L'Uomo e il Topo

C'era, ogni quando, un refolo freddo che obbligava la luce della torcia a volteggiare in maniera capricciosa.
L'uomo si guardò attorno in silenzio costringendo gli occhi a discernere le forme nel buio: qui, una colonna di pietra istoriata, laggiù un doccione a forma di diavolo.
La cripta era buia e puzzava di vecchio.
Si mise a fischiettare piano, cogliendo una coda e delle zampette sparir nelle fessura del muro, lontano dalla luce.
Teneva alta la torcia, ammirando i fregi sulla pietra e quasi inciampò su una sporgenza.
Vide un topo sculettare rapido sui gradini, svanendo tra due colonne dalla faccia di gargolla. Se ben ricordava, le urne dovevano essere da quel lato. Non pensò minimamente ad affrettarsi anche se tanto avrebbe voluto raggiungere il topo per veder dove s'infilava.
Oltrepassò l'ultimo arco e mosse la torcia. Grandi ombre scavarono il volto dei demoni di pietra e la luce divorò quel poco di oscurità rimasta ai margini. Più avanti essa appariva in un blocco compatto e vivo, tremolante protoplasma di gelatina allo sguardo umano.
Un soffio putrido gli si gettò in gola, ma egli camminava sempre imperterrito e incantato come un bimbo.
Quando vide i primi loculi li lasciò brillare alla luce. Quando s'accorse che erano vuoti, emise un fischio più lungo e alzò le sopracciglia.
Lo confortavano il crepitare del fuoco e l'aroma di combustibile bruciato.
Ragionò nel modo lento e inesorabile che gli era proprio: il locandiere aveva detto: — La pestilenza s'è presa duecento uomini.
Lì non ricordava ci fosse posto per tutti a meno di non bruciare i morti più vecchi. Gli altri, i primi villici tumulati, dovevano ormai esser polvere.
L'agire della pestilenza era stato a dir poco scientifico: la morte s'era portata via solo i giovani maschi, dopodichè aveva lasciato il borgo sulle ali dei venti.
Gli uomini, quelli rimasti, gridavano al flagello e chiedevano l'intervento di preti e sacerdoti affinché impedissero un ritorno della collera divina. Di quello infatti doveva trattarsi. Come spiegare la precisione mortifera che aveva infranto il destino di alcuni e non di altri?
L'uomo continuò nel suo cammino e rivide il topo. Non era sicuro che fosse quello di prima, ma lo seguì con attenzione mentre caracollava tra i loculi. Ogni tanto il topo voleva fermarsi e seduto sulla coda, portava le zampine alla bocca per sgranocchiare qualcosa. Non sembrava far caso alla luce della torcia: ora si teneva dentro il margine, ora sgusciava fuori. In quei momenti l'uomo poteva identificarlo dal rumore delle zampe. Un suono impercettibile, ma continuo.
Era tutto incredibilmente amplificato là sotto. L'assenza di vita faceva del minimo scricchiolio il colpo di un gong.
L'uomo oltrepassò la fila di tombe per giungere in un'ala nuova o antica, scavata in maniera più rozza.
Con la coda dell'occhio guardò a sinistra per esser sicuro che il topo ci fosse ancora. Quello squittì e riprese a zampettare.
L'uomo sorrise e fischiettò piano. Pensava alle storie bislacche dei villici e di come uno avesse visto suo cugino risalire la strada dei pascoli verso il bosco dove si trova la vecchia segheria. Niente di strano, non fosse per il fatto che il giovane era morto settimane prima.
Fece danzare la torcia sulle pareti. Era un lavoro fin troppo grossolano. Pensò alle mani che avevano spinto i picconi a mangiare roccia su roccia, quindi vide un paio d'occhi e la sclera bianca che risaltava come avorio in un pozzo di pece.
S'accorse che il topo schizzava dentro una delle tante fessure, lasciandolo solo.
— Ma che diavolo succede? — domandò il padrone degli occhi, arretrando e infilando una porta: — Che succede? — ripeté; tuttavia non sembrava volere una risposta. Richiuse la porta alle spalle e svanì.
Fu allora che il topo si fece rivedere. Seduto sulle zampine posteriori, guardò l'uomo. Aveva il muso a punta e gli occhi brillanti come onice. D'un tratto schizzò verso la porta, sparendo in una fessura del legno, per poi tornare indietro e guardare l'uomo.
— La fai facile — disse questi che era alto e aveva un elmo di ferro con un gran paio di corna. Il topo squittì e s'infilò nella fessura.
L'uomo scosse la testa e poggiò la spada contro il muro, poi mise la torcia in una nicchia e disse: — Proviamo.
