La madre del prescelto
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La madre del prescelto
Acquattata tra le fronde, Mirele aveva contato una mezza dozzina di goblin e un ufficiale umano accampati sulla riva del fiume. Gli ometti dalla pelle verdastra indossavano armature su misura di cuoio bollito e impugnavano daghe di eccelso acciaio tibaresco, che di sicuro non potevano essersi procurati da soli. L’uomo, invece, doveva essere un phaleriano, a giudicare dai capelli corvini e dall’armatura lamellare tipica dell’esercito di quell’impero. Aveva non più di trent’anni e una corta peluria sul volto, ben curata. Un sottile diadema di oro bianco gli cingeva le tempie, e al suo centro splendeva uno zaffiro di Nelumbo blu come il cuore del mare: quindi era anche uno stregone azzurro dell’accademia di Padmaranga.
Questo complicava non poco le cose. Mirele sapeva che l’ombra del Presidente Zagan si allungava ogni giorno di più anche sulla Selva Verturia, ma non si aspettava che fosse penetrata così in fretta in quei territori. Al massimo aveva temuto di incrociare qualche gruppo di cacciatori selvaggi, con i quali non avrebbe faticato ad avere la meglio: i goblin erano così poco avvezzi alla presenza umana che sarebbe bastato far rumore e recitare un banale incantesimo Ignis Minor per metterli in fuga, fossero anche una ventina. Ma con dei goblin già arruolati, armati e guidati da un mago azzurro phaleriano era tutto diverso, perché si sarebbero battuti sul serio, volenti o nolenti, costretti dal controllo mentale che lo stregone poteva esercitare.
In circostanze normali, avrebbe fatto dietrofront e cercato un’altra via. Di certo non poteva sbucare fuori dalle fratte e proporre di lasciar passare una che era ricercata nientemeno che dal Presidente Zagan in persona! Una risoluzione pacifica era fuori discussione.
Purtroppo quello era l’unico guado che era riuscita a individuare sul Watter nel raggio di miglia e miglia, dopo due giorni di estenuante peregrinare nella foresta, sempre all’erta, dormendo poco e niente.
– Cosa devo fare? – si domandò, tra sé e sé.
Poteva ritirarsi e cercare un altro guado più a sud, ma era un azzardo. La porzione meridionale della Selva Verturia era un’incognita: pochi esploratori avevano osato mettervi piede, non esistevano mappe anche solo vaghe e si raccontava di orrori indicibili, viverne umanoidi che vomitavano acido, mostri di carne putrida alti quindici o anche venti cubiti, scimmioni antropofagi.
Oppure poteva combattere, anche se questa seconda opzione non la attirava. Non era una sanguinaria. Non aveva imparato la magia per bruciare vivi altri esseri viventi. I goblin non avevano alcuna colpa se un tiranno li aveva costretti a servirlo. E nemmeno il giovane mago azzurro era da biasimare: obbediva agli ordini del suo sovrano, probabilmente non sapeva nulla dei motivi per cui una ragazza di nemmeno vent’anni era ritenuta così pericolosa per l’intera nazione di Phalerion.
A quel punto, sentì scalciare dentro di sé. Portò la mano destra sul proprio ventre e abbozzò un sorriso, nonostante la situazione tutt’altro che rosea. Non era giusto sopprimere delle vite per passare il guado, ma non lo sarebbe stato nemmeno negare a quella che si stava formando dentro di lei la possibilità di venire al mondo. Tanto più se dal suo destino dipendeva quello di migliaia, milioni di uomini e di donne presenti e futuri.
In una frazione di secondo, la mente di Mirele risalì il fiume del tempo, ripercorrendo le tappe del viaggio che l’aveva condotta fin lì.
Ricordava vagamente la grande villa nella campagna di Tarquanda in cui aveva vissuto i primi sette anni di vita, circondata da persone alte e senza volti, senza nomi: glieli avevano rimossi dalla mente quando l’avevano portata all’accademia di Pandora, ancora bambina, per recidere ogni suo contatto col mondo esterno e aiutarla a diventare una maga votata solo allo studio e alla magia. Eppure poteva capitare che qualcosa fosse risparmiato dal trattamento e così era successo a lei, solo che quelle poche memorie superstiti dell’infanzia emergevano dal suo inconscio frammentarie e consunte.
Ricordava con molta più precisione le lezioni di magia teorica e applicata, le interminabili conferenze dell’Archimandrita Velesion, le prove d’esame nelle catacombe sotto Pandora per recuperare qualche paccottiglia nascosta lì dai maestri e spacciata per chissà quale manufatto antico, le ore notturne trascorse a studiare in extremis in vista di un tostissimo esame di Piromanzia di livello IV o di Divinazione avanzata.
