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E
Regolamento delle Gare…
Roberto Bonfanti
Namio Intile
Marino Maiorino
Messedaglia
Domenico Gigante
RobertoBecattini
Alberto Marcolli
Giovanni p
Nuovoautore
FraFree
Andr60
Stefano M.
sezione 15
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presenta


Il circo

e gli altri racconti


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ebook della Gara letteraria stagionale d'estate 2022


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Ebook della Gara letteraria stagionale d'estate 2022


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: si apre il sipario.


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


Nota: la classifica qui pubblicata fa riferimento al periodo in cui si è svolto questo concorso. Se dalla pubblicazione dell'ebook a oggi qualche iscritto al sito ha cancellato il proprio account, le graduatorie odierne potrebbero differire.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara letteraria saranno pubblicati in un  ebook gratuito.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Roberto Bonfanti

(vincitore della Gara d'estate, 2022)


Il circo


Il direttore scambiò uno sguardo d'intesa con la donna barbuta, che stava alla cassa, poi raggiunse il centro della pista, illuminata da un occhio di bue. Era un ometto la cui statura superava di poco i tre piedi, ma l'alto cilindro rosso, il frac dello stesso colore, ornato di galloni dorati, oltre a un bel paio di baffi a manubrio, gli davano un'aria amichevole e autoritaria allo stesso tempo.

Guardò lo scarso pubblico seduto sulle tribune, nella penombra del tendone. Si chiese quanti di quegli spettatori avessero pagato l'ingresso con un cesto di mele o un sacchetto di pannocchie, quindi fece il suo annuncio.

— Signore e signori, benvenuti al Circo Baum. Siamo lieti della vostra presenza, cercheremo di ripagarla con spettacoli di equilibrismo, clown, animali feroci e altre meraviglie. Vi auguro buon divertimento, che lo show abbia inizio!

Qualche timido applauso accolse l'ingresso di due pony e un frisone da tiro, con uno scimpanzé sul dorso che faceva capriole, saltando da un cavallo all'altro, mentre questi trotterellavano in cerchio, controllati da un domatore munito di frusta.

Poi fu la volta del trapezista, assistito dalla sua aiutante. Volteggiò leggero nell'aria, fra avvitamenti e doppi carpiati, anche se, per ben due volte, mancò l'appuntamento col trapezio e cadde nella rete di protezione, sbagli sottolineati dagli "oooohhh" del pubblico.

Subito dopo entrò la ballerina, sulle note del Lago dei cigni, diffuse da un grammofono. Il suo numero non era mai fra i più apprezzati e, anche quella sera, ci furono fischi e risatine di scherno dagli spalti. Lei non se la prese più di tanto, ormai era abituata al grossolano gusto di quei rozzi spettatori. Concluse il suo balletto e lasciò il posto ai clown che, al contrario, riscossero il solito successo.

Sotto la tenda calò il silenzio quando entrò la gabbia del leone. Il domatore lo fece uscire e iniziò la sua esibizione. La belva obbedì in maniera impeccabile ai comandi, perfino i suoi ruggiti, che strapparono qualche urlo alle signore presenti, sembravano studiati a effetto. Il numero culminò con l'uomo che mise la testa fra le fauci spalancate del leone e ce la tenne alcuni secondi, mentre gli spettatori trattennero il respiro per la tensione, fino al liberatorio applauso finale.

Anche Iron Jack, il forzuto che piegò sbarre di ferro e strappò catene a mani nude, piacque molto.

Numero dopo numero arrivò il gran finale, con tutti quelli che si erano esibiti a sfilare in una specie di parata, accompagnati dalla marcia suonata da una piccola banda di ottoni; quasi nessuno rimpianse il prezzo del biglietto.

Quando gli spettatori se ne furono andati il direttore radunò gli artisti sulla pista. Fece loro i complimenti per la riuscita dello spettacolo e non risparmiò qualche frecciatina al trapezista.

— Non eri molto concentrato stasera, vero Ray? Forse hai bisogno di esercitarti di più e…

— Non è stata colpa mia! — ribatté l'altro — È quella stupida! — sbraitò, indicando la sua aiutante — Mi ha lanciato male il trapezio. Ma cosa ne vuoi capire tu, mezza cartuccia?! — e uscì dal tendone, infuriato.

— Ehi, ma come ti permetti? — disse il forzuto — Torna subito qui e chiedi scusa al direttore! — e fece per seguirlo, ma il nano lo fermò.

— Lascia perdere, Jack, lo sai com'è fatto, è un tipo che prende fuoco facilmente. — poi si rivolse agli altri — Grazie a tutti, signore e signori. Forza, andate a riposare adesso.

Gli artisti non si fecero certo pregare, erano stanchi e agognavano qualche ora di sonno ristoratore.

Gli ultimi a lasciare la pista furono il direttore, la ballerina e Miss West.

Miss West, la chiromante, era arrivata da poco nel circo e quasi tutti non la vedevano di buon occhio. Leggeva le carte e il futuro in una piccola tenda vicino all'ingresso principale ed era inseparabile dalla sua scimmia, che teneva sempre al guinzaglio, come un cagnolino. Ai più stava antipatica, qualcuno, in confidenza, ammetteva di averne paura.

Quella sera si rivolse alla ballerina: — Cara, permetti che ti accompagni.

— Oh, non deve disturbarsi signora, conosco bene la strada.

— Nessun disturbo, — replicò lei — anzi, mi farebbe piacere chiacchierare un po' con te.

Al direttore non sfuggì la pantomima della chiromante e le rivolse un'occhiata severa. Quella non se ne curò e, presa la ballerina sottobraccio, uscì con lei nella notte.

Passarono accanto alla gabbia del leone che dormiva già, la scimmia diventò nervosa e recalcitrante, Miss West dovette strattonarla con il guinzaglio per costringerla a proseguire.

— Brrr, quella bestia! È spaventosa! — esclamò.

— Il leone? Ma no! — disse la ballerina — È un cucciolone affettuoso. Quando è in scena deve fare la belva feroce, ma in realtà è molto timido, anzi, spesso ha paura di tutto, anche della sua ombra. Guardi lei stessa, come ronfa placido, non sembra un gattone che fa le fusa?

— Mah, sarà… e che mi dici di Jack? È davvero forte come sembra?

— Sì, lui è un vero fenomeno. Dovrebbe vederlo quando spacca la legna con l'accetta, sotto il sole, i suoi possenti muscoli, lucidi di olio e sudore, mandano dei riflessi metallici, come se fossero d'acciaio; io credo che sia per questo che si fa chiamare Iron Jack.

Le due donne, parlottando del più e del meno, arrivarono alla casa della ballerina.

Una volta entrate, Miss West si guardò intorno. La roulotte era agghindata come la camera di una bambina, con tende rosa alle finestre e bambole di porcellana sul comò. Esaminò alcuni oggetti, una bottiglietta di profumo, una spazzola per capelli, una spilla dorata, tutta una chincaglieria che trovò squallida e di poco valore.

— Ti ho visto ballare stasera, te la cavi bene per una della tua età — disse la chiromante, quasi con noncuranza, mentre l'altra si sedette sul letto, sfinita.

— La ringrazio per il complimento, signora. Ha ragione, mi esercito tanto e spero di migliorare, sa, sono ancora così giovane.

Miss West si lasciò cadere su una sedia e la fissò, sbigottita.

— Sei… ancora… così giovane…

Poi la sua espressione si sciolse in un sorriso che, a occhi meno ingenui di quelli della ballerina, sarebbe sembrato un ghigno sarcastico: — Già, è proprio quello che volevo dire.

La ballerina sbadigliò: — Mi scusi, Miss West, starei volentieri a parlare con lei, ma sono davvero molto stanca. Le dispiace se mi stendo un po'?

— Ma certo, cara, fai pure.

L'altra non sentì neanche la risposta, si addormentò di colpo sul letto, vestita e con le scarpe ai piedi.

Proprio quelle scarpette d'argento attirarono l'attenzione della chiromante; le osservò a lungo, con uno sguardo di cupidigia. Poi cercò di sfilarne una, ma, appena sfiorata, la gamba della ballerina si contrasse in uno spasmo e così, temendo di svegliarla, lei desistette dal suo intento rapace e decise di andarsene.

Prima di farlo, però, con uno strattone, fece cadere il velo che oscurava un grande specchio davanti al letto, guardò soddisfatta la sua immagine riflessa e uscì, trascinando con il guinzaglio la scimmia che si attardava a scrutare, curiosa, il suo doppio.

Alla luce della luna piena, nascosto nell'ombra di un carro, il nano vide Miss West lasciare l'abitazione della ballerina e dirigersi alla sua roulotte. Le diede qualche metro di vantaggio e poi si mise a seguirla, con passi cauti e silenziosi.

Rapido salì i pochi gradini della casa mobile e, mentre lei chiudeva la porta d'ingresso, la bloccò con un piede ed entrò.


Il sole era già alto quando gli artisti, radunati per la colazione intorno a un grande tavolo sotto la tenda, sentirono urla e forti rumori provenire dalla roulotte della ballerina. Poco dopo lei li raggiunse, sconvolta e furibonda, con le nocche insanguinate e il tutù di scena che indossava la sera prima.

— Perché non me l'avete detto? Perché? — urlò più volte, fino a perdere la voce.

Tutti abbassarono la testa, imbarazzati e incapaci di sostenere il suo sguardo. Toto, il clown, era il più triste. Sotto l'occhio sinistro aveva una lacrima dipinta, ma quella volta pianse davvero. Da sempre era innamorato della ballerina, anche se la sua passione, mai espressa né ricambiata, col tempo si era trasformata in un affetto più simile a quello di un fedele animale domestico per una padrona volubile e disattenta. Ora, a quei sentimenti, se ne aggiunse un altro: la pietà.

Lei rimase ancora un po' davanti a loro, in piedi, con i pugni serrati, tremante di rabbia, a mimare con le labbra mute quella domanda, poi uscì dal tendone.

Più tardi, nel pomeriggio, il nano andò a cercare la ballerina, la trovò seduta nella sua veranda. Si issò sulla sedia a dondolo, la fece oscillare due o tre volte mentre lei fissava un punto lontano all'orizzonte.

Finalmente si decise a parlarle: — Sai, Miss West se n'è andata.

— Andata?

— Sì, stanotte mi ha confidato di voler partire. L'ho aiutata a prepararsi un bagno caldo, poi è sparita, non so dove sia adesso.

— Oh… — disse lei, con tono distratto. Era troppo impegnata a compatire se stessa per preoccuparsi davvero per le sorti di qualcun altro.

— Ha lasciato il suo cappello e la scimmia. Secondo me ora dovresti occupartene tu.

— Ma io non voglio quell'animale pulcioso!

— Va bene, come vuoi, ma prendi almeno il cappello, prima o poi potresti scambiarlo con qualcosa di più utile.

La ballerina sembrò valutare quella proposta, poi cambiò discorso.

— Frank, c'è una cosa di cui non abbiamo mai parlato…

— Ti ascolto — disse lui, anche se immaginava dove volesse andare a parare.

— Quando sono arrivata qui a Emerald, in treno, cercavo qualcosa e mi lasciavo alle spalle qualcos'altro, come tutti. Quel giorno ero piena di speranze per una nuova vita, anche se non sapevo cosa avrei fatto e cosa ne sarebbe stato di me. Quando ormai eravamo quasi arrivati in città, il convoglio si fermò poche centinaia di metri prima della stazione, il capotreno ci fece scendere e disse che era successa una disgrazia: una donna era finita sotto le ruote di ferro, non si è mai saputo se si era trattato di un incidente o di un suicidio. Più tardi scoprii che la poveretta ballava nel circo accampato appena fuori dall'abitato.

— Sì, mi ricordo di quel fatto, fu un vero colpo per tutti noi.

— Ecco, io pensai che poteva essere la mia occasione, da bambina avevo studiato danza e così venni a propormi come ballerina per rimpiazzare la vecchia. Tu accettasti subito, forse perché non avevi altra scelta.

— Ricordo anche questo, ti assunsi perché eri brava.

— Già, be', insomma, io ero poco più che una ragazzina e tu eri esattamente come sei adesso, tanto che fino a oggi ho sempre pensato che tutto questo fosse successo solo pochi mesi fa. Ma ora… solo ora mi sono resa conto di quanto tempo è passato.

Il direttore la guardò e le rivolse un sorriso triste.

— Per me sarai sempre la mia piccola Dorothy.

Lei scosse la testa, come se quell'idea le fosse fastidiosa, poi riprese: — Mi sono chiesta tante volte per quale motivo siamo ancora qui. Un circo dovrebbe spostarsi, andare in altre città, noi non lo facciamo mai, perché? Anche la gente che viene a vederci mi sembra sempre la stessa o, almeno, si assomigliano tutti.

— Eh, sì, hai ragione, potremmo smontare il tendone, caricare tutto sui carri, viaggiare per un giorno o due, accamparci in una nuova periferia e ricominciare daccapo.

— Esatto, è proprio quello che intendo.

— Vedi, un tempo io ho viaggiato molto, pensa che sono stato anche in mongolfiera.

— In mongolfiera? — disse lei, stupita.

— Sì, ma non è questo granché. Comunque, ho capito che alla fine tutto il mondo è come questo posto, perché darsi tanto da fare per andare in un altro luogo e scoprire che non c'è niente di diverso, sarebbe inutile, non trovi?

Rimasero per qualche minuto in silenzio, poi lui scese dal dondolo con un piccolo balzo agile e le chiese: — Sei con noi stasera?

Lei non rispose e il nano lo prese per un sì, quindi tornò dagli altri, mancavano poche ore all'inizio dello spettacolo e voleva controllare come procedevano i preparativi.

Il sole ormai basso all'orizzonte proiettò la sua figura su un lato del tendone del circo.

La ballerina pensò che era quasi ingiusto che un uomo così piccolo possedesse un'ombra tanto grande. Poi, con un sospiro, rientrò nella roulotte per vestirsi e truccarsi. Cominciò a farlo con gesti svogliati e meccanici, ma ben presto si accorse che lo specchio rotto le rimandava un'immagine di sé molto più gradevole di quella che l'aveva spaventata al mattino. Le rughe intorno agli occhi si mimetizzarono nelle frammentazioni del vetro, il grottesco plié deformato dall'artrite ritrovò grazia ed eleganza nel mosaico delle mille e mille schegge, le stesse sulle quali i tratti del rossetto volteggiarono come piume di un uccello di fuoco risorto dalle sue ceneri. La sua figura spezzettata e ricomposta tornò ad assomigliare a quella che, nella sua mente, aveva coltivato in quei lunghi anni.

Piano piano riacquistò quel poco di fiducia in sé stessa che le permise di allontanare dai suoi pensieri gli orari dei treni, sui quali aveva rimuginato per tutto il giorno.

Ma qualcosa dentro di lei si era spezzato per sempre e, non appena lasciò la sua nuova gemella nello specchio frantumato, si ritrovò sola, con la sensazione di aver sprecato la sua vita, proprio come al mattino. Sulle prime aveva pensato a un incantesimo di quella strega di Miss West, poi aveva dovuto arrendersi all'evidenza: la verità era tutt'altra, assai più difficile da accettare.

La ballerina uscì sulla veranda della roulotte e si soffermò a osservare il cielo. Nella luce incerta del crepuscolo vide dei nuvoloni neri, carichi di pioggia, che si addensavano in lontananza. Sperò che il temporale portasse un tornado capace di trascinarla via, lontano dal circo e da quel polveroso Kansas.


(fine)



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Namio Intile


Il fiore amaro dell'ailanto


Don Raimondo fece capolino nel giardino percorso dalla fresca brezza mattutina.

— Voscenza s'abbenerica — lo ossequiò l'anziano giardiniere, con una levata di berretto e una reverenza di capo.

Il grembiule gli scendeva fino ai piedi come una veste talare e lui, già magro e sfilato di suo, pareva ancor più secco di una canna al vento.

— Don Peppino — lo salutò il principe, mentre un gesto veloce provava a sistemare la bionda cresta leonina.

— Propiu 'na bbedda jurnata di suli, eccellenza —  rispose, e già aveva ripreso a sforbiciare, nel tentativo di metter ordine nelle fitte siepi di pittosforo.

— Peccato 'unn arrinesca a scaldarici puri 'u cori a la genti — fece di rimando don Raimondo.

— Voscenza, 'u suli curpa 'unn'avi — sentenziò don Peppino.

Il principe si adombrò, il cielo azzurro smarrì l'incanto e riprese a essere il muto testimone che sempre era stato.

— Siamo infelici e malinconici, eternamente insoddisfatti, e sempre alla ricerca di qualcosa, che tuttavia sfugge: guardate —  e indicò gli intonaci del palazzo quasi del tutto sbriciolati dalle intemperie e dall'incuria. — Hanno visto tutto: eretici e autòs da fé, apostoli e annunciazioni, rivolte e impiccagioni, restaurazioni, repubbliche, re e imperatori; cento conquistatori e tutte le lingue e le illusioni del mondo — mormorò, con l'amarezza di chi le sue illusioni le aveva già viste tutte svanire.

— Voscenza tuortu 'unn'avi. Rassignati semu e 'ndiffirenti.

— E con la segreta voglia in corpo di farla finita — aggiunse il principe, ma sottovoce, nel timore che, per quell'ardire, si potesse abbattere su di lui uno strale della collera divina.


Don Raimondo Montecateno, ultimo dei principi di Leonforte, di antica e illustre discendenza catalana, era il perfetto prodotto di secoli di iattanza coscienziosa e di noia spensierata.

