Quando tu leggerai questi canti, io che visibile fui sarò diventato invisibile

………………………………………………………………

Ma fa come fossi con te. (Non essere troppo sicuro che adesso non sono con te)

Whitman


Un racconto impossibile?


Non sono mie le parole che scriverò, ma di qualcuno che è uscito da questa vita per fluire in un’altra, parole sussurrate, ascoltate con gioia e fatica, la gioia di sentirlo vicino e partecipe della mia vita di tutti i giorni, la fatica di riuscire a percepire i più piccoli bisbigli, di capire quello che filtra attraverso quelle parole che ci fanno conoscere qualcosa di un mondo e di una vita che sembrano simili e insieme diversi, immensamente diversi dai nostri.

Parole non mie, e per questo, per non appropriarmi di ciò che non da me è stato pensato, sarà lui, l’io narrante di questa quasi incredibile, ma vera, storia di uno che vive, vive!, in un’altra dimensione, sarà lui ad inanellare parole e parole che ho soltanto raccolto in mesi e mesi d’ascolto; parole e frasi spesso spezzate, frammentarie, talvolta discordanti nei tempi, che ho riunito e ricomposto e raggruppato per argomento, per una più semplice lettura. Ma non semplice è stato il mio lavoro che ha richiesto e richiede costanza e volontà, e non semplice il dialogo, se di dialogo si può parlare, tra lui e me, spesso reso più difficile da qualche incomprensione (reciproca? forse solo mia, per i miei sensi inadatti).


Il distacco.

Tu mi chiedi cosa ho provato quando sono uscito dalla vostra vita. Smarrimento, paura, ero uscito improvvisamente dal corpo che vedevo sotto di me, disteso a terra, dove ero scivolato, e tu, tu che mi trascinavi sul letto e tentavi di infondermi un soffio di vita, no, dicevo, sono qui, e non udivi, stringevo la tua spalla per scuoterla, dirti che ero vicino a te, non avevo bisogno d’aiuto fisico, ma morale, e non sentivi, cercavo un sostegno, una forza per rientrare in me stesso, perché mi sentivo galleggiare senza trovare appigli… è stato un momento spiacevole, confuso, non capivo…Un sogno, mi dicevo per confortarmi, tra poco mi sveglierò e sarò lì, con lei, e rideremo di questa mia avventura notturna. E, a consolazione di quello stordimento, non sentivo alcun dolore, non più, anzi mi pareva d’essere leggero come una nuvola, una piuma che volteggia piano nell’aria. Solo quando avvertii tutta la tua disperazione cominciai a dubitare del mio sogno e rabbia e dolore di non poter infilarmi in quel corpo che era mio, mio!, mi sconvolsero; poco dopo sentii vicino a me delle presenze, mi volsi (ora capivo di avere mani e volto e sensi, anche se non riuscivo a farmi vedere da te, e il mio corpo era lì, immobile, e non piacevole a guardarsi) e vidi i miei genitori, sorridenti, affettuosi che m’invitavano a seguirli. In un attimo mi trovai avvolto in una serena tranquillità, non sentivo bisogno di niente, solo di quel sorriso rassicurante, mi girai per guardarti, c’ erano altre persone attorno a me, cioè a quel corpo inanimato, un giovane, un medico, poi allungai il braccio, presi la mano che mamma mi tendeva (lei sì, potevo toccare, stringere!) e mi sentii scivolare verso l’alto, in una nebbia densa e opaca. Non ebbi paura, era sparito quel senso d’isolamento, d’impotenza che mi aveva sconvolto, anzi, ero felice di andare, non sapevo dove, ma camminavo, no, scivolavo con i miei genitori che mi inviavano continui segnali di calma, una calma gioiosa…

La nebbia si dissolse, improvvisamente, e una luminosità intensa che infondeva energia e letizia mi avvolse, mi accorsi di essere a casa, nella mia vecchia casa, dove anche noi da qualche tempo eravamo tornati, nella mia camera da ragazzo, e non pensai che entrando nella stanza accanto, che era diventata la “nostra”, avrei potuto vederti, parlarti. No, il mio vecchio letto era lì, pronto, invitante, e poiché un gran torpore mi aveva invaso tutto, mi sembrò naturale distendermi: guardai i miei genitori, sorridendo quasi a scusarmi di quella grande stanchezza e vidi che apparivano giovani: bruna e ridente mia madre, e bella, come l’avevo vista tante volte nell’album di fotografie, e con un sorriso negli occhi neri e vivaci mio padre che divideva la sua affettuosa attenzione fra me e mamma. Non ebbi nemmeno il tempo di stupirmi, perché mi addormentai prima di poter formulare un pensiero.


