prendono il posto di quelli reali e li distruggono, incantesimi, improbabili nonnine trasformiste, “impiegati” docili e stupiti dagli eventi.
Sono storie diverse eppure sembrano davvero guidate da quella mano.
I personaggi di questi racconti sono rassegnati al loro destino, o cercano di contrastarlo oppure si fanno beffa di lui o lo accettano con serenità o, qualche volta, riescono a vincerlo.
Basta leggere questi racconti per farsi trasportare in mondi tanto affascinanti quanto diversi tra loro e capire che, forse - forse - non abbiamo grandi possibilità di scelta davanti all’ineluttabilità della vita.
O forse sì!
Buona lettura!
Manuela

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La mano del destino


Sedeva con le caviglie incrociate, la testa tra le mani, i gomiti poggiati sul bordo del tavolino. Lo sguardo era fisso sugli oggetti che gli stavano davanti, disposti al centro esatto del piano di formica, senza davvero vederli. La pistola — una sei colpi a tamburo — era aperta e invitante. Accanto a essa stava in piedi un unico proiettile che rifletteva la luce stanca del neon sul soffitto.
Prese l'arma, inserì il proiettile e fece ruotare il tamburo con un colpo del pollice, senza guardarlo, prima di richiuderla. Se la portò alla tempia destra, sfiorandola con la canna. L'odore di olio minerale gli raggiunse le narici, facendogliele arricciare involontariamente.
Sbuffò con forza dal naso. Premette il grilletto.
Click!
La sua postura cedette appena, una goccia di sudore freddo gli imperlò la fronte dal lato destro. Un leggero tremolio gli scosse la mano, come se solo in quell'istante, dopo essere sopravvissuto al primo tentativo, si fosse davvero reso conto di quello che stava facendo. Eppure non era così, ne era sempre stato consapevole.
Aveva deciso di affidare il resto della sua vita al destino nel momento in cui aveva realizzato che ogni sua decisione era stata un errore, quasi a voler cercare una condanna o un'assoluzione per mano del fato. Cinque camere vuote, cinque errori che gli erano costati più della vita stessa. Cinque pressioni del grilletto, se fosse sopravvissuto abbastanza a lungo.
L'immagine di suo padre gli si affacciò alla mente, in due brevi istanti. Il momento in cui aveva lasciato la sua casa urlando che non vi avrebbe mai più messo piede — una decisione che aveva mantenuto — poi quello in cui aveva rifiutato di raggiungerlo al suo capezzale, certo che sarebbe vissuto quel giorno e altri ancora. Eppure il destino l'aveva perdonato, a quanto pareva.
Un'altra scena del passato gli si parò davanti agli occhi: la sua vecchia casa, lo studio in cui passava gran parte del suo tempo anche quando avrebbe dovuto badare alla bambina. Non l'aveva neppure sentita urlare, solo i vicini che erano andati a suonare alla sua porta dopo averla vista precipitare dal balcone erano riusciti a distoglierlo dalle sue carte. Il dito si contrasse sul grilletto al solo pensiero. Click!
A quel suono sua moglie apparve, quasi si fosse materializzata davvero lì, davanti a lui. Stavano litigando, come ogni giorno dopo il funerale. Lei avrebbe avuto tutto il diritto di incolparlo, invece era successo l'esatto contrario. Lui le aveva vomitato addosso accuse e improperi privi di senso, quasi fosse stata colpa sua se aveva dovuto assentarsi e lasciare la bimba in sua custodia… lasciarla al padre che avrebbe dovuto amarla e prendersi cura di lei. Lei andò via sbattendo una porta che non avrebbe varcato mai più. Lui piegò di nuovo il dito.
Click!
Il tremolio alla mano si era fatto più forte e il palmo era così sudato che fu costretto a lasciare l'arma e asciugarselo sui pantaloni.
Raddrizzò le gambe. Si costrinse a non guardare il tamburo mentre tornava a impugnare la sua personale giuria, giudice e boia. Chiuse gli occhi e si rivide in un bar scalcinato a elemosinare un altro bicchiere a un barista irremovibile. Uscì barcollando, pronto a passare un'altra notte rannicchiato sul sedile posteriore della sua auto. Aveva ancora una casa, ma non poteva tornarci. E, del resto, ormai viveva sul fondo di una bottiglia.
Click!
Aprì gli occhi di scatto, chiedendosi come fosse possibile che gli restasse solo un altro tentativo, che il proiettile non gli avesse ancora trapassato il cranio, lasciandolo cadere privo di vita sul pavimento pulito ma rovinato di quel tugurio in cui negli ultimi tempi aveva vissuto senza mai chiamarlo casa. Piuttosto era un rifugio, o meglio un nascondiglio.
La strada gli si aprì davanti, fiocamente illuminata dai lampioni sui marciapiedi. L'auto che stava guidando sbandava, assecondando i suoi movimenti inconsulti, guidata dall'alcol e non dalle sue mani. C'era qualcuno che stava attraversando, una parte della sua mente lo sapeva come lo aveva sempre saputo, ma in quel momento non era che una chiazza bianca nella nebbia della sua mente. Dire che non riuscì a fermarsi in tempo sarebbe stato dargli un credito che non possedeva: nella realtà non ci provò neppure, né tentò di farlo quando la macchina proseguì la sua corsa, lasciandosi dietro il macabro trofeo di quella solitaria competizione. Era solo una bambina. Una bambina come quella che un tempo era stata sua figlia.
Questa volta il dito premette il grilletto quasi con rabbia, desideroso di farla finita.
Click!
La sorpresa fu tale da farlo balzare in piedi, rovesciando la sedia e facendola finire in terra con un suono secco, eco di quello sparo che non c'era mai stato. Quindi era questo che il destino voleva per lui. Che continuasse a vivere e potesse, forse, fare ammenda per i propri errori.
Sciolse la mano contratta e la pistola gli scivolò via dal palmo sudato. Con la canna ancora rivolta a lui, cadde sul pavimento.
Bang!
Cmt

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Cinque petali


Era l'ultima sera della settimana, la cena di gala, e due giorni dopo ci sarebbero state altre persone. Samir lavorava lì da tanti anni. Faceva il capo cameriere ai tavoli su una nave da crociera. Aveva un tavolo per otto. Ogni settimana cambiavano i commensali. Ne aveva viste di tutti i colori. Aveva imparato a conoscere la gente, quei turisti che si concedevano una settimana di vacanza e durante quella settimana volevano essere serviti. Al suo tavolo c'era una donna. Lui ne era rimasto folgorato dalla prima sera. Non era particolarmente bella ma aveva uno sguardo che lo aveva incantato subito: gli sembrava che lei venisse da un altro pianeta. E fin dalla prima cena, Samir aveva sbagliato le portate, si era confuso un paio di volte con le bevande e sempre con lei. Nei giorni successivi le cose non erano andate meglio, tanto che lui aveva deciso di portare alla signora sempre un paio delle pietanze del menù, per essere sicuro di non sbagliare. Lei sorrideva per queste attenzioni, turbandolo. E Samir non riusciva più a pensare ad altro. Avrebbe voluto farsi notare, anzi avrebbe voluto conquistarla. Mentre era nella sala a preparare i tavoli per la cena, gli tornò in mente che, prima di partire, la madre gli aveva dato un sacchettino per proteggerlo dalle negatività. Non sapeva cosa contenesse, ma era sicuro che ci fossero dentro alcuni petali delle rose del loro giardino. Una volta aveva sentito sua madre dire a sua sorella che per far innamorare un uomo avrebbe dovuto usare quei petali, farglieli mangiare. La sorella si era sposata e sembrava felice. Dopo aver finito di sistemare i tavoli, disse ai colleghi che doveva allontanarsi per un momento, andò in cabina e tirò fuori da sotto il letto la valigia. L'aprì e cominciò a rovistare tra le sue poche cose con una foga eccessiva. Quando trovò il sacchetto, si calmò: prese tra le mani quel piccolo involucro di tela, tenuto stretto da un cordoncino marrone. Sciolse il cordoncino e cinque petali rossi, nonostante fossero appassiti e stropicciati, risaltarono tra la polvere verdastra. Li prese con delicatezza per paura che potessero rompersi, li lavò uno a uno, li asciugò con estrema cura e poi li raccolse in un tovagliolo di carta che mise in tasca. Ripose il sacchetto e, preso di nuovo da un senso di agitazione, tornò nella sala ristorante, trafelato. Alle nove in punto cominciarono a entrare gli ospiti: in abito da sera le signore, in giacca e cravatta gli uomini. Lei arrivò poco dopo, avvolta in un vestito rosso, lungo fino alle caviglie. Samir la trovò bellissima con indosso lo stesso colore dei suoi petali e le scostò la sedia, per farla accomodare. Lei sorrise e lui si sentì sciogliere. Mentre le persone sedute al tavolo leggevano attentamente il menù, lui passò accanto a ognuno di loro per versare l'aperitivo. Poi prese le ordinazioni. Quando si avvicinò a lei, le guardò le mani che tenevano il menù ed ebbe un brivido caldo. Ebbe anche timore che qualcuno se ne fosse accorto. Lei cominciò a scegliere, puntando le portate con l'indice e alzando gli occhi verso Samir per accertarsi che avesse capito. Lui, per essere sicuro di non sbagliare, almeno quella sera, e anche per restarle vicino, rivide con lei ancora una volta le portate scelte. Le loro dita si sfiorarono e Samir dovette controllarsi per non cadere. Andò in cucina. Decise di non avere fretta. Tra le portate scelte dalla signora quella più giusta a cui aggiungere i petali era sicuramente il dolce: il tortino caldo al cioccolato con frutti di bosco caramellati. La cena fu più lunga del previsto, di tanto in tanto un ospite si alzava e brindava, come se fossero stati tutti allo stesso matrimonio. Samir non vedeva l'ora di portare i dessert. Quando tolse i piatti dei secondi, ebbe una brevissima esitazione davanti a lei: non aveva terminato. La signora con una voce sottile, disse che poteva portarlo via, concludendo la frase con quel sorriso che da qualche giorno lo stava facendo impazzire. In cucina aspettò che i dolci fossero pronti e servì tutti gli altri ospiti del suo tavolo. Il tortino caldo al cioccolato, invece, richiedeva una preparazione più accurata. Rientrò in cucina e appoggiò il piatto fumante su un piccolo scaffale, dando le spalle al resto del personale. Tirò fuori dalla tasca il tovagliolo, lo aprì e prese in mano i cinque petali; poi li spezzettò e li fece cadere sul tortino. Guardò la composizione e gli sembrò perfetta. Portò il dolce quasi di corsa alla signora e stavolta fu lui a sorriderle. La guardò mentre assaggiava il tortino, la osservò mentre con la forchetta si portava alla bocca i frutti di bosco insieme ai pezzetti dei petali. La vide mangiare con gusto, ne fu felice. Ora doveva solo aspettare: un cenno, un segnale, qualcosa che dimostrasse che quei petali avevano avuto l'effetto desiderato. Servì il caffè e lo spumante e poi lei si alzò, aveva una busta in mano. Samir sembrò deluso. La signora gli mise una mano sulla spalla. E lui chiuse gli occhi, per un istante, felice di quel contatto.
— Questo piccolo pensiero è da parte di tutti, un ringraziamento per la tua cortesia e per la tua gentilezza.
Lei non aveva sorriso.
— Grazie, non dovevate. Disse lui con un tono triste, aprendo un angolo della busta solo per controllare se, insieme ai soldi, potesse esserci, magari, un biglietto d'amore. Aveva bisogno di denaro, certo, ma ora desiderava altro.
La signora restò in piedi. Si alzarono anche gli altri per ringraziare e salutare Samir e poi cominciarono ad allontanarsi.
Lei si avvicinò di nuovo e fece come per dargli la mano. Gli passò un fazzoletto di seta ben piegato e poi si protese verso di lui, per baciarlo sulle guance.
— Questo invece è da parte mia. Le streghe non si innamorano mai, mi dispiace, ma so che sarai felice. Buona fortuna, Samir. Gli sussurrò in un orecchio.
E se ne andò, senza voltarsi. Samir guardò il fazzoletto, lo annusò, poi lo aprì. I petali erano intatti e rossi. Più rossi di quanto lui avesse mai potuto immaginare.
Manuela

