Sangue d'Orco

Quando il sindaco di Belpozzo, alla fine dell'anno centoventi, seppe dei disordini che piccole bande armate causavano giù al fiume, mandò un emissario a pacificare le cose.
 Questi, guerriero, contrariamente agli altri della medesima stirpe, usava viaggiare a piedi.
 Rapido e scaltro, sapeva andar per i boschi. Sconosciuto il suo vero nome, tutti a Belpozzo lo chiamavano "Granlupo", in lingua dell'ovest o "Daerdraug" nell'idioma degli elfi grigi.
 Non viaggiava mai solo, bensì con un falco cacciatore. Rispondeva, la bestia, al richiamo di "Meldîn" o "Amico Silenzioso".
 Camminava così, Granlupo, per le lande del Rhudaur, verso il fiume, nel primo giorno dell'anno centoventuno dell'era quarta.
 Daerdraug era un tizio alto e segaligno, con occhi grigi e capelli scuri, che gli uscivano da sotto una cervelliera color rame. Aveva barba, baffi e un mantello blu gettato sulle spalle con negligenza. Le lunghe gambe eran chiuse in stivali di cuoio alti fin sotto il ginocchio e protette da gambali in ferro. Terminava, l'equipaggiamento difensivo, con un giaco di maglia d'acciaio sino a mezza-coscia e uno scudo rotondo in legno. Come armi da offesa, cingeva in vita una grande spada dal pomo largo, atto a essere impugnato. Per bizzarria, essa era chiusa nel fodero sul lato destro del corpo e non, come ci si sarebbe aspettati, sul mancino. Granlupo infatti era destrorso, ma sguainava la spada con un movimento alieno agli altri combattenti, tirandola verso l'alto con la mano destra e facendone poi schizzare la lama in su grazie a uno scatto rotatorio. Tuttavia, ne al sindaco, ne ai pescatori di Belpozzo, interessavano le stranezze di quell'uomo: era sufficiente che Daerdraug facesse il suo lavoro e che lo facesse bene.
 Indomito eroe, giunse al fiume, dove vide i resti di una fattoria.
 — Qui abita Glîn, uno del popolo dei boschi — disse tra sé e sé.
 La casa di questo Glîn cadeva a pezzi e le travi erano annerite. Nessuno aveva più fatto devastazioni del genere sin dall'ultima grande guerra, perciò Daerdraug entrò nell'edificio, sguainando la spada e imbracciando lo scudo con la mano sinistra. Sopra di lui, Meldîn descriveva pigri cerchi.
 L'uomo percepì morte e ne tossì la puzza. Ai suoi piedi, vicino un tavolo spezzato in due, giaceva il cadavere di Glîn. Doveva esser dell'abitante dei boschi: sua era la tenuta da cacciatore, suoi i capelli neri, unti, sue le mani callose. La faccia era irriconoscibile, deturpata dal fuoco.
 Daerdraug imprecò; da quelle parti non succedeva più roba del genere e Belpozzo non aveva la preparazione necessaria per contrastare assassini come quello di Glîn.
 Daerdraug non esaminò ulteriormente il cadavere; c'era fumo nella casa e il puzzo persistente di carogna. Ebbe comunque la sensazione (e fu solo una sensazione appunto) che nel morto ci fosse qualcosa di strano, ma fece per uscire all'aria aperta.
 Non aveva messo piede fuori che notò una freccia conficcata nelle assi del soffitto. Allungandosi, riuscì ad afferrarla: era lunga e piumata di nero. Daerdraug tremò di rabbia: — Orchi! — disse. gettò la freccia sul pavimento, per esaminare un secondo oggetto. Si trattava di una spada, larga e ricurva, del tipo usato dagli orchi durante la guerra.
 Come diavolo avevano potuto le creature del male farsi nuovamente vive? Non era stato distrutto il Signore Oscuro? Non era crollata la sua torre?