Un sonno “riparatore”? lungo o breve?


Certo, l’ho avuto. Quanto tempo trascorse, non so; quando mi svegliai ero in un’altra casa, piccola, disadorna, mamma e papà non c’erano, ma mi pareva di risentire un saluto e un consiglio che mi avevano trasmesso nel momento in cui mi ero addormentato: siamo felici di averti con noi, in questa nostra vita, la vera vita, sii sereno, ci rivedremo presto. Cominciai a pensare che il mio, forse, non era un sogno, che ero entrato davvero in un’altra vita, che… non ricordo cosa pensai, era una folla di domande, di perché senza risposte, un turbinio… uscii, vidi un prato di verde smeraldo, alberi, cespugli, fiori dai colori incredibili… c’era una panchina, addossata alla casa, e mi sedetti lì a pensare, a tentar di capire… spesso, quando rifletto, siedo su quella panchina, mi pare di tornare nella nostra casetta in montagna… la mia, la tua casa, sembra Poguglia (è il nomignolo affettuoso con cui amava chiamare il paese della nostra piccola casa in montagna).


E poi, dimmi, cosa hai visto, sentito?


Tabù. Ti amo, chiudo.


Penso sia necessaria una spiegazione: il “chiudo” è un’espressione che ho adottato per avvertirlo che ho terminato di registrare (i messaggi mi giungono di sera, per mezzo del registratore), espressione che lui ha evidentemente accolto e fatta sua. Il “tabù” significa che non vuole o non può aggiungere altro, il mondo in cui vive non è certamente oggetto di racconto e se riesce a comunicare con me, cosa che ogni giorno mi pare sempre più incredibile e nello stesso tempo naturale, è un privilegio che ci è stato concesso o, meglio, donato per amore, solo per amore. Come tale lo accogliamo, riconoscenti per ogni parola che misteriosamente passa fra noi.

All’inizio, ai primi sussurri, sillabe appena accennate, fui così certa che fosse la sua voce, che non avrei avuto bisogno di conferme; eppure le chiesi, le volevo soprattutto per rassicurarmi di non sognare, di non inventarmi un conforto… poi continuai a chiederne, non per convincermi della cosa straordinaria che ci era stata data, ma per avere un argomento di conversazione, come dire?, naturale, parole che marito e moglie si scambiano alla sera, fatti di tutti i giorni, mi hai pensato, mi hai visto … ?


CONFERME

Quante! Ogni sera desidero sentire se mi segue, se vede dove vado, cosa faccio… sono insistente, qualche volta, lo riconosco, ripeto le domande, non mi stanco di chiedere, chiedere… che pizza! mi dice, cambia, te l’ho già detto, sei un po’ sorda? E’ vero, non sento tutto quello che dice, ma più di così non posso capire, sono così deboli, spezzate, quasi impercettibili le tue parole, amore mio…

Mi chiedi se so dove sei andata, oggi, ti seguo dovunque, lo sai:? Hai lavorato nella camera piccola, hai usato il trapano, hai fatto cambiamenti, brava!, ma quanto lavori… hai ascoltato musica… sì, l’ascolto anch’io, con te. Sì mi piace, che domande! La musica faceva parte della mia professione, era il mio piacere, non dirò il mio amore, quello sei tu… quante domande, sei una pizza! Ho visto il panorama che vedevi tu dall’altana, certo, ma quello che ammiro io è più bello, quando vieni qui? La luna questa sera era splendente, l’abbiamo guardata assieme e ci siamo sentiti vicini, vero?

Qualche volta gli parlo, durante la giornata, oltre a pensarlo costantemente, e spesso dà risposta alle mie domande mute: gli riconosco una certa pazienza, anche se a volte mi sembra stanco, imbronciato, non so se per pensieri suoi o per domande mie; anche quando era in vita, che dico, la vita è l’altra, la sua, quando era qui, visibile (perché anche ora è qui, lo sento continuamente accanto a me, e me ne dà tante conferme), tutto ad un tratto non parlava più e non capivo se era per qualcosa che avevo detto o fatto, o per altre ragioni a me sconosciute. Non è cambiato molto, mi pare. Forse ora seppur con avare parole, quelle che riesci ad inviarmi, dici più chiaramente quello che pensi, quello che senti, magari scherzando, come eri solito. Non ascoltarmi, mi pento di quello che ho detto, non vorrei che tu misurassi, di nuovo!, le parole, i sentimenti…Parlami ancora e ripeti quelle parole che attendo, che desidero sempre sentire da te!