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Per il tuo bene


Marianna, come tutte le mattine, mentre fa colazione, accende la tv.
C'è il notiziario delle sette, su un canale satellitare indipendente, uno dei pochissimi rimasti, il segnale è disturbato.
Il cronista che parla sta facendo un reportage sugli ultimi scontri fra manifestanti e polizia sanitaria. Gli scontri si fanno sempre più duri in Francia, Inghilterra, Italia, Spagna, Germania, Columbia, Australia, Cina e in altri quindici paesi del mondo, con perdite gravissime in vite umane.
La repressione dei manifestanti è durissima, l'uso dei gas nervini è quasi di prassi. Si effettuano da parte della polizia sanitaria arresti di massa. Le nuove normative hanno scatenato reazioni di rabbia fra i manifestanti. Nessuno può rifiutare i nuovi vaccini, per chi si rifiuta c'è l'arresto. Marianna scuote la testa e cambia canale.
Gira su OMSSAT, la rete del monopolio di regime, la sua preferita.
—… Qui danno sempre buone notizie! — Pensa fra sé e sé la ragazza.
Inizia adesso il telegiornale in edizione straordinaria, con la sigla d'apertura.
Il giornalista in studio dice: — Buon giorno, abbiamo qui stamani con noi in studio l'insigne professor Mac Louise Fabian inventore della FASTTIMEX22, macchina per il trasporto temporale ai positroni, di ritorno dal primo viaggio dal futuro.
La telecamera passa dal cronista al professore.
Il professore sorride con una faccia tra l'imbambolato e il lobotomizzato, senza dire una parola, la camera inquadra con campo all'americana il giornalista.
— Dal futuro il professore ci ha portato un video che però disgraziatamente è andato distrutto durante il ritorno, a causa di una turba elettrica nel percorso temporale. Diremo qui, in poche parole, quello che il professore spiegherà lungamente nella puntata di stasera, del suo diario di viaggio. Sinteticamente possiamo anticipare che dal 2049 potremo dire addio a tutte le terribili pandemie che imperversano oggi sul globo terrestre, grazie alle intense campagne vaccinali realizzate oggi a tutela dei cittadini.
Il professore sorride di nuovo, con l'espressione completamente assente.
Il cronista continua —… ma la cosa più esaltante è che l'assenza di malattie permetterà investimenti diversi nel settore agro-alimentare eliminando la fame nel mondo, consentendo una migliore distribuzione della ricchezza nel globo e di conseguenza l'eliminazione di tutte le guerre.
— Questo è veramente strabiliante! Per un approfondimento di queste notizie vi rimando allo speciale di questa sera che sarà trasmesso a reti unificate sull'intero globo dalle ore 20 alle ore 08 del mattino in replica — dice il giornalista incravattato, concludendo il giornale con un sorriso forzato e alquanto improbabile. Parte la sigla di chiusura…
Marianna sorride soddisfatta della buona notizia, dimentica delle precedenti, spenge la tele, si alza e sparecchia il tavolo.
Il buio negli studi televisivi è completo, si scorge la luce emessa da un monitor.
Sul monitor scorrono le immagini di un futuro raccapricciante: città devastate e bruciate piene di cadaveri di uomini e di animali, deserto buio e silenzio accolgono l'uomo che scende dal modulo per il trasporto temporale.
Lo scienziato si guarda intorno inorridito e lancia un urlo di terrore.
Non c'è più vita.
Daniela

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La regina del casting

Lei lo guardò, con quello sguardo che lasciava senza respiro chi osava sostenerlo.
I suoi occhi, due gioielli topazio, brillavano nella semioscurità della stanza… a un tratto, la bocca femmina sussurrò: — ho voglia di farti un "Sofia Loren" — e senza smettere di guardarlo si inginocchiò ai piedi del letto sul quale lui era seduto. L'uomo sorrise. Ne aveva provati di "Sofia Loren" nella vita. Non sapeva il perché, ma ogni donna con la quale era stato, con la sola esclusione della sua ex moglie assolutamente restia al sesso orale, si era professata, a parole, maestra nell'arte della fellatio. Eppure quante delusioni malcelate per compiacere. Le vere artiste si contavano in punta di pene. Lei scostò i capelli dal viso con un gesto di spontanea sensualità e le sue labbra si socchiusero… la lingua si affacciò timidamente a toccare il glande di lui. — Che glande grande che hai! — sussurrò lei. Queste parole, pronunciate a meno di un millimetro dal pene, fecero vibrare l'uomo di piacere. La potenzialità di averla così vicina, così vicina, esasperava il desiderio. Fu allora che successe l'irreparabile. Lei ebbe un blackout nella mente. Le capitava sempre quando i sensi prendevano il sopravvento. Lei non c' era più. Almeno non razionalmente. Era solo istinto animale. Sapeva che per far godere lui, mentre accoglieva il pene nella sua cavità orale, avrebbe dovuto sussurrare il nome di Sofia Loren. Eppure sbagliò attrice ed esclamò enfatica: ANNA MAGNANI!!! L'uomo emise un urlo disperato, una frazione di secondo dopo che gli acuminati incisivi di lei tranciarono di netto il membro barzotto. Quel posto sembrava un dannato set di Dario Argento. Schizzi di sangue dappertutto. Lui, pallido e atterrito, guardava incredulo quello che rimaneva della propria virilità. Lei si vestì lentamente. Si ravviò i capelli con una spazzola che teneva nella borsetta, tra cellulari vari che non sapeva gestire contemporaneamente, risalì sui tacchi trasparenti delle sue originali calzature e lasciò quel luogo di dolore. Man mano che i suoi piccoli passi la portavano lontano provava una sensazione di benessere. Dopo poche centinaia di metri, il cellulare cominciò a squillare. — Stai tranquillo. Lo so, lo so, sei tu il produttore, sei tu che ci metti i soldi. I tempi verranno rispettati. Ti ho mai deluso? Non mi pagheresti così tanto se lo avessi fatto, no? Sono o non sono la regina del casting? Non ho mai sbagliato a scegliere un attore io!
Arditoeufemismo