Alto, magro, occhi azzurri come il cielo e bello come il sole, nutriva per la vita un sentimento tragico; abitava, come i suoi antenati da innumerevoli generazioni, il palazzo di famiglia, nei vicoli oramai sudici dell'Albergheria; una cupa costruzione spogliata, dal trascorrere del tempo e dal disinteresse degli uomini, dei segni dell'antico splendore.

Quelle pietre avevano conosciuto tutta l'arroganza e i privilegi di secoli di ladronerie e di sprechi di quell'orrenda razza spagnola che aveva messo in ginocchio l'isola, e tutto lo sfarzo e il lusso che la nobiltà siciliana sola conosce. Ma dell'antico fulgore non era rimasto nulla, oltre a pareti spoglie, e nulla dell'immenso patrimonio; dissipato dal bisavolo per la causa separatista fin dai tempi del Comitato Rivoluzionario di Ruggero Settimo, dal nonno tra tavoli da gioco e ballerine francesi, dal padre in folli spedizioni archeologiche alla ricerca della biblica arca di Noè.

— La pazzia abita a casa Montecateno — salmodiava la nonna di don Raimondo, quando questi era ancora nicuzzu e nel suo siciliano litaniava stanze stanze: — 'A fuddìa è 'na bbuttana, ca si suca 'a robba nostra e puru li figghi. Però a mmia 'un mi futti, 'sta bbuttana!

Ma donna Eleonora non aveva fatto eccezione, e aveva terminato i suoi giorni sbavando rabbiosa dentro una cella spoglia del convento delle carmelitane scalze di piazza della Kalsa.

— La pazzia è figlia di quest'isola assolata — ricordò a sé stesso don Raimondo, che seguiva il filo invisibile dei suoi pensieri nel tentativo di scongiurare, con un motto originale, un destino, a suo sentire, ineluttabile.


Un giorno, durante la quotidiana partita a scacchi col farmacista Consales, mentre sorseggiava un bicchierino di acqua e zammù all'ombra del gigantesco ailanto che sovrastava il giardino, don Raimondo s'animò: — E se la causa della prostrazione del popolo siciliano, la sua incapacità di guardare al futuro, non dipendessero dall'indolenza, come voi sostenete, dottor Consales? Se la causa della miseria del nostro popolo non risiedesse nel susseguirsi ininterrotto di gioghi stranieri, com'è invece convinto monsignor Agrusa? Se queste fossero solo le conseguenze e non la causa? Se ciò che impedisce ai siciliani di partecipare ai capovolgimenti storici che affannano il mondo sia l'immensità stessa della natura e la vastità del tempo? — Domandò, e abbozzò un sorriso unito a un'alzata di occhi al cielo, come se dovesse ringraziare il Padreterno per quella magnifica intuizione.

E dopo averci a lungo riflettuto spostò il cavallo nero alla destra dell'alfiere bianco, sopra la scacchiera sulla quale i Montecateno si vantavano avessero giocato un'epica partita il viceré Caracciolo e l'abate Meli.

Ogni volta il principe concentrava la sua attenzione sul baluginio di un'idea, la inseguiva, la sviluppava, finiva per innamorarsene e, infine, l'abbandonava.

— Il siciliano, a differenza degli altri europei — continuò con la sua voce calda — percepisce la vacuità dell'essere uomo.

E arroccò il re alla destra della torre.

— E riconosce fondato e vero il solo governo della natura e della necessità degli eventi; eventi dei quali si sente attore o comparsa, a seconda dei casi, giammai regista. Da questo sentimento scaturisce la nostra incapacità di costruire la nostra storia senza ricorrere a un aiuto esterno. Poiché non riusciamo a concepire il corso degli eventi umani come un'entità controllabile e assoggettabile a nostro piacimento. Di conseguenza, ci adattiamo alla realtà e perciò la subiamo; i siciliani si destano solo per necessità, per causa di forza maggiore, e infatti quando ciò accade essi si sollevano con la furia dei Titani, come durante i Vespri, o al tempo di d'Alessi, di Ruggero Settimo o al tempo dei Fasci, quando l'unità nazionale mostrò il volto aspro della colonizzazione. I siciliani vedono intorno a loro, tutti i giorni sin dalla nascita, le magnifiche e diseguali vestigia di millenni di dominazioni straniere: nelle strade, nei palazzi, perfino nei loro stessi nomi o nel colore della loro pelle o dei propri occhi. Allora, è chiaro come ci appaia vera non la lotta contro il barbaro, contro il diverso, contro l'altro ma, al contrario, quella perpetua contro la durezza della natura, contro questo cielo maledetto, sempre azzurro e assetato.


Con don Raimondo, nell'immenso palazzo di famiglia, vivevano la madre, donna Teresa, e la sorella Marianna, frutto, si era mormorato a suo tempo, di una relazione incestuosa tra donna Teresa e il fratello, il duca Ignazio La Grua.

Il padre di don Raimondo, Jaime, partito molti anni prima, non aveva più fatto ritorno da quell'ultima spedizione sull'Ararat, e si favoleggiava vagasse ancora nelle steppe dell'Asia centrale alla ricerca di un favoloso tesoro da tutti dimenticato.

Donna Teresa, a dispetto della sua apparenza minuta, era una donna forte e mostrava ancora nel viso, sotto l'aspetto severo e triste di chi cerca in tutti i modi di sopravvivere alla rovina della propria casa, i segni di un'antica bellezza.

La figlia Marianna, più giovane di don Raimondo, non era bella: aveva un viso lungo e scarno dal colorito pallido su cui dominavano occhi cerulei un po' obliqui e sporgenti, e uno sguardo inquietante, ardente, come di chi sia divorato da una oscura e indicibile sofferenza.

Nonostante ciò non mancava di un certo aristocratico, e sottile, fascino tale da non lasciar rimpiangere quella mancanza di avvenenza.

Marianna viveva ritirata, come fosse stata reclusa, prigioniera di quell'antica magione priva ormai di mobilia, con gli splendidi affreschi e gli antichi arazzi quali unici ornamenti, vittima consapevole di una colpa non commessa, rassegnata a vivere una vita al margine serrata tra quelle mura che, pur appartenendogli, non sentiva sue.

Trascorreva le sue giornate in una sorta di clausura, da monaca di casa, dedicandosi in silenzio al ricamo e alla creazione di ricercati motivi decorativi per completi di lenzuola e di tovaglie, ogni giorno infelice eppur serena. Sottomessa di carattere, non chiedeva altro se non di far felice la madre e servire il fratello, di cui riconosceva non tanto la superiorità intellettuale quanto la superiorità del sangue; perché egli era — lui sì! — un Montecateno, l'ultimo vero erede di secoli di storia.

Quel magnifico passato li schiacciava e li rendeva incapaci di cogliere il presente; perciò essi avevano rinviato ogni decisione, l'intera loro vita, a un futuro che avesse potuto uguagliare ciò che era stato e perciò non sarebbe giunto mai.

Erano questi gli ultimi Montecateno.


Tuttavia, tra i cespugli variopinti del giardino, come all'interno dei giganteschi saloni ormai vuoti se non per qualche consòlle o étagère sopravvissuta alle urgenze dei creditori, in mezzo ai tanti libri rimasti, don Raimondo godeva di una condizione di particolare tranquillità, essendo l'unico e ultimo discendente maschio di una gloriosa e illustre casata, e quindi il legittimo depositario di tutte le cure e le attenzioni di cui la madre e la sorella lo facevano oggetto e monumento.

Il nostro Raimondo, lo chiamavano entrambe, ed esse vivevano unicamente per lui, e le loro residue speranze le avevano riposte in lui. Era loro compito permettergli di vivere sereno, di non fargli mancare mai nulla e di condurlo a un buon matrimonio che avrebbe permesso loro di risalire la china. Un sogno coronato dall'arrivo di un erede maschio in grado di far sopravvivere, almeno per un'altra generazione, un'altra ancora, il nome illustre dei Montecateno.

Purtroppo per loro don Raimondo non si dava cura di nulla, si sentiva un poeta e un filosofo, e le sue occupazioni consistevano nel leggere e nello scrivere.

E non scriveva, a parte qualche raro articolo sul Giornale di Sicilia  — e per cui rifiutava con sdegno i sia pur minimi compensi — che per sé stesso, fermo nell'invincibile convinzione che nulla di quanto producesse fosse degno di essere ricordato.

In sostanza, non si preoccupava di nulla e non aveva nulla di cui lamentarsi; era stato dispensato dalla vita e poteva vivere nell'oblio contando sul lavoro della madre e della sorella, le quali si affannavano tutto il giorno solo per lui consumando dita e occhi su trame e orditi.

E donna Teresa, in fondo al cuore consapevole della inadeguatezza del figlio, sapeva bene che, al di là dei sogni e delle speranze, a segnare un confine tra la sopravvivenza e la sventura vi era solo il suo impegno; e soltanto grazie al lavoro suo e della figlia — sapeva — poteva conservare la speranza: di salvare loro stessi e centinaia di anni di storia dalla rovina.

Con non pochi sforzi era riuscita a farsi una buona clientela nelle ricche dame della nuova aristocrazia palermitana, quella del denaro e non del sangue.

Grazie a donne viziate e arroganti, che non potevano fare a meno delle tovaglie e delle lenzuola ricamate dalle nobili mani delle principesse Montecateno di Leonforte, donna Teresa aveva tenuto in piedi la famiglia, e aveva esercitato il suo ruolo con dignità e coraggio.

E dei frutti di questo coraggio don Raimondo godeva e si avvantaggiava.


Il principe amava trascorrere quelle giornate d'inizio estate con una passeggiata lungo la vecchia via Toledo, da Porta Nuova giù fino al Teatro del Sole e poi lungo via Maqueda ad arrivare fino alla via d'Alcalà e alla Villa al Mare: per poi tornare e riposare nel grande giardino del palazzo di famiglia. E così ogni pomeriggio si stendeva in una poltrona di vimini all'ombra del maestoso ailanto, piantato secoli prima dal suo avo Guglielmo Luigi III, che ricopriva ogni angolo col frutto rossastro dei suoi rami, innalzandosi prepotente a sfidare il cielo e a occultare il sole, e si addormentava. E non poteva fare a meno di pensare quanto, in fondo, la vita somigliasse a quell'albero: così alto e spavaldo da sostenere il cielo coi suoi rami, sotto i quali si godeva di frescura e quiete, ma i cui frutti, così belli a vedersi, erano tanto amari da esser velenosi.

In quel sereno angolo di mondo, nascosto alla vista e riparato dalle intemperie del clima come dalle angustie degli uomini, don Raimondo viveva senza fatica, com'era giusto forse per chi poteva vantare nel proprio albero genealogico una mezza dozzina tra cardinali e viceré, e dimenticava il presente ricordando il passato e ignorando il futuro.

Aveva soldi a sufficienza per i suoi sigari, per qualche libro che lo interessava e per altri piccoli desideri; vestiva con eleganza, la sorella Marianna gli dedicava ogni cura possibile, per cui usciva sempre in perfetto ordine, col vezzo del bastone da passeggio e del grande panama bianco. E tutto questo, in definitiva, gli bastava.

— Cosa contano le ricchezze del mondo, se si possiede tutta la virtù necessaria? — Si rivolgeva alla sorella, fiero di sé.

Di tanto in tanto, per svagare la mente e allenare il corpo, svolgeva qualche commissione per la madre: forniture di materiali o, più spesso, consegne di lavori già terminati o acquisizioni di nuovi ordini.

E questa, col passar del tempo, era divenuta quasi un'occupazione, dato che le ricche signore dell'alta borghesia panormita adoravano vedersi recapitare i loro pacchi dal colto e sensibile principe di Leonforte in persona; al quale, tra teneri indugi e finti svenimenti, finivano per rivelare i loro travagli o gli affanni di cuore a cui i loro mariti, padri e fratelli, non avevano tempo, o voglia, di porgere orecchio.

Don Raimondo, pertanto, sebbene vivesse con due donne, era solo perché non ne aveva alcuna. Tuttavia qualche volta, tra un pensiero sublime e un'armonica visione, ci pensava seriamente a prender moglie; ma sentiva che quella strada gli fosse, in qualche modo, preclusa: era come se, avendo già una famiglia, non avesse alcun diritto a crearsene un'altra.

La sorella viveva per lui, la madre lo proteggeva, da tanti era apprezzato e anche la gente del quartiere non mancava di cercarlo per consigli di ogni genere. Eppure don Raimondo, a volte, sentiva prepotente la mancanza di un qualcosa, o di qualcuno. E quel qualcuno, sempre più spesso, si materializzava nei suoi pensieri e nei suoi sogni nelle fattezze di una donna: una donna solo per sé, una donna in grado di amarlo con la medesima profondità con cui lui sentiva il mondo.

Naturalmente era consapevole che, per prender moglie, fosse necessaria una certa, seppur minima, indipendenza economica. E così a un certo punto, spinto dal desiderio di raggiungerla, dalla necessità del guadagno, per la prima volta in vita sua si attivò per trovare un'occupazione qualsiasi che gli fruttasse anche un po' di denaro.

Grazie alle conoscenze di monsignor Agrusa trovò un non ben specificato impiego da svolgere presso gli uffici cittadini della segreteria del P.N.F. Si trattava di un lavoro che non richiedeva alcuna particolare capacità e, pertanto, si adattava perfettamente alla sua indole. Don Raimondo non sapeva fare nulla, e perciò pensava di saper far tutto, e peraltro, illuso dalle proprie fantasie, egli era disposto anche a far di tutto.

E così, pur vantandosi di essere uno spirito libero e un anarchico stavroghiniano (sic!), lavorò con entusiasmo per il partito fascista e arrivò a dirigerne, da solo e a tempo pieno, la locale sezione.

Divenne infaticabile, si occupò della propaganda, delle iscrizioni dei nuovi tesserati, del bilancio e delle attività sociali, come delle esercitazioni militari degli avanguardisti e, il sabato, dell'adunata fascista.

Scoprì di avere delle discrete attitudini ginniche e instaurò un profondo rapporto cameratesco con la squadra di picciotti che aveva formato.

Ogni domenica li conduceva in gita nei dintorni di Palermo, li portava a marciare per i campi, in montagna, lungo le spiagge, declamando i versi di Byron e di Shelley; in mezzo a tanto fervore e dedizione al partito, impegnato com'era a esercitare le maschie attività cameratesche, la sua insoddisfazione sembrò placarsi.

Ma la pace ebbe breve durata.

Don Raimondo, spinto da un impulso irrefrenabile ad agire acuito dall'astinenza, prese a frequentare il bordello di vicolo Villanueva, e lì si scoprì di appetiti insaziabili; ma quel sesso sfacciatamente esposto e comperato, come pesce al mercato, mal si adattava al suo temperamento, e ciò gli procurò, a lungo andare, un vago senso di vuoto e di soffocante inutilità che, dopo qualche tempo, lo spinse in un vortice di penosa depressione e perenne disistima di sé.

Accadde più o meno in questo periodo che don Raimondo avesse organizzato, con i suoi picciotti, una gita in bicicletta a Cefalù, con pernottamento all'addiaccio. Così, al termine di una faticosa e calda giornata di fine primavera, il principe ebbe la ventura di condurre l'intera maschia brigata di adolescenti all'assalto di un bordello dentro l'abitato della cittadina.

Alla testa di un manipolo di eroi irruppe nella casa e, nel comico tentativo d'imitare il principe di Montenevoso, si animò: — Suggete il sacro effluvio di queste bbuttane, o miei arditi!

Incitate le sue schiere, tiratosi giù i calzoni fino alle caviglie, prese a inneggiare le rime del Vate, tra grida di donne e lo stupore dei legittimi avventori, e seminò il panico, in violazione di tutte le leggi che regolavano il meretricio nelle case di tolleranza.

L'avvenimento ebbe larga eco in provincia, quasi uno scandalo, non tanto per il fatto in sé — ben poca cosa in realtà — ma proprio perché fu il principe a condurre lo sconclusionato assalto al bordello.

Il partito gli tolse ogni incarico senza far rumore e don Raimondo si ritrovò, da un giorno all'altro, di nuovo disoccupato, a consegnare pacchi per la madre e a scriver poesie che nessuno leggeva.

Le sue stranezze aumentarono e sia la madre che la sorella riconobbero i primi sintomi della malattia che per generazioni aveva ammorbato i Montecateno.

— Che hai Raimonduzzu? — Lo coccolava donna Teresa, con le lacrime agli occhi.

E lui, senza distogliere lo sguardo dal vuoto, rispondeva: — Chi guarda in faccia la disperante Necessità impazzisce, e l'unica salvezza è l'ebbrezza o il sogno.

Donna Teresa capì.

L'estate passò e don Raimondo parve essersi un'altra volta chetato, lentamente, come le onde del mare che, dopo giorni di tempesta, abbandonano le rive da poco conquistate; ricominciò a frequentare con assiduità il bordello di vicolo Villanueva: di donne, però, di donne vere, nemmeno l'ombra.

E sì che, avendo ripreso a consegnare pacchi per la madre, non gli mancavano certo le occasioni per fare delle belle conversazioni col gentil sesso; ma nulla sfociava poi in qualcosa di concreto.

Non che le donne  — le donne vere s'intende — non lo gratificassero, anzi forse lo facevano in modo eccessivo a causa della sua capacità di leggere i sentimenti altrui.

Riscuoteva tanta di quella fiducia tra di loro da non potersi permettere, per paradosso, di avvalersi dei suoi diritti di maschio, prigioniero del ruolo di intimo confidente, comprensivo, sicuro, affidabile, al quale si poteva rivelare, senza pena e senza timore, ogni affanno e ogni peccato e ricevere in cambio considerazione e consigli.