Cingimi. Non allontanarti mai da me, ho bisogno di sentirti vicina, mia, nonostante la porta che ci separa, vorrei che tu fossi qui… qualche volta mi sento stanco, vecchio, anche se… non misuro le parole, come vedi, sei tu che non sempre le puoi afferrare, è un prodigio, un privilegio poterci sentire, anche se in modo difficoltoso, imperfetto…

Hai detto che sei vecchio, ma hai aggiunto “anche se…”

Siamo tutti giovani! Ma qualche volta sono stanco, allora riposo e dormo nella mia, nostra, casa che aspetta te per essere più bella, accogliente, lascio a te questo compito: verrai presto? Bello è stare qui, ma mi manchi… ti cingo, cingimi!

Anche per questa parola è forse necessaria una spiegazione: “cingo” per lui, per noi, significa ti sono vicino, ti abbraccio, ti voglio bene; sappiamo che non troppo a lungo possiamo conversare, né chiaramente, per questo misuriamo le parole, diamo loro ampi significati, per poter esprimere tanto con brevi parole.


STRANE CONVERSAZIONI

Dopo i nostri primi colloqui, incerti, talvolta resi difficili da qualche equivoco, da qualche parola fraintesa, ma ricchi di una gioia che non pensavo più possibile, cominciarono a giungermi ripetute, quasi ossessive richieste di… non so come definirle, di aiuto?, no, erano inviti che sembravano comandi, come se avesse necessità di quello che chiedeva…

Ti aspetto, vieni. Ti voglio qui. La nostra piccola casa ti chiama, e lì saremo, amanti felici.


Lo vorrei anch’io, ma come devo fare? Se tu sapessi, ma lo sai, quanto desidero esserti vicina, non solo con il pensiero!


Cingo, ti cingo, vieni presto, per non dimenticare (e come potrei?), qui è splendido, come piace a te, devi venire, è fantastico! Quando verrai, ti darò il meglio di me. Vieni!


Le sue richieste erano sempre più frequenti, ogni sera si aggiungevano alle altre parole, si ripetevano di colloquio in colloquio, mi allettava con promesse, con tutti quegli aggettivi, splendido, fantastico…. Poiché non riuscivo a capire e non mi spiegava come potevo accontentarlo, come dovevo comportarmi, improvvisamente una sera formulai una brusca domanda. Cosa devo fare per venire da te, suicidarmi? E immediata, imperiosa giunse la risposta.


Non devi ucciderti! Devi solo dire: vengo!


Ho così avuto la conferma che i suoi continui, insistenti inviti sono solo desiderio, attesa, quasi necessità di essere insieme, ancora e per sempre. Lo voglio anch’io, lo sai, voglio raggiungerti in quel tuo mondo di cui ho solo una pallida idea, forse nemmeno quella, un’intuizione confusa, dedotta (immaginata?) dalle tue parole bisbigliate in fretta, come se non ci fosse il tempo o l’energia necessaria per comunicare. Al mio gran desiderio, si aggiunge, devo confessarlo, anche la curiosità di vedere te e il luogo dove ti trovi e che intravedo appena attraverso una nebbia che i tuoi sussurri non riescono a dissipare. Ora chiudo, inviami quelle parole che mi danno serenità e gioia, se di gioia posso parlare, con te così lontano, anche se vicino in questo strano, meraviglioso modo…


Sono qui, accanto a te, lo senti, vero? Ti amo, ti abbraccio tutta, ti voglio un bene che non finirà, ti voglio mia.


Il giorno, anzi, la sera successiva ad un nostro colloquio non chiaro, forse perché da me inconsciamente respinto, chiesi la spiegazione di certe parole che avevo intuito più che sentito, di cui ritenevo non aver compreso il significato: com’è possibile?, mi chiedevo, credo di capire e invece sbaglio tutto; e allora, mi venne il dubbio, devo rimettere in discussione ogni cosa, l’ascolto, la ricezione, i miei sensi, forse anche la mia mente? Certo, se ne parlo a qualcuno sarò ritenuta, se non pazza, esaltata, una che inventa tutto a suo conforto e consolazione…


Sono qui, voglio stringerti come quando ero nel vostro mondo, amarti, averti tra le braccia, vorrei che io e tu…(parole che non trascrivo)


Ora sono io che dico “tabù”! Non parlavi così, un tempo, eri meno diretto, anzi, di poche castigate parole, forse nemmeno quelle…


Cara, ti voglio, voglio unirmi a te, tu accendi il mio desiderio e …


Tabù, ancora tabù… forse non capivo, forse non volevo comprendere, tanto la cosa sembrava impossibile… Amore mio, anch’io ti voglio, ma come puoi pensare… e il tuo mondo non è spirituale, immune da certi desideri?


