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Ebook della Gara sta…
Regolamento delle Gare…
Ida Dainese
Carlo Celenza
Gabriele Ludovici
Draper
Pierluigi
Roberto Bonfanti
Fausto Scatoli
Edoardo Prati
SmilingRedSkeleton
Daniele Missiroli
Lodovico
una produzione
sezione 15
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presenta


Incontri

e gli altri racconti


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ebook della Gara stagionale di Estate 2018


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Ebook della Gara stagionale di Estate 2018


A cura di Massimo Baglione e Laura Ruggeri.


illustrazione di copertina: Corsa in estate.


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di Braviautori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara saranno pubblicati in un  ebook gratuito e a ogni ciclo di stagioni pubblicheremo un'antologia annuale.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Ida Dainese

(vincitrice della Gara d'Estate 2018)


Incontri


L'uomo scendeva lungo il sentiero fermandosi ogni tanto a osservare le montagne oltre la valle.

Il sole splendeva tranquillo in un cielo pulito, ma intorno alle vette già facevano capolino nuvole bianche, pronte a sciogliersi in piccoli acquazzoni pomeridiani. Le fronde dei pini si muovevano docili, lasciando che il vento sussurrasse tra i loro aghi.

Era quasi mezzogiorno e l'uomo si fermò per assaporare meglio il suo momento preferito, quando le campane dei paesi cominciavano a rintoccare l'ora e il suono si spandeva nella vallata, portato dall'aria, riecheggiando tra le rocce. Gli piaceva quel dissolversi del suono nel silenzio solenne.

A volte, se stava fermo abbastanza a lungo, riusciva a scorgere qualche scoiattolo arrampicarsi velocissimo o un uccellino che spiccava il volo. Al rintoccare della valle rispose un breve grido acuto. L'uomo alzò la testa e individuò la poiana che girava in cerchio altissima sui pascoli, forse disturbata nella sua caccia. Ogni volta gli faceva sempre lo stesso effetto, richiamando ricordi di guerra che gli avevano raccontato, quando gli aerei solcavano il cielo e non si sapeva mai se erano in ricognizione o se sganciavano bombe.

La valle tornò silenziosa, turbata qua e là da borbottii di motori che si udivano appena. Rumori destinati ad aumentare a breve, con l'inizio della stagione turistica.

Il paese sarebbe diventato troppo stretto, troppo chiassoso, troppo colorato.

"E poi dicono delle marmotte" pensò sorridendo. Nei pascoli più alti, le aveva sentite tante volte fischiare e schioccare, con i suoni amplificati dalle pareti rocciose. Spesso aveva scorto qualche camoscio pascolare abbarbicato lassù in posizioni assurde.

Il ricordo dei camosci gli fece tornare in mente la cerbiatta ferita che aveva trovato l'anno prima, mentre tornava dal fare legna. La bestiola era incappata in un cespuglio di rovi e agitandosi si era procurata delle ferite sul muso e alle gambe. Non era un cucciolo ma neanche un adulto e accortasi della presenza umana si era immobilizzata guardandolo fisso con occhi spalancati.

L'uomo si era avvicinato strisciando lento, con le mani coperte dai guanti che sapevano di legno e di bosco, l'aveva raggiunta e le aveva coperto il muso con delicatezza cercando di estrarla dai rami.

A casa le aveva medicato le ferite e steccato una delle zampe. La teneva in un angolo riparato del fienile, lontana dalla curiosità di Dodo che con il suo abbaiare avrebbe potuto spaventarla, lontana dagli sguardi e dalle carezze dei bambini. Non le aveva dato un nome, né si era fatto illusioni. Non era Bambi, era un animale selvatico che doveva tornare al suo mondo il prima possibile.

Una volta guarita la portò con sé nel luogo dove l'aveva trovata. All'alba, quando il sole ancora non si era arrampicato sulla montagna, l'uomo si tolse lo zaino, svolse la coperta e lasciò libera la cerbiatta. Lei prima restò immobile, annusando l'aria col musetto rovinato dalla cicatrice, poi sparì nel bosco.

Chissà se ce l'aveva fatta. Sospirò, perché per quanto avesse mantenuto il distacco, un po' ci si era affezionato lo stesso.

Riprese il cammino battendosi sulla coscia: — Qui, Dodo… — ricordando subito dopo che il cane non era con lui, lo aveva perso un mese prima. Non aveva mai capito perché un animale destinato a essere un amico così fedele dovesse vivere così poco. Dodo gli mancava ancora molto e a volte gli sembrava di averlo ancora dietro di sé o si aspettava di vederlo spuntare al suo fianco. Quando era più giovane correva su e giù per il sentiero percorrendo alla fine cento volte la lunghezza del tragitto. Spaventava le lepri che si avventuravano sul percorso, i passeri che rubavano le briciole, abbaiava alla poiana in alto e ai ranocchi tra l'erba. Senza di lui le giornate erano troppo tranquille.

Dopo qualche passo urtò col bastone un sasso sul lato del sentiero e si chinò a osservarlo. Da piccolo raccoglieva e collezionava i pezzi di roccia più strani, lucidi, ruvidi, screziati di colori, scintillanti al sole. Ora si fermava a guardarli, rigirandoli ammirato tra le dita e poi li lasciava al loro posto.

Sedette sul lato erboso del sentiero, assaporando il fatto di non avere fretta.

Invecchiando si sorprendeva spesso assorto in riflessioni. Gli piaceva stare in silenzio e lasciar correre i pensieri, anche se a volte non erano dei più felici. Il cielo, la terra, le montagne, esseri umani e animali che vivevano più o meno insieme, rapporti che si intrecciavano a volte per diventare straordinari. Dopotutto la vita, con i suoi momenti belli e brutti, era degna di valore e gli sarebbe dispiaciuto andarsene.

Piegò le braccia sulle ginocchia, posò la fronte e chiuse gli occhi. Se Dodo fosse stato ancora con lui, quello sarebbe stato il momento in cui gli avrebbe spinto la testa col naso, alitandogli nell'orecchio. Ma non c'era e quello era diventato un momento triste.

Un lieve fruscio nel sottobosco alle sue spalle richiamò la sua attenzione. Alzò la testa proprio nell'istante in cui un cucciolo di cervo piombò saltellando sul sentiero e impietrì davanti al suo sguardo. L'uomo guardava la creatura trattenendo il respiro. Prima di bloccarsi a quel modo, i suoi saltelli erano un po' tremolanti, doveva essere nato da poco, che ci faceva lì?

Senza fare rumore, con il muoversi aggraziato di una ballerina o di una farfalla, sua madre apparve tra i fili d'erba, lo raggiunse e poi voltò la testa verso l'uomo. Aveva una sottile riga bianca che le attraversava il muso.

— Sei tu! — mormorò l'uomo sorpreso, mentre la bestiola si lasciava guardare.

Si fissarono così per lunghi istanti senza che nessuno si muovesse, poi la cerbiatta si chinò sul piccolo e lo spinse sul fianco. Il cucciolo ripartì col suo buffo caracollare e lei lo seguì, altera come una regina. Sparirono nel giro di qualche secondo.

L'uomo sorrise, si alzò e riprese il suo cammino con l'animo lieve.


(fine)



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Carlo Celenza


Animali


Vi racconto una storia, purtroppo vera, che appresi quando ancora facevo il liceo, epoca Guerre Puniche per intenderci.

Ricordo bene il fatto perché mi fece riflettere allora e lo fa ancora.

Durante una primavera insolitamente mite una delle elefantesse dello zoo di Londra rifiutò il cibo. Corsero veterinari e dirigenti, mantenere in buona salute un animale africano abituato al caldo, nel cupo clima londinese non è cosa da poco e con la consueta loro puntigliosità non fu tralasciata nessuna ipotesi ma non si arrivò a nulla di conclusivo.

All'epoca non esistevano ecografie, tac o metodi innovativi di diagnosi ma per quei tempi si fece di tutto e in fretta per arrivare al più presto a una diagnosi.

Lo zoo di Londra ha sempre avuto elefanti da mostrare al pubblico, famoso quello che nei primi del novecento era talmente grande che sotto il suo ventre passava una carrozza, le antiche foto sono reperibili su internet se volete vederle e quel gigantesco elefante era così socievole che portava in giro per lo zoo anche venti bambini alla volta.

Con una tradizione tanto radicata la malattia dell'elefantessa divenne un fatto importante e tutti si chiedevano cosa gli fosse successo.

Mentre i giorni passavano le condizioni del povero animale continuarono a peggiorare e la cosa più strana e pericolosa era che neanche beveva.

Ogni tentativo di farla mangiare la faceva infuriare e rendeva le cose ancora più incomprensibili e angoscianti.

Anche quando ormai non riusciva più a reggersi sulle zampe rifiutava cibo e veterinari agitando violentemente la proboscide e nessuno più riusciva ad avvicinarsi a lei.

Quando ormai a stento riusciva a muoversi qualcuno si ricordò che l'uomo che solitamente la accudiva era andato in viaggio di nozze e la lampadina si accese nella testa di qualcuno dei dirigenti che fece di tutto per richiamare a Londra l'inserviente.

Non c'erano i telefonini a quei tempi ma alla fine dopo qualche giorno l'uomo giunse trafelato allo zoo e in massa lo accompagnarono dall'elefantessa.

Quando lui si avvicinò lei respirava appena ma lo riconobbe subito e lo sfiorò debolmente con la proboscide.

Pochi minuti dopo, morì.

Animali, continuiamo a chiamarli così, ma se sono capaci di suicidarsi se perdono una persona cara forse non saranno intelligenti come noi ma sentimenti e sensibilità ne hanno e da vendere.

La loro vita non è poi tanto bella quando sono in libertà, non hanno avuto la nostra fortuna ma noi umani con loro siamo veramente disumani.

Quando coccoliamo il gatto di casa o il cane o vezzeggiamo il canarino in gabbia pensiamo per una volta di andare in una stalla dove vivono vacche e vitelli, di carezzarne uno e di guardarlo bene negli occhi.

Se qualcuno di voi è capace di dirgli sorridendo "Che tesoro che sei, così calmo, rilassato e simpatico, sai che domani un tizio con un grembiule di gomma ti sparerà in testa una punta d'acciaio e tu diventerai una bella bistecca o un bel mucchio di Hamburger. Sei felice?"

Una volta non potevamo fare altrimenti, ma oggi possiamo clonare un singolo muscolo da una singola cellula, senza il bisogno di spezzare una vita, una coscienza e forse un amore in un ANIMALE.


(fine)



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Gabriele Ludovici


Street Cats


È morto.

Anzi no.

Uno dei primissimi insegnamenti che ha ricevuto all'inizio della sua affiliazione alla Manopla Roja è quello di scacciare il più possibile dalla propria mente il pensiero della morte. In qualsiasi circostanza, guai a lasciare che quel timore possa insinuarsi.

"La paura di crepare ti fotte. Ignorala".

Chi glielo ha detto?

Boh.

Guillermo ha solo una priorità da risolvere, adesso, poiché si ritrova con un lungo solco sul torace magro, dal quale cola copioso del sangue che imbratta la replica della canotta dei Miami Heat. Una coltellata. Ha tentato di fare il furbo con uno della Manopla, che di gerarchia gli stava poco sopra. Uno che reputava incapace persino di saper contare. Guillermo ha fatto la cresta sui proventi della giornata di spaccio, e Pavo se n'è accorto. Il ragazzino si è intascato un pugno di banconote, ovvero pane e latte a casa per una settimana in più. Non ha l'età per immaginare vizi e lussi più importanti. Una sana e onesta cazzata punita da una lama amica, destino beffardo. El Pavo poi, il tacchino, il coglione col taglio di capelli più cretino di tutta la gang, uno che quel pugno di banconote lo spendeva ogni giorno dal barbiere.


Si è trascinato in un vicolo dove l'aria puzza di urina, carogne e spazzatura. Non è lontano da casa sua, Guillermo sa che non deve allontanarsi troppo dal cerchio protettivo della Manopla. Lì, nell'angolo più sfigato della città più malfamata del Paese, le luci del tramonto non si degnano di fare la loro figura. Sente quasi freddo, anche se ci sono circa trenta gradi. Sentire freddo è un brutto segnale.

Nella semioscurità, il ragazzino tenta di raccogliere tutto ciò che gli rimane di lucido in mente pur di non perdere i sensi. Ritrovarsi svenuto in quel vicolo equivale a morire.

Un gatto.