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L’abbonamento alla TV


— Buongiorno, sono l'ispettore Mossacùlu della Rai, e non sono venuto per una visita di cortesia. Annunciò l'uomo e, senza attendere alcuna autorizzazione da parte della ragazza che gli aveva aperto, entrò con passo svelto nell'appartamento dove iniziò a guardarsi intorno con sguardo indagatore.
— Ah, benissimo, avete il televisore vedo. Rilevò l'Ispettore, che aveva avvistato nel salottino ciò che cercava.
— Embè? Rispose la ragazza senza alzare lo sguardo dal cellulare, col quale stava messaggiando freneticamente con 4 amiche contemporaneamente.
— Mi faccia vedere le ricevute di pagamento del canone, dal 2000 a oggi, grazie. Disse l'Ispettore accomodandosi su una sedia come se fosse a casa sua.
— Boh, che ne so dove sono, mi sa che non ci sono. Rispose la ragazza, sempre intenta nelle sue comunicazioni, masticando vigorosamente una gomma americana.
— Ah benissimo, quindi lei è in contravvenzione sa? Il canone si paga, cara signorina.
— Io? E perché mai dovrei pagarlo io? Quel televisore non è mica mio!
— Non c'entra la proprietà dell'apparecchio, signorina. É sul proprietario o sull'affittuario dell'appartamento in cui si trova il televisore che ricade l'obbligo di pagare il canone.
— E da me cosa vuole? Io mica sono la padrona di casa!
— Ah no, e chi sarebbe?
— Mia nonna.
— Ah, benissimo, allora è sua nonna a essere in contravvenzione. Dove si trova adesso?
— Aspetti che gliela chiamo, è di là che ricama.
— Ok, come si chiama sua nonna? Chiese iniziando a compilare un prestampato.
La ragazza, sempre con lo sguardo fisso sul display del cellulare dal quale partivano sms a velocità supersonica, bussò energicamente a una porta che si affacciava sul salotto: — Noooooo, viéééé.
La porta si aprì e apparve una graziosa vecchietta, molto elegante.
— Si? Chi mi vuole? Chiese nobilmente.
— Buon giorno, sono l'Ispettore Mossacùlu della RAI TV, sono molti anni che non pagate il canone e purtroppo le devo fare la multa.
— O Gonaria… Disse rivolgendosi alla nipote.
— ooohh Rispose stancamente quella senza guardarla.
— Dove hai messo le ricevute del canone?
— Ebbò, mi sa che non ne ho pagato. Rispose dopo averla fatta attendere qualche secondo perché doveva terminare di scrivere un messaggino.
La nonnina si accasciò su di una poltrona, disperata.
— Disgraziata, mi farai morire prima del tempo. Io ti davo i soldi per pagare il canone e tu dove li mettevi, eh? Cosa ne facevi. Ingrata, ti approfitti di me, che sono una povera vecchia pensionata. Tutti rovinati da questo maledetto telefonino ne siete.
— Mi spiace signora, ma devo farle la contravvenzione — s'intromise l'Ispettore, per la verità un po' commosso da quella reazione — Come si chiama?
— Mi chiamo Proncancelli Luisa Filoginia Emerenziana Bentenuta Corinna Gesuina Allegra Leonilde.
— Caspita quanti bei nomi. Ammirò l'ispettore con finta compiacenza, ben contento di avere finalmente trovato qualcuno a cui appioppare una multa.
— Nata a?
— Pompu il 19 luglio 1920.
— Pompu… Pompu… provincia di Nuoro vero? Dove si trova? Chiese fingendo — sempre con compiacenza plastificata — interesse per le origini della contravvenzionata, mentre in realtà voleva capire cosa scrivere alla voce "prov" del prestampato che stava compilando.
— No, Oristano. Mio padre era un grande proprietario terriero a Pompu, poi… L'ispettore senza farle terminare la frase le diede il verbale:
— Bene, ecco signora, metta una firma qui.
— Cosa devo fare?, Chiese la vecchietta preoccupata.
— Deve solo mettere una firmetta qui, vede, dove le ho fatto la crocetta.
— Ma mi sta arrestando?
— Ma cosa dice mai! Per così poco! Questa è solo una piccola contravvenzione, non si preoccupi! Spiegò l'Ispettore sempre con la stessa espressione di finta benevolenza, questa volta corredata da una risatina altrettanto fasulla. Non vedeva l'ora di andare a stanare altri evasori.
— Prima il cognome? Chiese prendendo la penna che le stava porgendo.
— Come vuole signora. Rispose con Prodiana rassicurazione.
Firmò con grafìa antica ed elegante e porse il verbale all'ispettore, che nel frattempo si era alzato.
— Bene grazie, e mi scusi sa, e il mio dovere…
— Si figuri, anzi beato lei che è alla televisione. Ne vede molti di attori famosi? La vede mai Maria de Filippi?
L'Ispettore, che si apprestava a staccare la copia a ricalco "per il trasgressore", rilesse velocemente il verbale e trasalì.
— Signora scusi ma lei come si chiama?
— Mi chiamo Proncancelli Luisa Filoginia Emerenziana Bentenuta Corinna Gesuina Allegra Leonilde, giovanotto, glielo ho detto prima. Sa, una volta c'era l'usanza di dare tanti nomi, per contentare un po' tutto il parentado, per esempio…
— Signora ma lei qui ha firmato "Bardot Brigitte!"
— Certo.
— Ma lei non si chiama così!!
— Ma lei mi ha detto di mettere UNA firma e non la MIA firma, cosicché io l'ho contentata. Bastava dirlo prima e io avrei firmato col mio nome!
— Adesso devo riscrivere tutto. Disse a mezza voce, riposizionando il suo armamentario sul tavolo e strappando il verbale a firma di Brigitte Bardot.
— Ma senta lei la vede Maria de Filippi? É vero che se la intende con quel ballerino straniero? Continuava a informarsi la Proncancelli.
— Non ne so nulla, signora, io non vedo artisti, io sto in ufficio.
Ricompilò un altro modulo e lo porse alla vecchietta: — Ecco, signora, metta la SUA firma qui, vicino alla crocetta.
— Va bene, però posso leggere prima cosa devo firmare?
— Certo, legga pure, è nel suo diritto!
La vecchietta inforcò un paio di occhiali e lesse. Dopo un po', scrollando la testa, restituì il verbale all'Ispettore.
— Giovanotto, lei ha sbagliato. Io non mi chiamo Proncancelli Luisa, ma Proncancelli Luisa Filoginia Emerenziana Bentenuta Corinna Gesuina Allegra Leontina. Lei ha scritto solo Proncancelli Luisa e siccome anche una mia cugina suora si chiama così non voglio ingenerare ambiguità.
— Ma non ci stanno tutti quei nomi sul prestampato! Esclamò l'Ispettore, che oramai aveva definitivamente abbandonato l'atteggiamento di finta disponibilità.
— Protesti con la tipografia allora, caro Ispettore. Lei pretende il canone? Benissimo, io glielo pago, ma sia preciso. Quel foglio contenente generalità false io non glielo firmo nemmeno se prega in greco! Ma sta scherzando? Mi vuole far firmare il falso? Oggi siete tutti così approssimativi! Mi stupisco di lei, sa, che lavora al telegiornale. Bell'esempio che date, guardi lì l'esempio che date! E indicò la nipote, che continuava imperterrita a inviare messaggini e sembrava non accorgersi di nulla.
— Le ho detto che sto in ufficio, non vedo artisti e non appaio sul video. Ribadì l'ispettore, che iniziava a tradire qualche segno di inquietudine.
Riprese il verbale che la vecchia non voleva firmare e tentò di inserirci anche i rimanenti nomi, ma senza successo; lo strappò, nervoso, mentre la palpebra dell'occhio destro iniziava a contrarsi ritmicamente contro la sua volontà. Ne compilò un altro, sul quale riuscì — non senza fatica — a farci stare tutti i nomi, e lo avvicinò alla Proncancelli che, dopo averlo esaminato attentamente, finalmente disse: — Ecco bravo, così sì che lo firmo. E iniziò a vergare il proprio nome, ma con un tratto talmente largo e spaparanzato che solo le parole "Proncancelli Luisa" avevano già occupato tutta la linea tratteggiata per la firma.
— Va bene così, grazie, non c'è bisogno che completi, tanto si capisce che è la sua firma. Azzardò speranzoso il Mossacùlu mentre tentava di sottrarle il foglio, che lei invece tratteneva con forza.
— Senta Ispettore, lei ha detto che vuole la MIA firma, e adesso io gliela appongo, molli il foglio altrimenti si strappa. E continuò a scrivere tutti i suoi nomi sul documento, rendendo praticamente illeggibile ogni altra scritta, dopodiché — completato il lungo autografo con un ghirigoro elaboratissimo — lo restituì all'uomo, oramai in preda a ogni tipo di tic nervoso.
— Signora così lei ha reso il verbale illeggibile, ma possibile che non riesca a mettere una firma normale?
— Io firmo così da sempre, caro giovinotto.
— Non ho più verbali, me li avete fatti sprecare tutti, e adesso sa cosa faccio? Rientro in ufficio e le mando la contravvenzione per posta. Rispose stizzito.
A quelle parole la vecchietta perse definitivamente ogni accento grazioso e, dopo averlo preso per un braccio, lo trascinò fuori dalla porta. L'uomo, stupito da tale repentino cambio d'umore, non osò opporre alcuna resistenza.
— Se ne vada subito, lei è sicuramente uno di quelli che truffano gli anziani. Gridò dal pianerottolo lanciandogli appresso la valigetta, che lo colpì proprio sul sedere.
Non contenta andò alla finestra e vedendolo uscire dal portone gli gridò: — IGNORANTE, INCOMPETENTE, non torni mai più qui sennò chiamiamo le guardie!! Sotto gli occhi stupiti dei passanti e dei vicini, che guardavano l'uomo allontanarsi imprecando.
— Eh si che adesso ti pago anche il canone RAI. E che, sono scema? Già stai fresco, o Mossacù.
Borbottò mentre chiudeva la finestra. Si avvicinò poi alla nipote e le strappò il cellulare dalle mani.
— Restituiscimelo, che mi stai consumando tutti i messaggi, e vatti a cambiare. Sputa quella gomma e mettiti l'abito da suora, che sta per arrivare l'ufficiale giudiziario a pignorarci i mobili per quelle cambiali che non ho pagato.
Mario