Prese la rincorsa e diede una spallata. I cardini stridettero e l'elmo si coprì di polvere, ma la porta niente, non ne volle sapere. L'uomo grugnì e vide il topo comparire. Sbatteva quei suoi occhietti luccicanti come non si capacitasse del fatto che il grosso amico non potesse seguirlo dalla fenditura.
L'uomo fece alcuni passi e riprovò. La spalla batté forte sul legno, la porta tenne.
— Facciamo in un altro modo — disse al topo. Slacciò la cinghia che gli teneva uno scudo appeso alla schiena e rimosse il balteo dell'ascia: era una grossa arma da guerra col taglio perpendicolare al manico. Benché non fosse una scure e quindi risultasse inadatta per quel genere di lavori, egli l'afferrò e la sbatté sul legno con quanta forza aveva. L'ascia staccò un occhiello di faggio e poi un altro e un altro ancora. Tutte le volte il topo schizzava dentro e fuori come per controllare l'andamento dei lavori. L'uomo grugniva mentre all'odore del cuoio e della muffa si mischiava quello del sudore.
Alla fine aperse un buco abbastanza grande per passarci; presa la torcia, dette un'occhiata: il tunnel sembrava proseguire, appena sbozzato come prima. Dell'altro, comparso all'improvviso, nessuna traccia.
Vide il topo caracollare ai margini della luce; afferrò l'ascia e lo scudo, li mise in spalla, poi si ricordò della spada: — Andiamo — disse.
Camminò per un buon tratto fino a che all'odore di tomba sopraggiunse quello di corpi non lavati.
Il silenzio si spense, lasciando prima un'eco, poi il battito ritmico di qualcosa.
Avanzarono ancora lui e il topo, la bestiola sempre ai margini del lume di torcia. Adesso c'era una parte di buio più chiara sullo sfondo e il battito si faceva intenso.
— Scuri — disse l'uomo, poi tese ancora l'orecchio: — E seghe — continuò. L'istinto gli impose di spegnere la torcia. Afferrò lo scudo e guardò da sopra l'orlo come gli aveva insegnato il padre.
Senza l'abbaglio della lucerna si vedevano mille sfumature di grigio. Si coglievano oggetti e persone in movimento. Non c'era un fuoco, non un lume.
L'uomo si ritrovò allo sbocco del tunnel. Davanti a lui la campagna; a perdita d'occhio, uomini martellavano e segavano.
Uomini, tantissimi uomini. S'incamminò, passando vicino a uno di loro. Questi aveva in pugno una sega e la usava su un giovane tiglio. L'uomo si avvicinò, dandogli un secondo sguardo, poi lo chiamò per nome perché lo conosceva. L'altro non rispose: continuava a segare come se al mondo non ci fosse nulla di più importante.
C'era una puzza di marcio e di terra smossa.
L'uomo deglutì e abbassò lo scudo. Fu allora che s'accorse di qualcosa. Un'ombra semi-percepita strisciava nella sua direzione. Si girò appena in tempo e la punta di una spada rimbalzò sullo scudo. Egli rispose d'istinto. Le due lame s'incontrarono e gli avversari si videro al di là delle crociere.
Colui che aveva attaccato per primo era anche fuggito attraverso il tunnel e s'era posto lì al buio ad aspettare. Perché quello era il suo lavoro: aspettare e far sì che ogni cosa andasse per il verso giusto. "Bisogna che lavorino giorno e notte" diceva il padrone e lui si premurava che le istruzioni non venissero disattese. "Bisogna che nessuno credi disturbo". Non era forse lui il migliore sulla piazza per zittire i seccatori? Ma quel seccatore, più alto di una testa e con un armamentario eccezionale, l'avrebbe zittito?
Liberando la spada, cercò un colpo basso, ma il suo viso di cuoio venne schiacciato dal metallo dello scudo.
L'altro uomo aprì gli occhi, come lo vedesse per la prima volta e urlò: — Galena sei tu! — disse: — Quella testa di lupo che porti addosso e quel mantello sono inconfondibili.
— Io non ti conosco invece — disse Galena.
— Manco da troppo — fece l'altro: — Devi spiegarmi cosa ci fa il figlio del fabbro qui in piena notte.
—È una segheria, perciò lui lavora — rispose Galena cercando l'affondo.
— Lo stesso figlio del fabbro che è morto di peste?
Galena annuì: — Te l'ho detto: lavora.
— E tu che fai? — l'uomo guardò la faccia color cuoio dell'altro e gli occhi neri che spuntavano sotto le zanne del copricapo.
— Vedo che niente vada storto.