Guillermo lo intravede, è dietro un cassonetto. Un gatto come tanti: grigio, forse tigrato, tutt'occhi e coda. Una micia, ha uno sguardo curioso e dolce, non saprebbe dire altro per avvalorare la propria tesi. Sa solo che i gatti della città sono diffidenti, non danno confidenza. Sono fantasmi di pelo, mucchietti d'ossa che si accontentano di ciò che scartano perfino gli umani più disperati. Nessuno si prende cura di loro, la loro lotta per la sopravvivenza è muta. Doña Pilar, l'ultima gattara certificata del quartiere, è morta da tempo.

La gatta si avvicina. Fiuta l'aria, abbassa la testa. Guillermo ne studia le movenze. Vorrebbe gridarle di stargli accanto, farle capire la necessità di un qualcosa su cui concentrarsi.

Un sussulto al cuore gli annebbia la vista.

Il felino è titubante. L'istinto è quello di sfruttare l'assenza di "rivali" per ispezionare con calma la mercanzia avariata ammucchiata nelle buste della calle. Quattro cassonetti, tre pieni fino all'orlo. Eppure la gatta indugia. Percepisce qualcosa nello sguardo di quel colosso di carne morente. Colosso dal suo punto di vista, ovviamente: quel ragazzino pesa sì e no cinquanta chili.

Guillermo non è mai stato attratto dagli animali, sebbene abbia sempre annuito di fronte ai compagni che lodavano le doti intellettive dei loro pitbull o altri cani da guardia/assalto. Grame bestie, pensava. Figuriamoci poi i gatti: piccoli, selvatici, essenzialmente inutili.

Fino a quel momento, chiaro.

Vincendo ogni esitazione, la gatta si avvicina al ragazzo. Annusa, indaga. È ferito a morte, è evidente, così lancia un blando miagolio di disgusto misto a impotenza. Capisce che la sua presenza può attirare l'attenzione di altri cosi. Quei cosi enormi e invincibili, dai lunghi arti, estensioni prensili da cui rifuggire. Quelle figure perennemente di corsa, alle quali è inutile affezionarsi poiché trasudano anch'essi fame e disperazione.

Il ragazzo, dal canto suo, è disperatamente concentrato sulla figura di quell'animale. Sente che la vita sta scivolando via, è sull'orlo di perdere i sensi. Si accorge di un morbido strofinio nei pressi della sua bocca, poi di un piccolo morso. Dolore, attivazione delle sinapsi. La bestiolina gli cammina sopra, in qualche modo il suo fisico cessa di intorpidirsi così repentinamente.

È vivo.

Fissa il cielo attraverso i fili dei panni stesi. Quanta gente si è affacciata in quei minuti, facendosi i cazzi suoi di fronte allo scenario di un ragazzino morente? Almeno una ventina, sono grossi palazzi. Ma perché non interviene nessuno?

Il ritmo dei suoi pensieri è scandito dai passi della gatta che lo attraversano da capo a piedi. I mici non è che abbiano una soglia dell'attenzione così alta, pensa Guillermo, e dà per scontato che a breve l'animale si allontanerà.


El Pavo è di ritorno da una serata delle sue. Una ronda d'affari, il "recupero crediti", poi una cena a base di burritos, birra e cocaina nel garage di Jaime. Ha deciso di andare a casa presto, il giorno dopo deve spostarsi in un'altra regione assieme al capo. Serve un gorilla che svolga l'ordinaria amministrazione in tema di sicurezza, carne da macello che non può rifiutarsi. Il profilo di Pavo.

Passeggiando per la via principale del barrio, gonfio d'alcol e droga, a Pavo torna in mente Guillermo. È proprio lì che quattro ore prima lo ha "graffiato" con la lama, a quel furbetto del cazzo. Guardandosi intorno con circospezione, cerca segni che lascino intendere cosa ne sia stato del ragazzino. Nessuna donna in lacrime? Nessuna attività sbirresca?

Grande è la sorpresa quando, imboccando il vicolo delle pisciate per svuotarsi la vescica, trova il corpo di Guillermo circondato da una ventina di gatti. I loro occhi scintillano nel buio, per uno strano gioco di luci con la scarsa illuminazione che passa in quel corridoio di spazzatura. El Pavo non sa se Guillermo sia morto o meno ma, trovandosi al cospetto di quell'orda di code dritte e sguardi glaciali, ottenebrato dall'alterazione, con mano tremante compone il numero dell'assistenza sanitaria prima di gettare il cellulare in un cassonetto e scappare via con i pantaloni mezzi abbassati.


(fine)



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Draper


Nuit de l'Homme


Non esistono magie senza rituali, e non esistono rituali senza un Maestro e un Altare.

Tale è il sacro Dogma.

Chi esegue una cerimonia, oltre alla determinazione, deve anche possedere padronanza assoluta dell'ortodossia di cui si rende apostolo, e per Andrew Pratt (gran sacerdote alla Chiesa dell'Ansia e dello Stress) era fondamentale che quei personali santuari fossero gabinetti. Tre sere al mese, ogni mese, per un anno, le sue trasferte in giro per l'Inghilterra sarebbero iniziate e finite in un bagno. Da bravo stregone, Andy aveva selezionato quegli insoliti "altari" solo dopo un'accurata riflessione. Per sopravvivere al Medioevo della sua carriera alla Müller-Binoche avrebbe avuto bisogno di rifugi dove sbollire dalla pressione del lavoro e, soprattutto, da quel fastidioso problemino. Niente di più adatto delle toilette, allora. Una salvata, pensava, è lì che ho sempre le idee migliori. Eppure non si trattava di semplici stanze.

Andrew, in verità, le immaginava come trans-mondi a cavallo fra il caos della quotidianità e la pace della fantasia. Erano gli ascensori verso il piano Zen, erano le sfere di vetro vendute nei chioschi della Memoria, souvenir di vite possibili. Laggiù, oltre le cupole trasparenti e la neve sintetica e gli usci dei micro-cottage made-in-China, prendevano forma bagni ogni volta diversi, in cui le preoccupazioni vorticavano giù per lo sciacquone e i suoi desideri non sottostavano a giudizi né censure. Era là che Andy abbracciava la calma, prendendo la rincorsa per vivere a salti.


Benvenuti a…

Purtroppo i vegliardi del settore Vendite l'avevano di recente costretto ad affrontare un terrore che persino i gabinetti d'emergenza faticavano a contenere. Gli serviva un nuovo rituale, qualcosa che esorcizzasse la madre di tutti i demoni: la paura che il grande Volo divenisse il grande Tuffo.


Vi preghiamo di prestare la massima attenzione mentre vi indichiamo alcune misure di…

L'escamotage che s'era inventato non aveva neppure quindici giorni, ma funzionava molto bene.

Il procedimento, il suo rituale, iniziava già ai varchi di sicurezza.

In quella circostanza non c'era affatto bisogno che la mente seguisse i gesti meccanici del corpo, perciò poteva sbarazzarsi della sua zavorra di carne e sangue e aprire da sé il rubinetto della doccia. La prima certezza era l'umido abbraccio del vapore che riscaldava la stanza, assieme all'acqua che condensava a fil di maiolica. Un sogno a occhi aperti. Le mani svuotavano le tasche, toglievano la cintura e l'orologio, ma nel frattempo — nel posto più intimo — insaponavano una clavicola, un collo. Niente musica, se non il rilassante scroscio del soffione. Le sensazioni familiari lo riportavano volentieri ai tempi dell'università, quando trascorreva intere giornate alla serre tropicali di Kew.


Quattro percorsi segnaletici contrassegnati lungo il corridoio della cabina si illumineranno al buio, guidandovi in caso di… Ansia, in agguato come uno di quegli orrendi pezzi reggaeton, aveva un titolo banale e un ritornello ancor peggiore. Sono rotto, non sarò mai pronto, non sarò mai pronto. Radio Depressound tagliava le trasmissioni davanti allo specchio, dopo un colpo di pettine e due schiaffetti al profumo di Floïd, ma era la colonia firmata Yves Saint Laurent a chiudere il cerchio. Soltanto allora, finalmente, il rumore del phon arrivava a coprire il fischio retroverso delle turbine. I capelli erano l'ultimo passo per dimenticarsi del decollo, dell'aereo, di tutto il viaggio, ma sotto le dita di Andrew Pratt non c'era alcun phon, solo un paio di braccioli consumati dal popolo dell'aria.


— Vi preghiamo di individuare l'uscita più vicina, che potrebbe trovarsi anche dietro di… Mister?

Quando Andy riaprì gli occhi, il personale di bordo aveva ormai concluso le procedure d'imbarco.

Fuori dal finestrino, immersi dentro minuscoli coni di luce, si scorgevano un pezzetto d'ala del 737, un uomo col giubbotto giallo-fluo e i fari rossastri di un'autocisterna della BP, due teste di fiammifero che andavano morendo all'orizzonte. Ognuno dei passeggeri s'era portato dietro il tanfo che Stansted aveva a tarda sera, un misto di cotone impolverato, bacon e salviette all'aloe.

— Mister? — La voce lo chiamò ancora.

Pratt, con qualche secondo di ritardo, riconobbe una hostess.

Lo sguardo della ragazza era fiacco, né il contouring né l'eyeliner perfetto potevano nasconderlo.

— Mi scusi, — gli disse un po' di fretta, senza però dimenticare la cortesia — Le chiederei un attimo d'attenzione per la dimostrazione di sicurezza, grazie. — Pratt annuì. Sulle labbra color prugna della donna s'increspò un flebile sorriso, e per un momento la sua dentatura perfetta e il rossetto in tinta con la divisa eclissarono le miglia di fatica da lei macinate in quella dura giornata di lavoro.


In caso di un'improvvisa perdita di pressione nella cabina, le maschere individuali per l'ossigeno saranno disponibili automaticamente dal pannello sopra di voi.


La hostess, il cui nome era Fanny, stando al cartellino, era già tornata alla sua postazione, tre o quattro sedili più indietro, verso la coda dell'aereo. Con indosso un giubbotto salvagente sgonfio, stringeva fra le dita un lungo tubicino di gomma trasparente, spiegando ai passeggeri dinanzi a lei dove trovare il necessario per la respirazione assistita d'emergenza.


Non allarmatevi se il sacchetto non si gonfia, l'ossigeno è in circolo.


Andrew scostò il polsino della camicia per dare un'occhiata all'orologio.

Qualcosa non andava. Il cronografo segnava le dieci e mezzo e la lancetta dei secondi era immobile. Quanto aveva dormito? Non abbastanza per non capire che il volo sarebbe partito in ritardo, pensò.

— Nuit de l'Homme?

Di nuovo domande, ma adesso non si trattava degli assistenti di bordo. Era una…

Nella rara eventualità di un ammaraggio…

Pratt replicò a scoppio ritardato: — Scusi, come? — La ruggine del sonno gli intorpidiva ancora le sinapsi. Svegliandosi, non s'era accorto che ora alla sua destra sedeva una donna dai capelli scuri, la stessa donna che fino a pochi minuti prima era sistemata dalla parte opposta del corridoio, accanto a un cadetto della RAF in uniforme.

— Non ho capito. — Le fece, e la guardò. Incrociò due specchi color menta, limpidi e avidi di sapere.

— Il profumo, la sua colonia — lo incalzò l'altra — È Nuit de l'Homme?

La mora sembrava una delle mille bambine che, giocando coi padri, provano a indovinare in quale mano sia nascosto il sassolino. Sporgendosi appena un po' verso di lui — proprio sul limite che separa la discrezione dall'invadenza — lasciò intravedere una scollatura dinamitarda, ma l'attenzione di Andrew era già presa da ben altre curve — Sì, esatto — rivelò l'uomo, mentre seguiva l'aggraziato profilo di quella mandibola, dal mento alle clavicole abbronzate.

— Complimenti — si congratulò lei — Ha davvero buon gusto.

Il vostro capitano vi invita a leggere que…

I due erano separati dalla poltroncina di mezzo, vuota, a eccezione di una copia sgualcita del Sun che nascondeva sia la cintura di sicurezza che un menù delle cibarie vendute a bordo.

— Come ha fatto a indovinare? — Le domandò curioso.

— Avevo letto che è una delle fragranze più amate dalle donne — sostenne, omettendo però la fonte di cotanta saggezza statistica — Era anche la colonia del mio ex, quindi mi ha…

Il velivolo iniziò a fare marcia indietro finché non sobbalzò. Il sussulto fu brevissimo, più corto di uno starnuto. La mora non si scompose, Pratt invece maledisse gli dèi di ogni Cielo e Inferno.

Era cominciata la fase di rullaggio, sarebbero decollati a breve. E in ritardo.