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Apocalisse


Quel giorno per me era un giorno normale, scesi dal letto con il solito piede, il destro.
Riempii la vasca con i soliti sali, solita schiuma da barba, solito dentifricio, la lozione di sempre, la cravatta preferita, e, soprattutto, con l´animo ottimista che giornalmente mi accompagnava.
Era un giorno normale, però stupendo, Roma sembrava un gioiello, preziosa e brillante, il sole pallido caldeggiava le mura della storia. Il freddo di Dicembre esaltava i profumi dei mercati, la gente riempiva le strade di pietra, calpestandole con le sue fini scarpe firmate.
I vetri delle automobili riflettevano sul marmo il laborioso progresso di una città fattiva, piena di vita, frenetica, caotica, ma sempre attenta al passato che la accerchiava e a volte stritolava soffocandola in un traffico assurdo e paralizzante.
Tanti difetti, tanti problemi, come quasi tutte le grandi metropoli.
Una città però sempre piena di umanità e tolleranza, insomma una città estremamente civile.
Forse per questo Roma è l´unica che allo specchio si legge Amor.
Seduto nel solito bar, sorseggiavo il mio prezioso espresso e sfogliavo senza molta attenzione il quotidiano che sempre buttavo dopo il caffè, ero molto preso dalle belle gambe di quelle donne così profumate che martellavano con i loro tacchi a spillo i Sampietrini.
Angeli vestiti a festa che, come su una passerella di moda, sfilavano disinvolte, mostrando le loro minigonne, l´acconciatura stravagante o il trucco dai colori pastello che neanche Michelangelo avrebbe potuto dipingere.
Che meraviglia, che dolci visioni, passerei tutto il giorno a guardare questo spettacolo così bello e sorprendentemente gratis.
Era tardi e il lavoro mi aspettava, quando successe qualcosa che nessuno aveva previsto: cominciò a piovere, nessuno aveva l´ombrello, la pioggia era pesante ma soprattutto stranamente calda.
La gente come formiche impazzite cercava riparo mentre io meravigliato rimasi seduto.
Guardai il cielo, c´era il sole, strano fenomeno, pioggia senza nuvole, ma ancora più strane quelle gocce cosi calde che bruciavano a contatto con la pelle fredda.
Sembrava un temporale estivo, ma era dicembre.
Finalmente il cielo si colorò di scuro, giustificando il fenomeno atmosferico, il colore non mi convinse, non era grigio, ma rosso scuro, come l´abito dei cardinali che lì vicino passeggiavano.
La pioggia si trasformò di colpo in cenere bianca, forfora fastidiosa che, se aspirata, cominciava a mietere le prime vittime.
Io, sempre seduto, mi posi un fazzoletto bianco tra naso e bocca, filtrando questa fuliggine assassina.
Nella piazza c´erano più o meno un centinaio di cadaveri, la gente continuava a correre in silenzio, nessuno gridava, nessuno piangeva, tutti eravamo ammutoliti dalla sorpresa.
Tra i caduti potevo riconoscere Aldo il giornalaio, Mohamed il marocchino che vendeva accendini, Silvia la vigilessa del quartiere, Bob il cantante rasta degli scalini, Carlo il cameriere del bar, Ivan il polacco lavavetri, la bellissima Kuny, la zingarella che all'angolo raccoglieva monete e molti altri sconosciuti, vittime sorprese da un giorno anomalo.
La maggior parte dei morti aveva gli occhi e la bocca aperta, con lo sguardo rivolto al cielo come sognando.
La piazza era vuota, la gente aveva trovato riparo dalla cenere nella stazione della metropolitana, mi unii a loro, e insieme cominciammo a pensare a una spiegazione, cercando un teorema che ci avrebbe aperto il mondo delle soluzioni.
Molte frasi fatte, esagerata mitologia, troppa fantasia, solo una parola mi colpì: Apocalisse.
Secondo un uomo vecchio e stanco, con un occhio solo e appoggiato a uno strano bastone, oggi era il 21 Dicembre del 2012, la fine del mondo.
Lui rideva e ci assicurava che questo evento era previsto, che lui sapeva, che lui aveva fatto il possibile per avvisare tutti, ma che noi tutti eravamo troppo indaffarati, che avevamo snobbato questa eccentrica notizia.
Intanto ognuno di noi a turno faceva capolino per vedere che succedeva fuori, Ezio correndo ci comunicò che la fuliggine si era trasformata in pietre incandescenti, che la statua lì fuori nella piazza era già caduta, e che il maestoso Colosseo si era sgretolato.
Queste pietre una volta a terra diventavano liquide, come la lava di un vulcano, molto presto questo fiume micidiale avrebbe raggiunto e riempito il tunnel che fino a ora ci aveva protetto.
Non so perché, ma il mio istinto mi fece scendere fino alle rotaie, cominciai a cercare una botola, un'apertura. Mi seguirono in pochi e insieme riuscimmo a entrare in una piccola caverna sotterranea, il vecchietto era con me e sempre mi diceva… "bravo, bravo" e mescolava parole astruse in un linguaggio misto francese e spagnolo.
Con noi c´erano lavoratori, turisti, ladri, uomini e donne, tutti adulti, non c´erano bambini, loro erano tutti a scuola, prede del destino.
Finalmente entrammo scavando con le mani e con le unghie in una stanza affrescata e piena di ossa: le catacombe. — Che splendida idea disse il canuto visionario — noi vivi in un cimitero!
La storia, i romani… il passato ci aveva salvato e riparato in una specie di arca di Noè sotterranea.
Stanchi e provati, alcuni dormivano, altri pregavano, io non potevo fare niente di tutto ciò, il mio sguardo e il mio pensiero erano già al domani…
Quanti saremo? Sarà successo lo stesso a Tokio, a Parigi, a New York, a Calcutta?
Mi sentivo bene, sapevo che ero stato scelto per continuare, eletto per rifondare.
L´anziano signore sembrava dormire, riposava dopo tanto camminare, lui era già morto, giaceva sereno, aveva fatto il suo dovere, aveva terminato il suo intento, Caronte aveva compiuto con esito positivo il suo tragitto.
Grazie a lui pochi eravamo lì, grazie a lui potevamo raccontare.
Domani lo racconterò.
Domani chiamerò la nuova città con il suo nome.
Augusto

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19 settembre 2009 – Due come tanti


Lei era salita sull'autobus con gesto quasi meccanico, alla fine di quel pomeriggio, e aveva passato il biglietto sotto alla macchina per la timbratura. Diverse volte, durante quella mattina, mentre era intenta al lavoro, aveva ripensato alla serata precedente, a quel vago sapore che le era rimasto di tutto quello che era stato detto, alla passeggiata romantica, alla cena in quel locale carino. Lui, dal lato opposto della città, stava pensando a quanto era stato puerile, durante la cena, ad averle parlato dei suoi sentimenti, ad averle accennato al futuro, infine lasciando forse troppi silenzi durante quella passeggiata romantica. In fondo però, la conosceva da così poco tempo che gli veniva naturale parlarle di sé, dei suoi sogni, di ciò che pensava. Così come non sarebbe stato nel suo stile fare delle domande dirette, ma lei era talmente poco loquace, così riservata, pareva certe volte che le si dovessero cavare le parole di bocca. Lei era contenta, le pareva che tutto avesse assunto un significato diverso, dopo quella serata, come se le strade, le persone, le macchine, tutto fosse migliore. La giornata che aveva affrontato si era dimostrata scorrevole, si sentiva leggera, le pareva che il suo futuro si fosse allargato. Adesso bastava aspettare una semplice telefonata, un appuntamento ulteriore, e gli sviluppi, ne era sicura, non si sarebbero fatti mancare. Lui si sentiva felice, contento di averla incontrata, gli pareva di avere in comune con lei tante cose: gli era quasi sembrato, durante la loro serata, come di averla già conosciuta in passato, gli piacevano i gesti, le espressioni, tutto il suo modo di essere, e l'unica voglia che adesso gli pareva di avere, era quella di trascorrere presto un'altra serata con lei. L'autobus su cui lei era salita compieva il giro di tutti i viali, il solito percorso, le solite strade, forse persino la solita gente. Tutto il giorno lei aveva aspettato al suo telefono cellulare una telefonata da lui, le sarebbe bastato un saluto, una parola, un qualcosa per dare continuità alla bella serata, che la facesse sentire vicina a quelle frasi che aveva ascoltato, a quei sentimenti rispetto ai quali si trovava partecipe, unita, assenziente. Lui non aveva chiamato quel numero in parte per timidezza, ma forse anche per non darle l'impressione di chi non lascia respiro, è poco sicuro di sé, sente la necessità di avere riscontri immediati. Però aveva preso la macchina, a fine turno, uscendo dal parcheggio di fronte all'azienda dove si svolgeva il suo lavoro, e invece di fare il suo solito giro, era finito, quasi senza pensarci, dalle parti dove abitava lei, forse per sentirla vicina, passando dalle strade del suo quartiere, forse con la voglia segreta di incontrarla per caso. Lei era scesa dall'autobus, intanto, aveva attraversato il viale, si era incamminata lungo il marciapiede della strada dove abitava. Era stato lì che aveva sentito il primo stridore di gomme delle auto sopra l'asfalto. La prima macchina aveva imboccato la sua strada sbandando, nel momento in cui lei si era girata per rendersi conto di quanto stava accadendo, ma riprendendosi subito; e la seconda, un mezzo della polizia che stava inseguendo la prima, aveva sbandato a sua volta, finendo con le ruote sul marciapiede e prendendola in pieno. Era stato lo stesso momento in cui lui, dalla parte opposta della sua strada, aveva visto lei e tutta la scena, restando atterrito da quanto andava accadendo. Era corso da lei, riversa per terra sopra a quel marciapiede, l'aveva chiamata, come a cercare di fermare il destino che si stava compiendo, e lei aveva aperto i suoi occhi, l'aveva guardato, e in quello sguardo aveva messo tutta la vita che le rimaneva ancora da vivere, lasciandogli, in un attimo solo, il ricordo di sé, di quel suo amore neppure iniziato.
Magnonove