Questa condizione, seppure in qualche modo lo premiasse, lo consumava ogni giorno un po' di più, perché conosceva ogni segreto di donna, ma non poteva comportarsi da uomo vigoroso qual era.

Ma a quella condizione, un bel dì, decise di non rassegnarsi.

Informò la madre della sua decisione irrevocabile: — Prendere moglie! Una qualunque donna. Purché sia tutta mia, solo mia — precisò, con quel piglio militare appreso quando dirigeva la sezione del P.N.F. di Salita Ramirez.

E donna Teresa, ancora una volta, supinamente l'assecondò, nella speranza che una moglie avrebbe placato i furori del figlio e allontanato lo spettro della malattia dei Montecateno; ma nel profondo convinta a tenerselo in casa folle piuttosto che vederlo legato a una donna qualunque.

— La moglie d'un principe di Leonforte deve essere patrizia — si confidò un giorno con la figlia. — Una delle ragazze Alliata certo, o può darsi una Torrearsa, o magari una Lanza di Scalea — perché temeva, se così non fosse stato, che il sangue di viceré e cardinali si sarebbe mischiato col fango.

Sulle sue povere spalle di vedova gravava la responsabilità di settecento e più anni di storia.

La voce che don Raimondo volesse prender moglie corse silenziosa per la città, ma nessuna nobile pretendente al titolo di principessa di Leonforte si fece avanti, in molte, certo, allettate dal titolo, ma di più spaventate dai debiti.

Marianna soffriva in silenzio, com'era sua abitudine, per la madre e per il fratello che vedeva, giorno dopo giorno, scivolare verso un destino del quale percepiva l'inesorabilità, e di cui lei si sentiva, per qualche oscura ragione, causa.

Quasi dipendesse solo da lei il poter fare qualcosa, come se solo in lei fosse riposta l'unica possibile soluzione.

Dal canto suo don Raimondo continuava a scrivere, a consegnare pacchi, e a dare segni di squilibrio.

Una mattina, andato a prendere un ordine per una tovaglia ricamata, gli aprì la porta la padrona di casa.

Era una bella donna sui quarant'anni, florida, dalla carnagione fresca e dagli occhi lucenti e maliziosi, ed era avvolta solo da una eccitante vestaglia, che lasciava intravedere più che nascondere, presaga di inimmaginabili lussurie.

Al principe sembrò che il sangue gli prendesse fuoco nelle sue stesse vene, e fu sopraffatto dal desiderio, e da una indicibile collera al pensiero che quella donna così meravigliosa non fosse sua, ma di qualcun altro.

Sentì ribollirsi d'ira, come di chi non riesce più a tollerare la presenza di un odiato nemico.

Vide schiere di eroici antenati sfilargli innanzi con le else insanguinate, a incitarlo all'azione, alla violenza; sentì la forza di mille anni di rapine e di stupri irrigidirgli i muscoli, si sentì un Ares trasfigurato.

Lanciò un'occhiata insieme feroce e lasciva alla donna, si aprì i pantaloni, con un gesto quasi di sfida, e rimase immobile a fissarle gli occhi scuri.

La donna lanciò un urlo.

Nessuno seppe nulla di quanto accadde: la ricca signora tacque la violenza subita, forse per paura, forse perché, in fondo, appagata dell'esser stata causa di tanto virile furore.

Tuttavia, in qualche modo, donna Teresa venne a sapere dell'accaduto.

Informata, senza l'omissione dei particolari più osceni, donna Teresa, per la prima volta in vita sua, ebbe una reazione furibonda: nulla poté salvare don Raimondo dalla sua ira e dai suoi rimproveri e, a malincuore, anche dal disappunto della sorella.

Dopo quel fatto il principe si avvolse ancor di più in sé stesso, prese a non uscire di casa, rifiutò ogni forma di comunicazione; si negò agli amici che andavano a trovarlo, chiuso in un ostinato mutismo, come se ogni parola fosse divenuta di colpo incapace di esprimere l'abisso che aveva dentro, e il silenzio solo fosse in grado di esprimere quanto provava.

Immobile, sdraiato sopra il letto, ascoltava muto le invettive della madre: — Rimminchionitu. Fimminaru! Quale demone avete dentro, voi Montecateno? — Imprecava disperata, stanca di difendere il figlio insieme al suo nome.

Marianna lo osservava di nascosto, all'apparenza imperturbabile e silenziosa; socchiudeva appena i grandi occhi innocenti e piangeva, senza farsi notare.

Il suo Raimondo non le parlava più, non discuteva più con lei, non rispondeva, stava supino nel letto, vinto dall'indifferenza, perso in cosmici pensieri, amante non amato, ossessionato e consumato da un'estasi amorosa che non trovava sfogo.


Trascorsero un paio di settimane, don Raimondo li visse in uno stato di torpore cosciente in cui rifiutò ogni presenza umana eccettuata quella della sorella che, con incredibile pazienza e senza cedimenti, lo aveva vegliato, imboccato come si può fare con un bambino o con un malato, perché riconosceva nel proprio fratello la malattia di cui lei stessa era parte e colpa: la malattia dei Montecateno.

Don Raimondo la fissò riconoscente, muto, distolse appena gli occhi azzurri dai suoi per cercare il cielo al di là della finestra, screziato da nuvole cremisi illuminate dall'ultimo sole delle corte giornate d'autunno.

E tra le nubi immagini di giovani donne si rincorrevano e si dissolvevano, spazzate dal vento, per poi tornare con tutte le tonalità cangianti del vermiglio e del vermiglione del tramonto novembrino.

Intento a seguire aeree figure femminili carezzò la delicata mano di Marianna e, mentre il pallido viso di lei si riempiva di lacrime, egli avvertì la presenza, la morbida fragranza, della sorella che, silenziosa e leggera come una libellula, senza mai lasciare la sua mano, s'infilava nel suo letto.

Udì un profondo sospiro e si sentì prendere come da un'ondata d'inebriante calore.

Guardò il cielo, ormai scuro, e gli parve che le fronde alte del gigante che dominava il giardino, cariche di delicati germogli vermigli, muovendosi al vento avessero avvolto l'intero palazzo in un abbraccio modulato e voluttuoso.

Chiuse allora gli occhi senza riuscire a stabilire se stesse fantasticando ancora o se infine, non stesse per cogliere il frutto amaro dell'ailanto.


(fine)



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Marino Maiorino


L'orologio


Per il suo compleanno, Claudio aveva chiesto al nonno di scegliere un orologio, il che aveva fatto immenso piacere all'anziano vedovo: il nonno di Claudio amava gli orologi e, pur non essendo un collezionista, aveva sempre trovato il segnatempo giusto per ciascun membro della famiglia, quando se n'era presentata l'occasione.

Il papà di Claudio aveva ricevuto il suo per il primo giorno di lavoro: un cronografo dalla notevole precisione, di molto superiore a tante "ciabatte" (così il nonno chiamava la maggior parte dei costosissimi orologi blasonati che riempivano le inserzioni sulle riviste patinate) in commercio, e che si adattava benissimo allo scrupoloso carattere del neo-ingegnere.

La zia di Claudio, invece, ne indossava sempre uno da taschino, ma lo portava al collo come fosse un amuleto portafortuna, attaccato a un cordino di cuoio. La cassa era in argento, decorata con sottili trame di filigrana, sì che non era necessario aprire l'orologio per leggervi l'ora. La donna, una pittrice di una certa fama, teneva quell'oggetto come preziosissimo, e sapeva realizzare arditissimi abbinamenti del proprio già estroso abbigliamento pur di mostrare in pubblico quella gioia, che fosse a una mostra o per sbrigare una commissione. Senza dubbio il miglior abbinamento l'aveva fatto proprio il nonno di Claudio, trovando quell'orologio per l'artistica figliola.

Anche la mamma di Claudio ne aveva ricevuto uno, per le sue nozze: aveva la cassa di un bianco opalescente, madreperla, con solo due lancette, e senza segni per le ore o i minuti. Si ricaricava col movimento, il che lo rendeva praticamente eterno, e sul retro della cassa recava inciso l'enigmatico disegno di una cicogna dalle ali spiegate.

Claudio aveva osservato spesso questi oggetti fin da piccolo, e ciò che se ne diceva in famiglia aveva instillato in lui il desiderio di possederne un giorno uno, come se ricevere quel tipo di regalo dal nonno fosse una specie di rito di passaggio, l'accesso al mondo degli adulti della famiglia. Era perciò stato quasi per un istinto naturale che, giunto alla maggiore età, il giovane aveva chiesto quel presente.

Per soddisfare il desiderio del ragazzo, l'anziano aveva dato appuntamento al nipote giù in città, al centro, presso un negozio che era noto per essere il più fornito dell'intera provincia, se non oltre. Era ben strano che il nonno, che normalmente bazzicava robivecchi e rigattieri, gli avesse indicato proprio quel negozio: lì erano esposti Swatch e Rolex, Tissot e Citizen, chincaglierie giapponesi "al quarzo" (il nonno gli aveva spiegato che il "quarzo" di quei primitivi dispositivi digitali non aveva nulla a che vedere col minerale, ma con un piccolo elemento elettronico capace di generare impulsi con grande precisione) dei marchi ormai démodé Seiko e Casio, giocattoli per bambini come i coloratissimi Zitto; c'era persino tutto un bancone di cineserie dove per un prezzo ridicolo era possibile trovare repliche estremamente verosimili di tutte le marche più alla moda, di fatto prodotti scartati dalle catene di montaggio di quelle marche alla moda per un minimo difetto, la maggior parte delle volte puramente estetico come un graffio, una cassa dal colore alterato, un'imperfetta doratura…

Il negozio era lungo una di quelle sciccose e pedonali vie del centro dove mai Claudio avrebbe immaginato di veder passeggiare il nonno, così serenamente modesto e totalmente immune al vano richiamo delle firme e della moda. Quanto poco sapeva delle interminabili partite a calcio durante le quali un ragazzino di settant'anni prima aveva mandato in frantumi più d'una di quelle vetrine, oggi antiproiettile. Quanto poco immaginava che, con un pallone al piede, quel non più ragazzino avrebbe tirato ancora contro quelle vetrate per lo stesso identico gusto di spaventare a morte e far infuriare qualcuno di quegli spocchiosi bottegai del centro! Da ragazzino sarebbe scappato a rotta di collo per i vicoletti più stretti e a questa età, con le vetrate infrangibili, che avrebbero potuto dirgli? Un sorriso malizioso gli si vergò sulle labbra.

Claudio gli venne incontro con la gioia che ogni nipote prova nel vedere il nonno e lo abbracciò con affetto. Un impulso di timidezza lo spinse a chiedere: — Nonno, ma sei sicuro? Questo posto è un po'…

— Che c'è, non posso fare un bel regalo a mio nipote? — rispose il nonno. — Guarda che qui hanno di tutto, non solo quelle ciabatte con le quali ci assillano tutto il giorno, così puoi scegliere bene!

Claudio fu rincuorato da quelle parole ed entrarono.

Era uno di quei negozi ostentatamente moderni, senza nemmeno una porta: si passava direttamente dal marciapiede all'interno accolti solo dal gelido benvenuto dell'aria condizionata dietro la nuca. Gli onnipresenti sensori di prossimità interrompevano con la loro inconsistente, trasparente sorveglianza, uno spazio altrimenti aperto alla contemplazione delle belle volte in pietra del '500 che sovrastavano le pareti celate alla vista da vetrine luminose e scintillanti. Un addetto si fece loro incontro rompendo la monotonia di un pomeriggio che non doveva averlo visto accudire molti altri clienti.

— Posso aiutarvi in qualcosa? — chiese affettato.

— Mio nipote — il nonno pose una bella palmata protettiva sulla spalla di Claudio, — vorrebbe scegliere un orologio. Ci faccia vedere qualcosa — disse con malcelata intolleranza. Credeva quel giovanotto di poter consigliare il nipote meglio di lui?

Passarono così tre quarti d'ora facendosi passare sotto gli occhi ogni tipo di dispositivo atto alla misurazione del tempo: dagli ultimi smartwatch Apple ai cronografi meccanici e automatici più ricercati, con movimenti di Luna e pianeti o con due semplici lancette "come quello della mamma", disse Claudio, del più tradizionale e inossidabile acciaio o con la cassa in ceramica o pietra esotica.

Il mondo dell'orologeria si era reinventato molte volte inseguendo le mode del momento, in un mercato dove i nomi più prestigiosi battevano tutte le strade possibili per lasciare indietro una concorrenza che riusciva in capo a pochi mesi a recuperare divari d'immagine apparentemente incolmabili. Ogni tanto qualche nome scompariva per essere sostituito da altri più innovativi, per ricomparire con altro management e altra ispirazione, per affermarsi come fenice che rinasceva dalle proprie ceneri, per la scommessa di un miliardario romantico e nostalgico, per un più triste canto del cigno. Tutto un mondo, tutto un universo stava dietro al frenetico ticchettare di quelle lancette, il che rese davvero difficile la scelta di Claudio.

Il commesso fu estremamente cortese: sapeva dove lavorava e, per una volta, accudì alle richieste di clienti realmente interessati, che capivano cosa chiedevano. Il nonno di Claudio non parlò molto ma accompagnò ogni pezzo proposto con eloquenti espressioni degli occhi: questo era troppo démodé, quello troppo ricercato, quell'altro eccessivamente minuzioso, un quarto ancora inutilmente costoso (di fatto, il suo unico pregio), l'ennesimo una balordaggine ecologista che nulla aveva a che vedere con la funzione di orologio… Ma anche se l'anziano non avesse dato prova così evidente delle proprie opinioni, Claudio avrebbe espresso esattamente le stesse considerazioni, come se tra i due vi fosse un comune sentire, finché il commesso non propose loro un articolo del quale non sembrava in un primo momento troppo convinto.

— Cassa di acciaio rodiato, quadrante semplice, color blu petrolio, solo una linea cromata ogni cinque minuti, due lancette, datario, bracciale in acciaio anallergico, vetro zaffiro… — Non disse nemmeno il nome del fabbricante, offrì l'orologio a Claudio che guardò con rinnovata curiosità quell'oggetto del tutto anonimo, soprattutto dopo la sfilza di pezzi assai più quotati già scartati.

Claudio se lo passò tra le dita, allargò il bracciale e se lo pose al polso: calzava bene e non pesava eccessivamente. L'accostò all'orecchio mentre il commesso continuava a sciorinare dettagli insignificanti come la preziosa scatola in sughero e il fazzoletto in microfibra per la pulizia… Claudio cercava di ascoltare e quel tipo non sapeva che inventare per convincerlo; perché non stava un secondo zitto? Il nonno dovette capire dall'espressione del nipote il suo desiderio e si pose l'indice in verticale sulle labbra fino a toccare la punta del naso; il commesso tacque.

— Prendo questo! — esclamò Claudio, convinto.

Fu tutto un sollievo per il commesso, che assunse in un istante un'espressione molto più rilassata, mentre attaccò col copione per la preparazione delle confezioni. "Lo impacchetto?" "Di che colore la carta?" "La garanzia dura tre anni  — come qualunque altro oggetto di largo consumo, pensò Claudio — ma se fa quest'assicurazione che costa il doppio dell'orologio, glielo ripariamo gratis per cinque!" Il nonno e Claudio uscirono dal negozio nel minimo tempo possibile.

L'anziano studiava in viso il nipote che sembrava abbastanza soddisfatto. — Sembra che ti piaccia! E credo che tu abbia scelto bene.

— Grazie, nonno. In effetti non hai parlato granché, e questo mi ha messo un po' in difficoltà — rispose il ragazzo.

— E perché? Te la sei cavata benissimo! Però ora vorrei sapere come mai tra tanti hai scelto proprio questo e non un altro. Ce n'erano molti davvero vistosi!

— Perché questo monta lo stesso ingranaggio di quello di papà — rispose Claudio. — Hanno cambiato la cassa, tolto le lancette, apparentemente questo è un orologio comune, ma dentro batte lo stesso meccanismo ultrapreciso che c'è in quello di papà. Mi sorprende che non lo sapessi.

— Sì, lo sapevo. Volevo vedere se tu lo sapevi, o se avevi scelto quest'orologio per un qualche altro motivo tuo: voi giovani siete così difficili da capire! Ma dimmi allora, a cosa ti serve tanta precisione? Sei un po' diverso da tuo padre, non pensavo apprezzassi la sua ossessione per queste cose!

— Infatti, alle volte la trovo eccessiva — rispose il ragazzo. — Ma un orologio così preciso durerà più a lungo, cosa che non si può dire di tanti altri che ci ha mostrato il commesso, e a me piacerebbe tenere a lungo questo tuo ricordo.

Il nonno restò sorpreso, compiaciuto, e sorrise come rasserenato. — Grazie, è un bel pensiero!

Si avviarono verso casa insieme, e Claudio chiese: — Però, nonno, e tu? Sai che non ho visto mai il tuo orologio?

L'anziano fece una strana smorfia di dolore, l'angolo dell'occhio si strinse brevemente e tornò ad aprirsi. Era lucido.

— Eh! — sospirò. Tirò leggermente in su la manica della giacca e della camicia, un bell'esemplare figlio di un tempo nel quale la meccanica di precisione era arte più che ingegneria si stringeva intorno al polso dell'anziano, ma il vetro era in pezzi, e solo una lancetta segnava il quadrante.

— Nonno, ma è bellissimo! Che gli è successo? — chiese Claudio.

— Questo è il regalo che mi fece tua nonna, e il motivo per il quale mi sono appassionato a questi oggetti. Al ricevere la notizia che tua nonna ci aveva lasciato l'orologio mi cadde dalle mani, e non ho mai voluto ripararlo.