Ricordiamo che su questo aereo è vietato fumare e che i servizi igienici sono dotati di rilevatori di fumo. Signore e signori, vi ringraziamo per la cortese attenzione e vi auguriamo un piacevole volo.


La donna l'aveva visto irrigidirsi — Tutto bene? — Gli sussurrò all'orecchio.

Pareva quasi che, grazie al tono di voce basso, desiderasse lenire i timori dell'altro e tenerne al sicuro l'orgoglio. L'ego degli uomini è un filo di seta, si sa, e lei più di chiunque sapeva.

— Sì, ho solo…

…Paura di volare? — Lo interruppe sorridente — Anch'io, sa?

Nel pronunciarsi, sfiorò con l'indice la collana di corniola che le cingeva il collo brunito.

Andy si rilassò quasi senza rendersene conto. Le rughe sulla sua fronte si distesero come le acque di uno stagno che torna placido. Era il Teorema dei Violini, quello non sbagliava mai.

Pratt lo credeva da sempre. A bordo di un aereo, quando una donna rivolge parola a un uomo, lo fa per due motivi, paura o noia, e in tali circostanze bisogna far suonare i violini di Calma e Cortesia. Andrew ignorava quale delle due eventualità stesse spingendo la ragazza a fare conversazione, magari si trattava di entrambe, ma in fin dei conti non gli cambiava granché. Per quanto non apprezzasse le chiacchiere frivole, infatti, parlarle avrebbe di sicuro reso la traversata da Stansted a Battersmith meno spaventosa.

Fu proprio quel pensiero (mentre l'aquila d'acciaio abbandonava il pavimentato e s'innalzava sopra le buie campagne dell'Essex) a donargli conforto.

In un batter d'occhio, la sua mente preoccupata aveva costruito l'ennesimo bagno.

Ed era comodo.

Andy e la sconosciuta ripresero a parlarsi solo dopo che il 737 ebbe raggiunto la quota di crociera.

Strano che non si fossero ancora presentati, nonostante le battutine e i complimenti.

Fu lei a dissipare il silenzio per prima: — Crede che lo prenderanno? — Bisbigliò.

L'affusolato indice della ragazza, dall'unghia a stiletto color corallo, puntò la prima pagina del Sun.

A caratteri cubitali, il fronte del tabloid recitava: BLANCPAIN - CONTO SALE A SEI.

— Non saprei. — mormorò Pratt. Il suo sguardo indugiò sulla foto che accompagnava l'articolo — Leggo poco, e la cronaca nera…— lo dedusse dai dettagli: cadavere, lenzuolo bianco macchiato di sangue, circondato da poliziotti, paramedici e fotografi — …Non è il mio campo, io vendo orologi.

— Orologi?

— Sì.

— Allora forse sa del soprannome di questo pazzo… I giornalisti si sono sforzati parecchio, stavolta.

— Beh, Blancpain è un vecchio marchio di orologi, ma quale sarebbe il nesso col killer?

— Il tempo — lo rimbeccò la mora, con un tono che però non mostrava saccenza e mirava soltanto a informarlo dei fatti — È da tre giorni che spunta un cadavere ogni dodici ore.

— E la polizia dov'è?

— Stanno setacciando la Grande Londra, ma non sanno che pesci prendere.

— Non conoscono neppure il sesso?

— Niente di niente, se non che strangola le vittime a mani nude.

— Deve essere uno bello forte.

— Uno? — Chiese lei — Perché non una?

Pratt, che nel frattempo aveva letto l'incipit del pezzo, lasciò scorrere il medio lungo la terza riga.

— Quante donne conosce capaci di strangolare uomini fra i 28 e i 32? Qui dice che ieri hanno arrestato un paracadutista di Epsom, è stato rilasciato qualche ora fa. Credono sia un militare?

Il cadetto della RAF seduto dalla parte opposta del corridoio, seppur estraneo alla conversazione, si sentì chiamato in causa e guardò in cagnesco la coppia, ma tornò quasi subito al proprio sandwich.

— Ne avevo sentito parlare — annuì verso Andrew — Non capisco… È così… Macabro.

Fra una parola e l'altra, non si accorsero del tempo che passava. Tuttavia, l'importanza e l'interesse nei confronti di Blancpain, chiunque fosse, svanirono come un brutto sogno post-sbronza quando l'altoparlante gracchiò un nuovo comunicato.

Giungeva l'incubo peggiore: la fine del viaggio.


Signore e signori, parla il capitano Ron Grimaldi. Vi preghiamo di tenere le cinture allacciate fino a quando il segnale non sarà spento. Vi ricordiamo inoltre che da ora non sarà più possibile usufruire dei servizi igienici.


Niente bagno, pensò Andrew, letteralmente e metaforicamente. Bel guaio, gli scappava.


La temperatura a Battersmith è di circa 48 gradi Fahrenheit e il cielo è parzialmente coperto.

Atterreremo fra dieci minuti. Grazie per l'attenzione e per aver scelto di volare con noi.


La ragazza allungò la destra a recuperare la borsetta sotto il sedile: — Menomale che è finita, grazie per aver tenuto compagnia a una povera fifona.Mentre lo ringraziava, diede una passata di rossetto alle labbra e si ravviò i capelli — Dio, sono stanchissima.

— Idem, non vedo l'ora di arrivare in albergo… Comunque grazie a lei. — Concluse Andrew.

— Dove alloggia?

— Al Mezzanine di Westgate, perché? — In quell'esatto istante Andy scorse il prato dell'aeroporto

Trenchard dall'oblò. Ormai avevano l'asfalto a tre spanne dalle ruote — Magari potrem… — lei tacque.

I piloti della compagnia con cui viaggiavano erano celebri per gli atterraggi bruschi.

— Cazzo… — sfuggì all'uomo, timori fondati — Tranquillo — bisbigliò la mora — Tranquillo… Tutto OK.

Il carrello del Boeing aveva appena sgommato sulla pista come un Godzilla entrato in tackle su John Terry. Rigido e immobile, il venditore sembrava un faraone di Abu Simbel.

I motori del velivolo erano sparati su indietro tutta e Pratt stritolava i braccioli della poltroncina, ma la mano sinistra della donna era già su uno dei due — Ahi, mi fa male! Attento…— sbottò lei stizzita.

— Scusi, mi scusi… — farfugliò mortificato, e arrossì.

Stava per chiederle un appuntamento, ma ora desiderava solo che la terra lo inghiottisse per sempre. Dagli altoparlanti, un paio di minuti dopo, partì un jingle MIDI dallo smaccato sapore anni '80. Annunciava che erano arrivati a destinazione in anticipo.

Il 737 passò dalla pista al pavimentato cinque minuti dopo l'atterraggio, arrestandosi davanti al Gate numero 6. I fari da 1300 Watt dell'unico terminal all'aeroporto Trenchard — fasci di luce al tuorlo d'uovo — irradiavano l'area di sosta proiettando il loro inconfondibile pallore giallastro.

Di fronte ad Andrew e alla sua compagna di viaggio c'era già una colonna di passeggeri che attendevano di sbarcare. Fu una colata umana lenta, disturbata dal puzzo di sudore e cherosene avio.

— Mi spiace davvero per prima — si congedò Pratt, scendendo lungo i gradini traballanti della scaletta esterna — Posso farmi perdonare? — Le chiese. La Samsonite pesava più di quanto ricordasse. — Vedremo. Magari farò un salto al Mezzanine, chi lo sa.

Tipico delle donne: inventare domande a forma di risposta, l'arte perduta di tenersi un segreto.

— Arrivederci, miss.

Lei annuì soltanto, ma alla fine — accompagnata da un soffio di vento — mostrò un ghigno in tralice.

L'uomo purtroppo non lo colse.

Sentiva la vescica sul punto di detonare e il freddo era tagliente.

A un certo punto la mandria di viaggiatori a cui Pratt si era accodato si spaccò in due.

Il gregge più numeroso si piazzò in adorazione del rullo numero 9, ad aspettare che venissero riconsegnati i bagagli. Il secondo, invece, accelerò il passo verso il posteggio dei taxi all'uscita.

Il gigantesco timer digitale nell'atrio segnava tre minuti alla mezzanotte.

A sinistra dell'orologio, il doppio schermo pubblicitario diffondeva uno spot dalle tinte livide.

Ombre comatose e bluastre danzavano, riflettendosi sul lucido linoleum color cemento. Il sottofondo era una malinconico requiem, si legava bene ai passi di chi lasciava il Trenchard.


Settimane dopo, si tenne un funerale. Tutti i violini erano presenti, incluso John Jameson.

Jameson. Il gusto su tutto il resto — sentenziò la clip.


— Ma dov'è il bagno…

Stava per esplodere.

I servizi, per fortuna, erano vicini. Oltrepassato il duty free e i bancomat, Andy si fiondò in bagno. Corse all'ultimo orinatoio della stanza, mollò la valigia accanto a sé e slacciò la cintura.

Iniziò a liberarsi con tale forza che il rumore della sua orina sembrò quello di un falò ardente.

Il puzzo del gabinetto s'intrecciò con gli effluvi di citronella e candeggina che infestavano il posto.

Finalmente era lì, davanti all'Altare. Lui, il Maestro, che compie il rituale. Magia.

Tenne gli occhi serrati per un bel po', finché non percepì un profumo familiare.

Non ebbe neppure il tempo di sollevarsi i calzoni. Quando si voltò, c'erano già due mani che gli serravano il collo. Avevano una morsa micidiale. Sentì la laringe deformarsi, l'ipossia era prossima. Nel bagno dell'aeroporto Trenchard non c'era traccia di specchi, ma ad Andrew Pratt bastò la vista. La donna che aveva conosciuto sull'aereo fu l'ultima immagine che memorizzò da vivo, prima che i lineamenti dell'assassina divenissero un pastone ardesia e grigio piombo, poi nero, poi nulla. L'epiglottide di Pratt implose.

Lei sorrise. Non sarebbe mai riuscita ad attendere oltre, erano trascorse dodici ore dal suo precedente omicidio. Detestava i preliminari.

In fretta, trascinò il cadavere di Pratt all'interno di uno dei separé dirimpetto agli orinatoi.

Lo coricò a destra della tazza, la testa fra il water e la parete dello stanzino.

Con la calma delle grandi occasioni, la ragazza abbassò la gonna e prese il membro fra le mani.

Gli sfuggì subito uno schizzo d'orina verdastra. Dopo aver concluso il bisogno, tirò lo sciacquone.

Una liberazione, pensò fra sé David Henfield, noto ai segugi della stampa col nome di Blancpain.

A quel punto, David uscì dal separé e prese la via della porta, ma lì, sull'uscio, trovò qualcuno a bloccargli il passo. Il nuovo arrivato non voleva togliersi di mezzo, però non si trattava di un viaggiatore.

— Miss — borbottò l'uomo, un cinquantenne in tuta da stura-cessi — Il bagno delle donne è laggiù.

— Mi perdoni, me ne sono accorta proprio adesso, stavo giusto uscendo.

— Nessun problema, può capitare. — Rispose.

Mentre la mora si dileguava, una scia di colonia solleticò le narici dell'addetto pulizie.

Era un particolare misto di cardamomo e lavanda, con una punta di lacca e cenere fredda.

Nuit de l'Homme, ricordò all'improvviso, bel profumo.


(fine)

Nunzio Campanelli


Il cappellaio


Alle otto in punto, come sempre fin dall'ormai lontano primo giorno di apertura, il cappellaio sollevò la pesante saracinesca metallica ed entrò nel piccolo negozio. Da un paio giorni la pioggia scendeva ininterrotta e il cielo non prometteva niente di nuovo. Tutta quell'umidità era entrata nelle sue ossa, provocandogli fitte acute e improvvise. Guardando preoccupato le proprie orme sul lucido pavimento di marmo, si affrettò ad asciugarle con un panno, per poi fare un rapido giro degli scaffali per controllare la merce esposta. Un rito, quest'ultimo, che gli permetteva di cominciare la giornata sempre nello stesso modo, e di tacitare le proprie nevrosi.

Il cappellaio era il decano dei commercianti della zona, e per tal motivo era sovente interpellato dai suoi colleghi su questioni spicciole che riguardavano fatti di ordinaria convivenza. Un riguardo, questo, cui il cappellaio teneva particolarmente, e di cui faceva modo di vanto in ogni conversazione. Non si era mai posto il problema di come lo vedessero gli altri ritenendo che non potesse discostarsi da quello che lui pensava di se stesso. Si sedette dietro al bancone in attesa dei rari clienti, posto da cui non si sarebbe spostato fino all'ora di chiusura, nemmeno per pranzare, preferendo ordinare il cibo in una rosticceria vicina. Da quando era morta la moglie, passava più tempo possibile nel suo negozio. Le silenziose stanze della sua abitazione amplificavano quel senso di stordimento del quale era preda ogni volta che vi faceva ritorno.