All’epoca si era ritrovata spesso a odiare quella routine, a sperare di crescere presto e abbandonare Pandora per mettersi al servizio di qualche re o di qualche ordine di stregoni. Se avesse saputo cosa l’attendeva, forse non sarebbe stata così ansiosa di crescere.
Ricordò il primo bacio dato a Ricasol, due classi più avanti di lei, all’ombra del fico che troneggiava solitario nel cortile ovest e a tutte le fantasticherie successive sulla loro vita insieme. Ricasol era un ragazzo alto e robusto, con uno sguardo innatamente torvo ma dal cuore d’oro, sensibile. Si dilettava scrivendo versi e sarebbe stato un grande poeta, se la mano ossuta della Morte non si fosse posata troppo presto sulla sua spalla.
Ricordò il giorno in cui era giunta la notizia che le armate di Zagan, neo-eletto Presidente di Phalerion, erano in marcia verso Pandora.
Hithertho, la sua migliore amica dell’epoca, le aveva raccontato subito tutto quello che sapeva su quell’uomo:
– Dicono sia così abietto che l’hanno cacciato persino dall’accademia di negromanti di Carcossa. E per fare una cosa del genere quei necrofili…
– Ha usato i suoi poteri per manovrare gli oligarchi di Phalerion e dopo che l’hanno eletto Presidente li ha sterminati tutti. È un tiranno, non di nome ma almeno di fatto.
– Vuole sterminare o assoggettare tutti i maghi del mondo, finché alla fine sarà il solo a controllare la magia. È per questo che sta venendo qui. Ma i maestri e l’Archimandrita sono troppo saggi per mettersi a opporre resistenza, non credi?
– Sai che odia gli Yevaniti? Sarà per i loro capelli rossi, sarà perché cianciano sempre di quel loro dio Oannis. Ha già iniziato a chiuderli nei ghetti… ma qualcuno dice che li manda nelle Latomie di Ossidiana. Poveracci, lì si muore come mosche!
Quell’ultima cosa aveva fatto rabbrividire Mirele, perché anche lei era una Yevanita dalla chioma rubiconda e temeva ciò che le sarebbe successo. Però subito Hithertho l’aveva rassicurata: – Sei una maga, se anche ti mettesse le mani addosso non sprecherebbe un’utilizzatrice di magia. Si farà andare bene i tuoi capelli, fidati!
Ricordò l’evacuazione di Pandora, la fuga nelle gallerie che si dipanavano sotto l’accademia per miglia e miglia, dapprima ordinata, poi resa caotica quando le prime belve dell’abisso avevano attaccato e le file di studenti si erano disperse senza che gli insegnanti potessero fare qualcosa per tenerle sotto controllo.
Per mesi Mirele aveva vagato in quelle caverne, prima di ritrovare il volto amico del maestro Gorgedo che l’aveva riportata alla civiltà, e intanto aveva patito il freddo, la fame, la sete, i morsi degli insetti, ma soprattutto la paura. Paura di morire all’improvviso in quell’oscurità dimenticata dagli Dei, paura di essere catturata e torturata da Zagan l’uccisione di Yevaniti, paura di perdersi nelle viscere della terra e non rivedere mai più la luce del Sole.
Ricordò, e come avrebbe potuto dimenticarlo, il giorno in cui le rivelarono la profezia. Si trovava a Najufa, la città delle sabbie dove i maghi di Pandora si erano riuniti per organizzare la resistenza contro Zagan.
Il nuovo Archimandrita, Myrorod, l’aveva convocata in quello che era momentaneamente il suo ufficio: una sala ampia, piena di pergamene salvate per miracolo dal sacco di Pandora, con le finestre che si affacciavano sulla grande via di Najufa percorsa a ogni ora dai dromedari e dai carovanieri. Era stato brusco e diretto nella rivelazione, l’aveva affondata nel cuore della giovane rossa come un sicario senza la minima pietà.
– Tu partorirai il Prescelto, come dice la profezia di Amnon. Ti unirai al principe Elha Gibbor, l’ultimo della stirpe di Emet, e porterai in grembo colui che sconfiggerà Zagan. Una volta che l’avrai partorito, saremo noi ad addestrarlo così come abbiamo addestrato te, solo che grazie al sangue che scorrerà nelle sue vene sarà più potente di qualsiasi mago. Più potente anche di Zagan. Così ha detto Amnon:
Dalla terra delle vigne verrà
una vergine dalla chioma di fuoco
e il marchio di Inanna sul corpo,
e dalla stirpe di Emet
un giovane virgulto, forte e in salute,
e dal suo seme…
Le ginocchia di Mirele non avevano retto.