— E come fai per sapere l'ora? — chiese ancora il ragazzo.

— Questo è più facile di quel che sembri, guarda! — rispose. Prese la lancetta, la piegò verso l'alto, mise il polso in orizzontale alla luce del sole, traguardò la posizione dell'ombra della lancetta sul quadrante e sentenziò: — Sei e mezza! — lasciando il nipote a bocca aperta.

— Vedi, tu hai scelto il tuo orologio perché durasse il più a lungo possibile, e hai fatto bene. Ti auguro che possa durare tutta la vita! Ma il mio orologio durerà per sempre, perciò non ho bisogno di ripararlo o cambiarlo.

— Sì, ma quando il cielo è coperto? — osservò Claudio.

Il nonno sorrise. — Il sole splende sempre, anche se non lo vedi, anche col cielo coperto. Ma conta davvero sapere in quale istante esatto ti trovi? O non è più importante sapere che il sole c'è? Il mio sole splende sempre, anche se non lo vedo.

— Volevi molto bene, alla nonna? — chiese Claudio, che solo allora si affacciava a quel tumulto che comporta il provare sentimenti per un'altra persona. Vedere negli occhi del proprio nonno la solidità di quei sentimenti, anche a distanza di anni dalla mancanza della nonna, l'aveva impressionato immensamente.

— No, Claudio. Io l'amo ancora, come lei ama me. Ricorda: il sole splende sempre, anche se non lo vedi.

— È bello, così! — considerò Claudio.

— Sì, è bello — Sfregandogli con le nocche i lunghi capelli castani, il nonno l'abbracciò sorridendo.


(fine)



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Messedaglia


Artù e Lancillotto


Nikolajewka, 26 gennaio 1943


Dopo aver perso il conto delle giornate passate senza riuscire a ingurgitare nemmeno un tozzo di pane, stanotte una famiglia russa ci ha offerto qualche patata arrosto da mangiare e persino una stanza dove riposare. All'alba abbiamo ripreso la marcia verso est, con l'obiettivo di uscire dalla sacca in cui ci hanno rinchiuso i russi. Nonostante le terribili privazioni a cui ci costringe questa maledetta guerra, mi sento così di buon umore che ho persino voglia di parlare e di scherzare.

— Pietro, le ultime settimane sono state a tal punto… intense, che non siamo più riusciti a terminare la discussione che avevamo iniziato a dicembre a Builowka.

Il capitano mi guarda in modo strano, sembra che stia cercando di ricordare l'oggetto del dibattito, — Ah sì, ora rammento… —  Il suo volto si contrae in quella che pare un'espressione di compatimento. — Edoardo, è davvero dura estirpare in te certe assurde e vuote convinzioni. Mi hai citato alcuni personaggi del passato che sarebbero, a tuo dire, dei paladini della libertà… —  Nel proferire tali parole, alza in modo teatrale le braccia al cielo. — …prodi di valore e di purezza d'animo senza pari, uomini che giammai si sono piegati alle avversità della vita e che, al contrario, hanno plasmato a loro piacimento il destino dell'umanità! Vediamo un po', se ricordo bene, l'ultimo valoroso di cui stavamo parlando era Riccardo Cuor di Leone. La parola 'valoroso', come se con la sua pantomima non mi avesse già dileggiato abbastanza, viene pronunciata con particolare enfasi. Pietro, sempre caustico nei suoi commenti, non cambierà mai.

— Sì, ma quando siamo stati interrotti dall'ennesimo attacco aereo russo, avevi già provveduto a demolirne la figura. Non ho bisogno di sorbirmi la litania per una seconda volta. E dire che, considerando il suo rapporto di odio — amore con il padre Enrico II, credevo ti stesse simpatico… Proviamo con un altro, che ne dici di Spartaco? Di certo sei ferrato sull'argomento, pertanto non mi dilungherò nei dettagli storici. Pastore tracio della tribù dei Maidi, prestò servizio nell'esercito romano, per poi disertare e darsi alla macchia. In seguito, fu fatto schiavo e destinato a combattere come gladiatore. Esasperato dalle condizioni disumane in cui versava, fuggì con un manipolo di schiavi, diventando il promotore prima e l'indiscusso capo poi di una rivolta che, per alcuni anni, mise Roma a dura prova, fino alla battaglia decisiva nei pressi del fiume Sele, in Lucania, dove fu trucidato da, si racconta, un numero soverchiante di legionari. Molti autori concordano nel giudicarlo un ottimo stratega, dotato di notevole forza fisica e coraggio, oltre che di carisma e d'intelligenza non comuni… Chiaro, questa è la versione della storiografia tradizionale, che probabilmente a tuo giudizio è poco attendibile, se non volutamente falsata.

— No, ti sbagli. Premesso che, in ambito storico, le verità oggettive non esistono, a eccezione forse di quelle fattuali e comprovate, ritengo che quanto mi hai esposto sia una ricostruzione abbastanza verosimile della saga dello schiavo ribelle.

Accolgo con sospetto il termine saga, in aperto contrasto con il tono generale delle sue parole. Come spesso accade, non riesco a cogliere fino in fondo i messaggi che Pietro vuole trasmettermi. — E quindi? Mi stai dicendo che, almeno per Spartaco, ciò che penso di lui non è l'opinione di un ingenuo, di un esaltato che si fa abbindolare da tutto ciò che, in qualche maniera, gli conferma le idee bacate che ha in testa?

Vedo le sue labbra incresparsi in una smorfia di compiacimento, ho come l'impressione che si stia sforzando di trattenere una risata. — Non spostare il centro del discorso, stiamo parlando di Spartaco, non di te… Torniamo all'epopea del gladiatore tracio e concentriamoci per il momento sui fatti storici. Come mi raccontavi, era un soldato che aveva disertato e che era stato poi catturato e condannato a combattere nelle arene romane. Ci sono prove di ciò? No, assolutamente no. Ma supponiamo pure che sia stato un legionario, cosa tutta da dimostrare. Non essendo romano, non avrebbe avuto accesso ai gradi superiori dell'esercito, e quindi sarebbe potuto diventare al massimo un ufficiale subalterno. Quindi, da dove nasceva la sua grande abilità strategica e tattica? È come se qua in Russia, tutto d'un tratto, un sottotenente fosse in grado di stabilire i piani di attacco e di difesa dell'intera Armir. Una capacità innata? Mah… I gladiatori, poi, espertissimi nel combattimento individuale, non avevano la preparazione necessaria per affrontare una battaglia campale. Dotati di armi quali reti, tridenti, spade spesso più lunghe del gladio e come tali inefficaci negli scontri ravvicinati, cosa avrebbero potuto fare contro i fanti pesanti delle legioni romane? Scusa, quando ho giudicato verosimile la ricostruzione che hai fatto prima, sono stato un po' troppo generoso, oltre che frettoloso. Certo, magari è andata proprio così. O forse no. Chi lo sa? In fin dei conti penso che conoscere la verità non sia nemmeno così importante.

— Va bene, si tratta di dettagli secondari ai fini della nostra analisi. Ma non potrai negare che Spartaco si sia battuto fino alla morte per i diritti degli oppressi, che volesse a tutti costi estirpare la schiavitù dal mondo di allora.

— Edoardo, Spartaco, così come gli altri schiavi del suo tempo, molto più prosaicamente si batteva solo per la propria, di libertà. Il gladiatore ribelle voleva tornare in Tracia da uomo libero e vendicarsi delle angherie subite dai romani, non certo riportare la giustizia sulla terra. E peccato che spesso venga taciuto che, per realizzare i suoi fini personali, abbia sottoposto la Campania e la Lucania a ogni tipo di violenza, stupro, massacro. E poi, ciliegina sulla torta, il suo è stato definito da alcuni intellettuali, in totale malafede, come 'il primo caso esemplare di lotta di classe nell'antichità'… Qua in terra di Russia Spartaco è considerato un eroe leggendario, sai? Molto più che nel resto dell'Europa e del mondo. Già, lui, il protocomunista per eccellenza… Io, più che del comunismo, anche per la sua collocazione geografica, oltre a quella temporale, lo reputerei invece un antesignano di quei briganti che, dopo l'unità d'Italia, misero a ferro e fuoco il nostro meridione.

Tiro un profondo sospiro. Vorrei controbattere, ma so che sarebbe del tutto inutile. — Cambiamo soggetto, vediamo se hai qualcosa da ridire pure su Carlo Magno… Non solo i suoi successi in campo politico e religioso sono inoppugnabili ma, alla fine del XII secolo, fu addirittura canonizzato dall'antipapa Pasquale III…

— …Peraltro, più per ripicca nei confronti del legittimo pontefice che per presunti meriti terreni. La sua canonizzazione creò infatti un certo imbarazzo in ambito cristiano, data la sua vita privata non esattamente irreprensibile e la brutalità delle sue campagne militari, e fu dichiarata nulla dal concilio lateranense. Anche in questo caso, in realtà, più per spregio della Chiesa scissionista che per altro.

— Sì, ma poi fu confermata da papa Gregorio IX.

— Vero, misteri della fede… Comunque, su una cosa concordo con te, i suoi successi politici e militari sono innegabili. Dopo Alessandro il Macedone, a cui, non a caso, è accomunato dall'epiteto Magno, è stato probabilmente il più grande conquistatore di sempre. Tanto che, nei secoli successivi, fu un susseguirsi di scontri tra fazioni che se ne disputarono l'eredità morale. Per lungo tempo, nel corso del medioevo, fu considerato un santo e un eroe tedesco mentre, a partire dal dodicesimo secolo, fu il turno della dinastia capetingia a volere la propria parte di gloria, facendo di tutto per francesizzarne la figura…

Un sobbalzo della slitta, dovuto verosimilmente a un dosso, mi riporta d'improvviso alla tragica realtà che stiamo vivendo. Intorno a me una massa di sbandati, soldati italiani, rumeni, ungheresi e tedeschi non più in grado di combattere, si trascina faticosamente nella neve. Le speranze di salvarci sono ormai ridotte al lumicino, siamo pecore smarrite in una steppa infestata da lupi feroci… L'unico appiglio che mi rimane sei tu Pietro, la tua calda voce dona sollievo al mio cuore.

— …Ai tempi delle crociate fu eletto patrono della lotta contro l'Islam. Nelle successive lotte tra potere temporale e spirituale, Federico II rimarcava che Carlo Magno aveva sottomesso al suo volere il papa, laddove Innocenzo III puntualizzava che era stata la Chiesa a proclamarlo imperatore. In sintesi, Carlo Magno costituiva un archetipo sia per i guelfi che per i ghibellini… Qualche fantasioso autore fiorentino del XV secolo gli attribuì persino il ruolo di 'liberatore dell'Italia', alludendo al fatto che avrebbe distrutto la monarchia longobarda. Un sillogismo alquanto estroso… In seguito, fu considerato un precursore dell'Umanesimo e del Rinascimento. Nel XVII secolo funse da ispiratore della monarchia assoluta ma poi, alla vigilia della Rivoluzione francese, divenne un modello per riformatori e fisiocratici. Per fartela breve, Edoardo, praticamente da sempre tutti i partiti, repubblicani e monarchici, cattolici e laici, i fautori dello stato di diritto e delle dittature, così come quelli dell'illuminismo e della censura religiosa, reclamano il loro Carlo Magno. Senza dubbio, in assoluto la figura più universale che la storia ricordi…

— Quanto sei cinico, Pietro. Anch'io non credo a tutto ciò che leggo nei libri o nei giornali, o che ascolto alla radio, così come sono ben consapevole di come le ricostruzioni delle vicende passate siano infarcite di manipolazioni e di strumentalizzazioni di ogni genere, quando non si tratta di mistificazioni vere e proprie. Però mi piace credere che siano esistiti degli eroi senza macchia, dei novelli Don Chisciotte capaci di caricarsi sulle spalle il resto dell'umanità e di salvarla dalla mediocrità a cui sembra essere da sempre predestinata…

Pietro mi guarda con una strana espressione stampata in viso, come se fosse rimasto folgorato sulla via di Damasco… — Edoardo, ti ringrazio, d'un tratto comprendo fino in fondo il senso dei tuoi discorsi! Sì, Spartaco, Carlo Magno, ora che mi ci fai pensare… Il terzo Reich è così chiamato in relazione al secondo Reich del Kaiser Guglielmo II e soprattutto al primo Reich del figlio di Pipino il Breve. No, la guerra che stiamo combattendo non è semplicemente lo scontro di due ideologie contrapposte, nazismo e comunismo. Così come non è nemmeno la lotta di due popoli per la supremazia nel mondo. No, affonda le radici molto più lontano, agli albori della storia umana!

Tira le briglie al mulo che traina la slitta, il docile animale rallenta l'andatura e infine si ferma. Alcuni soldati ungheresi ci scansano, borbottando qualcosa, probabilmente delle imprecazioni. Batte il tacco, braccio destro teso in avanti, quasi ci fosse di fronte a lui un imperatore romano. — Ave Cesare, porteremo la civiltà tra i popoli barbari, inferiori a noi nelle leggi, nei costumi, nell'arte e nel combattimento. Questi rozzi esseri balbuzienti, Staliniani-Spartachisti che infangano il nome delle nostre SS, le Schutz-Staffeln! Alla guerra seguirà la pace, che sarà caratterizzata da un nuovo ordine internazionale, e le città di Roma e Berlino finalmente torneranno a rivestire il ruolo che meritano, quello di centro dell'universo! Scoppia in una risata, mentre con una mano dà una pacca sul deretano del mulo, che riprende la marcia.

— Pietro, dimmi la verità, sotto la tua scorza di uomo duro e puro, deluso dalla vita e dagli esseri umani, che crede che le imprese degli antichi condottieri siano solo polvere negli occhi, c'è la speranza di ritrovare, anche se soltanto per pochi istanti, l'animo di un sognatore? Dimmi, per favore, che c'è almeno un personaggio del passato per cui provi un'ammirazione sviscerata, che ti fa vibrare di fiero orgoglio quando pensi a lui. Perché, se così non fosse, saresti davvero irrecuperabile…

Il viso di Pietro torna serio. — Edoardo, certo che c'è un uomo che stimo con tutto me stesso, un eroe le cui gesta dovrebbero avere un'eco eterna nei libri di storia.

— Caspita, questa proprio non me l'aspettavo. Non credo alle mie orecchie. E chi sarebbe codesto deus ex machina? Considerando la disillusione che mediamente ti contraddistingue, deve trattarsi di un individuo dalle qualità a dir poco eccezionali. Ovviamente non vale rispondere che ti stai riferendo a tuo padre.

— Anzi, Edoardo, ti darò non uno, ma ben due nomi, stavolta voglio proprio stupirti. E no, non sto parlando di mio padre, anche se ci tengo a precisare che, in buona parte, è grazie a lui se stimo così profondamente questi due cavalieri erranti, che considero senza riserve miei maestri di vita.

— E allora forza, illuminami, non sto più nella pelle…

— Squillino le trombe e rullino i tamburi, i due superuomini sono rispettivamente… Artù e Ancillotto!

Rimango esterrefatto, tutto mi sarei aspettato, tranne due personalità al confine tra mito e realtà… Non riesco a trattenere le risate: — Ahahah, Pietro, chi l'avrebbe detto! Per carità, c'è chi sostiene che re Artù sia stato un sovrano romano — britannico che avrebbe combattuto contro gli invasori anglo-sassoni agli inizi del VI secolo, però la maggior parte degli studiosi contemporanei sono alquanto scettici in merito alla storicità della sua figura. Immagino che tuo padre, che fu non solo un ardito ufficiale dell'esercito regio, ma anche un prolifico autore di biografie di personaggi famosi, abbia scritto un libro su di lui, e che tu sia rimasto folgorato dalle vicende di quest'uomo straordinario. Peccato però che si tratti di poco di più di una leggenda, per non parlare di Lancillotto, il più celebre tra i guerrieri al suo servizio…

— Edoardo, che accidenti stai farfugliando?

— Cosa sto farfugliando io? Sei tu che hai tirato fuori il mito dei cavalieri della Tavola Rotonda.

— Se mi avessi ascoltato con più attenzione, avresti evitato di giungere a delle deduzioni così sconclusionate. Io mi riferivo innanzitutto ad Arturo Toscanini, a cui Gabriele d'Annunzio diede il soprannome di Artù… Sicuramente conosci il popolare direttore d'orchestra, ma forse non sai che è stato un fervente ed eroico patriota. Nel corso della prima guerra mondiale, si esibì in una serie di concerti di propaganda e di beneficenza per allietare gli animi dei combattenti. Toscanini non è solo un artista impareggiabile, capace di direzioni d'orchestra memorabili, ma anche un uomo coraggioso, carismatico, che si è sempre comportato in modo coerente con le proprie idee. Dal temperamento tempestoso, è stato spesso considerato un ribelle, ma in realtà tale aspetto del suo carattere riflette semplicemente la sua personale concezione della vita: una cosa per lui è bianca o nera, non esistono le sfumature grigie… Così all'inizio fu un acceso sostenitore del fascismo, per poi diventarne un irriducibile avversario quando il regime prese una piega che lui evidentemente non condivideva. Nel 1926 rispose un secco no a Mussolini che lo aveva convocato a Roma per eseguire 'Giovinezza'... Ah, quanto ammiro coloro che non si piegano alle scelte di comodo, e ciò a prescindere dalla parte per cui sono schierati... È vero, conosco bene le vicende di Artù grazie a mio padre, che partecipò, da spettatore ovviamente, al celeberrimo concerto da lui diretto sul Monte Santo il 26 agosto 1917. Durante quei giorni di fine estate ebbe l'occasione di fraternizzare con il talentuoso artista. Mio padre mi parlò spesso di lui, esaltandolo come persona e come patriota. Un uomo che allo scoppio della guerra non aveva esitato a tornare dagli Stati Uniti per mettersi a disposizione della madrepatria. E se il suo dovere consisteva nel dirigere una banda a pochi metri dalle trincee austriache, be', lui di certo non si tirava indietro. Edoardo, si può essere un eroe senza necessariamente impugnare un fucile o una spada. E prima non ho pronunciato il nome Lancillotto, bensì Ancillotto… Giovanni Ancillotto, formidabile asso dell'aviazione militare italiana! Pietro accompagna l'affermazione con un eloquente gesto delle mani.