La visita di una mezza dozzina di clienti scandì tranquillamente il tempo, e il mezzogiorno fu annunciato dal sopraggiungere del garzone della rosticceria, che lasciò il vassoio con le pietanze sul retro. Il cappellaio consumò il suo pasto con la consueta, inaudita lentezza. Ogni movimento, ogni gesto sembrava codificato da un prontuario. Il piccolo mondo del cappellaio reclamava il suo onorario, che questi regolava quotidianamente staccando i propri giorni come i fogli di un calendario.

Terminato di mangiare, allungò una mano per prendere un quotidiano appoggiato lì vicino, un'edizione del giorno prima che prendeva dal giornalaio di fronte, cui aveva tempo addietro regalato dei vecchi cappelli. A lui interessava solo la pagina locale, cui approdò velocemente ignorando le altre sezioni del giornale. Un piccolo articolo, una notiziola di poca importanza attirò la sua attenzione. Lo lesse e lo rilesse più volte. Diceva che nella giornata di domani, alle ore sedici e trenta, si sarebbe inaugurata la nuova lavanderia moderna, in via dei Musici al civico quarantasei.

Allibito, rilesse di nuovo quelle poche righe e verificò che il giornale fosse del giorno precedente. Non c'era niente da fare, non lo avevano avvertito. Era la prima volta che accadeva, e lui non riusciva a interpretare quell'evenienza se non come una chiara mancanza di rispetto. Nel silenzio della sua solitudine maturò rapidamente delle sensazioni da sempre ritenute aliene al suo carattere. Inquietudine prima, rabbia poi, infine rancore.

In breve il distillato di una vita mediocre trascorsa nell'ignavia, vissuta nella vana ricerca non di un significato, che avrebbe comportato la necessità di porsi delle domande, ma di uno scopo che potesse spiegargli il perché, in un dato momento, il proprio corpo avesse preso vita, avvelenò la sua esistenza.

Provando un senso di soffocamento spinse il suo sguardo oltre la vetrina, valicando quel confine che da sempre considerava il recinto delle proprie emozioni. L'acciottolato, lucido, rifletteva la luce dei lampioni e delle vetrine dei negozi, disegnando un sentiero luminoso che si snodava lungo la via. Quelle domande mai formulate cominciarono a prendere forma reclamando d'improvviso risposte che non poteva, se anche avesse voluto, fornire. Ora la vetrina del negozio del cappellaio però era spenta e la saracinesca abbassata. Stava ritornando a casa sotto la pioggia, scaricata a terra con difficoltà dalle falde del suo borsalino, lo sguardo vitreo e la mente persa in pensieri di complotti orditi ai suoi danni. Al suo braccio, inerte, pendeva l'ombrello chiuso. Non udì la voce dei due che in lontananza lo stavano chiamando cercando inoltre di attirare la sua attenzione con ampi movimenti delle braccia.

Appena entrato in casa sistemò per bene il suo ombrello in maniera che non bagnasse il pavimento, appoggiò soprabito e cappello sull'appendiabiti, tolse le scarpe e si distese sul letto, nell'oscurità della sua camera. Lentamente allungò un braccio a lato, appoggiandolo sulla coperta. Rassicurato da quel contatto, si addormentò. Lo trovarono dopo una settimana, nella stessa posizione in cui si era addormentato. Un infarto gli aveva lacerato il cuore. Di fianco al cadavere solo un vecchio quotidiano.

Le vetrine spente del negozio del cappellaio, intanto, mostravano la solita merce, cui i solitari viandanti più non gettavano le consuete, fugaci occhiate. Sopra i cappelli, per la prima volta, si poteva notare un po' di polvere.


(fine)



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Pierluigi


La Terrazza


Il 1970 aveva da poco fatto la sua comparsa nel grande ingranaggio del tempo. Nell'aria, l'eco del '68 ancora era viva e palpabile, però lontano da un ragazzino delle medie come me.

I racconti che ci giungevano comunque erano affascinanti ma poco pubblicizzati, c'era solo una misera TV in bianco e nero con appena due canali.


La terrazza era sopra il terzo piano di una palazzina, in fondo a Via La Maielletta. Il proprietario era un uomo di mezza età, rispettosamente da noi chiamato Signor Antonio. Al piano terra aveva un consorzio che oggi avrebbe il nome altisonante di "consorzio agro alimentare". Per tutti noi era solo "il consorzio". La via era chiusa appena dopo di esso dal muro di recinzione della casa di Ernesto.

Il Signor Antonio non ci guardava mai di buon occhio, aveva con noi sempre un aspetto burbero di rimprovero. Certo a impedire di cementare la nostra amicizia ci si metteva di traverso pure la malasorte.

Avete presente un albero? Si riveste a sua protezione di una corazza spessa e dura chiamata corteccia. Questa aveva il brutto vizio di rispondere con tutta la sua forza agli oggetti che la colpivano, incluso le pietre che scagliavamo con la fionda.

Orbene, fino a qui niente di strano. L'unico problema era che lui le deviava con traiettorie machiavelliche che sarebbero sfuggite anche a un redivivo genio come Leonardo. Parecchie volte queste traiettorie finivano per infrangersi contro la vetrina del consorzio mandandola in frantumi.

Inutile dire che dopo poco bussava alle porte delle nostre case chiedendo il corrispettivo in denaro dell'acquisto del nuovo vetro.

Mia madre faceva la sarta, passava tutto il giorno con la sua Singer a cucire. Lavoro che la impegnava molto infatti, io sono stato cresciuto da un scricciolo di donna che mi viene il magone solo a nominare, la nonna Rosaria. "Rosa". Un metro e cinquanta con la forza di un gigante e un amore infinito nei miei confronti.

Mia madre, come tutti i bipedi aveva ai piedi due ciambelle, le scagliava con una mira da fare invidia agli "shooter", i cecchini dei Marines. Non riesco a ricordare, ma credo che non mi abbia mai mancato neppure una volta. Chi la pigliava in pazienza era il mio grande papà adducendo a giustificazione il fatto che fossi un ragazzino. Mio padre, persona che ho amato e stimato tutti i giorni della sua breve vita. Forse posso addirittura dire di essere a sua immagine e somiglianza per quanto lo ammiravo. Ma… niente, mia madre era convinta che era meglio flagellarmi a ciambellate.

Ma basta menare il can per l'aia, anche perché povera bestia non ci aveva disturbato affatto. Torniamo alla terrazza.


Il Signor Antonio pur non vedendoci di buon occhio ci lasciava andare perché con noi c'era suo nipote Giancarlo, detto "Pablo". Il soprannome era originato dalla profondità dei suoi pensieri e come omaggio a Pablo Neruda. Infatti oggi Pablo è uno stimato professore di filosofia negli istituti di media superiore, tant'è.

Il secondo si chiamava Ottorino abbreviato ad "Otto", due anni più grande di me. Ragazzo serio da Liceo Scientifico.

Il terzo era Fabrizio, anche lui abbreviato a "Brizio". Quando volevamo farlo arrabbiare, ai nostri tempo la espressione "girare le palle" non era ancora stata coniata ma rende l'idea, allora lo chiamavamo "mammuttello" per via di una leggera pinguedine che lo affliggeva da giovinetto. Ovviamente non si esagerava perché delle volte non la prendeva per il verso giusto e se ne andava. Non molto studioso tipo da Istituto Tecnico appena sufficiente.

Poi arrivo io soprannominato "Joe West". Il soprannome lo coniò Otto perché secondo lui guidavo la graziella come un selvaggio, a tal punto da ricordargli i personaggi che cavalcavano speditamente nei film di quel genere. Certo loro non erano da meno, aspettavamo la pioggia per andare a fare le derapate con le bici sul fango. Il risultato era che ci combinavamo come porci, ma il soprannome me lo tenevo io.


Sulla terrazza ci andavamo la sera dopo cena, nelle notti afose d'estate quando le scuole erano in vacanza. Come vista c'erano solo le campagne di "Zì Ursin" recintate da una rete, tantissime lucciole, olivi e ciliegi meta dei nostri raid a maggio. Zì Ursin, che lo sapeva, ci faceva gli agguati nascondendosi con un bastone, da qui la mia passione per lo sport. Facevamo gli 80 metri a tutta e poi il salto della rete, ma niente medaglie salvavi solo le chiappe dalle bastonate.


Per compagnia avevamo la chitarra di Otto, dire che suonavamo era sicuramente una esagerazione, "strimpellare" è il termine più adatto alla descrizione. Con un semplice giro dell'accordo di DO sono state coniate un'infinità di canzoni quindi, alla fine, qualcosa si riusciva a fare tutti. Cantavamo le canzoni di Lucio Battisti seguendo le parole sui libricini che acquistavamo nelle edicole a poche centinaia di lire. Anche per la radio era la stessa situazione della TV, solo due canali e per ascoltare una canzone di successo a volte non bastavano le giornate.


A una data ora dovevamo smettere per non disturbare chi cercava di riposare, le finestre delle camere erano aperte. I climatizzatori erano in là da venire.

Mettevamo via la chitarra e ci allungavamo supini con le braccia all'insù in modo da farci cuscino dentro il palmo delle mani infilate sotto la nuca. Così si cominciava a parlare, ognuno esponeva qualcosa e si discettava di varie argomentazioni. Ogni tanto c'era una battuta ricorrente quanto scontata, se si avvistava nel cielo un oggetto che si muoveva velocemente si faceva a gara a guardare l'orologio per dire — l'ufo delle ore 00:10 —. Giochi innocenti…


Certo un argomento ricorrente delle nostre conversazioni era il futuro e tutto quello di grande che avremmo fatto per cambiare il mondo. Quando sei un giovinetto la vita la senti come un fiume in piena, possente nella sua corsa verso il mare, indomabile e capace di spazzare via tutte le ingiustizie del mondo in cui vivevamo. Avremmo fatto questo e quello perché era giusto, lo sentivi, era impellente dentro di te che ti esplodeva nel petto. Certo eravamo dei sognatori ma da giovani la vita "è" un sogno, dovresti avere un'altra possibilità dalla vita, rinascendo saresti molto più ponderato che sognatore. Mentre tutte queste parole sgorgavano senza sosta gli occhi erano fissi al cielo, anche per scoprire l'improbabile ufo delle 00:25, ma soprattutto perché il fascino di un cielo stellato ti rapisce. Io avevo la sensazione di potermi liberare della opprimente gravità terrestre e con leggerezza sollevarmi nell'aria. Avevo la sensazione che aprendo le braccia mi sarei librato nell'aria salendo verso il cielo come un Dio. Pensate, nel 2000 avrò 42 anni, questo numero 2000 ricorreva spesso anche perché influenzato dai racconti di fantascienza foriera di miracolosi aggeggi per smaterializzarsi o volare in un batter d'occhi su un altro pianeta.


Poi piano piano la vita asciuga il tuo fiume, gli toglie impeto e forza. Passi il 2000 senza che nulla sia cambiato, anzi a volte ho l'impressione che siano stati anni buttati al vento e che l'uomo non abbia voluto imparare nulla.

Guardi con nostalgia quello che oramai è un ruscello, l'acqua non è più quella limpida che potevi bere senza timore ma ha un colore scuro e limaccioso.

Ti volgi con gli occhi verso il cielo implorandolo di donarti ancora un sogno perché ti dia la forza di svegliarti domani e ancora domani. Cerchi la forza di sentirti leggero e di sollevarti su tutte le miserie che ti circondano e che ti stanno uccidendo. Lo preghi perché non vuoi, svegliandoti, essere di un giorno più vecchio e di un giorno più vicino alla meta finale della tua vita.

Lo prego tutti i giorni, perché il cielo è giusto. Se volgi gli occhi a lui vedi le stesse cose che vedo io, ti può dare la stessa forza che io gli imploro. Sono le persone a essere sbagliate, non lui…


(fine)



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Roberto Bonfanti


L'uomo del banco dei pegni


Era la quarta volta che quell'anello gli capitava fra le mani. Ormai lo riconosceva subito, come riconosceva i modi della persona che glielo portava per impegnarlo, il suo fare furtivo e sbrigativo era sempre lo stesso, anche se l'uomo ogni volta era diverso. Quattro uomini nel giro di poco meno di due anni. Non trattavano mai sul prezzo, anche quello si accontentò dell'offerta minima. Ma erano gli occhi che lo colpivano, scrutavano intorno senza incrociare il suo sguardo, cercavano aiuto nei pochi particolari che circondavano il suo mezzobusto che affiorava dietro il banco: lo scaffale alle sue spalle, le venature del vecchio bancone di legno, la sua incipiente calvizie. Gli occhi di un uomo segnato dalla vita, accompagnati da poche parole e da un sorriso triste.