— Per conto di chi? Chi ti paga? Non credo che tu da solo abbia messo su questo baraccone — l'uomo spinse via Galena con lo scudo, poi diede un rapido sguardo a sinistra: — Neanche dopo la morte vengono lasciati in pace — disse: — Il tuo padrone deve essere un negromante, uh?
Galena non rispose, ma tirò fuori un pugnale che aveva allacciato alla gamba destra; con quello e con la spada, si diede a oltrepassare le difese dell'altro. Riuscì solo a procurargli numerose ferite al braccio destro e a intaccare lo scudo. Al contrario di Galena infatti, l'avversario era chiuso in un giaco di cuoio con un disco di ferro sul petto. Galena allora staccò uno dei denti incantati della sua collana e lo lanciò addosso all'altro. Questi ebbe una sensazione di gelo al braccio e lasciò inavvertitamente cadere la spada. Le dita, la mano, divenivano di pietra!
— Che mi hai fatto? — urlò meravigliato. Galena diede un affondo col pugnale, ma la punta rimbalzò sullo scudo. L'uomo fece un rapido contrattacco, spingendo Galena che cadde all'indietro, poi scartò lo scudo e con la mano sinistra afferrò l'ascia. Bilanciato in pugno il manico, si avventò su Galena che in quell'attimo riguadagnava l'equilibrio. La lama dell'ascia gli spaccò il cranio sino ai denti: il colpo era tanto forte che vi rimase incastrata.
L'uomo cadde di schianto senza emettere un gemito. Uno dei due occhi scuri rimbalzò sul gambale del vincitore.
Rammentava Galena, lo rammentava come fosse ieri. Un giovane la cui intelligenza era eguagliata dalla boria. Il figlio d'un ricco e molliccio mercante che non aveva fatto altro se non adulare quel ragazzo ombroso senza negargli mai niente. Galena in vita sua non aveva ricevuto uno schiaffo. Era il più amato e coccolato; adulto aveva ricambiato le gentilezze con la spada. Un assassino, un bandito. Coi suoi malfattori taglieggiava chiunque s'avventurasse sulle colline. Ora giaceva ai piedi dell'uomo in una pozza di sangue e materia cerebrale.
Gli zombi non s'erano accorti di nulla; con seghe, scuri e martelli lavoravano per un padrone invisibile.
Il braccio era di pietra sino al gomito, ma il sortilegio sembrava bloccato.
Si udì uno squittio. L'uomo vide il topo spuntare col suo muso a matita e gli occhietti brillanti.
Ficcò la punta della spada nel terreno e il topo rinculò per poi bloccarsi. L'uomo s'appoggiò sulla crociera: — Mi è dispiaciuto ammazzarlo — disse, tra uno sbuffo e un sospiro: — Guarda dove l'hanno portato la boria e la cattiva educazione: in un mare di morti. Mio padre invece, quanti schiaffi mi dava se non rigavo dritto!
Il topo piegò la testolina di lato come stesse ascoltando, poi schizzò via tra le ombre.
Da nord, dallo spettrale scheletro della segheria, era apparsa la sagoma di un uomo.
— Un altro guardiano — disse colui con la spada.
— Oh, no io sono il padrone qui — la voce non sembrava per niente turbata dell'indiscutibile scempio.
— Sei il negromante?
— Si — il nuovo arrivato si toccò i baffi, poi fece schioccare le dita. Il braccio dell'altro iniziò a tornare di carne, il sangue formicolò rapido.
— Avrai sentito parlare di me, mi chiamo Glabro e sono giunto al villaggio da tre o quattro mesi — l'uomo alzò una mano indicando la segheria: — Quella struttura fatiscente — disse: — Visto come l'ho risistemata? Ora i miei uomini lavorano giorno e notte, notte e giorno tagliando e segando dal noce più duro per le mense dei ricchi, al tiglio e al pioppo più tenero per le decorazioni e le laccature — l'uomo si tormentò il pizzetto diavolesco che gli cresceva sul mento, poi prese uno strano coltello ricurvo e lo sollevò alla luce delle stelle: — Non ti sei accorto che la frequenza delle zattere verso la Città Splendente è aumentata a dismisura? Non vedi che ormai quasi ingorgano il fiume?
— E tutto finisce nelle tue tasche, dico bene?
— Oboli d'argento, talleri d'oro! — l'uomo mise via il pugnale e tolse un invisibile granello di polvere dalle maniche a sbuffo della casacca: — Oh amico mio, quando prendi? Quanto ti pagano? Sei oboli al giorno?
— Quanto prendeva questo idiota? — disse l'altro, alludendo a Galena. Il negromante sorrise: — Meno di quel che prenderai tu.