Volevano costringerla a fare una cosa del genere solo perché un vecchio pazzo aveva biascicato una profezia in un momento di delirio? E poi come facevano a dire che la donna in questione era lei? Era la sola ragazza coi capelli rossi originaria di Tarquanda con un neo dalla particolare forma nota come “marchio di Inanna”?
Mirele desiderava quando chiunque altro la morte di Zagan, ma doveva compiere un sacrificio del genere? Non c’erano altri modi per batterlo? Quella congrega di stregoni secolari e potentissimi non potevano unire le forze contro il tiranno? A cosa serviva studiare per decenni se poi ti ritrovavi ad essere un vecchio Archimandrita incartapecorito che scarica tutta la responsabilità sulle spalle di una giovane donna?
Doveva davvero concedersi a uno sconosciuto, farsi ingravidare come una giumenta da uno stallone? E poi doveva vedersi strappato dalle braccia il neonato appena partorito? Quale cuore di pietra poteva anche solo concepire un’idea del genere?
E Myrorod gliel’aveva detto in quel modo, senza minimamente prepararla, senza indorare la pillola!
Oh no, lei si sarebbe ribellata! Doveva dire no e protestare! Si sarebbe appellata al maestro Gorgedo, lui sì che avrebbe preso le sue difese! Non avrebbe mai portato in grembo un figlio perché costretta da altri, foss’anche per la salvezza del mondo!
Ricordò anche il giorno in cui conobbe il principe Elha. Per incontrarlo si erano spostati a nord, a Flos, la città tra gli alberi. Per tre mesi i maghi si erano assicurati che Mirele fosse tenuta sotto controllo, che non uscisse mai dalla sua stanza né che tentasse la fuga. Quella prigionia forzata l’aveva infine fatta cedere, l’aveva rassegnata al proprio destino.
Ma fu in qualche modo di conforto scoprire che anche il principe si sentiva così. Le era bastato un semplice sguardo per riconoscere nei suoi occhi la stessa sottomissione a un destino scelto da altri, la stessa angoscia di dover generare un figlio solo perché fosse di altri. Probabilmente non avrebbe mai potuto amarlo, ma almeno non l’avrebbe odiato, non per quello che li stavano costringendo a fare…
Ricordò di essersi resa conto, a un certo punto, di amare quel principe triste quanto lei, se non di più. O comunque di provare qualcosa che avrebbe definito “amore”, perché non aveva chissà quale esperienza al riguardo. L’unico altro ragazzo nella sua vita era stato Ricasol, ma lui era poco più che una cottarella. Elha, invece, l’aveva fatta sua e se per qualche secondo faceva finta che non fosse successo per imposizione dei maghi le sembrava di vivere una vera e propria favola.
Ricordò tutta la portata del dolore che l’aveva travolta vedendolo morire davanti ai propri occhi. Zagan era piombato su Flos come un martello sull’incudine, travolgendo tutto e tutti, portandosi dietro un’armata di saccheggiatori, stupratori, distruttori.
Sarebbe morta anche lei, se Gorgedo non l’avesse spinta a forza su uno degli ultimi grifoni rimasti e non fosse rimasto a tener testa al negromante, per pochi secondi, prima di soccombere, mentre la bestia chimerica e la sua preziosa passeggera volavano via.
Un dardo fiammeggiante aveva colpito il volatile a un’ala, ma fortunatamente il grifone era già così in alto che la sua caduta l’aveva portato ben oltre le mura di Flos, sul limitare della Selva Verturia. E lì Mirele, dopo essersi voltata un’ultima volta verso la città tra gli alberi che bruciava, aveva iniziato il suo viaggio solitario. Destinazione: Yetzirah, la città dei savi.
Non poteva indugiare ancora a lungo, doveva prendere una decisione. Presto la notte sarebbe calata e le rupi dall’altra parte del fiume sembravano un ottimo posto per fermarsi a riposare, almeno un paio d’ore.
Mirele cacciò via dalla mente qualsiasi dubbio, qualsiasi scrupolo morale, qualsiasi briciolo di pietà verso l’altrui vita che le fosse rimasto. Si trattava di sopravvivenza, pura e semplice sopravvivenza. Ma non era un’egoista, no, perché sopravvivendo lei sarebbe sopravvissuto anche suo figlio, e un giorno avrebbe sconfitto Zagan e liberato le Terre Verdi dalla sua tirannia.