Appena rimasto solo si rigirò l'anello tra le mani, lo soppesò, osservò i tre piccoli diamanti incastonati e la pregevole fattura, poi si soffermò sul bordo interno, sapeva già cosa c'era inciso, ancora prima di leggere con la sua lente le minuscole lettere in corsivo. Poi lo mise nel cassetto del bancone, il primo; l'anello non sarebbe rimasto lì a lungo, prima o poi qualcuno, o meglio, qualcuna sarebbe venuto a comprarlo. Un'altra persona si sarebbe domandata perché un anello chiaramente femminile arrivava sempre con un uomo e se ne andava con una donna, ma lui aveva sviluppato da tempo un'attrazione più per gli oggetti che per le vicende umane, la sua fantasia era ormai corrosa dall'abitudine.

Nel pomeriggio invernale vennero altri clienti, lui li accolse con fare professionale e distaccato, come sempre, ma ogni tanto, quando era solo, apriva il cassetto e dava un'occhiata all'anello, quasi a sincerarsi che fosse ancora lì, senza più riprenderlo in mano, gli bastava un'occhiata. Alle otto della sera l'uomo del banco dei pegni si mise il vecchio cappotto grigio, spense le luci del locale, chiuse con doppia mandata la massiccia porta blindata e abbassò la serranda, come faceva alla fine di ogni giorno da oltre trent'anni. Si incamminò a piedi verso casa, era una lunga passeggiata, ma visto la sera asciutta e non troppo fredda, decise di non prendere il 21 notturno, tanto non aveva fretta. A casa non c'era nessuno che lo aspettava.

Le strade erano quasi deserte a quell'ora, alcune vetrine dei negozi chiusi erano accese, addobbate per le prossime festività natalizie. Pensava che quello spreco di energia elettrica fosse quasi disdicevole, le spese per i regali sarebbero stati comunque inferiori a quelle dell'anno prima, solo i suoi affari erano migliorati grazie alla crisi economica, la gente aveva bisogno di soldi e anche chi, in tempi migliori, non avrebbe mai pensato di doverlo fare, ora non si faceva troppi scrupoli a impegnare oggetti di valore.

Prima di aprire il portone della malandata palazzina controllò la cassetta della posta, c'erano due volantini pubblicitari e la bolletta del gas. Mentre saliva le scale che portavano al suo appartamento al secondo piano aprì la busta, lesse l'importo e la scadenza: aveva ancora due settimane per pagare, la cifra era simile a quella del bimestre precedente, abbastanza irrisoria; si congratulò con se stesso per non essere un tipo freddoloso, accendeva raramente il riscaldamento e quel poco di gas che consumava per riscaldare l'acqua e cucinare i suoi frugali pasti non incideva troppo sulla sua economia domestica.

Girò due volte la chiave nella serratura ed entrò nel piccolo ingresso con le pareti ricoperte dalla carta da parati. Appese il cappotto all'attaccapanni a muro e andò in cucina. Riempì la pentola con l'acqua del lavello e la mise sul fuoco. Aspettò che bollisse, aggiunse il sale grosso e poi ottanta grammi di riso, misurati con la bilancia impegnata da una casalinga in difficoltà, diversi anni prima. Controllò l'orologio appeso al muro, calcolando l'orario di cottura, quindici minuti, che impiegò aggiornando il suo registro con le entrate e le uscite del giorno. Mangiò il riso in bianco, senza condimento, come faceva tutte le sere, accompagnato da due bicchieri d'acqua. Cenare leggero era una regola che si era imposto fin da giovane, prima come cura per una gastrite che lo aveva tormentato per anni, poi come abitudine di vita.

Dopo tornò ai suoi conti, per una mezz'ora, poi andò a coricarsi. Non possedeva una televisione, non l'aveva mai avuta, così come non leggeva mai i quotidiani, non ci teneva a essere informato sulle cose del mondo, il suo negozio e le vicende del quartiere erano i suoi soli interessi. Disteso nel suo letto a una piazza pensò all'anello, chiuso nel cassetto del bancone, alle tre piccole pietre preziose e alla scritta nel bordo interno, poi si girò su un fianco e si addormentò.

Il mattino dopo si alzò, andò in bagno, poi si preparò la colazione: un pacchetto di cracker e una tazza d'acqua calda con il limone. Anche quel giorno decise di andare a piedi, gli piaceva camminare, incontrare le persone che andavano al lavoro, augurava il buon giorno a tutti, non gli importava se erano pochi quelli che ricambiavano il saluto. Non si curava troppo neanche di quelli che cambiavano strada per evitarlo, tanto sapeva che prima o poi sarebbero tornati da lui per saldare i loro piccoli debiti, l'età gli aveva insegnato la pazienza.

Quando arrivò al negozio alzò la saracinesca e aprì la porta blindata, entrò e la richiuse, non era ancora l'ora per iniziare l'attività, lui era un tipo metodico, amava la precisione. Andò ad aprire il cassetto e rimase a guardare l'anello per qualche minuto, poi, alle otto in punto, premette il pulsante sotto il bancone e fece scattare la serratura elettrica.

Il primo cliente della giornata fu una donna di mezz'età, gli mostrò una collana d'oro e fece la sua richiesta. Doveva averla fatta valutare, perché la cifra era abbastanza adeguata al suo valore. L'uomo del banco dei pegni trattò un po' il prezzo, senza esagerare al ribasso, sapeva già a chi rivenderla con un discreto profitto.

Non era avido, anzi, si considerava quasi un benefattore, in fondo aiutava chi era in difficoltà, non era altro che un piccolo ingranaggio, una rotellina ben oliata di un sistema più grande e complesso che funzionava da tanto tempo e che avrebbe continuato a farlo ancora a lungo.

Ciononostante a volte pensava a come era cambiato, nel tempo, quel quartiere. Non era mai stata una zona tranquilla, piccoli delitti e misfatti erano all'ordine del giorno, molti dei residenti erano occupati in attività che spesso si svolgevano oltre i limiti della legalità, anche lui faceva affari ai quali non era conveniente accennare in pubblico, ma tutti lo conoscevano e lo rispettavano, nessuno si sarebbe azzardato a recare danno a lui o alla sua attività. Questo, almeno, fino a qualche anno prima. Ormai gli capitava sempre più spesso di vedere facce sconosciute che si aggiravano nei paraggi, occhi nei quali leggeva una disperazione diversa, più cupa e feroce; giovani che ignoravano le regole non scritte che assegnavano un ruolo preciso a ognuno dei vecchi abitanti di quella comunità. Nuovi vizi si erano insinuati in quelle strade, spesso alimentati dai figli di persone che non erano state capaci di trasmettere loro un codice d'onore che, per quanto distorto, aveva fatto in modo di mantenere un ordine nel quale ognuno poteva trovare un suo posto.

Poco dopo la riapertura pomeridiana entrò un ragazzo, lo riconobbe subito, non era la prima volta che veniva a proporgli un acquisto. Questa volta voleva impegnare un cellulare, sicuramente non era suo. Il vecchio tergiversò, non era interessato a quel tipo di oggetti, ma l'altro non voleva desistere, allora gli propose una cifra ridicola per il telefono, giusto per tagliare corto quella contrattazione. Il giovane si adirò, cominciò a sbraitare e insultarlo, sempre più furioso, incurante degli inviti ad andarsene, finché tirò fuori dalla tasca un coltello a scatto e glielo agitò in faccia, con fare aggressivo. L'uomo del banco dei pegni accarezzò il pulsante della porta, sotto il bancone, ma non lo premette, sarebbe stato come rinchiudersi in una gabbia con una belva feroce. Minacciandolo con la lama il ragazzo girò intorno al banco, aprì i cassetti e arraffò il denaro e l'anello, prima di darsela a gambe.

Lui chiuse la porta e andò nel retrobottega, prese una scatola di legno dallo scaffale e l'aprì. Tirò fuori la vecchia pistola, non sapeva se era ancora funzionante, non aveva neanche le pallottole, tanto non sarebbe stato capace di usarla. Era la prima volta, in tanti anni, che subiva un furto, si era sempre chiesto come avrebbe reagito nell'eventualità, se avrebbe provato paura o tentato una reazione, ma ora che era accaduto non era come l'aveva immaginato, tutto era successo così in fretta che quasi non aveva avuto il tempo di pensare. Rimise la pistola al suo posto e tornò nel negozio, riaprì la porta e si mise ad aspettare.

Nel pomeriggio vennero altri clienti, ma l'uomo del banco dei pegni era distratto e nervoso, la tensione per l'aggressione subita gli stava salendo piano piano, non concluse buoni affari quel giorno. Alle otto della sera chiuse il suo negozio e andò a casa.

Arrivato nel suo appartamento mise l'acqua a bollire, ma presto si rese conto di non avere fame, così spense il fuoco e tornò a rimuginare su quello che gli era accaduto.

Il furto dell'anello lo aveva scosso, forse più di quanto gli era sembrato in un primo momento. Non era tanto per il valore economico ma per una questione di principio, era l'atto in sé che lo angosciava. Lo vedeva come una mancanza di rispetto per quello che lui rappresentava per il quartiere, ma c'era anche qualcos'altro: ormai si sentiva legato a quell'oggetto, gli attribuiva un valore simbolico più che materiale, e ora gli sembrava che una parte di lui gli fosse stata portata via.

Andò a letto più presto del solito, ma quella sera aveva difficoltà ad addormentarsi, cosa inusuale per lui. Lo sgarro subito lo tormentava. Aveva deciso di lasciar perdere, in fondo il danno non era stato un granché ma, per quanto tentasse di scacciarlo, il pensiero del suo anello nelle mani di quel giovane arrogante, gli impediva di prendere sonno. Dopo essersi girato e rigirato più volte nel letto, si alzò e si mise a misurare a piccoli passi i pochi metri quadri del suo appartamento.

Si ritrovò a fissare il telefono che teneva nell'ingresso, appoggiato su un mobiletto di legno vicino all'attaccapanni. Era un vecchio apparecchio a disco, la compagnia telefonica gli aveva tante volte proposto di sostituirlo con un modello più attuale, con i tasti oppure cordless, ma lui aveva sempre rifiutato di cambiarlo, non amava la modernità e, per il poco uso che ne faceva, andava più che bene.

Dopo una lunga riflessione si decise a fare la chiamata. Compose lentamente il numero, aspettò con pazienza la risposta, disse solo poche parole, quelle necessarie, non una di più, poi tornò in camera e si infilò sotto le coperte.

Il mattino dopo, alle sette, uscì e s'incamminò verso il banco dei pegni. Quel giorno ignorò tutti i passanti che incontrava, anche quelli che di solito rispondevano al suo saluto.

Sul marciapiede, davanti al negozio, trovò un pacchetto, avvolto con carta marrone e legato con lo spago. Aprì la saracinesca e la porta blindata, entrò e poi la richiuse, esponendo un cartello con la scritta "torno subito".

Appoggiò il pacco sul bancone, la confezione era anonima, non c'erano né mittente né destinatario. Tagliò lo spago e tolse via la carta, senza strapparla, la piegò accuratamente e la mise da parte, non amava gli sprechi. Dentro c'era una scatola da scarpe, di una nota marca sportiva, la soppesò, poi aprì il coperchio. L'interno era pieno di fogli di giornale appallottolati. Ne prese uno e lo spiegò distendendolo sul bancone e stirandolo ben bene. Lo lesse tutto, da cima a fondo, e lo stesso fece con gli altri, uno a uno. Per tutta la mattina, ostinatamente, lesse quelle pagine, vecchie di qualche giorno, che parlavano di guerre, intrighi politici, cronaca nera, eventi sportivi e mondani, amori di soubrette e calciatori, recensioni di film e necrologi, palinsesti televisivi e annunci economici.

Spiegando uno degli ultimi fogli rimasti sul fondo della scatola trovò una sorpresa all'interno: un dito mozzato, forse un mignolo, sì, viste le dimensioni probabilmente era un mignolo. Infilato a quel dito c'era il suo anello, quello che gli era stato sottratto il giorno precedente. Andò a cercare un barattolo di vetro, ci mise dentro il dito, dopo aver sfilato il gioiello, e lo riempì con l'alcol che teneva nella cassetta del pronto soccorso nel retrobottega, quindi lo chiuse con il coperchio a vite e lo mise su uno scaffale, dietro a una vecchia sveglia in acciaio con le campane della suoneria.