— A soli 21 anni Nane, così si faceva chiamare dagli amici, era già un pilota provetto e, nel novembre del 1917, quando fu trasferito alla 77ma squadriglia, divenne un intrepido cacciatore di Drachen, i palloni frenati austro-ungarici. Ci voleva del gran fegato per abbatterli, perché i palloni da osservazione erano fortemente difesi dalla contraerea. Pensa che a Rustignè d'Oderzo ne attaccò uno con una tale veemenza, da attraversarlo dopo averlo incendiato e uscendo dalla nuvola d'idrogeno miracolosamente indenne, con i brandelli dell'aerostato ancora attaccati al velivolo. Mio padre osservò la scena dal basso di una trincea, rimanendo a bocca aperta. Non puoi immaginare quante volte e con quale trasporto mi abbia narrato tale aneddoto. Per questa azione D'Annunzio lo soprannominò 'ala incombusta'. Nel corso della Grande Guerra, collezionò ben 11 vittorie, entrando così nel novero dei 10 migliori assi italiani. Nel 1924 purtroppo perì in seguito a un incidente stradale. Per un attimo mi sembra di scorgere un velo di tristezza sul viso di Pietro. — E sì, ho conosciuto questi due uomini dalla personalità trascinante grazie a mio padre, ma stavolta non si trattava, come nel caso delle tante biografie da lui scritte, di vuote agiografie, bensì di tragici episodi di vita vissuta…

Tutto a un tratto Pietro s'interrompe, ferma la slitta, lo sguardo puntato verso l'orizzonte. — Siamo arrivati alla resa dei conti — , mormora con tono grave. Davanti a noi, a qualche chilometro di distanza, si stagliano due colline rotondeggianti poste a semicerchio intorno a un grosso abitato. In mezzo alle due alture, in posizione trasversale rispetto al nostro cammino di marcia, non si può non notare un profondo avvallamento. Proprio lì, in corrispondenza del sottopassaggio ferroviario, gli alpini si stanno immolando a centinaia nel tentativo di aprire una breccia nella sacca. In corrispondenza dello snodo ferroviario ai piedi delle colline, i pochi reparti ancora in grado di combattere lanciano gli ultimi disperati assalti al nemico, che purtroppo riesce a rintuzzare ogni tentativo di aprire una breccia, respingendoci inesorabilmente indietro. Rimaniamo così, immobili e ammutoliti, ad assistere a quel sinistro spettacolo, in attesa che si compia il nostro destino.


Dopo alcune ore di scontri raccapriccianti, le sorti della battaglia sembrano ormai decise: non riusciremo a sfondare, i sacrifici fatti finora sono stati illusori, vani, inutili… All'improvviso un semovente tedesco si fa largo tra la folla, sulla torretta il generale Reverberi grida — Avanti Tridentina! Avanti! Di là c'è l'Italia… — , solo per una fortunata coincidenza la mia slitta non ne viene travolta.

— Allora, Edoardo, forza, deciditi!

— Cosa intendi? Pietro è sempre al mio fianco.

— Scegliti, come ho fatto io, un eroe in carne e ossa. Ne sei circondato, non hai che l'imbarazzo della scelta…

Mi guardo intorno: alle urla dell'alto ufficiale, i nostri paiono rianimarsi. Gruppi di soldati ci superano di corsa a destra e sinistra, sono quel che rimane dei battaglioni Edolo, Vestone, Tirano e Val Chiese. Mentre il loro generale li chiama a raccolta, gesticolando furiosamente, serrano le fila e si portano in cima alla colonna, trascinandosi dietro le poche armi individuali e collettive rimaste efficienti.

Mi volto verso Pietro per rispondere alla sua domanda, ma lui non c'è più. Un presentimento mi fa rabbrividire. Lo cerco con lo sguardo, angosciato. Eccolo là, è a una ventina di metri di distanza da me, si muove velocemente in direzione della stazione ferroviaria.

— Pietro, maledizione a te, torna qua! Nella concitazione del momento cado a terra, ancora non riesco a muovere le gambe, mi trascino con le braccia per qualche metro, ma subito sento le forze che mi vengono a mancare. — Sei uno sporco bugiardo, uno spergiuro! Quando, alcune settimane fa, sono crollato esausto nella neve, mentre un principio di congelamento mi stava lentamente paralizzando le gambe, mi hai caricato di peso su una slitta. Io, in preda al più totale sconforto, ti supplicavo di abbandonarmi al mio destino, dicendoti che ormai non c'era più speranza per me, ma mi hai prima dato un sonoro ceffone, poi mi hai abbracciato, promettendo che ci avresti pensato tu a riportarmi sano e salvo in Italia… Sbatto un pugno sul terreno ghiacciato, sento una fitta arrivare fino alla spalla. — Pietro, torna qua, volevo chiederti cosa ne pensi di William Wallace, hai capito di chi parlo, no? Un campione di virtù che ha dedicato tutta la sua vita a lottare per l'indipendenza della sua amata Scozia dal giogo della corona inglese, fino a quando fu catturato e atrocemente giustiziato. E poi di El Cid, Scanderberg, Giovanna D'Arco, Lawrence d'Arabia… —  Mi concentro per trovare qualche altro personaggio di cui Pietro non potrà confutare il valore. — Ma certo, come ho fatto a dimenticarmi di lui, Garibaldi! Pietro, voglio proprio vedere se hai la lingua così lunga da bistrattare anche l'eroe dei due mondi… —  Scuoto la testa. Che ingenuo che sono, ovvio che sì, ne passeresti al setaccio le vicende di cui è stato protagonista, fino a far emergere quelle più controverse, mi par di sentire la tua voce… 'E i fatti di Bronte? Ci stendiamo sopra un velo pietoso, come ha fatto la maggior parte dei nostri connazionali?'

Lo vedo unirsi a un gruppo di alpini e, sotto i colpi dei mortai russi, a fucile imbracciato, correre verso il tunnel ferroviario. Non riesco più a trattenere le lacrime, che copiose mi rigano le guance del viso. — Pietro, ho un'ultima cosa da dirti, ascoltami ti prego, ho fatto la mia scelta. Hai capito? Ho fatto la mia scelta! Urlo più forte che posso. Ma è fiato sprecato: le mie parole si perdono nel frastuono che riecheggia, insopportabile e incessante, nei cieli sopra Nikolajewka.


(fine)



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Domenico Gigante


Dodici


"Ma ditemi: chi non si è mai perso? Noi tutti siamo diretti verso un punto ben preciso, o almeno tentiamo di farlo, dall'uomo più saggio all'ultimo dei criminali, solo che scegliamo strade diverse… Io ho visto la Verità, non me la sono inventata… L'ho vista in una tale completa integrità, che non posso credere che essa non esista… Oh, io camminerò, camminerò, anche per mille anni ancora"

(Il sogno di un uomo ridicolo, Fëdor Michajlovič Dostoevskij)


— Che caldo! Non si sopporta! Neanche sotto a questi ulivi riesci a trovare un po' di fresco — . Giuda di Kerioth si tolse tunica e sandali e si sedette per terra, appoggiando la testa a un tronco.

— Guarda! — si rivolse al compagno, indicando il sole. — A picco sulla testa. Ed è così da ore. Sembra che sia rimasto sempre in quella posizione. Lì fisso a torturarci. Se non sono riusciti i Giudei a linciarmi, sarà lui a uccidermi. Morirò in un bagno di sudore.

L'altro si affrettò a rimproverarlo: — Rivestiti immediatamente! Lui potrebbe tornare da un momento all'altro. Non ti puoi far trovare in questo stato. Cosa penserà di noi? Che siamo stati qui a perder tempo? A sbadigliare e a contarci i pidocchi?

Il primo scoppiò in una risata sarcastica. — Perché? Che abbiamo fatto invece? — . Rimase un attimo in silenzio, cercando maldestramente di rimettersi la tunica. — E poi non verrà, figurati! — proseguì con un tono serio — Se ne è andato dicendoci di aspettarlo, ché andava a pregare sopra la collina, là oltre gli ulivi. Sono due giorni che si è allontanato, e lì rimane. Fermo. Non si è mosso per tutto il tempo. Sta in ginocchio con gli occhi verso il cielo e muove le labbra, ma non esce una sola parola dalla sua bocca. E noi qui che lo aspettiamo da due giorni — concluse con un gesto spazientito.

Interruppe il dialogo per qualche minuto. Si rialzò da terra e si accomodò la tunica. La guardava soddisfatto, perché era ancora tutta pulita, di un colore verde intenso con ricami in oro. L'aveva acquistata di recente al mercato di Gerusalemme, prima che il Maestro cominciasse a parlare alla folla davanti al Tempio. Prima che lo chiamasse e gli ordinasse di seguirlo.

Interrogò il suo compagno: — E gli altri dove sono andati?

— Ma come! Non ricordi?! A quel villaggio qui vicino a chiedere da mangiare e dell'acqua che si possa bere, perché questo pozzo è asciutto da più di un anno.

— Ah già, l'acqua! — rispose l'altro, prendendo in mano la sabbia che aveva raccolto col secchio dal fondo del pozzo. — Ma, poi, come è cominciata tutta questa storia?

— Quale storia? Quella del pozzo?

— No, no! — si affrettò a chiarire — Perché lui è andato a pregare lassù?

— Non ricordi neanche questo?! — si sentì rispondere da una voce stizzita. — È venuta una donna — quella che lo aveva cosparso di olio profumato e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli — e ha chiesto di parlare con lui. Aveva molta fretta e sembrava in ansia per qualcosa.

— Ma cosa gli ha detto?

— Questo non lo so. Forse gli altri hanno sentito e sapranno dircelo. Eccoli! Guarda, stanno arrivando.

In lontananza procedeva una carovana di una decina di persone, tutte più o meno giovani, vestite poveramente. Due procedevano davanti agli altri, più velocemente, perché libere dai pesi, e chiacchieravano allegramente tra loro. Altre tre, anch'esse senza ceste sulle spalle, si attardavano poco più indietro silenziose. Gli ultimi cinque, invece, portavano tutte le provviste e sembravano camminare con fatica sotto quel sole.

I primi a giungere — i due in testa al gruppo — erano Simone, detto Cefa, e Giovanni, figlio di Zebedeo. Salutarono i due rimasti ad attenderli, abbracciandoli e baciandoli sulle gote; quindi si accomodarono a riposare all'ombra degli ulivi. Vicino a loro si sedette Giuda, che, ancora accaldato, bofonchiava qualcosa contro il sole e la siccità. Poi domandò: — Ricordate quella donna, quella che asciugò i piedi al Maestro con i suoi capelli e che è venuta qui due giorni fa?

Simone assentì col capo.

— Lei gli disse qualcosa e lui, con il volto afflitto, ci ha detto di aspettarlo ed è andato a pregare lassù. Io non so cosa gli abbia raccontato, ma doveva essere grave, perché non è ancora tornato.

— Vuoi sapere cosa gli ha detto? — domandò Giovanni.

— Ebbene sì! Ditecelo, se lo sapete. È un'attesa lunga e snervante e vogliamo sapere almeno se le ragioni lo meritano.

Giovanni si grattò la nuca. — Quella donna si chiama Maria. Viene da Betania. Gli ha detto che suo fratello Lazzaro è malato. Sì, ha detto proprio così: "Signore, ecco, il tuo amico è malato". Lui le ha risposto: "Questa malattia non è per la morte, ma è per la gloria di Dio. Torna da lui ad assisterlo". E lei è andata via di corsa, ma col volto più sereno.

Giuda, perplesso, si asciugò la fronte sudata e sporca di polvere con l'orlo della veste. Intanto anche gli altri erano arrivati. Quelli che portavano il carico erano talmente sfiniti, che si gettarono a terra. Nessuno si domandava perché avessero portato tutto quel peso da soli: tutti conoscevano i fatti e non c'era bisogno di spiegazioni. Ogni cosa, ogni azione, ogni parola in quel gruppo di dodici persone procedeva in un senso determinato, anche contro la volontà dei suoi stessi componenti. Non c'erano domande, perché le risposte erano già in bella vista di fronte a loro. Sbocciavano i pensieri in testa, i discorsi sulle labbra, e tutto aveva un moto proprio e indipendente.

Sapevano le stesse cose, ma queste uscivano fuori dal nulla. Qualcuno riusciva a esprimerle e gli altri assentivano come davanti a un fatto evidente, o plausibile. Solo cinque persone avevano portato tutti i viveri. Potevano dividerseli tra di loro, essendo dieci, e faticare così la metà e, pure, in modo del tutto naturale quei cinque avevano stabilito di espiare le loro colpe del passato.

Tra di loro c'era uno che si chiamava Levi Matteo ed era stato un pubblicano, un esattore, un servo dei Romani; e i Galilei odiavano i padroni e ancora di più i loro schiavi. Per questo lui doveva portare quel carico: per liberarsi da quella situazione di schiavitù. Le costrizioni fisiche avrebbero suscitato in lui il desiderio, l'aspirazione alla libertà vera. Superare la fatica di una lunga giornata era il prezzo da pagare per sentirsi di nuovo vivi e di nuovo uomini.

Uno di quelli che si erano gettati nella polvere, stanchi e disidratati, guardò verso la collina, al di là degli ulivi, e vide una figura bianca che si muoveva incontro a loro. Appariva sfocata per il gran caldo, come potrebbe essere un miraggio. Il poveretto impiegò molto tempo prima di collegare quell'immagine all'orizzonte con la persona che lo aveva condotto fino a quell'arido deserto con gli altri undici. Alzatosi in ginocchio a fatica, senza parlare, sollevò il braccio nella direzione da cui procedeva quell'uomo.

Una grande ammirazione suscitò quella vista. Alcuni aiutarono quelli che stavano a terra a rialzarsi e a riprendere contatto con la realtà dandogli dell'acqua dalle loro bisacce. La persona che si avvicinava era piuttosto alta, giovane, di carnagione scura e capelli neri riccioluti. Indossava un chitone grigio, vecchiotto e malandato. Il suo nome era Gesù, figlio di Giuseppe e Maria di Nazareth, ma tutti si rivolgevano a lui chiamandolo Rabbi, Maestro.

Alcuni di quei dodici, come Simone, lo seguivano da oltre due anni, ed erano scesi con lui giù da Cafarnao, dal lago di Tiberiade, fino a Gerusalemme. Non capivano bene che cosa predicasse quell'uomo, ma ne vedevano i miracoli e le opere, e osservavano il suo comportamento decisamente senza riguardi nei confronti dei Romani e dei farisei. E, da buoni Galilei, non potevano che approvarlo. Erano convinti di seguire un messia che li avrebbe liberati da un giogo di tasse e ipocrisia.

Arrivato a pochi passi da Simone, che gli veniva incontro, disse: — Andiamo di nuovo in Giudea — . Non salutò, non pronunciò altra parola, ma continuò avanti verso gli altri discepoli. Simone, stupito, gli venne dietro. — Ma, Rabbi, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu vuoi tornare da loro?

Gesù rispose: — Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se, invece, uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce. Voi dovete fidarvi di me come fossi la vostra luce. Mi avete seguito fino a qui senza mai chiedere il perché, ma sempre sospettando che io avrei realizzato le vostre segrete aspirazioni. Lo avete fatto lasciando tutto ciò che avevate di più caro: la famiglia, la casa, la possibilità di un futuro discreto, silenzioso e pacifico. E adesso vi spaventate di fronte alla morte corporale, come se essa potesse qualcosa contro le vostre anime legate ormai indissolubilmente alla mia, destinate a non morire in eterno.

Rimase un attimo in silenzio, perché capiva l'imbarazzata sorpresa del discepolo, poi soggiunse: — Il nostro amico Lazzaro si è addormentato.

Ormai erano giunti presso gli altri, che li aspettavano e li avevano visti discorrere per quel breve tratto. Erano curiosi di sapere.

— Che ti ha detto? — chiese Giovanni.

— Ha detto che dobbiamo tornare in Giudea — rispose rivolgendosi a tutti gli undici.

— Tornare in Giudea! — esclamò collerico Giuda — Ma è matto! Quelli non aspettano altro, se non che ci gettiamo nelle loro braccia! Che cos'è? Un diversivo? Puntiamo sulla sorpresa?

— No, dice che il suo amico Lazzaro si è addormentato — replicò dubbioso Simone.

Giuda si sentì ribollire il sangue. — Ma chi è questo Lazzaro? E poi cosa interessa a noi che si sia addormentato? Un uomo adesso non si può più stendere e chiudere gli occhi per qualche minuto? Capisco il suo "Vegliate, vegliate!", ma qui si sta esagerando.

— Lazzaro è il fratello di quella donna, che è venuta qui due giorni fa. E comunque fai silenzio perché potrebbe sentirti — ribatté violentemente Giovanni, invitandolo anche con i gesti a star zitto.