— Che intendi dire?
— Beh che ti assumo, d'altra parte il mio guardiano è appena morto!
— Sembra una proposta interessante.
Il mago sorrise e i suoi occhi lampeggiarono: — Sono contento che la pensi così.
L'altro stava per replicare, per dire che gli sarebbe piaciuto tanto far la sua parte al più presto, quando sentì una dolorosa fitta al piede. Era come se un ago gli fosse penetrato attraverso il cuoio dello stivale. Guardando in basso gli parve di vedere una lunga coda di topo sparire tra i sassi. Allora alzò la spada e disse: — No!
L'altro sorrise: — Peccato.
— Per te — disse l'uomo: — Perché ti spaccò la testa, questo è sicuro.
— Se muoio io, che te sarà di tuo cugino? — fece il negromante, puntando a uno dei morti.
— Verrà seppellito e riposerà in eterno come avrebbe già dovuto fare.
— Una vacanza? — disse il negromante, tirando fuori il coltello: — Assolutamente no! — fece un gesto e disse qualcosa di incomprensibile, poi dal terreno antistante la segheria uscì un'ombra alta due metri col più grande paio di corna che l'uomo avesse mai veduto.
— Che diavoleria è? — domandò al negromante.
— Lo scoprirai prima di quanto pensi — rispose l'altro.
Frattanto l'essere o qualunque cosa fosse, avanzava, stringendo una grande spada da guerra. A ogni metro si faceva più intenso il miasma. Non era una creatura vivente e neanche un cadavere resuscitato dai sortilegi di Glabro. Aveva il torace umano coperto dai resti di un'armatura e da un ampio mantello, tuttavia gli arti inferiori erano simili a quelli di una grossa capra o di un pony e terminavano in sudici zoccoli. La testa fu la cosa che di più impressionò l'uomo: un teschio umano lucido con grandi corna. Era come se il cranio di un uomo a un tratto avesse cominciato a mostrare la crescita di protuberanze ossee che col tempo si fossero fatte sempre più lunghe.
Alzò la spada che aveva il colore dell'aria malsana e il suono dell'odio. Veniva avanti affondando gli zoccoli nella terra morbida, e i morti seguitavano imperterriti il loro compito.
— Immagino che dovrò combatterlo.
— Immagini bene — disse Glabro. L'altro grugnì, poi imbracciò lo scudo, solo per scartarlo e afferrare l'ascia. Diede un'occhiata in giro, sperando di vedere il topo. Non era suo quel muso a punta che faceva capolino tra i sassi?
—È il momento di farti venire in testa qualcosa — mormorò al topo: — L'ho capito sai che dietro la tua pelliccia si nasconde uno di quei maghi, un druido, perciò trasformati!
Il topo si limitò ad ammiccare, poi squittì.
Il mostro alzò la spada e fece per abbatterla sull'uomo. Questi fu più rapido e gli indirizzò sulle zampe di capra un colpo d'ascia.
— Bene, bene! — Glabro batteva le mani deliziato: — Bene!
— Bene un corno! — l'uomo si spostò in tempo per evitare il fendente del mostro, poi si diede in una tempestiva replica, ottenebrata dallo scudo dell'altro. La testa d'ascia rimase incastrata sul bordo dello scudo; il mostro tirò e l'uomo perdette l'equilibrio cadendo in avanti.
— Un grande spettacolo! — urlò Glabro: — Un grande spettacolo!
— Devi sempre ripetere le cose due volte? — domandò l'uomo, rotolando su se stesso e snudando la spada. Il mostro s'era sbarazzato di ascia e scudo e ora impugnava la grande lama a due mani. L'abbatté sull'uomo che deviò il colpo.
— Bene, finiscilo, finiscilo! — urlò Glabro alla sua creatura. L'uomo grugnì e afferrò un sasso che sbatté con forza sul ginocchio del mostro. Il crac fu netto e la bestia finì per terra.
Glabro vedendo il proprio campione abbattuto a quel modo, fece un salto e strinse nervosamente il pugnale.
— Fermo! — disse, vedendo l'uomo alzare la spada e puntargliela alla gola: — Evocherò i poteri del buio e delle tenebre.
— Che sono la stessa cosa.
— Che non sono la stessa cosa perché... — Glabro cercò di continuare la frase con un palmo d'acciaio in gola, poi con due, infine con tutta la lama, ma inutilmente. Cadde di schianto, vicino al suo orrendo figlio.
L'uomo pulì la spada sulle vesti di Glabro e la mise nel fodero: — Grazie per l'aiuto — disse al topo. La bestiola squittì e seduta sul posteriore, portò le zampine alla bocca.

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