Pulì accuratamente l'anello con un batuffolo di cotone impregnato con il disinfettante. Prima di rimetterlo al suo posto nel cassetto lo contemplò per qualche istante, lesse la scritta incisa nel bordo interno: "Per sempre". Ancora una volta si domandò se per caso non fosse lui il vero destinatario di quella promessa.


(fine)



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Fausto Scatoli


Intervallo


Solita strada, di sempre. Da casa al lavoro e ritorno, una via quotidiana percorsa migliaia di volte, spesso senza nemmeno rendermene conto, tanto da non ricordare se durante il tragitto è accaduto qualcosa.

Strada che i miei occhi conoscono a menadito e la mia auto percorre a memoria.

Ma stamattina qualcosa non mi quadra.

Incrocio altri mezzi, moto, persone, ma ho l'impressione di trovarmi quasi sempre nello stesso punto. È come un breve film che si ripete in continuazione ogni volta che termina. E infatti non arrivo da nessuna parte.

Non so più da quanto tempo sto guidando e non riesco a fermarmi. L'ho pensato svariate volte, ma non l'ho mai messo in atto.

Fino ad adesso.

Schiaccio il pedale del freno e le ruote stridono sull'asfalto.

Insieme a me si ferma anche il film, non c'è più nessuno sulla strada. E non so dove sono.

Scendo dalla mia C3 e mi guardo intorno.

— Beh? Non c'è nessuno?

La mia voce si perde nella quiete che sovrasta il luogo. Sono stordito e per farmi coraggio parlo da solo.

— Allora? Dove cazzo sono finito adesso? È la strada di sempre e non la riconosco.

Non ci sono le case e tutto intorno è prato verde. Anzi, campi non coltivati. Qualche filare di alberi ogni tanto rompe la monotonia del paesaggio. Resto incantato a osservare i colori della natura, molto vividi.

Due passi e arrivo al ciglio della strada. Mi pareva ci fosse la banchina e invece no.

— Sì che c'era, sono sicuro. Il problema è che questa non è la mia strada, cazzo…

Un nastro d'asfalto praticamente dritto che taglia in due la campagna, questo è.

Scruto da una parte e poi dall'altra. — Possibile che non passi nessuno? Anche se sono finito in un altro posto, qualcuno deve pur esserci, visto che c'è una strada.

Niente.

Scoraggiato, sto per risalire in macchina quando sento un rumore lontano. Un motore.

— Meno male, almeno chiedo informazioni.


La Citroen C3 proveniente dalla mia stessa direzione, è passata via senza fermarsi, nonostante mi sbracciassi. Il tipo alla guida ha gridato qualcosa che non ho ben compreso, salvo una parola: "indietro".

— Che cacchio avrà voluto dire? Tornare indietro, forse? Boh. Io vado avanti, troverò qualcun altro.

Salgo sulla mia Saxo, metto in moto e riparto.

Subito torno a incrociare altri mezzi. — Dov'erano, fino a un attimo fa? Aspettavano che ripartissi?


Mentre guido mi pare ancora di rimanere nello stesso luogo, eppure il motore va e le ruote girano… Non capisco. Come non capisco lo strano stato in cui mi trovo: dovrei essere disperato o almeno isterico, visto il mio carattere, e invece sono permeato da una calma innaturale, quasi un effetto marijuana ai massimi livelli. Solo che non mi viene da ridere e sono perfettamente lucido. Almeno credo.


Mi fermo di nuovo e scendo dalla AX, sperando si fermi qualcuno.

E invece non c'è un cane, nel senso letterale del termine, e neanche un gatto o qualsiasi altro animale.

Pare simile a prima tutto quanto, anche se gli alberi sono disposti a boschetti. E campi ovunque.

La strada è meno bella, questo lo si nota subito. Asfalto più grezzo e a tratti molto consumato.

— Ma che cazzo…

Non capisco per che motivo mi perdo in queste elucubrazioni quando invece dovrei cercare una soluzione.

Arriva un'altra macchina. Meno male.

Mi metto in mezzo alla strada a braccia aperte: — Ferma, ferma!

Non rallenta nemmeno, altro che fermarsi… non che corra molto, però devo spostarmi altrimenti mi travolge. E subito dopo frena. — Evviva! — Grido.

La AX mi passa a lato, fermandosi dopo una ventina di metri. Faccio per avvicinarmi, ma da dentro l'auto qualcuno mi grida: — Fermo. Indietro. Retromarcia.

Mi blocco: — OK, ho capito. Dimmi solo dove siamo.

— Indietro. Retromarcia. — Riparte.

— Ma vaffanculo, stronzo! — E gli alzo il medio alla perfezione mentre si allontana.

— Ma guarda che roba — mi dico rimontando sulla mia Visa, — non c'è più rispetto.


Ho ancora l'impressione di rimanere fermo pur muovendomi, però ci sono delle differenze: la strada e le altre auto.

Queste ultime sono sempre di meno e la prima peggiora in continuazione, è asfaltata malissimo e solo a tratti. Infatti prendo una buca che mi fa sbandare.

— Cazzo — dico fermando la Ami 8 e scendendo quasi al volo.

— Oltre che tutta rotta è anche più stretta, porco giuda.

Ancora campi, alberi e niente altro.

— Ma passasse un merlo… o un piccione, cristo!

Invece, ancora una volta passa una macchina come la mia. Stavolta rallenta e dal finestrino viene buttato un foglio che subito recupero. Ormai ho capito che non si ferma nessuno, devo arrangiarmi e capire i suggerimenti.

Non c'è scritto niente, è un disegno. Una strada con sopra un rettangolo che penso sia la forma stilizzata di un automezzo. E una riga a forma di U. Torna indietro.

— Ma perché?

Forse non c'è un perché, forse sono solo impazzito. Apro la portiera della Ami 6 e accendo il motore.


L'impressione di poco prima si conferma e di macchine ne trovo ancora meno, mentre la strada è ormai sterrata e piuttosto stretta. La 2CV se la cava bene, però non è il massimo.

— Tutto mi fa pensare che avrei dovuto tornare indietro e invece continuo ad andare avanti… Che mi succede? Non riesco a tornare sui miei passi? Mi manca il coraggio?

In preda a un panico improvviso spengo la macchina. La strada è leggermente in alto rispetto ai campi che vi sono a lato, ma dovrei riuscire ugualmente a girarmi, magari con un paio di manovre.

— Meglio che scenda a dare un'occhiata…

Ovviamente non passa più nessuno. Guardo il ciglio.

— Uhm, non è semplice. Sono più in alto di quanto credessi. Però devo tentare per forza, visto che rotonde o spiazzi non ve ne sono. A meno che…

Mi volto e vedo avvicinarsi una 2CV. Devo spostarmi, altrimenti non passa. So che non si ferma e infatti rallenta e, rasentandomi, va oltre.

A fianco della mia 5HP c'è qualcosa, sicuramente lasciato da chi mi ha appena sorpassato.

È una foto in bianco e nero di una B2. No, c'è un altro foglio: "Istruzioni per cambiare le marce".

— Cioè mi ritieni un idiota? Pensi che non sia in grado? E chi cazzo sei, si può sapere?

Giro la manovella della Type A fino a che parte il motore, salgo e riparto. Voglio proprio vedere dove finisco.


Beh, il paesaggio è mutato non poco. Tutto intorno sono boschi e qualche radura di tanto in tanto, non ho più incontrato nessuno se non gente a piedi e un carro trainato da un cavallo.

Onestamente devo dire che il posto mi piace. Natura semi selvaggia, quiete, silenzio.


Tiro le redini e subito il mulo si ferma. Ho l'impressione che qualcuno mi stia osservando.

La conferma arriva subito, sotto forma di un ragazzino che sbuca dal bosco attraverso il quale si snoda il sentiero che sto percorrendo. Si avvicina, sorridente.

— Ciao — dice, — ben arrivato. Ora seguimi. — Si incammina.

Non so cosa rispondere e come agire. Lo seguo. Dopo alcuni minuti mi accorgo che per la prima volta da quando sono partito, la strada compie una curva.

— Dove stiamo andando? Anzi, dove siamo? — Riesco a chiedere.

Il ragazzo si volta, sempre sorridendo: — Lo scoprirai tra poco. Ti piacerà.

Oltre la curva il bosco si infittisce, ma subito dopo appare una radura. E c'è gente, animali, abitazioni. Più ci avviciniamo e più mi sento bene, come stessi tornando a casa dopo tanto tempo. Questa gente lo sa e mi sta aspettando, in festa.

Mi accolgono come fossi un figliol prodigo o qualcuno che aspettavano da tempo. Sono commosso.

Una donna si affianca al mio carro e mi fa cenno di scendere. — Vieni — mi dice.

Nota i miei occhi lucidi e mi abbraccia con trasporto. — Tranquillo, facciamo così con tutti quelli che scelgono la via. È stato uguale per me e tanti altri, ma ora siamo in pace e in eterno amore.

Io mi sento bene come da tempo non mi accadeva, non so perché.

Mi prende per mano e mi porta con sé, mentre la gente ci guarda, contenta.

— Dove siamo? — Chiedo di nuovo.

Non risponde. Mi sorge un dubbio: — Sono morto? Siamo nell'aldilà?

Si gira, mi guarda negli occhi e sussurra: — No, non siamo dove credi. Ora apri tutto il cuore.

Poi mi bacia. Ho un attimo di resistenza, ma la passione prende il sopravvento e mi lascio andare.

Una massa incredibile di nozioni mi invade. È troppo, non posso resistere…

Invece tutto si placa all'improvviso.

— Sono sfinito.

— Non temere, passerà e ti sentirai come mai prima d'ora.

— Forse comincio a capire qualcosa. Sono nel Bardo, vero?

Le si illuminano gli occhi. — Sì, sei nell'intervallo.

— Allora sono morto.

— No, sei in meditazione profonda e la tua vita è sospesa. Con le parole dei tuoi tempi si può dire che sei in coma neurologico.

— Non ricordo niente di quella vita, nemmeno cosa mi sia accaduto per trovarmi qui.

— Potrai ricordarlo in seguito, se deciderai di tornare. Oppure potrai rimanere qui e, una volta lasciato quel corpo, scegliere se rientrare o proseguire verso l'illuminazione.

— Devo pensarci — affermo, titubante.

— Hai quarantanove giorni per decidere, ma ricorda che qui il tempo è soggettivo. Possono durare un attimo o un'eternità.

— Perdonami, ma sono ancora piuttosto confuso, non riesco a coordinare tutto quello che mi hai trasmesso col tuo bacio. Se voi siete qui significa che vi sono altre scelte.

Sorride sempre, questa donna che non ho mai visto eppure sento di conoscere totalmente.

— Sì, puoi fermarti qui, accogliere altri che scelgono la via e prepararti per ciò che verrà, ma dovrai comunque lasciare il corpo. E prima o poi te ne andrai anche questo luogo. Credo lo farai molto presto, visto che mentre venivi verso di noi hai rifiutato le provocazioni.

— Torna indietro, fermati, retromarcia…

— Esatto. La tua anima aveva deciso e non si è fatta corrompere. Allo stesso modo ha accettato ogni variazione in modo naturale. Tu sei già pronto per la fase finale, ma la scelta deve essere tua.

Mi bacia sulla fronte e se ne va.

Non ci avevo fatto caso, ma pure tutti gli altri sono scomparsi.

Mi hanno lasciato solo apposta. Mi siedo sull'erba aspettando che ogni cosa dentro me si assesti.

Non so quanto tempo sia passato. Mi alzo e mi incammino oltre il villaggio. Il sentiero disegna subito una curva e dietro di me sento il brusio soddisfatto di tutti quanti. Mi fermo.

— Non voltarti, non usare la retromarcia proprio ora. Ricorda che ogni piccola goccia fa ingrossare il mare.

È la sua voce. Sospiro e decido, poi, con uno strappo, riparto.

Verso la luce.


(fine)



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Edoardo Prati


Ero come altri


Ero come altri, ero felice, si partiva per le vacanze, tutti insieme…

L' allegria impetrava libero sfogo e ogni singolo e provato poro della mia pelle emanava una calda felicità agostana.

Ero come altri e come altri non sono più. La coincidenza ha voluto, la coincidenza, disgraziatamente, ha agito. Ero come altri, passavo con l'auto, una Ford nero metallizzato di recente regalatami da mio padre, attraversavo un ponte, esattamente quel ponte, il celebre ponte "Morandi". Urla, strilli, silenzio.

