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Indice:
La gara
Prefazione
Sinapsi dissociate
L’ora dei fantasmi
L’ultima foglia d’au…
L’insolito caso del …
Il tardone
Una strana idea
Dopo mezzanotte
Deviazione
24/12/2011 ore 23.30
Dodici distanti rint…
L’ultimo saluto
L’incubo
Sostieni la nostra p…
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Una produzione

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La gara

Gara 12
DOPO MEZZANOTTE
MARZO 2010
antologia per BraviAutori.it
A cura di GiuseppeN
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

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Prefazione

Mezzanotte. Il confine tra due giorni libera inquietudini addormentate, qualcosa di ancestrale che rende la notte misteriosa e forse anche pericolosa; è l'ora X, l'ora fatidica, l'ora dei fuochi d'artificio. E dopo, cosa succede?
La risposta è in questi dodici racconti scritti per la Gara 12 del forum di BraviAutori.it, intitolata appunto "Dopo mezzanotte". Bisogna dire che succede davvero di tutto: fantasmi, apparizioni, preti armati e scienziati un po' strani. Ma anche pensieri che non fanno prendere sonno, incubi, ricordi; e altro ancora. La notte, insomma, non è più fatta per dormire.
Oltre che per la varietà di temi sviluppati intorno al titolo, la Gara di BraviAutori si conferma nuovamente come luogo di incontro per differenti modi di intendere la scrittura, che si traducono in differenti stili e registri: tra voci consolidate e piacevoli new entry, questa volta l'ha spuntata ArditoEufemismo (a cui vanno i miei complimenti), alle prese con un pensieroso risveglio notturno.
Ma il tempo passa, e tra poco i numerini rossi della radiosveglia segneranno le 00:00. Meglio dunque non togliere altro spazio ai racconti, e augurare a tutti buona lettura. O buonanotte?
GiuseppeN


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Sinapsi dissociate

 
 Apro gli occhi e c’è solo buio. Volto la testa a destra e i diodi rossi della mia radiosveglia segnano le 3:15 del mattino. Cerco di rimettere il cervello in standby e di riaddormentarmi e, invece, orde di pensieri calano nella mia mente. Ripenso al mio amico Gabriele. A quando mi racconta che gli piace che la sua donna si lavi con Calmea intima al timo. Dice che gli lascia un gradevole retrogusto, oltre che un piacevole profumo. Rido, pensando al sesso cerebrale di quest’uomo che fa indagini comparative a fini libidinosi nel mercato dei detergenti intimi. Di colpo rievoco le sensazioni che ho provato nell’ascensore ieri mattina. Mi sono accorto che la cabina era pervasa da uno strano afrore. Era un odore un po’ aspro. Sì, non v’è dubbio: il tipico olezzo di donna mestruata. Un bilanciato mix di fragranze endocrine fuse con un lievissimo retrogusto di sudore. Se una di queste componenti l’avesse fatta da padrona, il tutto sarebbe risultato assai sgradevole ma, ieri, l’equilibrio tra gli aromi era perfetto. Un po’ “Hannibal the cannibal”, ho inspirato profondamente cercando di fare mia l’essenza, per procurarmi l’illusione di aver violato una intimità aliena. Il buio continua ad avvolgere la realtà. Abbandono questo perverso pensiero e mi pongo una delle domande più sconvolgenti al mondo. Specie se sono le tre di notte. Specie se tra tre ore dovrò alzarmi per andare al lavoro. Mi chiedo: “Perché mai il Capitale Sociale si inscrive in bilancio nel passivo?”. “Bah!” È l’unica risposta che riesco a darmi dopo aver scannerizzato improbabili teorie contabili. Mi alzo e vado in bagno. Tanto non dormo. Ne approfitto per fare pipì. Troppo impegnativo però farla in piedi. Mi siedo sul water e trovo a portata di mano PortaPortese. Giornalone di piccoli annunci. Indipendente e apolitico. Ogni tanto compro PortaPortese senza avere necessità di acquisto. Lo compro per sognare un po’. Figlio del consumismo, provo un sottile piacere nell’immaginarmi potenzialmente proprietario di tutte le cose che mi passano sotto gli occhi. Sono indeciso se acquistare una Memory Stick Flash Dual Voltage da sedici giga, formattata solo due volte a euro 5 o spendere meglio i miei soldi virtuali comprando un separè sfondo rosso testa di budda 180 x 180 cm a euro 800.
Naaa! Alla fine opto per un Samsung Omnia i8910 con navigatore Tomtom a euro 200. Poi rifletto. Sogno oggetti usati. Che tristezza! È come in chat. Conosco e desidero donne usate. Ma poi mi sollevo pensando che anche io sono usato. Molto ammortizzato. Con un valore residuo basso. Un obsolescenza che ormai assume rilevanza significativa. E allora continuo a vedermi proprietario di cose altrui. Ho deciso! Alle 3:45 della notte, sono fermo nella convinzione di acquistare una Mercedes SKL 200 argento sempre garage 80.000 km (come cazzo ha fatto a fare 80mila chilometri nel garage?) a soli euro 32.800. Non posso permettermela manco usata! Proprio come Pa Squala, penso. Pa Squala che riempie i miei pensieri notturni tormentandomi. Pa Squala che ride con me. Pa Squala che gioca con me. Pa Squala che sta bene con me, anzi benissimo – parole sue.
Pa Squala che non mi desidera manco un po’. E che io desidero. Molto. Pa Squala usata. Non nuova. Come me d’altra parte. A un certo punto la luce! La verità. È il famoso scrittore Giuseppe Carlotti a mostrarmela. In un suo post epistolare inviato all’amico extraterrestre Accasetteventicinque. La verità non è mia ma un bene per tutta l’Umanità. E quindi io, fedele alle linee guida dell’ UNESCO (io unesco mai, sto sempre a casa), ve la ripropongo come gli avanzi.
Eccola: Carlotti svela all’amico che: “In giro ci sono donne vampire che si fanno offrire tre cene nei ristoranti e alla fine non te la danno. Cerca di stare attento”. Ormai sono le 4:20. Ho le idee chiare. Carlotti è luce nelle tenebre mentre Pa Squala, ora lo so, è una donna vampira! Sono di nuovo al letto, con la vescica vuota. E il sonno morbidoso mi rapisce… anche se solo per altre due ore scarse.