— Parli bene tu! — disse Giuda, sempre più furioso — Io, però, ci ho rimesso tutti i miei averi per lui; per dar da mangiare a voialtri. Ero ricco, ero viziato, ma mi sono messo a finanziare questa impresa, che non so cosa vuole, né dove deve arrivare. Adesso, però, non voglio mica andare a morire per lui — . Fece silenzio per qualche istante, pentito della sua sfuriata. Poi aggiunse confuso: — Se questo Lazzaro si è addormentato, si sveglierà.

Il maestro, che era rimasto per tutto il tempo a pochi metri ad ascoltarli, si strinse rassegnato nelle spalle e disse: — Lazzaro è morto, e io sono contento di non essere stato là, perché voi crediate. Coraggio, andiamo da lui! — . E si mise in cammino.

Si guardarono tutti abbastanza imbarazzati. Giuda teneva il capo abbassato dalla vergogna. Si rendeva conto di aver perso un'occasione per farsi notare dal Maestro per la sua solerzia e generosità. E ancor peggio si accorgeva di perdere sempre più fiducia in quell'uomo. Egli, in fondo, credeva solo di aver trovato un capo che li avrebbe guidati e riscattati da un'esistenza misera, asservita a Roma.

Allora Tommaso, chiamato Didimo, disse ai condiscepoli: — Andiamo anche noi a morire con lui.

Furono queste sole parole che rivelarono per qualche istante a quei dodici il vero scopo di quella strada che avevano intrapreso. Adesso forse sapevano dove sarebbero giunti: Morire con lui. E del resto quello stesso luogo arido e sterile, quel sole allo zenit che li perseguitava da ore, il caldo e il sudore che scendeva giù dalla fronte e appiccicava tra di loro tutti i capelli, e le loro stesse figure mal vestite, affamate, stanche, messe insieme lì, a formare un'armata di miserabili, non suggerivano un futuro migliore; non certo contro gli uomini che si apprestavano ad affrontare.

Cominciarono a caricarsi sulle spalle tutti i viveri e l'acqua che avevano acquistato al villaggio. Qualcuno con un leggero colpo sulla schiena svegliò Giuda dai suoi tristi pensieri. E, confusi e logori, si misero in marcia appresso a quell'uomo. Come avevano sempre fatto.


(fine)


Un paio di note:

1) Il testo è il primo capitolo di un romanzo sulla vita di Lazzaro dopo la resurrezione, che si è fermato a metà del terzo capitolo, poco dopo la resurrezione. Segno che non è destino che Lazzaro possa avere una storia tutta sua. Dato, però, che il capitolo è a suo modo autoconclusivo, ho pensato che potesse essere inserito come racconto.

2) Il linguaggio usato dai personaggi è volutamente anacronistico e non è un errore. Anzi, per certi versi tutta questa sequenza è ispirata, in modo neanche troppo sottile, al Waiting for Godot di Beckett. D'altra parte sempre di Dio si parla.



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RobertoBecattini


UFO, nessuna e centomila


La primavera non era mai stata così bella. Gli affari non erano mai andati così bene, anche se non per tutti. Mai la situazione mondiale era apparsa così promettente. E mai le ragazze erano state così carine. Non si erano mai viste così tante piccole imprese fallire o essere acquisite dalle multinazionali o dalle grandi imprese monopoliste, anche se questo era un processo di distruzione del tessuto economico in atto da tempo. Il colpo d'acceleratore lo stava dando una generazione di donne ventenni e trentenni, nate dopo il 2020. Erano tutte bellissime, intelligenti, ambiziose e forti, anche fisicamente. Nessuna di loro aveva intrapreso le effimere carriere di modella o attrice. Molte di loro erano consulenti finanziarie, broker, manager, altre emergevano nella politica o nella ricerca scientifica. Altre ancora si erano dedicate allo sport, ottenendo risultati che avevano messo in discussione la superiorità atletica dei maschi. Si cominciava a discutere della possibilità di un'Olimpiade mista, anche negli sport di squadra. Erano entrate in pochi anni nei gangli della Finanza mondiale e nei centri di potere, colpivano chirurgicamente. Le aziende capeggiate da maschi erano vittime di una speculazione spregiudicata, venivano acquisite da Fondi di Investimento gestiti da CdA tutti al femminile. Negli Stati Uniti le chiamavano le Streghe di Wall Street. Si sposavano con pezzi grossi di qualsiasi settore di ciò che restava dell'Economia reale, per poi dimezzare le loro fortune con sanguinosi divorzi. E nessuna di loro sembrava capace di mettere al mondo figli maschi. Solo bambine, quasi delle clonazioni delle madri. Erano così belle, impossibile resisterle. I loro occhi erano azzurri, verdi, viola, brillavano e i loro sguardi scardinavano i cuori più pietrificati. I loro corpi erano uno studio di curve celesti, di uno splendore indescrivibile. Le loro voci incantesimi, le loro risate miele di asfodelo per gli orsi più orsi. La loro bellezza fermava il tempo. Gli uomini si innamoravano e nessuno di loro si preoccupava più di fare soldi. Queste giovani e bellissime donne avevano uno strano effetto su coloro che subivano la loro influenza. I lupi diventavano agnelli, i satiri bambocci. Erano Artemidi che facevano ribollire il sangue, ma a una temperatura assai bassa. Tutti erano affascinati, sedotti ma in soggezione, non osavano sfiorarle prima del matrimonio. E qualcuno di loro ammetteva di non averle sfiorate neanche durante. Ma allora con chi avevano avuto queste figlie? Le conseguenze demografiche cominciavano a farsi sentire.

Era così chiaro quello che stava succedendo, ma nessun uomo riuscì a opporsi, nessuno voleva farlo. Erano sfacciate, la loro sorellanza si esprimeva soprattutto in veri e propri sabba durante i weekend. Uscivano insieme senza i loro partner e iniziavano altre donne con un rituale. Le novizie si pungevano il seno con un ago e si tagliavano una ciocca di capelli. La ciocca, intrisa nel loro sangue, veniva avvolta in un fazzoletto di carta e poi bruciata. Poco tempo dopo le iniziate scoprivano di essere incinte. C'erano belle ragazze dappertutto ormai, a Teheran, a L'viv, a Madras, a Lima, a Boston. Sempre più uomini erano poveri ma felici. Quelli che non riuscivano a unirsi a queste bellissime donne abbandonavano comunque le loro famiglie e diventavano vagabondi, senzatetto. Spesso si lasciavano morire in strada. La forbice dell'aspettativa di vita tra i due sessi aveva fatto una spaccata alla Carla Fracci. Gli uomini ormai facevano i lavori più umili, quelli che le donne avevano fatto per secoli e adesso non volevano, non dovevano più fare. Erano tempi durissimi per noi, il nostro genere stava andando serenamente incontro all'estinzione, ma per molti era una liberazione diventare quello che sapevamo di essere, il sesso debole.

Sull'origine di questo fenomeno evolutivo, un sospetto è cresciuto in me fino a diventare quasi una certezza. È legato a un episodio che risale al periodo in cui lavoravo ancora come attore di teatro. Lo spettacolo si chiamava "La confessione": dodici attori e dodici attrici per dodici spettatrici e dodici spettatori ogni sera. Gli attori recitavano per le donne e viceversa. Disposti su due doppie file, ventiquattro confessionali con un inginocchiatoio per l'attore-penitente e una sedia per il confessore-spettatore. Ciascuno spettatore ascoltava la confessione di dodici attrici, ciascuna spettatrice faceva lo stesso con dodici attori. Il regista aveva affidato a ciascuno di noi un racconto di un diverso autore contemporaneo. Era una colorita carrellata di misfatti, storie di malavitosi pluriomicidi, necrofilia, coprofagia, violenze psicologiche di ogni genere. Contemporaneamente ventiquattro attori-peccatori confessavano a ventiquattro spettatori le loro storie. Le consegne di regia erano rigide: volume sommesso, sguardo fisso sul confessore, durata perentoria di cinque minuti. Ogni cinque minuti, infatti, un addetto armato di cronometro e nascosto dietro il telo nero del fondale, suonava un campanello. A quel segnale tutti ci alzavamo, a prescindere dal punto del racconto a cui eravamo arrivati, per passare all'inginocchiatoio successivo e ricominciare da capo. Ci si trovava sul finire del mese di repliche. Ormai cominciavo a soffrire la routine dello spettacolo, l'unica cosa che mi stimolava era la possibilità di incontrare ogni sera occhi di donne diversi. Quella sera, verso la metà del mio peregrinare da un confessionale all'altro, mi trovai di fronte due occhi sui quali era impossibile esercitare qualunque, seppur minimo, potere. Lei era una donna dal viso esile, tratti delicatissimi, occhi verde-azzurro, capelli chiari, cortissimi e scolpiti verso l'altro, giubbino e pantaloni in pelle nera. Certo, era una bella donna. Ma sin dai primi secondi in cui le parlai, mi resi conto che sentivo il bisogno irrefrenabile di cedere al suo sguardo anziché imporle il mio. Ero allenatissimo a non mollare il mio interlocutore, ma stavolta era lei a non mollare me. Sentivo forte il desiderio di abbassare gli occhi, perché guardandola stavo sperimentando la caduta in un precipizio. Al tempo stesso provavo un dolore indicibile, come un abbraccio che mi stritolava il corpo, cui si aggiunse un piacere strano, diffuso. Sudatissimo, sentii a malapena lo scampanellio. Mi alzai, con la netta impressione che se avessi distolto lo sguardo anche all'ultimo momento, prima di passare alla confessione seguente, per me sarebbe stata la fine. Dopo lo spettacolo entrai in camerino a pezzi, stanco e dolorante. Mi accorsi di non essere il solo in quella condizione. Anche i miei colleghi uomini avevano "incontrato" quella donna. Orazio, l'unico della compagnia che potevo considerare un amico, era irriconoscibile. Era bianco come la cera, i suoi occhi erano smarriti. Se ne stava seduto in un angolo, non poteva quasi muoversi. Lo aiutai a cambiarsi d'abito. Lo riaccompagnai a casa e cominciammo a parlare di quello che era successo. Anche lui era rimasto molto turbato da quella donna e aveva avuto le stesse sensazioni. Gli chiesi più volte se avesse abbassato gli occhi.

— Sì, li ho abbassati — confessò. — Il problema è che li ho rialzati e l'ho guardata.

Servirono molti altri incontri per farmi dire ciò che aveva visto. E non desidero raccontare la descrizione che mi fece di quella vista. Posso solo dire che non aveva niente di umano. Rimasi in contatto anche con gli altri compagni e seppi che alcuni di loro erano diventati padri di bellissime bambine, nello stesso anno, il 2022. Sapevo che lo spettacolo "La confessione" era un format di successo che veniva rappresentato in molti teatri del mondo, e cercai di ottenere informazioni che confermassero la mia folle teoria, ma senza successo.

Non ne ho più bisogno ormai, mi basta guardare mia figlia negli occhi, quando ci riesco.


(fine)



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Alberto Marcolli


Quella sera che Jimi Hendrix e la sua band suonarono per noi


Era stato Maurizio, a febbraio del '68, a parlarci del possibile arrivo qui da noi di un fenomenale chitarrista americano. Non ci disse il nome, come era solito fare, ma quando si sbilanciava a dare una notizia potevamo fidarci.

Al Festival di San Remo del '66, mi aveva presentato a Maurizio un amico di famiglia, pezzo grosso di una primaria casa discografica di Milano, che sperava di convincerlo a incidere con loro. La mia presenza, secondo i piani, sarebbe stata di aiuto, perché anch'io iniziavo a muovere i primi passi nell'ambiente e l'avevo già incrociato in qualche balera della bassa.

Mi impegnavo per diventare un buon strumentista, ma non andai mai oltre le feste popolari e i locali di Lugano e Locarno, mentre Maurizio aveva già imbroccato la strada giusta da un paio d'anni ed era lanciato verso importanti successi nazionali, con il nuovo nome dato al suo complesso.

Attendere l'arrivo, dato per imminente, di questa stella del rock, senza conoscere nient'altro, accendeva al massimo la nostra curiosità, e certo non potevamo telefonare oltre oceano, a chi, poi! Altri sistemi non ne esistevano in quegli anni. Potevamo soltanto insistere con Maurizio per saperne di più. Ma lui, impegnato in giro per l'Italia, era impossibile da rintracciare, e le poche volte che lo scoprivamo in via Bodoni, si divertiva a inventare storie, burlandosi bonariamente di noi.

La data certa del concerto ce la comunicò l'amico di famiglia e, non so come, riuscì anche a procurare due biglietti, per me e l'amico Andrea, ovviamente pagati da mio padre. Sborsò il denaro e nemmeno volle dirmi quanto gli costarono. Proprio lui, grande ammiratore di Claudio Villa e Frank Sinatra, che odiava sentirmi in camera mia strimpellare le canzoni di De André.

23 maggio del 1968, giovedì. Il gran giorno era arrivato!

Mattina scuola, pomeriggio Jimi Hendrix. Questa, era vita!

Noi avevamo i biglietti per il concerto delle 16:30, ma il tempo passava e Jimi non arrivava, nel frattempo emergevano le notizie più fantasiose.

Ricordo di un volo dirottato, o forse caduto in mare, non era Jimi in arrivo ma Cassius Clay. L'ultima fu questa: agli Experience avevano sequestrato gli amplificatori. Li stavano smontando alla dogana dell'aeroporto, alla ricerca di droga.

Alla fine il concerto del pomeriggio non si fece. Gli organizzatori volevano rimborsarci il biglietto. Figuriamoci! Prima avrebbero dovuto passare sul nostro cadavere.

Si rimase tutti in attesa del concerto serale, fissato per le 21:30. Fu lunga, ma con l'adrenalina che avevamo in corpo avremmo aspettato anche fino a domenica. All'apertura delle porte, aiutati dalla mia prestanza fisica e dalla furbizia del mio amico Andrea, entrammo con i primi e correndo ci piazzammo davanti al piccolo palco dei musicisti. La calca di ottocento persone in uno spazio per quattrocento era molta e lottammo con le unghie e con i denti per mantenere la posizione. Fu una vera battaglia e non ci fu possibile evitare di spostarci sulla sinistra. Pazienza.

Il concerto iniziò con l'immancabile ritardo verso le 22:30. Sulla piccola pedana, stracolma di strumenti, c'erano un sacco di persone che non capivamo perché stessero lì. Si iniziò con l'esibizione di due gruppi incaricati di rompere il ghiaccio, un'usanza considerata allora doverosa, ma per fortuna durò poco. Finalmente apparirono batterista e bassista degli Experience, poi spuntò anche Jimi, con la mitica Fender Stratocaster.

Chitarra e basso utilizzavano una coppia di amplificatori Marshall: un vero schianto per me e il mio amico Andrea.

Partì la Musica

Io ero lì, Jimi Hendrix era a due metri e non me lo sarei perso per tutto l'oro del mondo!

Jimi suonava e cantava senza eccessi. Era concentrato sul suo strumento, ma ve lo giuro: era un fiume in piena di note.

Erano in tre. Sembravano dieci. Gli amplificatori erano a palla. Basso e batteria producevano un ritmo indiavolato. Jimi lo dominava e lo cavalcava con sicurezza. Viaggiava sulle corde con un'agilità mai vista. Noi sempre lì, a due passi. Lo osservavamo grondare di sudore. Stregati dall'energia prodotta dalla sua chitarra.

Sparava note acute e basse a velocità siderale. Utilizzava un distorsore inesistente qui in Italia, i suoni che produceva si rovesciavano addosso a noi con veemenza. Le nostre casse toraciche vibravano all'unisono con quell'impasto di ritmo e frenesia. Era una scena da matti, letteralmente, ma andava bene così, anzi lo incitavamo urlando. Lui raccoglieva e ne traeva nuovo vigore. Sapevo cosa voleva dire suonare su un palco con il pubblico che ti spronava a dare il massimo, ma qui eravamo oltre ogni umano limite.

Non ho la sequenza delle canzoni. Di sicuro eseguirono tutti i brani dell'album "Are You Experienced".

Ho frammenti di ricordi di Hey Joe, Stone free e Purple Haze. Ebbi un'emozione particolare quando Jimi cantò Foxy Lady. Ne era talmente coinvolto da convincermi del suo reale rimpianto per l'incontro con una ragazza, lasciata poi chissà dove, con la nostalgia di averla persa per sempre.

Ancora oggi, se penso che dopo soli due anni, quel ragazzo, alto e magrissimo, frutto di un incrocio fra sangue indiano Cherokee, sangue nero e messicano, lo avrebbero ritrovato morto a Londra, in una stanza del Samarkand Hotel, mi sento male peggio di allora.

Questo è uno degli epitaffi scritti sulla sua tomba a Seattle, visitata in tempi recenti dall'amico Andrea, gran giramondo.

"Message to Love — Everybody come alive, Everybody Love alive, Everybody hear my message"

Il concerto finì molto tardi. Io dovevo essere a casa per le otto di sera, invece a mezzanotte e oltre, ancora non ero rientrato e avvisare i genitori di un ritardo era allora quasi impossibile. Il telegiornale forse qualche cosa aveva detto, ma mio padre, uomo di altri tempi, parti in macchina per venire a vedere cosa cavolo fosse successo. Come fece a individuarmi, in quella babele, è rimasto un mistero, e quante me ne disse! Da buon genitore, però, portò a casa anche il mio amico e le altre due ragazze che avevamo agganciato al concerto.

Allora le cose andavano così!