 Eppure le tracce lungo il fiume erano di orchi: piedi artigliati o calzanti stivali in ferro. Daerdraug le seguì fino alla riva, dove s'interrompevano. Frustrato, corse a nord: lì sapeva esserci un guado; nel medesimo istante, si fece sentire il richiamo di Meldîn, acuto e lungo. Veniva dall'altra parte del fiume, sopra i boschi selvaggi del Rhudaur.
 Accelerò Granlupo, correndo verso nord. Veloce, s'immerse nell'acqua e avanzò, un piede dopo l'altro. Fu una prova difficile e più volte credette di morire, spinto via dalla corrente. Affrontò, con tutte le proprie forze, l'impetuosa acqua, scegliendo bene i passi e, roccia su roccia, giunse all'altra sponda.
 Era inverno, una stagione pericolosa per lasciare asciugare stoffa bagnata sul corpo. Daerdraug dovette perciò spogliarsi e accendere un fuoco ai margini del bosco. Mantenne la fiamma non troppo alta e si coprì con l'involto di pelliccia che usava per dormire. Impugnò la spada e tenne lo scudo a portata di mano.
 Al morir del giorno, grazie all'aria gelida, ma secca, gli abiti potettero essere utilizzati. Daerdraug si vestì, arrotolò la coperta nella propria sacca e, scudo in spalla, riprese la caccia.
 Meldîn, che durante il riposo del padrone aveva esplorato i boschi e i colli di roccia, lanciò un grido. Le gambe lunghe, muscolose di Granlupo lo portarono a est, sempre più a est.
 Giunse in una piccola radura ove tre statue sedevano attorno a un immaginario fuoco. Troll, dalle dimensioni e dalla bruttezza: esseri di pietra che muoiono alla luce del sole.
 Meldîn era appollaiato su uno di loro e si lisciava le penne.
 Daerdraug giunse piano, come un lupo in caccia. Percepì un frollar d'ali, negli alberi che coronavano la radura, e vide alcuni corvi levarsi in volo. Meldîn indugiò per un attimo, quindi, ad ali spiegate fu subito all'inseguimento. Granlupo si nascose dietro uno dei troll di pietra. Era sicuro che lì, sugli alberi, lo osservasse qualcuno.
 Con lentezza sfilò l'arco e gli mise la corda, quindi incoccò una freccia.
 Gli uccelli si posarono (tranne quello inseguito da Meldîn) per svolazzare subito dopo. Fulmineo, Granlupo balzò da dietro le statue; il suo orecchio colse una freccia ronzare, ma l'arco da caccia vibrò, strappando agli alberi un urlo.
 Qualcosa cadde giù a tonfo, mentr'egli sradicava una freccia nera dal terreno.
 — Maledetti orchi! — disse, gettando l'arco e sguainando la spada. Nel medesimo istante, l'Amico Silenzioso uccise il corvo e piombò giù, verso le piante.
 — Diavolo! — disse una voce, una voce da uomo; poi qualcosa si lasciò cadere dai rami dell'albero e mise mano a una lunga spada ricurva: — Richiama il tuo falco!
 Daedraug si fermò e fece come gli era stato detto, non perché fosse succube dell'uomo o volesse assecondarlo; fu la curiosità a lasciargli chiamare Meldîn. Colui che aveva davanti era Glîn, Glîn in persona. Non che ne avesse riconosciuto le fattezze, ma la voce, la voce era inconfondibile: un ringhio basso, iroso col mondo.
 Glîn aveva indosso abiti strani ed era truccato da orco. Le orecchie allungate, il naso da pipistrello e gli occhi dipinti di nero, per non parlare della bocca, ornata con zanne gialle. Chi aveva fatto quel lavoro sarebbe riuscito a cambiare i connotati di chiunque.
 Daerdraug sorrise; vedeva il volto lungo, scavato di Glîn sotto la finta pelle e la chioma nera, liscia e unta al posto di una cresta d'orco.
 L'uomo dei boschi si avvicinò a colui che giaceva sul terreno. Un passo e Granlupo vide che anche il secondo uomo indossava la maschera d'orco.