Ero come altri, attraversavo un ponte, il celebre ponte "Morandi", la morte mi ha trovato lì. Allora io mi chiedo: perché vita, perché spingi i tuoi figli sotto l'inesorabile ponte che collega in un denso immaginario fumo l'essere e il non essere più? Perché sul "limitar di Dite" fai esalare l'ultimo affaticato respiro in una nube di panico e orrore? Perché io che ero come altri e non altri che sono come nessuno?

Io in fondo, a malincuore, so perché l'inganno così tanto ti alletta…

Perché solo così ci riesci a ricordare di non fidarsi mai di te.

La tua infamia ci ricorda la tua natura crudele.

Ero come altri e come altri non sono più.


(fine)



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SmilingRedSkeleton


Acqua…


Finalmente le meritate vacanze erano giunte e la famiglia al completo si era precipitata nella più vicina zona di villeggiatura assieme ad altre centinaia di persone. Dopo lunghissime code sull'autostrada rovente erano giunti in vista del mare blu e ora potevano godersi la spiaggia in tutta tranquillità. La figlia maggiore se ne stava appostata al chiosco con il suo costume all'ultima moda, attendendo l'arrivo di qualche giovane interessante, mentre il figlio minore veniva lasciato giocare solo sul bagnasciuga. Aveva 6 anni ormai, era grande. Il padre, arenato su una sdraio all'ombra, era concentrato sui suoi cruciverba mentre la moglie, poco più in là al sole, chiacchierava con un'altra anziana villeggiante.


— I ragazzi?

— Li ho lasciati liberi, così posso averli un po' fuori dalle scatole e rilassarmi.

— Mamma a tempo pieno è? Ricordo ancora com'era… ma ora i miei figli sono tutti cresciuti.

— No no, io lavoro. Mia figlia sta a casa da sola o da amici e il bambino lo lascio ai nonni. È una vera scocciatura quando loro non possono tenerlo, devo sempre stare a cercare qualcun altro!

— E suo marito?

— Lavora ovviamente. Queste ferie ci volevano proprio… — sospirando, la donna strizzò gli occhi per guardare l'orizzonte — oh no! Saranno nuvole da pioggia quelle?! Spero di no, non piove da mesi e non si deve azzardare a farlo proprio ora!

— Un po' di pioggia forse farebbe bene al boschetto che c'è qui vicino — disse per scherzare l'anziana

— Il boschetto può aspettare, la mia vacanza no.


Il pomeriggio trascorse pigro fino a che una piccola ombra si stagliò sopra alla stressata madre. Aprendo gli occhi, vide suo figlio con un'espressione annoiata.

— Mamma! Qui mi annoio, andiamo nel bosco — indicò con il piccolo dito la macchia di alberelli

— No tesoro, la mamma riposa.

— dai! Un po'! Papà ha detto di chiedere a te! Dai dai dai!

In quel momento giunse scocciata anche la figlia, a braccia conserte

— Mà, Pà mi ha chiamata perché facciamo una passeggiata di famiglia… devo proprio?

La donna sospirò. Il bambino non avrebbe più smesso di insistere, lo sapeva, quindi il suo relax era in ogni caso compromesso. Almeno avrebbe rovinato la giornata anche alla ragazza.

— Si devi proprio. Ora mettetevi qualcosa e andiamo.


Poco dopo, la famiglia arrivò all'entrata del triste boschetto. L'unico con un minimo di entusiasmo era ovviamente il piccolo ma non passò molto perché cominciasse di nuovo ad annoiarsi

— Mamma! Perché il bosco è così brutto? Le foglie sono tutte gialle!

— Non lo so tesoro, magari sono fatti così.

— Penso sia la siccità — disse il padre

— E ora cosa sei? Anche l'esperto di alberi?

— Beh… tanti sono secchi, come dovrebbe essere fatto un albero normale ancora lo so, sai?

— Dovete sempre discutere e rompere così? — Sbuffò la ragazza senza staccare gli occhi dal cellulare — Qui prende pure male… e poi perché non siamo andati in una zona migliore? Guardate! Marica ha postato la foto di Ibiza e dice che è bellissima! Perché noi non siamo a Ibiza?

Le lamentele della giovane vennero ignorate e lei tornò a scorrere le immagini di vacanze sempre più belle delle sue. Il bambino intanto, con un ramo in mano, abbatteva le foglie afflosciate e colpiva i tronchi secchi, sperando di spaventare qualche animaletto per poi inseguirlo.

Giunti in cima a una collinetta, tutti si fermarono di colpo. Davanti a loro si estendevano ettari di bosco bruciato. La terra, senza ormai protezione dal sole, era secca e spaccata, mentre gli scheletri anneriti degli alberi si stagliavano nel cielo azzurro come le croci di un cimitero. Nell'aria non si udiva nessun uccello cantare.

— Perché è così? — Chiese il bambino, tentando di avanzare ma prontamente fermato dal padre

— È bruciato… un incendio — nell'aria sembrava aleggiare ancora l'odore di fumo

— Fico — la ragazza si scattò prontamente un selfie con il desolato paesaggio alle spalle — ora torniamo in spiaggia?

— Meglio — sentenziò la madre — tanto qui fa schifo. Uno spreco di tempo.

— Beh, così potrò finire il mio cruciverba prima di sera.


Sulla via del ritorno, il bambino udì un flebile lamento. Si allontanò indisturbato dalla famiglia, per poi cominciare a chiamarla a gran voce

— MAMMA! PAPA'! Qui c'è un signore che sta male!

— Non ti avvicinare a lui! Arriviamo!

I genitori che si erano improvvisamente ricordati dell'esistenza del loro figlioletto, si precipitarono apprensivi nella direzione della voce. La sorella si precipitò molto meno interessata.

Arrivati in una piccola radura, videro il giovane uomo sdraiato a terra, semi ricoperto di foglie secche e rametti, all'apparenza sofferente.

— Tesoro fermo! Non lo punzecchiare con il bastone! — La madre lo afferrò e allontanò

— Signore… sta bene? — Provò il padre

L'uomo si accorse della loro presenza e si mosse leggermente. Indossava solo un indumento che poteva essere un costume da bagno.

— È ferito? Viene dalla spiaggia?

Nel frattempo la figlia documentava la scena con il suo cellulare. L'uomo sussurrò debolmente qualcosa.

— Non sento nulla… — sbuffò il capo famiglia — provo ad avvicinarmi…

Avanzò un po' e si accucciò, non prima di aver preso il bastone del figlio — mi sente?

— Acqua… — la voce era roca. L'uomo rotolò faticosamente su un fianco per rivolgersi ai suoi soccorritori che in tutta risposta saltarono all'indietro gridando. Metà del suo corpo era ustionata.

— Mio dio! Una vittima dell'incendio! Dobbiamo chiamare qualcuno!

— Avete notato… che i rami… sembrano attaccati alla sua testa? Non è che sono infilzati? — Osservò la figlia schifata

— Non dire queste cose! — La rimproverò la madre

— Ma è vero mamma! Guarda guarda! — Il bambino cominciò a indicare e saltellare

— Oddio… — il padre tornò ad avvicinarsi per capire la situazione. I rami secchi non erano infilzati nel cranio… crescevano da esso, come le corna di un cervo. Non era ricoperto semplicemente dal sottobosco, ma foglie e rametti spuntavano dalla sua pelle. Al posto dei capelli, aveva quella che pareva erba secca e sulle spalle c'era del muschio bruciato, come anche sulle gambe nude.

— Acqua… — sussurrò di nuovo — Ho bisogno di acqua… pioggia… ho bisogno di pioggia… — disperata, la creatura cominciò a strisciare verso l'uomo, gli occhi verde spento supplichevoli. Quest'ultimo si affrettò a scappare a distanza di sicurezza.

— Ma che scherzo è questo?!

— Sono bruciato… mi seccherò…brucerò ancora… morirò… — continuò a strisciare — aiuto… — dalle sue corna-ramo caddero quasi tutte le foglie.

— Che effetti speciali! — La ragazza continuava a filmare

— Andiamo via! — Urlò la donna

— Sì…sì… — il padre afferrò la mano della figlia — via… — cominciò a trascinarla e tutta la famiglia fuggì.


Tornarono di corsa alla spiaggia, la sera stava ormai calando. Confusi, andarono a recuperare le loro cose. L'anziana le aveva tenute d'occhio per loro.

— Bella la passeggiata?

La madre rispose distratta — preferisco la spiaggia…

— Ha visto? Il temporale si è allontanato. Non pioverà.

— Meglio…

Andarono all'auto e poi all'hotel. La ragazza controllò agitata il suo cellulare

— Ma! Dov'è il video?! Mamma! È sparito! — Ma venne ignorata.


(fine)



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Daniele Missiroli


Vendetta


1978

Sergio era euforico. La scuola stava per finire e quel giorno era il suo compleanno. Immaginava che il regalo di Sofia fossero le scarpe da calcio che gli piacevano tanto. Di media statura, capelli neri che gli arrivavano alle spalle, teneva la sigaretta sempre in bocca. Spenta se era in classe, così poteva accenderla appena oltre la porta. Nessuno capiva come avesse fatto a mettersi con la più bella bionda della quinta B del liceo scientifico.

Nelle prime ore lei l'aveva ignorato. Quando suonò la campanella dell'ultima ora, tutti i ragazzi si diressero in palestra. Sergio si cambiò in fretta, uscendo dallo spogliatoio per primo. Gli altri arrivarono poco dopo, ma Sofia non c'era. Una ragazza disse qualcosa all'orecchio del professore e lui annuì.

Sergio si avvicinò e le chiese: — Sofia sta male?

— Cose da donne — rispose lei.

Sergio iniziò gli esercizi e non ci pensò più. Poco dopo un compagno di nome Valentino si fece male a un piede. Era un bel ragazzo, di buona famiglia, e Sergio lo invidiava sotto diversi aspetti. Il professore controllò che non fosse grave e gli accordò il permesso di tornare nello spogliatoio.

L'ora di ginnastica stava per finire. Due ragazze ridevano guardando lo spogliatoio. Sergio ebbe un dubbio che gli provocò una fitta allo stomaco. Si diresse verso lo spogliatoio, aprì la porta senza fare rumore e li vide. Valentino e Sofia. Avvinghiati con l'espressione di chi finalmente ottiene ciò che desidera. Sergio restò di sasso.

Valentino alzò lo sguardo e lo vide. Sergio immaginò che si sarebbe fermato, bofonchiando scuse banali, alle quali lui avrebbe prontamente creduto. Invece gli sorrise e continuò a baciare la ragazza. A un certo punto lei sospettò qualcosa, perché si girò. Sergio la guardò, aspettando spiegazioni, ma le parole che sentì lo ferirono ancora di più.

— È lui che amo. Mi sono messa con te solo per farlo ingelosire. Tu non hai creduto sul serio che ti amassi, vero?

— Io… perché no? Stavamo bene insieme.

— Era evidente che ti stavo usando. Infatti, ha funzionato.

— Dai Sergio, non te la prendere — disse Valentino. — Ti perdono per essere stato con la mia ragazza, OK?

— Possiamo rimanere amici — disse Sofia, dandogli una pacca sulle spalle. — Mi servono le tue traduzioni di inglese.

— Certo Sofia, amici — rispose lui, inebetito. — Amici come prima.

Nei giorni seguenti, Sergio non dimostrò alcun risentimento né verso Sofia, né verso Valentino. Sembrava aver superato l'accaduto alla grande.


Arrivò il giorno dell'ultimo compito di inglese. In quella materia Sofia aveva quattro e Valentino cinque. Anche Sergio non era granché, ma lui aveva trovato il modo di risolvere il problema. Riusciva a correggere il compito dopo averlo consegnato alla professoressa, perché lei non li portava a casa. Li conservava nel suo armadietto, nella sala dei professori, e li correggeva nelle ore in cui non aveva lezione.

Quella mattina la vecchia professoressa entrò in classe e distribuì i compiti. Il suo volto era minaccioso come al solito. Si mormorava che avesse fatto sospendere un ragazzo solo perché gli aveva trovato un foglietto. Al termine dell'ora, la donna ritirò i compiti e si diresse verso la sala dei professori. Quando suonò l'ultima campana, Sergio andò in bagno e girò la maniglia di una finestra, lasciandola accostata. Era incastrata e si apriva a fatica. A un controllo superficiale, anche così sembrava chiusa ermeticamente.