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Sfiga


Era mattina presto. Carlo si recò in ufficio per prendere le chiavi e il suo capo era già alla scrivania che studiava le sue carte. Appena lo notò gli inviò un "buongiorno" e gli consegnò quello che cercava.
— Non più di mille. — Gli disse guardandolo al di sopra dei fogli che teneva in mano. — Non serve farne di più. — Poi aprì un cassetto alla sua destra e tirò fuori una busta gialla. — Questi sono i documenti. — Lasciò stare quello che aveva in mano e si adagiò allo schienale liso della poltrona, incrociò le mani sulla pancia e lo studiò per un attimo.
— Mi raccomando non ti allontanare, rimani nella provincia, ok?
— Sì capo. — Carlo soppesò le chiavi in una mano e raccolse i documenti. — Allora ci vediamo fra qualche giorno. — E si allontanò poco convinto in direzione del parcheggio.
Era ancora buio. A Carlo era sempre piaciuta l'aria del mattino, ionizzata e priva dello smog lo metteva su di morale, anche se si apprestava a fare una cosa che non gli piaceva per niente. Andarsene a zonzo per la città come un deficiente non era quello che immaginava quando dava gli esami all'università. "Iniziano tutti così" continuavano a dirgli ma comunque restava il fatto che non gli piaceva.
La cosa gli piacque ancora di meno quando scoprì che l'auto non aveva uno stereo; seduto con le mani strette al volante malediceva la sfiga che lo perseguitava da sempre. Mise in moto dopo aver dato una breve occhiata all'interno spoglio della vettura, si costrinse a mandar giù un boccone amaro e prese la via dell'uscita.
La giornata si annunciava in perfetto clima autunnale, ammassi nuvolosi e isolati deturpavano il limpido cielo di fine novembre. Carlo pregò che avesse perlomeno l'aria calda quel trabiccolo, provò a girare alcune manopole anonime e finalmente dalle bocchette uscì la tanto desiderata.
Erano ormai alcune ore che girovagava per le strade secondarie di quella provincia campagnola che tanto lo avevano affascinato quando da piccolo le suore lo portavano a spasso. Inforcò un viale alberato che copriva il sole pallido e dopo un centinaio di metri da lontano intravide qualcuno che faceva autostop; forse una compagnia lo avrebbe aiutato in quel viaggio solitario e monotono.
— Salta su. — Incitò con una mano il giovane che vedendo l'auto ebbe un ripensamento. Ma durò solo un attimo, poi insieme si avviarono verso la periferia seguendo la vecchia strada desolata.
— Io mi chiamo Carlo. — Esclamò allungando una mano. Di rimando l'altro estrasse un coltellaccio e glielo puntò alla gola.
— Accosta e vattene via. — Bofonchiò con occhi spiritati.
— Ma questa macchina non è…
— Fermati! — Urlò il giovane in un evidente stato di eccitazione.
Carlo senza pensarci due volte si avvicinò alla banchina e tirò il freno a mano. Con la paura in corpo abbandonò l'auto restando a guardare il drogato che si allontanava sgommando con la macchina tanto cara al suo datore di lavoro.
Pochi metri e uno scoppio sordo richiamò la sua attenzione; l'auto in corsa perse aderenza e dopo alcune sterzate arrangiate andò a sbattere violentemente contro un albero secolare. Con fare visibilmente preoccupato Carlo raggiunse l'auto fumante osservando accigliato l'interno dell'abitacolo, scosse la testa e tirò fuori il telefonino dell'azienda. Compose il numero del suo capo e attese impaziente.
"Pronto" — disse la voce al telefono.
— Capo, mi sa che le gomme ancora non vanno bene.
"Merda"
— Dovrete rivedere la mescola.
"Il computer ha registrato tutto?"
Carlo a quella domanda allungò il collo sul corpo del giovane riverso sul volante, il coglione non aveva allacciato la cintura e l'urto lo aveva proiettato in avanti.
— Sì. Fino all'ultimo istante.
"Bene"
— Un'altra cosa.
"Che altro c'è?"
— Mi sa che la sua auto per i collaudi, avrà bisogno di qualche riparazione.
"Eh? Ma tu stai bene?"
— Io sì! — Carlo scosse la testa in direzione del ragazzo, a quanto pare c'era qualcuno più sfigato di lui.
Cosimo

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Rain


C’è chi aspetta la pioggia
per non piangere da solo”
(F. De Andrè)
La porta si apre e, tra un tintinnare di campanelli, qualcuno fa il suo ingresso nel negozio.
Ada distoglie lo sguardo dalle pagine del suo libro aperto e accoglie con una smorfia la persona appena entrata. Una zingara viene avanti sostenendosi malamente a un bastone ritorto, la mano destra protesa a reggere un cestino marcescente.
— Aaaah — Un verso simile a un lamento o a un'antica cantilena l'accompagna mista a un olezzo insopportabile. — Bella signora, dare qualcosa.
La commessa storce il naso. Ultimamente vede più mendicanti che clienti e gli affari vanno molto male.
— Non ho niente — risponde con fare distratto e riabbassa lo sguardo.
— Bella signora, dare qualcosa — insiste la vecchia, adesso è così vicina che Ada fa fatica a respirare.
— Ti ho detto che non ho niente — ripete sottovoce, intanto sta raccattando qualche spicciolo dal cassetto quasi vuoto della cassa. Lascia cadere pochi centesimi nel cestino, in fondo è un piccolo pegno da pagare per liberarsi da quell'odore nauseabondo.
L'altra distende le labbra in un sorriso. — Grazie signora, buona signora. Dio portare fortuna, prende questa — le porge un'immaginetta sgualcita, probabilmente un santino.
— Non importa — si schermisce lei, è un'atea convinta e non apprezza certe cose. — Non mi serve.
La stracciona si stringe nelle spalle e fa dietrofront. — Tu non crede a Dio ma, quando tu buona, Dio sorride.
Ada ha l'impressione di vedere un raggio di sole avvolgerla di luce intensa mentre varca la soglia per andar via. Sicuramente è solo suggestione, ma di botto, il cielo invernale fino a qualche attimo prima denso di nubi, sembra essersi rischiarato.
Il giorno seguente Ada è sempre nel negozio. Di nuovo, sta ingannando con la lettura l'attesa di clienti che non arrivano mai, quando il solito tintinnare di campanelli la fa sussultare.
— Aaaah
Non ha bisogno di alzare lo sguardo per indovinare che è ancora lei, la zingara del giorno precedente. Stesso cestino, stesso incedere zoppicante, stesso tanfo a offendere le narici.
— Bella signora, dare qualcosa.
La commessa scuote il capo contrariata. — Ascolta — dice ostentando falsa cortesia, — sei stata qui solo ieri e ti ho dato quel che ho potuto. Non puoi venire a chiedere tutti i giorni, soprattutto perché non sei la sola. Hai idea di quanta gente entri per fare l'elemosina? — in effetti altri tre accattoni l'hanno preceduta nel corso della mattinata — Tutti chiedono e nessuno compra. Se vi accontentassi, finirei a mendicare con voi. Lo capisci questo?
— Bella signora, buona signora, dare qualcosa — insiste la zingara come se non avesse sentito una sola parola.
— Sei sorda? Ti ho detto che non ho niente. Adesso, per piacere, vai via.
L'altra torna all'attacco porgendo la solita figurina. — Tu dai qualcosa, io do questa…
— Ti ho detto niente santini! — Ada scatta in piedi spazientita.
La stracciona si stringe nelle spalle. — Tu non crede a Dio, ma quando tu cattiva, Dio piange.
Un tuono squarcia il cielo nell'attimo preciso in cui varca la soglia e viene giù a piovere.
Ada rimane interdetta a osservare la pioggia che bagna la vetrina. Certo, una coincidenza, ma quel tempismo perfetto le mette i brividi.
É l'ora della chiusura e il temporale non si è ancora placato. Ada si rassegna a riesumare un ombrello malandato accantonato in magazzino giusto per le emergenze e si accinge ad abbassare la saracinesca. Odia i cambi di tempo repentini e soprattutto odia la pioggia. É meteoropatica e l'umidità la mette di cattivo umore.
S'incammina a passi lesti lungo la via di casa lottando con il vento che le strattona il parapioggia e le scompiglia i capelli.
— Aaaah — É ferma al semaforo quando l'odioso lamento la costringe a voltarsi di scatto. La zingara è accucciata sul marciapiede, il cestino adagiato al suo fianco. Da l'impressione di non curarsi affatto della pioggia e, d'altra parte, non sembra neanche bagnata. Quel particolare provoca un istantaneo tremore nel corpo intirizzito di Ada.
— Tu non crede a Dio ma, quando tu cattiva Dio piange. — L'accattona non chiede nulla questa volta, si limita a ribadire il concetto.
La donna attraversa la strada incurante del fatto che il verde non sia ancora scattato. Accelera il passo desiderosa di rintanarsi nel suo appartamento quanto prima.
Ma che fa quella pezzente, la perseguita? Comincia a non tollerare più il pensiero di ritrovarsela tra i piedi.
Giuro che se torna domani, chiamo la polizia.
Ada è a un isolato da casa, zuppa ma lieta di essere quasi arrivata, quando rischia di inciampare in un mucchio di stracci.
— Ma che diavolo… — impreca e prima ancora che possa terminare la frase, una cantilena le raggela il sangue nelle viscere.
— Aaaah — Quel che sembrava un fagotto privo di vita, d'improvviso si rianima tornando perfettamente riconoscibile.
— Tu non crede a Dio ma, quando tu cattiva, Dio piange… piange lacrime di fuoco.
Ada scavalca l'ostacolo e comincia a correre. Si accorge con orrore che l'acqua sfrigola colpendo l'ombrello. Sbuffi di vapore si innalzano nell'aria a quel contatto mentre piccoli buchi si aprono sulla calotta consunta. Urla di dolore sentendo gocce bollenti ustionarle il viso.
Adesso fugge all'impazzata dal suo incubo agognando la protezione delle pareti domestiche.
Le occorrono svariati minuti per imbroccare la serratura perché le mani le tremano irrefrenabilmente.
Sospira appena dentro, però il respiro le muore in gola.
— Aaaah — sente riecheggiare nel buio dell'appartamento.
— Non può essere! Non può essere — si ripete cercando a tentoni l'interruttore.
Rimane come paralizzata a osservare la zingara inondata dal fascio di luce. Ora non ha più il bastone. Se ne sta ritta al centro dell'ingresso, un braccio levato verso l'alto.
— Tu non crede a Dio ma, quando tu cattiva Dio piange e tu non può fuggire. — Sull'ultima parola, una goccia piove giù dal soffitto per poi atterrare lasciando un buco sulla moquette.
La stracciona punta Ada con occhi vispi e maliziosi. Ha una mano tesa e le sta porgendo qualcosa.
— Tu vuole santino adesso?
Miriam