 — Che diavolo significa? — domandò, piantando gli occhi grigi in quelli azzurri di Glîn. L'altro non rispose, ma esaminò il punto dove la freccia aveva colpito: — Per gli dei! Un pollice ancora e l'avresti avuto sulla coscienza! — disse, alzandosi e agitando la scimitarra.
 Daerdraug socchiuse gli occhi: — Mi hai giocato un bel tiro — disse: — Cadavere nella tua capanna e ora orco ai margini della radura.
 L'altro sorrise: — Sai chi sono dunque?
 — Glîn, l'uomo dei boschi — rispose Granlupo e puntandogli la spada contro, aggiunse: — E sei tu che, in barba alle leggi del defunto Re Aragorn, porti il caos su queste terre?
 — Non lo chiamerei caos — fece Glîn, allargando le braccia.
 — Penetri di notte nelle fattorie, nei fienili. Rubi galline, mucche; svaligi forzieri e minacci la sicurezza di Belpozzo con uomini armati!
 — Belpozzo è un calderone di letame — rispose l'uomo dei boschi. Daerdraug si accigliò: — Affatto! — disse: — Lì vivono i gloriosi discendenti del popolo di Arnor, il cui sangue scorre nelle mie vene e nelle tue, in parte.
 Glîn sorrise con i denti da orco: — Parli in questo modo perché sei giovane — disse.
 — Ho passato i diciotto inverni — intervenne Daerdraug. Glîn allargò le braccia ancora una volta: — È lo scotto della guerra; gli uomini della generazione di mio padre creparono quasi tutti contro il Signore Oscuro e, si sa, i morti non fanno figli, giusto?
 — Sono troppo giovane così, secondo te? — azzardò Granlupo. Glîn annuì: — Giovane e pericoloso. Hai una grande abilità, incanalata in modo pessimo. Io — Glîn si batté il petto: — Ho sempre vissuto nel Rhudaur e non c'è terra più brulla, più selvaggia. Siamo stati affamati dagli orchi e dai lupi; i servi del Signore Oscuro ci hanno ammazzati come porci e ora dobbiamo pagare lo scotto di una guerra enorme in tasse.
 — Tasse? — domandò Daerdraug: — Che vuoi dire?
 — Da dove ha preso Gondor, il denaro per le fortificazioni, i mercenari, le spade, le armature? Con che soldi i cavalieri di Dol-Amroth o le guardie di Minas Tirith comprano e addestrano i loro animali? Tasse! — l'uomo dei boschi agitò la scimitarra: — Tasse sul grano, sul legname, sulle bestie, sul raccolto. Tasse per utilizzare un ponte o una strada; eppure io capisco il tuo Re Aragorn e capisco anche suo figlio, che siede ora a Minas Tirith. Non ci vuole la spada per tenere unito un regno. Dopo la guerra servono soldi per rimpinguare le casse reali! — Glîn si calmò un poco, traendo dal borsello alcune foglie e stropicciandole sulle mani da orco, quindi, chino sul ferito, gli estrasse la freccia. L'altro gemette e scalciò.
 — L'hai beccato proprio bene — fece Glîn.
 — È un bandito — disse Daerdraug. Meldîn lanciò un urlo; era sceso sul braccio avvolto nel cuoio del padrone e ora gli zampettava appollaiato sulla spalla.
 — Cos'è, cerchi di giustificarti con te stesso? — fece Glîn. Granlupo non rispose.
 — Questo è mio figlio — continuò l'uomo dei boschi: — E se muore, il suo sangue ricadrà sulla tua testa!
 — Parli della morte con leggerezza — disse Daerdraug: — Non hai forse tu ucciso un uomo e lasciato il suo cadavere al tuo posto nella casa annerita dal fuoco?
 L'orco sghignazzò: — Ero io! — disse: — Proprio io!
 Granlupo socchiuse gli occhi: — Come? Per gli dei, come hai fatto?