Tu hai capito bene, se vuoi mi ripeto, non sai che l’amore che unisce due anime gemelle è eterno? La nostra unione dura, anche sotto questa forma, non so per quanto, ma per ora esiste così e io ti aspetto… le mie parole non sono tabù, ma naturali, anche giuste se intercorrono tra marito e moglie.


Credimi, se ne parlassi sarei ritenuta una folle che per amore e per dolore crede a cose impossibili.


Non ti crederanno, non importa, o, se vuoi, non parlarne. Non dico niente di strano o sbagliato, la vita si svolge in questo modo, almeno nel piano, nello stadio (non so come definirlo o, piuttosto, come definirlo perché tu capisca) in cui vivo, ancora così vicino alla terra che tutto qui si ripete, anche se in forma diversa, molto diversa! E continuerò a volerti, a dirti che…


Tabù! Ti ho chiesto altre cose e non rispondi, nemmeno alle domande sulla musica, non ti interessa, sei sicuro di non aver suonato “les adieux”? Ti bacio amore mio, anche se sei diventato un po’ troppo “carnale”, tu, così schivo, così… che devo dire?

Quella sera, dopo la mia esclamazione, “troppo carnale”! non ottenni più risposte, solo qualche parola spezzata, senza senso, lunghi silenzi… Ho provato a ricominciare il colloquio, scusandomi, la sera seguente. Non volevo offenderti, mi è difficile seguirti in questo argomento, capirti, credere a quel che mi sussurri: forse ti sento male e non decifro le tue frettolose parole.

E’ possibile amarci come dici tu? Tutto l’argomento mi sembra incredibile, ma ti credo! Però queste parole che spesso si ripetono, che chiedono, che diventano più insistenti, cosa vogliono veramente significare? La risposta a questi dubbi ogni tanto affiora, la respingo, ritorna ad affacciarsi: non capirò mai? Dopo aver letto alcuni articoli sulle vibrazioni (“il sostrato di tutti i fenomeni dell’universo è un elemento vibratorio e, specificamente, acustico”) oltre a qualche risposta sull'immedesimazione data da persone che hanno già oltrepassato la porta del distacco, mi pareva di aver intravisto qualcosa. Può essere così, dimmi, caro, parla più chiaramente, e piano, non voglio perdere le tue parole.


Brava. Mi compiaccio. Imme-desimazione.


Cioè un amore che unisce in modo totale, una vibrazione uguale che accomuna due anime, una gioia completa, indescrivibile… ho capito qualcosa? E possiamo noi…


Brava, sì, non ora, non si può. Vieni e ti faccio capire!


L’hai già provata? (Devo confessare che speravo in una risposta negativa. E venne).


No, ti aspetto! Ti cingo.


Ne fui felice. E dimmi ancora, noi siamo anime gemelle, saremo uniti, come desideri, come desidero intensamente?


Gemelle. Ti amo, ti bacio, chiudo.


Grazie, grazie, buonanotte, amore mio, so che anche tu sarai qui, vicino a me, nel nostro letto, ti sentirò accanto, come ogni notte, ti amo.




Poesia d’amore

Una voce rispondente ad un’altra voce: così fu definita un giorno la poesia. E cos’è la nostra se non una poesia d’amore, una voce che cerca l’altra, parole che si rincorrono, la sera, s’intrecciano, ricevono e danno conforto… Ti amo, ti vorrei avere tra le braccia, vorrei essere nel tuo mondo, ti voglio tanto bene, tanto…


Ti cingo, carissima, vieni presto, ti voglio, ti attendo, qui con me, nella luce… tu mi stringi, mi “cingi” e io lo sento, lo sai, ma non mi basta, e tu, tu non puoi avermi come vorresti, solo le mie sussurrate parole, solo un bisbiglio nel buio, mio caro, carissimo amore…


Ti ho promesso che verrò presto, presto, aspetto l’ora con impazienza; la morte per me è un’amica che esaudirà tutti i miei desideri perché solo allora ti rivedrò, amore mio. Non mi fa paura, anzi la chiamo, perché so che tu ci sarai , perché so, ne sono sicura, che quando lei verrà avrà la tua immagine, il tuo volto, il tuo caro rassicurante sorriso.