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Donna morta


Se il tuo futuro marito non si presenta in chiesa il giorno del vostro matrimonio, allora può capitare che tu ti riduca come me. Se il tuo quasi marito ci ripensa qualche ora prima della vostra cerimonia di nozze, allora non c'è da stupirsi se ci rimani sotto per tutta la vita.
Mi chiamo Marzia e ho trentasei anni. Sei anni fa dovevo sposarmi, ma lo stronzo ci ha ripensato con un ritardo record. Diciamo che avevo il vestito nuziale addosso e che la chiesa era già gremita da un pezzo, quando lui ci ha ripensato. Lo stronzo. Cosa ne sia stato di lui, ovviamente, non lo so. E non lo voglio sapere. Come minimo, però, spero che sia morto.
Da quando lui mi ha appeso come una mongola sull'altare, mi sono ritirata a vita privata. Vale a dire che non esco più di casa da sei anni. La vergogna è stata troppo grande. La sofferenza, troppo atroce. Lì fuori, a parte gli occhi inquisitori e beffardi della gente, non c'è più niente per me. Ma forse non c'è niente per nessuno. La gente si illude e basta. Tutto qui.
Da quel maledetto giorno vivo rinchiusa nella mia stanza, sul mio letto, con la serranda sempre abbassata. Sempre al buio. Sempre nascosta.
I miei genitori, che tristezza, si affannano a soddisfare bisogni che non avverto.
Mio padre entra in camera mia due o tre volte al giorno per aprire le imposte e far arieggiare la stanza. Dice che a stare sempre chiusa mi ammalerò di cancro ai polmoni. Dice che nella mia camera da letto c'è una concentrazione di radon di gran lunga superiore alla soglia di allerta.
Mia madre, invece, entra e mi porta delle pillole per l'umore che puntualmente fingo di ingoiare. Poi mi solleva le ascelle e mi tocca, blaterando qualcosa circa dei linfonodi sentinella.
I miei genitori hanno paura che muoia per qualche forma di cancro, ma ignorano il fatto che io sono morta su quell'altare, sei anni fa, col mio stupendo vestito da sposa addosso. Un vestito che adesso basterebbe a malapena per fasciarmi una coscia.
L'unico bisogno che da sei anni a questa parte avverto con una certa insistenza, è l'unico bisogno che i miei genitori sono restii a soddisfare. Il cibo. Io, da sei anni a questa parte, mangio come una scrofa. Stando sempre stesa sul letto, la mia attività motoria è pari a zero. Tuttavia, sento di avere costantemente bisogno di nuovi apporti calorici. Quando chiedo da mangiare a mia madre o a mio padre loro in prima istanza rispondono di no. Poi li minaccio di uccidermi e loro mi portano ciò che voglio. Se ogni genitore sapesse davvero come negoziare con il proprio figlio il mondo sarebbe di gran lunga migliore. Tutti gli scempi che si verificano nella nostra società sono dovuti a figli cresciuti male. A figli a cui è stato dato tutto o a cui non è stato dato niente.
Questo che sto vivendo adesso è il mio sesto inverno da donna morta. Fa freddo, è quasi mezzogiorno e io mi sono svegliata da circa dieci minuti con una fame abominevole. Cerco di resistere e non chiamo nessuno dei miei genitori. Anche perché se scoprono che sono già sveglia iniziano con le loro manie salutiste. Il pigiama di pile che ho addosso potrebbe essere utilizzato come telo di copertura per una station wagon. Un mese fa pesavo 155 chili. Ma credo di essere ingrassata ancora un po' nell'ultimo periodo. Ho le unghie sporche e i peli sulle mie gambe sembrano i chiodi di una Vergine di Norimberga. I miei baffi farebbero invidia a Zorro. I capelli fanno schifo e noto che li perdo con la velocità di una malata terminale. Le mestruazioni vanno e vengono quando cazzo che gli pare.
In me non c'è più niente di regolare. Né di umano.
Probabilmente, ho un forte esaurimento nervoso dal quale non riesco a venir fuori.
E ormai sono sei anni, Cristo!
Ho le mani fredde, non cambio gli slip da cinque giorni. I calzini bianchi di spugna, invece, li tengo da almeno una settimana, sono pieni di pilucchi. Sto sempre al computer. Ho il portatile, lo poggio sulla pancia e lo uso da stesa. Oltre a mangiare, chatto dalla mattina alla sera.
Ieri ho chattato con un ragazzo. Era arrapato di brutto. L'ho conosciuto in una chat libera che non prevede registrazione. Poi lui mi ha chiesto il contatto Messenger e io gliel'ho dato. Dopo un po' che chattavamo mi ha chiesto di farlo sborrare. Io ho domandato come. E lui per tutta risposta mi ha inviato una richiesta di videochiamata. Ho accettato. Lui era a torso nudo, i capelli biondi a spazzolino, i pettorali scolpiti. Un sorriso da fotomodello. Io, invece, il solito cesso. Mi aspettavo che richiudesse subito la webcam e invece ha detto: — Lo vuoi il mio cazzo? Io ho fatto solo di sì con la testa.
Dopo essersi svuotato le palle, ha detto: — Grazie cesso ambulante. Addio! E si è disconnesso.
Mio padre entra di corsa in camera mia e pronuncia le parole "radon" e "cancro ai polmoni" e apre il balcone. Pochi istanti dopo è la volta di mia madre che mi tocca sotto le ascelle e dice qualcosa a proposito dei linfonodi sentinella.
Da circa quattro giorni chatto abbastanza assiduamente con una ragazzina di tredici anni. Le ho detto che mi chiamo Marco. Ho rubato delle fotografie dal Facebook di mio nipote che ha sedici anni. Gliele ho mostrate e le ho detto che quello ero io. Si è innamorata quasi subito.
Mi chiede sempre di accendere la webcam ma io le dico che è rotta.
— Accendila tu. Le ho scritto. E lei mi ha ubbidito. Mentre lei arrossiva tutta, le ho chiesto se era mai stata con un ragazzo. E lei mi ha risposto di no. — Niente seghe e niente pompini? Le ho chiesto. Lei ha detto ancora no. Così le ho chiesto di simulare un bocchino. Le ho detto che se mi avesse accontentato io avrei fatto riparare la webcam nel giro di pochi giorni. E lei mi ha ubbidito ancora. Si succhiava il dito senza avere la minima idea di come fosse fatto un cazzo.
Siamo alla seconda settimana di frequentazione virtuale. La ragazzina si chiama Veronica. Per farmi capire quanto mi vuole bene e quanto le piaccio usa dei disegni animati alquanto fastidiosi. Usa degli smile enormi quando trova spiritose alcune mie affermazioni che di spiritoso non hanno niente. Deve essere stupida.
Ora siamo alla quarta settimana, con Veronica. Ho esaurito le scuse per quanto riguarda la webcam. Lei è sempre più innamorata ogni giorno che passa. Non ha mai dato nemmeno un bacio a timbro. Più si innamora, più diventa insistente. Dice che vuole vedermi, che vuole il mio numero di cellulare, che vuole altre foto. Le foto che mio nipote aveva su Facebook le ho usate tutte. Inizia a rompermi la palle.
Così le scrivo: — Mi hai rotto il cazzo!
E lei: — Cosa? Perché dici così?
E io: Ricordi quella volta che ti ho chiesto di accendere la webcam e di succhiarti il dito?
— Sì.
— Beh, era un test!
— Che test? Di che parli?
— Era per capire se eri una apposto o una zoccola che faceva tutto e subito!
— Cosa?
— Esatto… e secondo me sei una zoccola… ho provato ad avere fiducia in te, ho provato a rivalutarti ma non ce l'ho fatta. Sei una piccola sgualdrina. E io cerco una ragazza seria e di cui ci si possa fidare!
— Ma io non ho mai dato un bacio in vita mia!
— Me ne fotto! E non ti credo! Addio, troia!
Esco da Messenger e ordino a mio padre di portarmi del pane e del gorgonzola.
Mio padre apre le finestre e scaccia il radon. Mia madre mi palpa le ascelle e le tette. Io mangio e chatto.
Ora sto mangiando un sandwich col tonno e la maionese che sono riuscita a estorcere a mia madre. Sono passati un paio di giorni da quando ho liquidato quella piattola della mocciosa e, mentre mangio con una certa voracità il mio sandwich, faccio il grave errore di entrare su Messenger senza prima selezionare lo stato "invisibile". Mi contattano quasi simultaneamente l'adone che ho fatto eiaculare il mese scorso e la rompipalle di Veronica.
Il figo mi scrive: — Ciao brutta porca, ti è piaciuto il mio cazzo l'ultima volta?
La ragazzina, dopo un fastidioso trillo, scrive: — Marco sto troppo male da quando non chattiamo più!
Digitando con le mani sporche di maionese, a lui, scrivo: — Pensavo mi avessi cancellato dai contatti. Comunque sei uno stronzo!
E a lei scrivo: — Te l'ho detto, mi hai deluso. Sei uguale a tutte le altre troiette che ci stanno in giro!
Mi caccio in bocca l'ultimo pezzo di merenda. Ho ancora fame.
Il tipo m'invita a visualizzare la sua webcam. Veronica fa la stessa cosa.
Accetto entrambe le chiamate.
I pochi secondi che il mio portatile impiega per caricare la connessione, li uso per pulirmi le mani luride di maionese e sudore sul punto della coperta che è all'altezza delle mie gambe.
Li vedo entrambi. Le due finestre aperte sul mio desktop che si sovrappongono alle due estremità laterali. Lui abbassa subito la webcam sulle parti bassi e noto che ha già il cazzo di fuori. Lei è in piedi e ha il portatile fra le mani. Il volto della ragazzina, disperato e segnato dalle lacrime, non deve essere molto diverso da quello che avevo io il giorno del mio non-matrimonio. Lui si sega violentemente, lei poggia il portatile su di un ripiano posizionato di fronte a una tenda rosa piena di disegni di Hello Kitty. Lui continua a sbatacchiarsi per bene l'arnese grosso e lucido. Lei, piangendo, si bacia la punta delle dita di una mano e poi rivolge quella stessa mano verso di me. Verso il monitor e la webcam, surrogati di un principe azzurro deludente e inesistente. In verità, non so dire perché mi stia sottoponendo a tutto questo. Per me la catarsi non è contemplata. Di questo sono abbastanza sicura.
Ora lui accelera di brutto il ritmo del sali-scendi della sua mano. Lei dà le spalle alla webcam, al surrogato di principe azzurro, e si avvicina alla tenda di Hello Kitty. La apre scoprendo degli infissi di alluminio anodizzato.
Lui, con le mani, ci va giù così pesante che a momenti se lo stacca.
Veronica spalanca la finestra, sale coi piedi nudi sul davanzale. Ora, l'unica cosa che vedo di lei è la porzione di corpo che va dai talloni ai polpacci.
Lui sborra, finalmente, espellendo un mare di succo biancastro.
Lei salta giù in un modo così perfetto da sembrare quasi fiction. Prima i piedi, poi il retro delle ginocchia, poi la schiena, le spalle. L'ultimo fotogramma di lei che riesco a vedere è una ciocca di capelli castani che svolazzano nel vento della caduta libera.
Lo sperma di lui che sbrodola ovunque, Veronica che vola giù, io che passo la mia vita stesa in un letto a ingrassare e a deprimermi. Modi differenti ma ugualmente efficaci di sprecare la vita.
Mio padre entra a scacciare il radon. Mia madre parla di linfonodi sentinella. E io, disconnettendomi da Messenger, sento di avere ancora fame.
Snuff