ArditoEufemismo

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L’ora dei fantasmi

 L’orologio del campanile aveva appena finito di battere il dodicesimo rintocco quando Bob si rizzò a sedere di scatto. Sua moglie, che giaceva accanto a lui, si svegliò di soprassalto a quel gesto inconsulto, che aveva causato peraltro un fastidioso cigolio.
«Che ti prende?» gli domandò con la bocca impastata.
«È mezzanotte.»
Lei nemmeno si voltò a guardarlo. «E allora? Succede una volta ogni ventiquattr’ore.»
«Sì ma è Halloween.»
«Una volta ogni dodici mesi», reiterò lei.
«È il giorno in cui i morti camminano sulla terra. E questa è l’ora dei fantasmi.»
«E da quando credi a queste cose?» si stupì lei. «In settant’anni passati assieme è la prima volta che ti preoccupi di morti e fantasmi.»
«Ma è il primo Halloween che passiamo qui. Questo posto mette i brividi.»
«Ah grazie tante. È quasi novembre, fa freddo e siamo all’aperto. E poi alla tua età…»
«Lo sai cosa intendo, non quel tipo di brividi. E poi cosa c’entra l’età coi brividi?»
«Coi brividi niente. Dicevo che alla tua età è normale diventare un po’ rimbambiti. Rimettiti giù, va’.»
«No, no, devo controllare.»
«Com’è che quando ti dicevo io di alzarti e andare a controllare qualcosa non lo facevi mai?»
«Tu mi svegliavi di continuo per le ragioni più assurde!»
«E invece questa tua fissa di stanotte è una cosa normale…»
«Ma dai, solo per sicurezza. Chi ti dice che non sia vero?»
«Il buon senso?»
«Faccio un controllo veloce. E poi sono già fuori per metà!»
«No, guarda, tu sei proprio fuori del tutto! Comunque fai come ti pare.»
«Vuoi venire con me?»
«Sì, come no… Vai, vai, che ti raggiungo.»
«Ho capito, ci vado da solo.»
«Ecco, bravo.»
Senza prestare ulteriore attenzione a sua moglie, Bob si tirò fuori a fatica dal suo giaciglio. Lei continuò a fare finta di nulla, convinta che gli sarebbe passata e sarebbe tornato molto presto.
Così fu.
Il campanile non aveva neanche battuto il quarto d’ora che già lo sentì arrivare.
«Allora? Hai controllato.»
«Sì, sì.»
«Fatto una bella passeggiata?»
«Be’… bella… non c’era molto da vedere.»
«Ma no?!» rispose lei con evidente ironia «Allora adesso che hai verificato di poter camminare, torna giù e rimettiti a dormire. E chiudi bene il coperchio della bara, che poi prendi freddo.»
 