Quella sera Sergio andò a giocare a flipper nel bar a un isolato dalla scuola. A mezzanotte fece uno sbadiglio e s'incamminò verso casa. Quando passò davanti alla scuola, si guardò intorno. La strada era deserta. In un attimo scavalcò il cancello. Un cane lo sentì e iniziò ad abbaiare. Col cuore in gola, Sergio si precipitò verso la finestra del bagno. La spinse con forza e quella si aprì! Scavalcò con un balzo il davanzale e fu dentro. Richiuse la finestra e si diresse a passi felpati verso la sala professori. Aspettò che gli occhi si abituassero all'oscurità e raggiunse l'armadietto con i compiti di inglese. Era chiuso a chiave. Molti docenti lasciavano la chiave nella serratura, ma non la megera. Quella del professore di scienze, per esempio, c'era sempre ed era identica. La prese e la usò. Poi afferrò il pacco dei compiti e si stese sul pavimento. Trovò il suo e corresse tre errori, in modo da arrivare a prendere almeno sette. Non li correggeva mai tutti, per evitare sospetti. Chi merita cinque o sei, non può fare un compito perfetto. Poi prese i compiti di Sofia e di Valentino e corresse tutti gli errori imitando la loro calligrafia. Adesso era impossibile assegnare a loro una votazione inferiore a nove. Alla fine Sergio chiuse l'armadietto, ma non rimise a posto la chiave che aveva usato per aprirlo. Invece di uscire, fece poi una corsa fino in palestra. Localizzò l'armadietto di Valentino e fece scivolare al suo interno una bustina di LSD, acquistata il giorno prima. La stessa cosa fece con l'armadietto di Sofia. Poi tornò in bagno e uscì dalla finestra, che lasciò accostata.


Il giorno dopo, durante la terza ora, la porta si spalancò con violenza. I ragazzi videro entrare il preside, seguito dalla professoressa di inglese e da un bidello. Il preside calmò l'improvviso brusio con una mano e disse: — Valentino Rimondi e Sofia Baletti si alzino in piedi.

I due ragazzi si guardarono in faccia l'un l'altro ed eseguirono la richiesta. Il preside li fissò, accigliato. — Seguitemi! — disse.

Quando furono tutti in presidenza, fece sedere i ragazzi, poi prese dei documenti dalla scrivania e disse: — Voi avete l'insufficienza in inglese, ma i compiti che avete fatto ieri sono perfetti. Come lo spiegate?

I ragazzi non capivano quello che stava succedendo e rimasero in silenzio, allibiti.

— Abbiamo trovato una chiave falsa nell'armadietto della professoressa e una finestra aperta. Siete entrati di nascosto questa notte e avete corretto i compiti!

Valentino, di fronte ad accuse così precise e assurde, trovò la forza di dire: — Non siamo stati noi.

Sofia si mise a piangere. Qualcuno bussò. Il bidello aprì la porta ed entrò un secondo bidello. Aveva due bustine in mano. Le consegnò al preside e gli sussurrò qualcosa in un orecchio.

— Siete anche degli spacciatori? — urlò il preside, incredulo.

I ragazzi furono espulsi. Evitarono la prigione solo perché non c'erano prove che fossero stati proprio loro a commettere i reati di cui erano accusati. La notizia finì su tutti i giornali.


2018

— Come si sente, figliolo?

— Non ci vedo, lei è un prete? Che cosa è successo?

— Ha avuto un incidente. La sua auto si è ribaltata ed è stato sbalzato fuori, finendo contro il filo spinato di questo campo.

— Mi fa male lo stomaco.

— Una delle sbarre di sostegno le è entrata nell'addome, purtroppo, e sta perdendo molto sangue.

— Perché non ci vedo? È tutto annebbiato.

— Può capitare quando si prende un forte colpo in testa.

— Se sto morendo, voglio confessarmi.

— Veramente io…

— Lei non può rifiutarsi, padre! Quarant'anni fa ho commesso un'azione molto cattiva nei confronti di due miei compagni e voglio chiedere perdono a Dio.

Sergio, perché di lui si trattava, raccontò all'uomo che lo aveva soccorso tutto quello che aveva fatto ai tempi della scuola.

— Non ho saputo più nulla di loro, ma sono pentito, padre. Mi dia l'assoluzione.

— Non posso dartela, Sergio, mi dispiace.

— Perché non può? Lei deve darmela, sono pentito!

— Per Sofia, essere espulsa e finire sui giornali con l'accusa di spacciare droga fu un colpo durissimo. Cominciò a prendere dei sonniferi, finché un giorno… ne prese troppi e non si svegliò più. Aveva solo vent'anni.

A quelle parole Sergio si coprì il volto, singhiozzando.

— Mi dispiace, mi dispiace tanto… se solo avessi immaginato… Ma lei come fa a sapere queste cose? E come fa a sapere il mio nome?

— Davvero non hai capito?

— Non è possibile! Tu… tu sei Valentino!

— Siamo stati sposati per sei mesi prima della tragedia. Io non sono un prete, sono un medico.

— Valentino… perdonami Valentino, sono pentito. I soccorsi stanno arrivando? Hai chiamato l'ambulanza, vero?

— Sono io l'ambulanza e sto già compilando la tua scheda.

Ora dell'incidente: 22:30.

Ora del decesso…


(fine)



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Lodovico


Felinità


(questo racconto si era auto-escluso dalla Gara perché l'autore non aveva votato nessuno dei concorrenti, tuttavia era la prima Gara della nuova serie e non tutti gli autori avevano compreso appieno il regolamento. In redazione abbiamo particolarmente apprezzato questo testo e ci pareva un peccato escluderlo dall'ebook).


IERI.

Aurora arrivò al bivio. Rimase per dieci minuti lì ferma, massaggiandosi il mento con la mano e l'espressione indecisa che le confondeva il volto. Guardò a destra, poi si morse leggermente le labbra. S'immaginò dietro l'angolo un'immensa gelateria con le pareti di cioccolato bianco e meringa. Si leccò le piccole labbra rosate, sorrise e quasi si decise a svoltare. Ma poi ci ripensò. Spiò sulla sinistra e sognò un'altalena. Sentì il cigolio della catena ripetersi nei timpani deliziati, il fruscio delle scarpe che scorrevano sulla terra bruna e pensò alla meraviglia di danzare sul seggiolino spinta dal vento. Desiderava un gelato alla fragola, enorme, con il goloso cono di cialda e una vorticosa spirale rossa al centro. D'altra parte la attirava anche l'idea di un eccitante giro in giostra. Si sedette imbronciata al centro del viale con le ginocchia incrociate, poi si alzò di scatto e iniziò a camminare freneticamente avanti e indietro a dimostrare tutta la sua indecisione e il timore di compiere un imperdonabile errore. Aggrottò la fronte e si fermò. Sbuffò, si gettò sconfitta sulle foglie secche e guardò i brandelli di nubi che nascondevano il sole cocente. E le strade la chiamavano, la interrogavano e la tentavano. La gelateria a destra e l'altalena a sinistra. La gola e il brivido. Il gusto e l'emozione. E se una delle due strade avesse nascosto insidie? Se nel suo peregrinare avesse incontrato un drago o uno stregone malvagio? Del resto, nella sua mente di bambina, tutto sarebbe stato possibile.

Il gatto, grigio come l'asfalto, la osservava da tempo. Con quello sguardo indifferente come solo i gatti sanno essere. Aurora vide il movimento. Una zampa cenerina passava davanti alla lingua e poi dietro le orecchie dell'animale. La mamma le diceva sempre che, quando i gatti si lavavano così, a breve la pioggia sarebbe arrivata. Maledetta bestiaccia. Niente giostra, niente gelato se avesse iniziato a piovere. Il movimento di Aurora fu lento, lentissimo. Sarebbe scappato, altrimenti. Gli occhi verdi dell'animale la fissavano, attenti. La bestia estese le zampe posteriori per alzarsi e allontanarsi da quella bambina dagli occhi fiammeggianti. Fu troppo tardi. Il sibilo del bastone sembrò rompere il silenzio perfetto della campagna. Un fiotto di sangue sorprendentemente rosso uscì dalle narici del gatto per finire a terra a creare un piccolo lago. La testa del felino penzolava di lato, in una posizione innaturale. Tutto il suo corpo grigio si rattrappì con un movimento isterico. Aurora, il bastone insanguinato saldamente in mano, il respiro affannoso, il sorriso trionfante, lo sovrastava. Con un calcio lanciò il corpo dell'animale morente tra l'erba alta a fianco della strada.


OGGI.

La donna si sveglia in un mare di sudore. La notte la avvolge nella sua coltre nera come la morte. È successo di nuovo. Prega di non vedere ciò che si aspetta. E invece è lì. Le dita appiccicose le si avvolgono sul viso. Sente sulle guance il tiepido sentore del sangue e quell'odore dolciastro che ha già provato tante volte. L'ombra vicino a lei è immobile, praticamente invisibile nel buio della stanza. Non è necessario vedere, sa benissimo cosa si trova sotto quelle lenzuola macchiate. E sa cosa dovrà fare, come le altre volte, come sempre.

È difficile trovare un luogo adatto. Il bosco è fitto, in quel punto. Un luogo nuovo, ogni volta. Porta, faticosamente i sacchetti fino al bordo dello strapiombo e poi giù, lontano dal lei, lontano dalla sua mente, ma fino a quando? Dieci sacchi, circa sette chili l'uno. Dividere il corpo dell'uomo in modo quasi uniforme è, per lei, ormai diventata quasi un'arte. Pochi tagli nella carne ben distribuiti le permettono, ogni volta, di ottimizzare i pesi.

L'automobile la sta aspettando al bordo del bosco. Osserva il sedile posteriore. Niente sangue. Meglio delle altre volte. E ora deve semplicemente dimenticare. Come sempre.


IERI.

Aurora lasciò che, a decidere, fosse la sorte. L'unica moneta che aveva in tasca brillò mentre saltava verso il cielo e poi si faceva guidare dalla forza di gravità di nuovo sulla terra. Testa. Il gelato la aspettava dietro la curva della strada di destra, dove i rami delle piante, illuminati dal sole, disegnavano ghirigori incomprensibili. La bambina era convinta che fosse una scrittura, a lei sconosciuta, con cui il sole le voleva comunicare i suoi segreti. Calpestò le ombre con passo svelto mentre si dirigeva verso il gelato alla fragola, che la attendeva impaziente di essere leccato da quella lingua bambina.


OGGI.

L'entrata del bar è sovrastata da un neon invadente che sporca di rosso il marciapiede davanti a lei. Le gambe, finalmente libere dalle coprenti calze d'inverno, brillano sotto la minigonna. Incerta sugli alti tacchi apre la porta e si sente osservata. Si sente sempre così, sempre.


IERI.

Aurora non comprò il gelato. Semplicemente perché, alla gelateria, sempre che esistesse davvero, Aurora non vi arrivò mai. Era pigra, Aurora, tanto. L'automobile si fermò al suo fianco. La carrozza da principessa che l'avrebbe portata alla dolce tentazione. L'uomo era pacioccone, gentile, la tipica persona di cui non ci si dovrebbe fidare. Ma il dolce era lontano e i piedi della bambina in fiamme. Salì, se ne pentì, o forse no. Le mani dell'uomo erano forti e indiscrete, i riflessi dei bambini sono veloci. Non ne bastò una. La testa di un uomo, scoprì Aurora, era molto più dura di quella di un gatto. Due, tre, dieci bastonate, ma, alla fine il corpo pacioccone non respirò più. Il viso dell'uomo si confuse con quello del gatto, che si confuse con quello dell'uomo in un'umana felinità e in una felina umanità. Le era passata la voglia di gelato. Aurora sarebbe andata a casa, in fondo l'ora di cena non era così lontana.


OGGI.

Il profumo dozzinale le violenta le narici. Un fremito che conosce bene, troppo bene le attraversa il corpo morbido e desiderabile coperto solo di una canottiera di seta e di una minigonna. Sente salire l'eccitazione dalle gambe, il cuore le scaraventa fiotti di sangue fino al cervello. Si volta verso l'uomo che le sta parlando. Lo vede. Né gatto né uomo. Peloso. Le lunghe vibrisse incorniciano un naso rosa perso nel grigio come un'isola nell'oceano. Né uomo né gatto. Sfiora il rigido e pesante manganello celato nella borsa di corda. La voce maschile si trasforma, nella mente della donna in un suono felino.

— Ciao, bella, che fai stasera?

— Ho capito, bella, vuoi che ti accompagni a casa? Magari prima beviamo qualcosa.

— A proposito, come ti chiami? Io Marco.

— Aurora, che bel nome!

— Miao, Miao, Miaooooooo…


(fine)


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