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Accettazione


É come un postulato matematico: più hai fretta e maggiori possibilità ci sono che il traffico sia intasato. Stamattina mi convinco che si tratti di una regola senza eccezioni. Gabriella si lamenta per il dolore alla testa e per il braccio che non riesce a muovere. Ancora non parla bene e la voce, impastata e flebile, sembra uscire da un vecchio grammofono. Forse ha avuto un ictus, oppure è una semplice e passeggera parestesia. Io non sono medico, cosa ne posso sapere di quello che è accaduto a mia moglie. Al pronto soccorso sapranno dirmi e agire per il meglio. Se avessi chiamato il 118, in ambulanza avrebbe potuto ricevere le prime cure. Ma no, con questo traffico e andata e ritorno, ci vorrebbe l'elicottero.
— Sento la parte sinistra della bocca che mi si addormenta… muoviti.
— Calma Gabri… tra qualche minuto saremo in ospedale.
É una pietosa bugia perché di questo passo ci vorrà un'ora. La colonna si ferma completamente, così mi decido a scendere dall'auto per capire cosa succede. Niente da fare, questa è sfiga bella e buona: mi dicono che un corteo di precari ha bloccato gli autobus ed è impossibile proseguire e chissà fino a quando. Chiedo all'automobilista che mi precede di farmi largo per manovrare e invertire il senso di marcia.
— Per favore, è un'emergenza! Grido.
— Dove vai? Non vedi che non c'è spazio. Mi fa eco un tassista. Sudando e con piccoli spostamenti avanti e indietro, riesco a districarmi e tornare alla ricerca di un percorso alternativo. Gabriella si lamenta:
— Mario muoviti, mi sento strana…
Il panico mi assale e pigio sull'acceleratore passando con il rosso e scansando pedoni come birilli. Non voglio pensare al peggio, ma come si fa? Il ricordo di un amico paralizzato per un'ischemia mi si pianta nel cervello. Non sopporterei di vedere mia moglie su una sedia a rotelle e invece quell'immagine angosciante e dispettosa sembra perseguitarmi fino all'entrata dell'ospedale.
— Pronto soccorso! Grido all'addetto che mi consegna un tagliando e alza la sbarra. Evviva, siamo dentro. Mi fermo e aiuto Gabriella a scendere. La accompagno al triage che brulica di gente. Non ho il tempo di spiegare niente perché arriva un'ambulanza a sirene spiegate e gridando mi chiedono di spostare la Punto dall'entrata.
— Tranquilla, adesso si prenderanno cura di te. Torno subito. Vado, parcheggio e torno. Provo a rassicurarla. Lei, con la sofferenza disegnata sul volto, tenta un sorriso e annuisce:
— Fai presto… ho paura.
Salgo in auto e parto sgommando per lasciare subito il posto all'ambulanza. La strada che corre lungo il perimetro del complesso è a senso unico e si parcheggia solo sul lato destro o nelle piazzole tra un'ala e l'altra del centro ospedaliero. Le vetture sembrano talmente incastrate tra loro da non far passare neppure un foglio di carta, figurarsi trovare un parcheggio. Rallento con la speranza che intanto qualcuno esca. Concentrato sui miei pensieri, sobbalzo dallo spavento, quando il clacson del SUV che mi segue, mi esorta ad accelerare. Ma cosa suoni! Siamo sotto un ospedale. E poi niente, non trovo dove parcheggiare e il senso unico mi porta fuori, ancora nel traffico cittadino. Maledizione! Inizio a ispezionare le traverse più vicine, ma nulla non c'è un parcheggio a pagarlo oro. Penso alla mia Gabri, chissà se la stanno già curando. Eppure, solo qualche giorno prima, diceva di avere dei dolori al braccio. Il medico di famiglia le aveva consigliato una visita neurologica. Telefonando al numero verde gliel'avevano fissata per maggio: avrebbe dovuto attendere sei mesi per quel controllo. E intanto si è sentita male, forse avrebbero dovuto tenere conto dei sintomi e darle la precedenza. Mi chiedo a cosa servono quelle regole che, se non vengono impiegate con buon senso, contraddicono lo stesso fine per cui sono state create. Il pensiero vola, ma anche il tempo. Mi tornano in mente i momenti più belli trascorsi insieme a Gabri. E poi, anche quelli più difficili e mi prende l'angoscia quando comprendo che forse sto facendo un rendiconto della nostra vita. Perché mi vengono in mente certe cose? Finalmente una station wagon parte e mi lascia quel comodo parcheggio. Quasi grido al miracolo. Mi avvio verso l'ospedale rovistando nervosamente nelle tasche del giubbotto e ci trovo il biglietto che mi aveva dato l'uomo della guardiola. Sul foglietto è scritta l'ora d'entrata, consulto l'orologio e mi accorgo che sono passati venti minuti. Venti minuti solo per parcheggiare e forse mi è andata anche bene. A Gabriella avevo detto che sarei tornato subito, magari adesso sta anche preoccupandosi per me. Devo stare sereno, lei ormai è in osservazione e probabilmente hanno anche diagnosticato. Ahi, le diagnosi! Mi viene in mente che, qualche anno prima, ero stato allo stesso pronto soccorso perché avevo dei dolori al torace. Mi diagnosticarono un'esofagite; il giorno dopo ebbi l'infarto che stava quasi per uccidermi. No, non posso stare tranquillo e senza rendermene conto mi metto a correre. L'angoscia si trasforma in un attacco di panico. Corro, però devo farlo piano perché sono cardiopatico, ma come si fa a correre piano. O si corre o non si corre. E io vado più veloce perché devo sapere come sta la mia Gabri. All'ingresso del triage la guardia giurata non mi fa entrare, c'è già troppa gente. Mi ricordo dell'accesso di servizio del personale e così, dopo un largo giro, m'infilo dentro da quella parte. Percorro il corridoio fino alla porta sul retro del pronto soccorso: è chiusa. Un'infermiera con delle provette suona al citofono e si fa aprire, mi accodo indisturbato. La stanza è maleodorante, gremita, ogni paziente sembra avere accanto un numero imprecisato di parenti. Siamo al sud: per una fratturina al braccio si mobilita l'intera famiglia fino al terzo grado. Qualcuno si lamenta dal dolore, altri inveiscono per l'assenza d'infermieri. Oltre ai letti occupati, ci sono barelle con ammalati ovunque, anche nel corridoio. Su una di queste, un vecchio incartapecorito sembra abbandonato a se stesso e grida a intervalli:
— Quando arriviamo? Non si arriva mai.
Finalmente la vedo. Gabri è in un angolo su una sedia a rotelle, silenziosa, si guarda intorno smarrita. Quell'immagine mi angoscia, ma lei sembra più serena. Mi avvicino sicuro, sperando di non mostrare troppa ansia.
— Allora, cosa ti hanno detto?
— Niente! Non mi hanno ancora visitata. Ci sono dei codici rossi arrivati prima di me.
— Ma com'è possibile? Hai un codice rosso ed è mezzora che sei qui, messa da parte in quest'angolo. Adesso mi sentiranno!
— Mario… calmati. Non ci sono medici a sufficienza e poi guarda quella povera ragazza, così giovane e soffre tanto per il forte dolore. Pure lei aspetta.
— Mi dispiace per la ragazza, ma a me preme la tua salute, innanzitutto.
La porta della medicheria è chiusa, ma si sente parlottare in tono gioviale. Entro senza bussare. Una donna anziana, semivestita è distesa su una barella e pare priva di sensi. Il medico, però, è dietro la scrivania con la cornetta del telefono in mano, mentre una dottoressa tutta scosciata, è seduta nella sedia di fronte e se la ridacchia. Mi trattengo dal lanciare invettive. L'assistente si copre le gambe col camice e il medico mi guarda torvo.
— Non può stare qui, questa stanza è riservata ai medici!
— Le chiedo scusa per l'intrusione, ma mia moglie sta molto male. Forse ha un'ischemia e non ha ancora ricevuto nessuna assistenza. É già passata mezzora dal nostro arrivo.
— Attenda di là, finisco con questa signora e dopo vengo a darle un'occhiata.
Annuisco col capo e faccio per socchiudere la porta. La riapro di scatto. Il camice della dottoressa era di nuovo scivolato di lato. I due si lanciano un'occhiata querula e smarrita.
— Grazie dottore per la pazienza e l'attenzione. Commento in tono di sfida e di velata minaccia di rappresaglia.
Il mio blitz ottiene quasi subito un risultato. Un'infermiera effettua un prelievo di sangue a Gabri e mi dice di accompagnarla in medicheria. L'anziana sulla barella viene fatta uscire scortata dai parenti che nel frattempo erano entrati. Mia moglie si sdraia sul lettino, ma poi medici e infermieri escono.
— Come va? Chiedo a Gabri per confortarla e per accertarmi di quei disturbi del linguaggio.
— Va meglio, ma ho ancora… questa parte del corpo intorpidita… e un formicolio alla faccia.
Sembra lucida, ma non pronuncia ancora bene le parole che le escono a fatica. Qualcuno dall'esterno chiude la porta della medicheria. Siamo soli e i minuti passano, le tengo la mano, le accarezzo il viso e la fisso negli occhi. Mi sorride, con l'angolo della bocca un poco storto.
— Ti sei spaventato, vero? — sussurra — andrà tutto bene, non ti preoccupare.
— Non parlare, non ti stancare… adesso arrivano i medici… ma mio Dio, quando? Sono passati altri dieci minuti!
Così mi precipito fuori per capire il perché del ritardo. Un'infermiera m'informa che serve un neurologo e che sono andati a chiamarlo al reparto, perché al telefono non risponde. Siamo punto e accapo, cazzo!
— Quando arriviamo? Si lamenta il solito vecchio nella bolgia del corridoio. Chiedo all'infermiera il nome del neurologo e le indicazioni per raggiungere il reparto. Torno da Gabriella per spiegarle la situazione, prima di mettermi sulle tracce dello specialista. Dopo tre piani di ascensore e un paio di corridoi sono al reparto di neurologia. La porta è chiusa. Suono al citofono.
— Chi è?
— Cerco il dottor Trimboli.
— Mi spiace non posso farla entrare."
— Non voglio entrare. Cerco il dottor Trimboli per una visita urgente, mia moglie è in attesa al pronto soccorso, la prego.
— Attenda un attimo.
— Va bene!
Ancora attendere, e quanto? Passano due minuti, citofono di nuovo.
— Chi è?
— Cerco il dottor Trimboli!
— Le ho detto che non la posso fare entrare!
— Sì, va be', ma mi aveva detto di attendere…
— Un attimo!
— Ma quale attimo, signorina! La prego, è urgente.
— Mi dispiace. I medici sono impegnati nel giro delle visite ai pazienti. Passi tra un'oretta.
— Non posso aspettare un'ora. Non c'è un altro medico disponibile?
— Provi alla porta di fronte e chieda della dottoressa Frassetti.
Mi catapulto all'altro citofono senza ringraziare.
— Chi è?
— Cerco la dottoressa Frassetti!
— Non posso farla entrare, mi dispiace.
Sento la pressione cardiocircolatoria pulsarmi nelle tempie, sembra un incubo dal quale è impossibile svegliarsi. Prendo fiato e con pazienza e coraggio:
— Mi ascolti bene, signorina: Ho assolutamente bisogno di un neurologo. Mia moglie è da quasi un'ora al pronto soccorso in attesa delle prime cure per un'ischemia. Riferisca a qualcuno per cortesia e mi faccia sapere al più presto.
— Va bene, attenda un attimo.
— Non mi muovo da qui, aspetto la sua risposta. Grazie.
Dopo qualche minuto la porta del reparto si apre. Un'infermiera dall'aspetto pachidermico mi scruta.
— É lei che cercava la dottoressa Frassetti?
— Sì, sono io.
— Mi dicono che è scesa al pronto soccorso per visitare una signora, sarà sua moglie.
— Speriamo, grazie. Gli ascensori sono occupati e allora scendo dalle scale. M'infilo dalla porta di servizio del pronto soccorso e passo dalla saletta d'attesa della medicheria. Gabri è nuovamente sulla sedia a rotelle, ma con una flebo al braccio.
— Devo fare una Tac spirale, — mi dice, — ma serve un ausiliario per accompagnarmi al reparto. Sono quelli con la pettorina blu e gialla.
— Prima ne ho visto uno fuori, all'entrata di servizio. Vado a chiamarlo.
Esco e lo vedo ancora lì che legge il Corriere dello Sport. Avrei voglia di accartocciare quel giornale e ficcarglielo in bocca e invece mi avvicino gentile.
— Quest'anno mi sa che la Reggina scende in B. Commento per attirare la sua attenzione.
— Forse ce la facciamo lo stesso. Risponde.
— Senta, ho mia moglie al pronto soccorso e servirebbe… M'interrompe placido:
— Sono addetto a un altro reparto… ma ecco che arriva. E mi indica un giovane nel cortile che fuma. Il giovane con la sigaretta sembra leggermi nel pensiero e mi dice:
— Vada avanti che vengo subito. Io non mi muovo e continuo a fissarlo, allora lui getta la sigaretta e accelera il passo. Sì, mi legge proprio nel pensiero e deve averci letto anche qualche insulto.
Al triage, intanto, sembra accendersi una rissa tra i parenti di un degente e alcuni infermieri. Il vecchietto solo sembra scandire il tempo:
— Quando arriviamo?
Il reparto delle Tac è al secondo piano e in ascensore chiedo a Gabri:
— Allora cos'hai? Cosa hai avuto?
— Non hanno saputo o voluto dirmi niente. Aspettano le analisi del sangue e il referto della Tac e poi forse…
— Tu come ti senti adesso? Cos'altro devono farti?
— Sto meglio, ma non per merito loro.
— E allora, questa flebo?
— É una soluzione idrosalina, serve solo a tenere aperta la vena in caso d'intervento o per un eventuale ricovero.
Il viso di Gabri è tornato quasi normale e parla con la sua solita voce squillante e cristallina. Riprendo fiducia e provo a scherzare.
— Andiamo bene! Lo vedi cosa succede? La prossima volta prima di ammalarti pensaci! Non puoi fare l'ammalata tu, lascia a me questo ruolo. Sono pratico di queste cose, tu invece…
— Non ti preoccupare Mario, supereremo anche questa.
— Allora impara a fare l'ammalata: sii paziente!
Mi sorride con quella bocca un poco storta e lo sguardo stanco e spaurito. Mentre spingo la sedia a rotelle lungo quel corridoio che sembra interminabile, penso che è bella e le voglio bene. Anche così.
Phigreco