Cmt

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L’ultima foglia d’autunno

 
“Quando scoccherà la mezzanotte e l’ultima foglia d’autunno si poserà su di te, lui tornerà…”
Me lo disse un uomo che diceva di leggere negli occhi della gente il loro destino, me lo disse senza che io glielo chiedessi e lo fece avvicinandosi a me per sussurrarmi quelle parole. Poi, con un sorriso che mai avrei dimenticato si dileguò tra la gente. Era una fredda serata invernale, una festa a casa di amici. Trascinata lì quasi a forza per dimenticare, per distrarmi, mi ritrovai a osservare conoscenti e sconosciuti che mi passavano accanto, la musica in sottofondo che quasi non sentivo, i volti degli altri che quasi non vedevo.
Presenze nebulose mi vorticavano attorno mentre io, nuvola di un cielo plumbeo, trattenevo a fatica la mia pioggia di lacrime.
Poi quell’uomo mai visto e quella frase che continuò a danzare nella mia mente per sempre.
Non poteva sapere nulla di me né di lui, della sua uscita di scena quasi in punta di piedi, con una marea di perché e nessuna risposta. Ma erano i suoi perché e non avevano a che fare con il nostro “noi”.
Era la sua identità a essere in crisi.
“Lasciami solo il tempo per ritrovarmi, non ti chiedo altro”.
Lo lasciò scritto su un biglietto prima di fuggire via.
Ma non era poco quello che chiedeva: il tempo per ritrovarsi può essere troppo lungo per giustificare qualsiasi attesa e nell’attesa si sopravvive “sospesi”.
Non avevo mai pensato a un suo ritorno, solo una velata speranza che si era ormai affievolita con il tempo. E il tempo passò…
Il gelo dell’inverno cominciò ad attenuarsi e a poco a poco anche i miei brividi interiori. Nelle giornate di pioggia mi piaceva scendere per strada e lasciare che le gocce si sciogliessero insieme alle mie lacrime… L’aspettavo quasi quella pioggia complice della mia fragilità.
A poco a poco la vita riprese, quasi come se nulla fosse successo. Il primo sole primaverile mi riportò la voglia di chiudermi quella porta alle spalle e di ricominciare.
Con l’arrivo dell’estate il sole sembrava aver sciolto definitivamente quel gelo iniziale, le risate presero il posto dei sorrisi, gli amici e gli svaghi divennero una costante delle mie serate.
Sembrava che tutto fosse tornato alla normalità, forse apparivo addirittura felice ma avevo solo trovato un compromesso con me stessa, un equilibrio per riappropriarmi di me.
Una notte d’autunno, attraversando la città mi ritrovai senza volerlo in un parco deserto.
Una panchina solitaria sembrava aspettarmi e io mi sedetti a contemplare una pioggia di foglie variopinte che cadevano copiose.
Sospinte dal forte vento sembravano fluttuare nell’aria in una danza sensuale e suggestiva.
La luce soffusa dei lampioni conferiva loro un colore cangiante, come stelle cadenti in quella notte silenziosa e stranamente misteriosa.
Le vedevo ondeggiare davanti ai miei occhi, oscillare deliziosamente in un gioco altalenante di direzioni contrapposte fino a che non si posavano esauste a terra sul soffice manto colorato.
Mi divertivo a sceglierne una tra tutte per seguirne il percorso senza meta, quel non sapere dove si sarebbe posata mi affascinava.
Sapevo che non dovevo stare lì, era pericoloso eppure rimasi inchiodata a quella panchina come se una forza innaturale mi impedisse di muovermi.
Poi il vento si placò come per magia e la pioggia di foglie si fece più lenta fino a cessare del tutto.
Sentii in lontananza i rintocchi della mezzanotte scanditi da un vecchio orologio illuminato sul campanile della chiesa. Un nuovo giorno stava cominciando, era tardi e io dovevo andare. Dovevo alzarmi da lì e tornare a passo svelto verso casa. Sentivo quasi l’odore del pericolo.
Ero talmente presa dai miei pensieri che quasi non mi resi conto della danza di un’ultima foglia che si arrese sulle mie gambe
Un brivido mi travolse. Il cuore smise di battere e subito riascoltai quella voce che avevo chiuso in un cassetto della mia memoria tornare a sussurrarmi:
“Quando scoccherà la mezzanotte e l’ultima foglia d’autunno si poserà su di te, lui tornerà…”