(fine)



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Giovanni p


L'ultima vibrazione


Un boato scosse la terra, si fece pesante. Il tavolo di legno, sul quale la faccia di Andrio era stampata, vibrò. Andrio si svegliò, bestemmiò la Madonna, e si rimise a dormire. Non ci riusciva per più di un'ora alla volta, o lo svegliavano le bombe o lo svegliavano gli altri. Dopo quel boato fu di nuovo il silenzio, ma poi Ciocio ricominciò con la solita storia. Stavolta Andrio imprecò i santi, si svegliò e iniziò a stropicciarsi la faccia.

— Ha i capelli più morbidi del mondo e li ha lasciati a me perché mi vuole bene.

Ciocio parlava da solo, ad alta voce, mentre accarezzava una ciocca di capelli biondi. Fra tutti era quello messo peggio. Era impazzito prima degli altri, ancora prima di arrivare in quel paese maledetto. Un boato lontano scosse di nuovo l'aria, ma con un rumore di sottofondo più sordo.

— Quando sarà il momento giusto andremo a vivere insieme, così ti accarezzerò tutto il giorno.

Andrio sputò, non sopportava più Ciocio, né la guerra, né quel paese, né l'idea di morire. Perché la fine era vicina, questo Andrio lo sapeva, ma gli altri no.

— Ciocio, sta' zitto, accidenti!

Le parole di Raes non furono minimamente considerate. Ma se l'intelletto di Ciocio ormai era compromesso, anche quello di Raes non scherzava. Armeggiava ormai da due giorni a una radio rotta e non riparabile, e lui come Andrio lo sapeva benissimo.

— Sto cercando di comunicare con il comando. Verranno a salvarci, ci toglieranno da questa merda.

Andrio ascoltò le false speranze di Raes, bestemmiò e sputò senza disilluderle. Sapeva anche lui che la radio era rotta, che il comando se l'era svignata e nessuno li avrebbe salvati. Le forze nemiche sarebbero arrivate, li avrebbero stanati e messi al muro. La situazione era surreale, Raes cercava di far funzionare una radio ormai inservibile, Ciocio accarezzava una ciocca di capelli donatagli da una ragazzina morta, Andrio avrebbe voluto essere pazzo, ma non ci riusciva. Avrebbe anche accettato di essere impalato, ma prima voleva dormire. Non voleva morire in quelle condizioni, nella confusione totale, stizzito e debole. Non voleva morire senza la dignità di poter affrontare la morte.

— Andrio, secondo te si è svegliata?

La faccia di Andrio era a pochi centimetri dalla sua, ma Ciocio non l'aveva sentito arrivare. Malgrado fosse enorme aveva un passo leggerissimo. Andrio sentì l'impulso di sputargli in faccia, ma si trattenne. Ciocio era andato, a che serviva sputargli in faccia?

— Credo di no, Ciocio.

— Posso andare a vedere?

— No, Ciocio.

— Ma non avrà freddo?

— No! Fidati.

— Ma l'abbiamo messa sotto terra.

— Sì, ma ci sono anche i suoi genitori, e sono belli vicini.

Ciocio sorrise.

— Già, non ci avevo pensato.

Andrio sorrise mesto.

— Posso andarle a parlare?

Andrio annuì, poi sputò.

— Grazie, Andrio.

Ciocio corse verso il piccolo cumulo di terra sotto il quale era sepolta l'ultima famiglia di quel villaggio sperduto fra i monti. Andrio lo guardò sdraiarsi al fianco del cumulo di terra rossa, come sempre avrebbe raccontato una storia alla ragazza, accarezzando la ciocca di capelli che una volta le apparteneva. Quella famiglia era stata sterminata nel tentativo di fuggire. Non erano stati i nemici che da lì a poco avrebbero ucciso quei tre disperati, ma i commilitoni di questi ultimi.

— Poveri diavoli.

Andrio masticò quelle parole amare, mentre Ciocio continuava a parlare alla terra che spanciava dal prato. Ricordava benissimo gli ultimi momenti di quella famiglia. Erano arrivati a occupare quel villaggio qualche settimana prima. Saranno stati in cento uomini o poco più, sporchi, stanchi e nervosi. Tutti gli abitanti di quel piccolo paese erano scappati nei boschi, era rimasta solo quella famiglia. Due genitori sulla cinquantina, malandati al punto di mostrarne settanta, una ragazza di sedici anni e due mocciosi di undici e nove anni. Rimasti lì perché il padre non voleva abbandonare la casa. Andrio in quella casa c'era stato, a lui sembrava una baracca piena di cianfrusaglie. Neanche le posate d'argento, alle quali i coniugi tenevano tanto, erano un gran che, forse non erano nemmeno d'argento. Quando i soldati arrivarono, i ragazzi si spaventarono, mentre i loro genitori provarono a socializzare. Giunsero a spacciarsi come la famiglia più importante del villaggio e annunciarono, come gesto di benvenuto, che avrebbero messo l'intera area a disposizione delle truppe. I soldati dal canto loro ringraziarono ridendo in faccia a questi due tarati. Il tenente, un uomo sfinito dalla fatica e dalla rabbia, invece intimò loro di chiudersi in casa, o baracca che fosse, e di non fiatare. Aggiunse che se li avesse sorpresi ad allontanarsi dal villaggio li avrebbe messi tutti al muro, bambini inclusi.

— Maledetta radio, funziona a scatti.

Raes non si staccava mai da quella radio, si era addirittura allestito un piccolo ufficio intorno a quel ferro che aveva smesso di funzionare già da un mese. Sembrava esserci nato su quel tetto di lastre nere. Andrio sputò e lo lasciò perdere. Si immerse nei suoi pensieri. Ricordava bene, forse troppo precisamente, il momento in cui la famiglia fu uccisa. Quei poveri diavoli dopo aver passato tre giorni in casa decisero di scappare nei boschi come i loro compaesani. Ma ormai era tardi. Fu Ciocio ad aiutarli, fu quello il momento in cui la ragazzina si tagliò una ciocca di capelli per regalargliela. Avevano chiesto aiuto al più tonto della compagnia, l'unico che mostrasse un po' di umanità in una situazione dove questo vocabolo sembrava un concetto dimenticato.

— Se avete freddo, ditemelo. Mi raccomando, dovete stare fermi. Dovete stare qua fino a che smettono di bombardare e far finta di dormire. Non vi farete male, al villaggio ci pensiamo noi.

Se Raes non si staccava mai dalla sua radio, Ciocio non mollava mai quella ciocca bionda che accarezzava in continuazione. Andrio si mise le mani nei capelli mentre Ciocio chiedeva a dei morti di stare fermi.

Ricordava con tremenda chiarezza il momento in cui quei morti divennero tali. La raffica di mitra che li aveva stesi a terra, e quello che ne derivò. Andrio doveva badare a Ciocio, glielo avevano affidato da quando era impazzito. Dopo aver giustiziato quei poveretti, il tenente sbraitò in faccia ad Andrio, accusandolo di averli fatti scappare. Per non finire come quella famiglia di disgraziati, accettò di rimanere di guardia al paese e difendere la posizione. Ma questa scelta fu una condanna. Il piccolo esercito che aveva occupato quelle casupole in pietra si era ritirato. Ormai i nemici erano troppo vicini. Gli avevano lasciato Raes, che a sua volta era andato di testa, e Ciocio che nessuno voleva fra i piedi. Adesso non gli rimaneva che aspettare la morte per mano dei nemici, invece di essersi fatto fucilare dai propri compagni.

— Andrio, riesci a rimediare un cavo elettrico?

— No, Raes.

— Ma così posso far funzionare meglio questo coso.

Andrio non gli rispose.

Un boato fece vibrare tutto quello che era fatto in legno o ferro. Mancava poco, dovevano solo correggere il tiro. I mortai avrebbero centrato il villaggio e ridotto tutto in cenere, compresi gli ultimi tre che ancora respiravano.

— Se non ci mettiamo in contatto con i nostri, prima o poi ci colpiranno.

— Sì, Raes, lo so.

Andrio voleva solo dormire, erano mesi che non ci riusciva. Non gli importava né di morire né della guerra, agognava solo il sonno. Avrebbe voluto essere pazzo come gli altri due, ma gli era impossibile staccarsi dalla realtà, avere una reazione.

— Quando tutto sarà finito ci sposeremo, faremo dei bambini e compreremo una casa.

Andrio sputò con disgusto più che con rabbia. Aveva sepolto lui quei cadaveri e per tenere buono Ciocio, gli aveva detto che erano vivi e che fingevano di dormire. Che schifezza di lavoro fu sotterrare quei poveri diavoli. La terra era dura come il ferro, dovette letteralmente allagare il punto in cui avrebbe poi scavato. Aveva sepolto quei poveri resti in un lago di melma. I corpi poi erano messi male, il mitra li aveva dilaniati, soprattutto quelli dei bambini, facendone carne da macello. Non sembravano poter essere stati qualcosa di vivo. Solo la ragazza conservava un corpo gradevole. Non aveva provato compassione nel seppellirli, né dolore. Era in guerra ormai da cinque anni, quei sentimenti non esistevano più per lui. Da troppo tempo esisteva solo la crudeltà, crudeltà senza morale, esercitata per fuggire da altra crudeltà. Crudeltà dalla quale adesso non avrebbe potuto fuggire.

— Ragazzi, ci sto riuscendo! Forse la radio funziona.

Andrio bestemmiò e tirò un calcio al tavolo di legno. Aveva buttato via gli ultimi cinque anni della sua vita in una guerra sporca, codarda, fatta di ritirate e soprusi. Si alzò e con le sue ultime forze decise di fare due passi. Era nervoso, aveva solo la forza di bestemmiare e sputare. Poi una vibrazione lunga scosse il villaggio, ma non seguì nessun boato.

— Sono arrivati.

Andrio fece questa osservazione ad alta voce senza che nessuno lo considerasse. Guardò Ciocio, doveva sistemare almeno lui. Camminò incespicando verso il suo compagno di sventura e la tomba che stava vigilando.

— Ciao, Ciocio.

Si era seduto alla sua destra, Ciocio staccò lo sguardo dal cumulo di terra e allargò un sorriso goffo da bambino.

— Ciao, Andrio.

— Come va?

— Va bene.

— I tuoi amici qua sotto che dicono?

Ciocio rise diventando rosso d'imbarazzo.

— Loro vorrebbero parlare, ma io gli ho detto di non farlo. Come mi hai detto tu.

— Bravo, Ciocio.

— Devono fare i bravi ancora un po', poi c'è ne andremo. Come hai detto tu, giusto?

— Sicuro.

Non poteva andare avanti così. Fra poco sarebbero morti, ma almeno Ciocio poteva farlo in maniera serena. Anzi doveva. Andrio si ricordò di un libro, un romanzo che aveva letto molti anni fa, prima della guerra. In un momento che ormai sembrava un'altra vita.

— Senti Ciocio...

— Sì, Andrio, ti sento!

Andrio sputò, ma riuscì a trattenersi dal bestemmiare. Era tutto così difficile.

— Lo so che mi senti, ora ascoltami. Perché non facciamo un gioco?

— Ma io non posso giocare, devo badare a loro.

— Sì, ma è un gioco facile. Non dovrai spostarti di qua.

Ciocio sorrise battendo le mani.

— Allora ci sto.

— Bene. Chiudi gli occhi.

Ciocio obbedì, ridendo.

— Mi racconti cosa farai una volta finita la guerra?

— È facile Andrio, io e Elena ci sposeremo.

— Bene. E come ti immagini la tua vita.

— È semplice, Andrio, avremo una casa e dei bambini.

Andrio tirò fuori dalla fondina la sua pistola, aveva ancora mezzo caricatore.

— Sì, lo so zuccone, ma entra più nello specifico sennò il gioco non funziona.

Alla parola zuccone Ciocio rise.

— La nostra casa non sarà troppo grande, ma avremo finestre dappertutto.

— Come saranno fatte le finestre?

— In legno.

— Sì, ma di che colore?

— Bianche.

— Bene.

Andrio puntò la pistola alla nuca di Ciocio.

— E i bambini, quanti ne avrete?

— Due.

— Maschi o femmine?

— Spero femmine.

— Perché?

— Così non dovranno andare in guerra. Non dovranno vedere quello che ho visto io. Staranno a casa, al caldo.

La mano di Andrio tremava, ma sapeva che doveva.

— Anche Elena starà al caldo, di freddo ne ha sofferto troppo qua sotto terra. Lavorerò tutto il giorno per farli stare al caldo, anche i suoi fratellini. Non si faranno più male, non avranno più paura.

Andrio non riusciva a sparare.

— Cosa farete di domenica quando non lavorerete?

— Andremo al parco, faremo delle passeggiate lunghissime. E la sera ce ne staremo tutti insieme.

— Insieme dove, Ciocio?

— Ma a casa Andrio. Nel nostro salotto.

— E come sarà fatto? Immaginalo! Raccontamelo!

— Sarà fatto in legno. Ci sarà un caminetto e rideremo tutti perché saremo felici di stare insieme. Non ci mancherà nulla. Basterà stare insieme per essere felici.

— Riesci a vedere i bambini che ridono?

— Sì, Andrio, li vedo bene!

Violenza per salvare Ciocio dalla crudeltà che la sua mente non poteva più capire. Il botto della pistola fu sordo, Ciocio cadde in avanti per poi rovinare a terra in modo morbido. Il sangue fu poco, la pallottola aveva solo forato la testa senza però uscire. Andrio sdraiò Ciocio a fianco del cumulo di terra, aveva ancora gli occhi chiusi e l'espressione serena in faccia.

— Riposa in pace, dolcissimo scemo.

Andrio coprì la faccia di Ciocio avvolgendola nel suo giacchetto.

— La radio funziona!

Raes saltava come un grillo dall'alto del tetto fatto di lastre di pietra nera. La radio gracchiava dei suoni incomprensibili, solo a tratti si potevano sentire delle parole.

— Ce l'abbiamo fatta, Andrio! Avverti Ciocio! Dobbiamo comunicare la posizione in cui ci troviamo. Manderanno gli elicotteri a prenderci.

Poi un boato coprì tutto, Andrio sentì qualcosa spingerlo a terra. Tutto diventò nero. Dopo quel botto non riuscì ad aprire gli occhi per molto tempo. Quando tornò a vedere c'era polvere ovunque. Iniziò a tastarsi il torace, sentì che era bagnato senza però averne sensibilità. Sentiva solo le sue mani, il resto del suo corpo non gli apparteneva più. La polvere gli entrò nella bocca e nel naso. Riuscì solo a vedere che il tetto sul quale stava Raes non esisteva più. L'ultimo colore che vide era il rosso che gocciolava dalle sue mani, poi più nulla.


(fine)



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Nuovoautore


Scie lanciate verso l'infinito


Rammento, era di maggio quella sera. Seduti sulle poltrone in vimini del patio, guardavamo silenti, immersi nei nostri più o meno allegri pensieri, il giardino illuminato dall'algida luce lunare.

Cercando d'intavolare una parvenza di dialogo, indicando con il braccio teso la Luna, annunciai: — Il cielo è solcato da invisibili scie lanciate verso l'infinito, sono le anime in viaggio!

Lei mi guardò, come si osserva un bambino che ha appena espresso un pensiero molto più grande di lui. — E questa, da dove viene… dalla testa, o dal cuore? — mi chiese, accennando un sorriso.

E tanto bastò a far sì che nelle sere a venire implementassi la mia astrusa teoria con nuovi particolari, per strapparle altri sorrisi e donarle attimi di serenità.


— Alcune scie, quelle delle anime solitarie di chi non frequentò l'amore, viaggiano rette. Altre, le anime degli innamorati, corrono avvolte in spirali, replicando l'atto d'amare per l'eternità — aggiunsi la sera seguente.

— E le anime che il fato inopinatamente divise, costringendole ad abbandonare insieme alla vita anche l'amore… come viaggiano? A zig zag? — mi chiese, chiosando con strisciante ironia, aprendosi al sorriso.

Non avevo risposta alla sua domanda. Riflettei per altre tre sere prima di provare a farlo convintamente. — Vedi la luce algida della Luna? — esordii, indicando l'astro.

Lei annuì interessata.

Avendo oramai catturato la sua attenzione, continuai ad argomentare: — Quando il destino divide irreparabilmente un grande amore… una parte di esso resta qui a struggersi; mentre l'altra, nell'attesa di unirsi in volo spiraliforme con l'amato, o l'amata, ripara sulla Luna. Cos'altro, se non il brulicare di anime frementi e solitarie, può donare all'astro la magica luce che tanto attrae gli innamorati.

Lei gettò un lungo sguardo dentro la Luna, come a voler cercare di scomporre la luce in tanti piccoli punti luminescenti. — Deve esserci ressa lassù, son così pressati l'un l'altro, gli spiriti degli innamorati, che si son fusi in un solo grande spirito — commentò con una punta d'amara ironia.

— Già, devono essere davvero tanti, troppi, gli innamorati che ogni giorno il destino divide e lascia in attesa lassù… e anche quaggiù — replicai, serio, riflettendo su ciò che aveva appena detto.

— Secondo te, come faranno, quando verrà il tempo di riabbracciarsi, a ritrovarsi in mezzo al mucchio di anime in attesa lassù? — mi chiese all'improvviso, senza la consueta ironia.

Bella domanda, pensai.

— Forse, ogni anima possiede una musicalità unica, capace di attrarre a sé l'anima amata — risposi, a dire il vero poco convinto.

Forse lei lesse nell'espressione del volto o nel tono della voce un'esitazione, e replicò di conseguenza: — No, non credo… un'orchestra dove ogni elemento suonasse il pezzo a lui più gradito, farebbe soltanto casino… Cacofonia, altro che musica celestiale. Clangore assordante, capace di far fuggire l'anima dell'amato fino alla fine del tempo. Questo sarebbe.