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Parla con il Minotauro


Enrica trascorreva ore e ore su Facebook, d'altronde cos'altro poteva fare, i suoi genitori pensavano fosse l'unico sito relativamente sicuro.
Nessuna delle sue amiche aveva genitori così severi, a volte le veniva la tentazione forte di scappare di casa, la trattavano come una bambina e invece non lo era.
Aveva già compiuto tredici anni, aveva anche baciato un ragazzo, un bacio a labbra strette ma pur sempre un bacio…
La controllavano quando era al computer, impossibile chattare con qualcuno, entravano di continuo nella stanza per controllare cosa stesse facendo.
Rassegnata, aprì la pagina, nella home in alto a destra erano segnalati tre inviti a gruppi, una richiesta per Farmville e un'altra richiesta.
Il viso sorridente di Daniela comparve come prima notizia. "Per tutti quelli ke non hanno voglia di fare un cazzo". Condividi. Fatto. Ivana è ora fan di Lupo Alberto, diventa fan pure tu. Ok.
Enrica si era già stancata, ormai le notizie le conosceva a memoria. Controllò gli inviti ai gruppi.
"Parla con il Minotauro, sei dei tuoi amici lo hanno fatto" la scritta azzurra sembrava ammiccare, la ragazza cliccò subito, conosceva il mito di Teseo e di Arianna. Velocissima si aprì un'altra pagina, sullo sfondo verde chiaro si stagliava un labirinto verde scuro, una freccia bianca lampeggiante indicava l'entrata. "Scopri come fare, clicca qui"
Enrica non si accorse subito del lampo, né della strana luce verdognola che la circondava, fu la voce di sua madre che la distolse per un attimo, sembrava provenire da molto lontano. Si guardò intorno e quello che vide superò tutte le sue fantasie: la tastiera c'era ancora, ma non sulla scrivania, bensì su un prato ben rasato. In realtà non c'era più la scrivania, né il letto né l'intera stanza. Si trovava in una piccola radura, la tastiera ai suoi piedi come un oggetto anacronistico abbandonato, di fronte a lei l'ingresso del labirinto fatto di siepi abilmente curate, la freccia bianca sospesa nell'aria non smetteva di lampeggiare. Davanti all'ingresso le sue sei amiche si guardavano intorno, appena arrivate anche loro. Enrica finalmente era fuori da ogni controllo, eccitata, fu la prima ad avventurarsi nel labirinto incitando le altre a seguirla. Svoltò a destra, poi ancora a destra, cambiò per girare a sinistra, il dedalo sembrava un enorme gioco e presto le loro risate riempirono l'aria. Percorsero quasi un chilometro mantenendo il gruppo compatto e cercando di ritornare all'ingresso, stanche del gioco. Le ragazze continuavano a girare a vuoto, il punto di partenza irraggiungibile. Le voci iniziarono ad assumere toni piagnucolosi per poi sfociare nell'isterico, non sembrava più tanto un gioco. Uno strano rumore zittì tutte loro, si fermarono in attesa. Un essere metà uomo e metà toro spuntò come dal nulla. Fu un attimo, Enrica non ebbe nemmeno il tempo di urlare: il Minotauro prediligeva le giovani vergini. La divorò con gusto, con calma avrebbe mangiato le altre e poi, quando sarebbero finite… bella invenzione Facebook!

Pia

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