Le sue labbra si mossero automaticamente e recitò nell’antica lingua enochiana la formula magica Mors ex Igne. Era una formula lunga e complessa, ma lei non poteva sbagliare. La ripeté così come le era stata insegnata, chiudendo gli occhi e concentrandosi su ogni singolo suono, bisbigliando le sillabe a voce abbastanza bassa per non essere udita dai goblin e dall’ufficiale phaleriano ma anche scandendole per bene.
Un lampo di fuoco esplose nella riva del fiume. Il turbine incendiario si elevò per una decina di metri, una furia inaudita che all’istante bruciò carne e cuoio, sciolse ferro e oro, senza che un grido si levasse dalle gole delle povere vittime colte alla sprovvista. Mirele poteva sentire il calore della fiamma su di sé anche se era abbastanza lontana da essere al sicuro, e quando esse svanirono nell’aria, un orrendo puzzo di carne e viscere bruciate e di ceneri si levò. Fu troppo: si piegò in avanti e vomitò il misero pasto di qualche ora prima, un paio di frutti e di radici.
Quando riuscì finalmente a volgere lo sguardo nel punto dove erano accampati quei sette disgraziati, la prima cosa che notò fu lo sfavillio dello zaffiro di Nelumbo, miracolosamente sopravvissuto all’olocausto.
Meno di un’ora dopo, la giovane donna dai capelli rossi era sdraiata su un giaciglio fatto alla bell’e meglio con le fronde. Osservava il vasto cielo stellato sopra di sé, mentre i ricordi delle notti trascorse all’aria aperta con Hithertho, giocando a indovinare questa o quella costellazione, si accavallavano e si rincorrevano nella sua mente.
Il piccolo dentro di lei scalciò ancora. Si accarezzò il ventre, sorridendo. Sarebbe arrivata sana e salva a Yetzirah e da lì si sarebbe spostata ancora più a est, ancora e ancora, lontano dalle armate di Zagan. Avrebbe trovato un buon posto dove far nascere e allevare suo figlio. Poi si sarebbe assicurata che venisse addestrato a dovere, per padroneggiare la magia e diventare ciò che era destinato ad essere. Ma intanto l’avrebbe allevato lei, gli avrebbe dato l’amore che suo padre le aveva potuto donare per pochissimo tempo.
Le insidie della Selva Verturia erano molte, ma lei le avrebbe superate così come aveva superato tutte quelle passate. Non l’avevano uccisa gli orrori striscianti nelle grotte sotto Pandora, né Zagan e i suoi soldati piombati su Flos, e nemmeno i goblin appena bruciati.
Sarebbe sopravvissuta, e con lei suo figlio. Perché lei non era una donna qualsiasi. Lei era la madre del prescelto.
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Ti faccio una notazione di corsa. Il titolo di Archimandrita viene ancora adoperato, sia nella Chiesa cattolica che in quella ortodossa. Dalle mie parti ne esistono ancora due. Leggerlo in quel contesto suona strano, tutto qui.
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Sbaglio se nel passaggio che riguarda gli Yevaniti ci leggo una metafora della Shoah?
Come hanno detto altri mi sembra (e spero) che sia parte di un’opera più corposa, anche perché creare un mondo, personaggi e ambientazioni così dettagliate per un racconto breve sarebbe uno spreco!
A parte gli scherzi ti faccio i miei complimenti.
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Re: La madre del prescelto
Il testo è nato per essere un racconto, seppur fin da subito avessi in mente di farne un "frammento" più che una storia compiuta, di portare in scena un momento della vita della protagonista in fuga per la salvezza propria e del figlio ma senza rivelare se ce la farà o meno, cosa ne sarà di lei. Però man mano che scrivevo la necessità di delineare un minimo di ambientazione e di background mi ha fatto cadere nella "sindrome da Tolkien", da qui la sovrabbondanza di nomi di persone, di luoghi, di istituzioni. Mi sembrava che conferissero alla storia il tono di un "assaggio" di un mondo più ampio e così le ho lasciate. Ma ammetto anche di aver fatto più di un pensiero sulla possibilità di sviluppare la storia in un formato più ampio, chissà che non metta in pratica il proposito.
Per Namio: ammetto di aver usato Archimandrita perché volevo un termine che apparisse vagamente "esotico" per indicare il capo di un ordine (qui di maghi, non di religiosi) senza doverne inventare uno nuovo.
Per Roberto: sì, effettivamente dietro gli Yevaniti c'è un'allusione alla Shoah, lo stesso nome del popolo si rifà alla lingua yevanica degli ebrei greci (romanioti).
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No no, hai spiegato perfettamente tutto, tranquilla
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Mi dispiace dirlo perché si vede che c'è un gran lavoro dietro, però l'ho trovato noioso e poco originale.
Questa è la mia personalissima opinione, non me ne volere.
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