La gran risata a conclusione della frase mi lasciò basito. Era evidente che la mia poca convinzione aveva fatto scricchiolare l'intera impalcatura della mia teoria, lo lessi nei suoi occhi. Se volevo ritrovare la credibilità perduta, avrei dovuto cercare una risposta convincente, prima di tornare su un argomento così delicato.

Ma come potevo io, uomo di poca cultura e ancor meno fede, risolvere la diatriba che nessuno, nemmeno le menti più eccelse, sarebbero riuscite mai a dirimere credibilmente? Naturalmente non potevo. Così, l'argomentare sulle scie lanciate verso l'infinito, finì lì. E nonostante continuassi a cercare una risposta esaustiva, non tornai mai più su un argomento tanto affascinante quanto ostico.


Sono passati cinque anni; da due, ogni sera mi siedo, solo, sotto il patio, guardo la poltrona di vimini vuota alla mia destra, sospiro, poi guardo la luce algida della Luna e cerco di capire come farò a scomporla, quando verrà il tempo d'unire le nostre scie e volare, avvinti in spirale, verso l'infinito.

Questa sera ho avvertito una fitta; per un attimo sembrò che il cuore, dopo un sussulto, s'arrestasse. — Forse è venuto il momento di trovare la risposta, invano cercata quaggiù — mi dissi, finalmente sereno.

A fatica raggiunsi la camera, aprii la finestra e mi sdraiai vestito sopra il letto; una stupenda Luna piena e l'inebriante profumo di colei che amo invase la stanza. — Ecco la risposta invano cercata — realizzai in un sospiro, inseguendo, con lo sguardo e l'olfatto, la scia che partendo dalla camera puntava dritta a un minuscolo punto, illuminato dalla calda luce dell'amore… là, sull'algida Luna.


Ora che il sentiero profumato ha disvelato il percorso per raggiungere l'astro dov'ella m'attende, potrò finalmente raggiungerla, per iniziare insieme il lungo viaggio che conduce… non so dove.


(fine)



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FraFree


White Lady


Niente.

Neppure il preferito.

White Lady non vuole niente, questa volta.

Ha il nomignolo dei cocktail che tracanna ogni sera.

Ne beve tanti, tutti offerti.

È frantumata in tanti piccoli pezzi, come un bicchiere di cristallo caduto per terra.

Se ne sta impalata al muro nel locale abituale: Blue Note.

Il bozzolo di ogni sera.

La musica permea anche il cemento, ma il brano malinconico sembra sfiorarla senza colpirla.

Il suo solito vestito nero, con il corpino in pizzo, fa cogliere il piccolo cuore tatuato tra i seni.

Lo sguardo ha il vacuo di un deserto senza oasi, la testa è altrove.

Sembra avere un cimitero intorno.

Vania, questo il suo vero nome, non c'è.

Anche se pare esistere nella vita rallentata del ritrovo, come un giro maledetto di blues.

I suoi occhi, una volta luccicanti, mostrano una patina opaca d'angoscia.

Cose amare, molto amare, l'hanno cosparsa di silenzio.

Questa sera non beve, no.

Se ne va traballando sui tacchi troppo alti.

Incede, con l'ombra dei giorni vuoti e la speranza dei cocktail concessi ancora.

Raggiunge il parco, solitario anche stavolta.

Ermo, come quella notte di novembre.

La panchina conserva ancora le sue stille, brunite dal rimmel.


Quando gli eventi la trainarono nello sconcerto perenne, aveva versato gocce copiose di pianto.


Era una notte plumbea d'autunno.

Nel parco desolato, spiccavano solo due fari, sgranati verso gli occhi di Vania.

Neanche il tempo d'intendere che cadde tra le grinfie di tre avvoltoi.

Neppure il tempo di proteggersi che laceri furono i suoi vestiti.

Neanche il tempo di fiatare che muta divenne la sua bocca.

Neppure il tempo di pregare che si trasformò in un pasto gustoso.

Tutti e tre, a turno, consumarono il suo corpo e il suo entusiasmo.

Così, scempio e dileggio impressero la sua anima di pece.

Il cuoricino vermiglio divenne, anch'esso, intento di scherno.

Poi, a vanagloriosa infamia compiuta, i tre si dileguarono.

Vania rimase esanime a terra, travolta dall'offesa livida e greve.

Quando le forze esigue riaffiorarono, si trascinò sulla panchina.

Lì, percepì solo il nulla e le lacrime che le segnavano il viso.


White Lady si lascia cadere sulla panchina.

Le lacrime scure, tinte dal rimmel, ritornano.

Ma ora sono più leggere, hanno il sapore della liberazione.

Piange a lungo. Poi, si acquieta.

Ritorna il silenzio, ma non il solito: è conciliante, sa di tregua.

Le ombre se ne stanno andando.

Una volta tanto, la notte non sembra neanche così malvagia.

Anzi, ha qualcosa di tenero.

Tenero, come un abbraccio.


(fine)



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Andr60


Archistar


Aaron Rosenbaum si scostò il ciuffo bianco dagli occhi, mentre sull'ultimo mattone della sua nuova creazione apponeva il proprio logo, una rosa circondata dal filo spinato, in onore dei parenti morti ad Auschwitz. Era stata una gran fatica, quella mega-villa sulla collina che dominava la pianura del Giordano; lavorare a 40 gradi all'ombra non era stato uno scherzo, e lui non era più un giovanotto da un pezzo. Inoltre, quegli scansafatiche straccioni avevano avanzato pretese, e lui detestava le discussioni: aveva accettato di concedere loro l'aumento richiesto, pur di levarseli di torno. Ciò era contrario alle direttive del governo, ma Aaron aveva il doppio passaporto, e sapeva quando far valere la sua nazionalità a stelle e strisce.

— Maestro, si può mettere in posa là, per favore? — il fotografo di Vogue lo trattava come un semidio, e questo lo faceva sentire bene.

— Appoggiato alla colonna, così?

— Così è perfetto, Maestro. — il fotografo annuì in modo esagerato; ad Aaron ricordò di quando aveva assistito a un servizio di quella che sarebbe diventata la sua terza moglie, e di come se ne fosse innamorato proprio in quell'occasione. Ora però la star era lui.


Finito il servizio fotografico e tornato nella sede di Gerusalemme Ovest, c'era l'intervista; Aaron amava parlare in pubblico, era un insegnante molto apprezzato, tuttavia le interviste lo mettevano a disagio, specialmente quelle che volevano ficcare il naso nella sua vita privata. Come tutti, aveva una pagina facebook, un profilo twitter e uno instagram nel quale fotografava le proprie opere, ma tutto ciò era a scopo promozionale, e i suoi familiari non comparivano quasi mai.

Per fortuna, sembrava che Betsy Krawitz, del Haaretz, avesse altre curiosità: — Maestro, come ci si sente a essere il più grande architetto vivente? — chiese senza molta originalità.

— Bene, così almeno dice il mio medico di fiducia. — rispose lui, sardonico.

Dopo una risatina, Betsy proseguì: — Qual è stata l'idea per il progetto del castillo?

Aaron aggrottò la fronte, sentendo quella parola: — Non so chi ha avuto l'idea di battezzare così la mia creazione, che per me è e rimarrà "villa sulla collina". Il ministro Biedermann mi ha dato l'incarico di costruirgli una casa di millecinquecento metri quadrati con piscina, e io ho eseguito.

— Sì, Maestro, però deve convenire che è una villa molto sui generis.

Aaron trasalì a quell'espressione latina — voleva sempre essere lui a impressionare l'interlocutore con citazioni colte, non il contrario: — Bisogna considerare il territorio sul quale sorge la casa, che presenta caratteristiche particolari.

— Quindi secondo lei le due torrette di avvistamento con nidi di mitragliatrici non stonerebbero, col resto della villa?

Aaron alzò le spalle: — Le notizie sugli ultimi attentati non me le sono certo inventate. Comunque, oltre alle torrette, ci sono altre novità, — e Betsy si fece più attenta — ad esempio, la cupola esposta a sud, accanto al giardino, ospita un piccolo radar per captare missili o droni ad alta quota, mentre quel basamento accanto alla piscina contiene una batteria di lanciarazzi. Ovviamente, lungo tutto il perimetro, vi sono sensori di movimento sempre attivi.

— È fantastico, — convenne la giornalista, — ma perché mi sta dicendo tutto questo? Non sono forse informazioni riservate?

— No, affatto; il ministro anzi ci tiene a far sapere che la sua nuova magione è ben difesa e ogni malintenzionato è quindi avvisato. Ogni tentativo di turbare la tranquillità del ministro sarà punita duramente.

— Bene, Maestro. E ora passiamo alla nuova commissione del governo...

— Ah, sì, lei intende il nuovo autodromo?

— Certamente. Mi conferma che avete deciso dove costruirlo?

— Dopo varie e attente consultazioni, è stato scelto il sito di Gerusalemme Est. Sarà un tracciato molto simile a quello di Monza, in Italia, e ciò non è casuale visto che la FIA ha deciso di alternare il Gran Premio d'Italia con quello di Israele.

— E gli italiani cos'hanno detto?

— Si sono detti molto lusingati del fatto che un'archistar come il sottoscritto abbia deciso di copiare proprio il tracciato di un loro circuito. D'altra parte, io ho un debito di riconoscenza con quella nazione. Come forse lei sa, ho insegnato per anni alla facoltà di architettura di Roma e ho progettato l'ampliamento della stazione Termini.

— Ne ero a conoscenza; — convenne Betsy, — a questo proposito, ha qualche commento sui recenti disordini di Roma nati proprio nella parte costruita da poco della stazione?

Aaron esitò un attimo, poi proseguì: — Se si riferisce alle leggi speciali approvate con urgenza in seguito alla Sommossa di Roma, sono ovviamente d'accordo che qualcosa andava fatto, per evitare il ripetersi di questi fatti incresciosi.

— Veramente io mi riferivo all'accusa rivolta verso di lei da alcuni esponenti dell'opposizione, secondo la quale i flussi di passeggeri della Nuova Termini avrebbero favorito gli scontri etnici. — il tono di Betsy era improvvisamente cambiato, sembrava inquisitorio.

Asciugandosi una goccia di sudore — l'aria condizionata funzionava male, accidenti! — Aaron rispose, molto infastidito:  — Speculazioni insensate, io sono un architetto. Punto e basta.

— Torniamo al nuovo circuito. Vi aspettate qualche voce contraria da parte palestinese per la scelta del sito?

— Voci contrarie ci sono e ci saranno sempre, — fece Aaron con una smorfia, — ma il sindaco di Gerusalemme Est si è detto d'accordo con noi che l'autodromo sarà un motivo di orgoglio anche per la popolazione araba.

— Però nessun palestinese vi potrà accedere, durante le manifestazioni. — accennò la giornalista.

— Ovviamente no, nessuno vuole il rischio di attentati, sarebbe una pessima pubblicità per tutti. Se i palestinesi vorranno, potranno vederlo in TV.


L'intervista era stata più faticosa del previsto; anziché rilassarsi, aprì l'agenda del suo smartphone. C'erano cinque messaggi della segreteria del suo studio di Manhattan, e ognuno aveva la stessa richiesta. A quanto pareva, il suo "castillo" — avrebbe dovuto rassegnarsi, ormai tutti lo chiamavano così — aveva avuto un successone presso tutti i super-ricchi del mondo. Cardoso dal Brasile, Zhu dalla Cina, Malenkov dalla Russia; Palos voleva addirittura installare una centrale di droni da sorveglianza e combattimento al posto della sua palestra, nella villa che aveva appena acquistato nel Delaware e che avrebbe voluto ampliare. Il lavoro non sarebbe stato un problema, per l'archistar.


Mahmoud accese il telefonino con dita tremanti: sì, il collegamento era attivo! Il semtex, nascosto all'interno dei mattoni nei muri portanti del castillo, era pronto per esplodere. Compose il numero...


(fine)



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Stefano M.


Il segreto di Cleofe


Lo spaventoso battirone abbattutosi sull'Altomilanese riuscì quella mattina a zittire persino le più insistenti voci sul passaggio di Cristiano Ronaldo al Manchester. I bar semideserti raccoglievano a malapena una manciata di avventori di passaggio, ammutoliti e stanchi dopo la notte passata in bianco fra lampo, tuoni e fragore. I più pavidi erano rimasti a casa, a contare i danni di quello schiaffo climatico. Finestre divelte, cocci di coppi, orti scorticati e tapparelle bucherellate come da pallettoni di fucile erano l'unico biglietto da visita per chiunque fosse entrato nell'area. Cosa non facile, del resto: il Ticino e l'Olona erano straripati, bloccando la maggior parte delle strade e costringendo i pendolari a zigzagare disperati per qualsiasi via, pur di non timbrare in rosso.

Persino Don Angelo, nella predica della prima messa, non sapeva trovare le parole; infatti non le trovò: difficile spiegare alla dozzina di vecchiette davanti a lui che tutto rientra nell'imperscrutabile piano di Dio, anche quella robusta sferzata impressa all'Altomilanese. Così si accontentò di commentare il Vangelo del giorno, sulla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Intanto Cleofe, seduta in terza fila senza nessuno davanti, fissava gli occhi imbarazzati del parroco e gongolava: avrebbe saputo il suo segreto al massimo qualche mese dopo, protetta dalla clausura del confessionale.

Complice la gelida brezza che ancora alitava sul paese, il solito corteo di sciure non fece alcun capannello fuori dalla chiesa ma, scialletti in spalla, si diressero tutte rapidamente verso casa, già prima della fine dell'Ave Regina. Cleofe raggiunse a stento il ponte, anch'essa infreddolita: scossa dal segreto che serbava, nemmeno si era presa la briga di aprire l'armadio per recuperare qualcosa di lungo. Si arrestò sulla sommità, sperando di specchiare nelle acque del Naviglio il suo volto, che si immaginava raggiante dopo il segno provvidenziale della notte. Non vi riuscì: la superficie era completamente ricoperta di foglie strappate, rami distrutti e qualche tronchetto, involontari testimoni di una sciagura che si prolungava lungo il corso del canale, mobile cimitero di precoci navigli verdeggianti.

Davanti al Tigros ebbe la sua prima folgorazione: forse lì avrebbe trovato qualcuno a cui confidare il suo segreto. Controllò nel borsino e giudicò i dieci euro sufficienti per comprare qualcosa, sebbene nulla le servisse effettivamente, se non un confessore. Con lo sguardo proteso verso l'interno, scavalcando un cumulo di grandine ammonticchiata davanti alla porta a vetri, Cleofe valutò il salumiere Gustavo come prima opzione. Precipitatasi al bancone della gastronomia, senza nemmeno guardare frutta e verdura, una cocente delusione si palesò nella sua espressione quando scoprì esservi l'imbambolato sostituto Fernando: causa fette troppo spesse, stentava a rivolgersi a lui persino per la mortadella o il crespone, figuriamoci se poteva confessargli il suo segreto!

Quale famelica tigre spinta da appetito atavico, Cleofe si diresse nel reparto merendine/biscotti alla ricerca di una nuova preda ma non la trovò. Entrando nella corsia dello scatolame il professor Gagliardini sembrò fare al caso suo: serio, taciturno, stimato. Sì, era proprio la persona giusta. L'uomo, concentratissimo a scovare le differenze nutrizionali fra il doppio e il triplo concentrato di pomodoro, se la trovò dietro senza saperlo e dallo spavento un paio di tubetti finirono inesorabilmente a terra, ammaccandosi. Un uomo con i nervi poco saldi, non c'era dubbio, troppo poco saldi per serbare intatto il suo segreto. Forse era meglio passare oltre, anzi decisamente.

Le rade macchine sulla strada, che con le loro luci facevano brillare le corsie del supermercato nonostante fossero ormai le nove e mezza, passavano oltre senza fermarsi; insomma, non c'erano altri clienti. Mesta, un po' stizzita e con in mano giusto una scatola di gramigna, tanto per non dare nell'occhio, Cleofe si diresse alla cassa, con la mente già rivolta al cimitero dove, oltre all'amato padrone, avrebbe sicuramente trovato una maggiore varietà umana a cui confessare il suo segreto.

Ad attenderla per il saldo c'era Rosina, giovane e sorridente, scintillante di glitter e imperlata di gel. Ragazza curata, giovane, con la testa sulle spalle: già conviveva e programmava di avere un figlio.

— Buongiorno, signora Cleofe, ha visto che danni, questa notte?

L'invito era più che esplicito, sicuro segno della Provvidenza per la confessione del suo segreto. Non poteva trattarsi di una coincidenza: quel giorno non doveva nemmeno essere di turno. La ragazzetta aveva sì e no venticinque anni; avrebbe raccontato sicuramente al futuro figlio la scioccante verità, tramandando il segreto di Cleofe per almeno un secolo, forse qualcosa di più. La donna esplose:

— No no, Rosina, io di danni non ne ho avuti e sai perché? Perché appena ho sentito i primi tuoni mi sono svegliata, ho preso in mano il rosario e ho detto tre decine di fila; così a casa mia non si è rotta nemmeno una finestra. — Confessato.

Uscendo dal Tigros, con in viso la brillante soddisfazione di chi ha scritto davvero la storia, Cleofe si voltò e notò che pure Rosina la fissava: fintava indifferenza, ma l'anziana aveva scovato uno sprizzante luccichio negli occhi verdastri della giovane, malcelato segno di gioia per essere la prima a conoscere il suo segreto.

La noia di Rosina, acuita dalla mancanza di clienti, fu interrotta solo dall'arrivo del Gagliardini:

— Buongiorno, professore, ha visto che danni questa notte? —  e passò così l'ipercalorico tubetto di triplo concentrato sul lettore a barre.


(fine)



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