 — Nello stesso modo in cui mi vesto da orco: trucchi, resina, protesi di legno e cuoio bollito. Per la puzza ho usato delle carogne. Ti osservavo e quando capii che ti dirigevi a nord, andai nella direzione opposta, sulla zattera che io e i miei uomini teniamo ai margini del Fiume Grigio. Comunque, tornando a Belpozzo; sai quante marche d'argento chiede il sindaco come decima? Sai quante ne domanda il Re? Ma certo che no! Sei un ramingo, un cupo uomo dell'Ovest, abile cacciatore e spadaccino. Quel porco che siede nella magione di Belpozzo ti lecca i piedi. "Milord, Figlio dell'Ovesturia" è così che ti chiama!
 — Dove vuoi arrivare? — fece Daerdraug, spazientito.
 — Ho agito secondo le leggi e mi hanno sputato addosso. Ora quello che mi serve, me lo prendo! — disse Glîn: — Solo così io e la mia famiglia potremo tirare avanti ancora un po'! Come dicevo, il Rhudaur è una terra che non fa regali.
 — Suppongo che abbiate già considerato l'idea di spostarvi — azzardò Granlupo. Glîn annuì: — Non ci sono terre! L'unica fertile è stata lasciata a quei nanerottoli, gli hobbit, con raminghi come te che ne pattugliano i confini! Gli hobbit, capisci? Re Aragorn li aveva più a cuore di noi!
 Daerdraug non disse niente. Glîn fece una pasta con le foglie e l'applicò alla ferita del figlio: — Siamo relegati qui, fra le lande dei troll e gli acquitrini di Etten! Terre desolate, che una volta eran dominio di maghi e stregoni! — Glîn scosse la testa: — Non è tutto bianco, non è tutto nero, giovane lupo — sentenziò: — Devi coglierne le sfumature, come noti le peste di lepre — parlò con tono calmo, quindi dette un occhio al figlio: — Ecco, hai fatto giustizia perché adesso egli è morto — Glîn gli chiuse piano gli occhi e si alzò, brandendo la scimitarra. Con una mano fece saltare la maschera da orco, rivelando quel suo viso lungo, triste, che Daerdraug conosceva bene.
 — Non ti abbiamo fatto nulla di male eppure ci hai attaccato — fece l'uomo dei boschi: — Rubavamo solo ai grassi signorotti e ai panciuti e stupidi uomini, da Brea a Belpozzo!
 — È stato tuo figlio a scoccare una freccia per primo — gli ricordò Daerdraug: — E ci sono molti altri modi di vivere che vestirsi da orco, terrorizzando la gente — il suo tono era calmo, riflessivo.
 Glîn avanzava inesorabile: — Devo ucciderti — disse: — Una vita per una vita; questa la legge del Rhudaur.
 Granlupo non disse nulla, ma gettò lo scudo e disse a Meldîn di volar via. Stringeva ora la spada a due mani, preparato al duello. L'uomo dei boschi parve bruciarlo con i suoi occhi azzurri.
 Ci fu un rapido scambio di colpi, durante i quali il ramingo cercò di ferire e non uccidere. Glîn si batteva come una furia e in modo pericoloso. Di questo passo avrebbe sicuramente messo a repentaglio la vita del giovane soldato. Daerdraug cercò ancora una volta il colpo per ferire; poi rivolse una preghiera agli dei. S'insinuò nella guardia dell'altro e gli fendette il torace con la propria spada. Glîn cadde, farfugliando. Granlupo lo vide irrigidirsi, poi gli occhi si fecero vitrei.
 Buttò la cervelliera al suolo e terse la fronte imperlata, quindi mise la spada nel fodero, senza pulirne la lama. Era un'arma forgiata dagli ultimi elfi; un oggetto che il padre e prima il nonno, avevano usato per nobili scopi. Orchi e troll erano morti con quel ferro nelle viscere.
 Granlupo raccolse la cervelliera e l'indossò, quindi uscì dal cerchio di alberi, certo che il sangue di Glîn lo avrebbe tormentato per sempre.

(torna alla scheda)