Stefy71

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L’insolito caso del signor Jager

 
Erano suonati dodici rintocchi di campana da una manciata di minuti quando nella residenza si udì prepotente il succedersi fragoroso di un lento, energico bussare.
Il professor Anton si era attardato nello studio per discutere le sue tesi con il dottor Zweig e stava giusto introducendo i principi scientifici (se così potevano essere considerati) del suo nuovo esperimento medico, quando il frastuono proveniente dalla porta lo colse impreparato causandogli un terribile batticuore.
– Si calmi Anton – disse Frau Blücher notando il suo sussulto – è solo qualcuno che bussa alla porta. Poggiò il vassoio con il thè e i pasticcini e sorrise.
– È mezzanotte passata, chi può bussare a quest’ora? – chiese l’uomo.
– Credo che la miglior cosa da fare per scoprirlo sia andare ad aprire… con permesso… – disse rivolgendosi verso il dottor Zweig che ricambiò il sorriso e sussurrò un “prego”.
Con passo svelto Frau Blücher si recò alla porta e aprì.
Davanti a lei stentava a stare in piedi il signor Jager, bianco in volto, sporco di terra e con delle strane ferite sul viso e sulle mani. Se ne stava lì fermo a fissarla senza dire una parola sotto la pioggia battente di quello stupido mercoledì.
– Oh, Signor Jager, entri! Non rimanga sulla soglia che le viene un accidente! Con questa pioggia…
Karl Jager entrò nella residenza e seguì con passo incerto la donna fino alla porta dello studio.
– Attenda qua fuori solo un attimo che la annuncio al professore.
L’uomo agitò la testa in segno di assenso e Frau Blücher se ne andò.
– Allora? – chiese il professor Anton vedendola entrare – chi è che bussava in modo così inquietante? – disse in tono scherzoso.
– Il Signor Jager, professore… – dopo una breve pausa aggiunse sottovoce: – E non sembra abbia una bella cera!
D’improvviso il professore perse la sua giovialità, la sua espressione si fece seria e preoccupata. In realtà lui stesso non avrebbe saputo dire se quello che provava in quel momento fosse stata gioia o puro terrore, o entrambe.
– Lo devo far entrare?
– Certamente… – si ritrovò a dire a denti stretti.
Karl Jager entrò nello studio trascinando una gamba dietro l’altra. Sia il Professor Anton che il Dottor Zweig notarono subito la difficoltà del paziente nel flettere gli arti. Avvertirono anche l’odore nauseante che emanava.
– Buonasera. – disse il Professore cercando di non arricciare il naso.
– Buonasera. – aggiunse Zweig.
– Ancora non so se lo sia veramente – disse infine Jager.
– Si segga e ci racconti quale è il problema.
Con molta fatica Jager riuscì a sedersi sulla poltrona. Zweig notò la terra sparsa sui suoi vestiti, e adesso anche sul pavimento attorno a lui. Anche Anton l’aveva notata, ma non gli era sembrata una cosa così strana, come non gli erano parsi strani tutti quei segni che portava sul viso e sulle mani.
– Il mio problema… il mio problema è, che… che non ricordo chi sono, non ricordo niente, se non questo indirizzo. Non ne conosco le ragioni…
– Capisco. Stia tranquillo, la aiuteremo. – rispose l’altro.
Il Dottor Zweig trascinò Anton in disparte: – Lei conosce quest’uomo? – chiese sottovoce.
– Certo che lo conosco! È un mio paziente!
– Ha notato le strane ferite sul viso? Sembrano muoversi. Di che razza di morbo è affetto? Lei è il suo medico curante: dovrebbe saperlo…
– Non lo so – mentì – dovremo analizzare le ferite di giorno a una luce migliore di quella di una candela… per il momento mi limiterò a usare l’ipnosi sperando così possa riacquisire la propria memoria.
Zweig osservò il Professor Anton imporre la sua mano sinistra sulla testa del paziente mentre la destra era già posizionata all’altezza dello stomaco.
Adesso il medico pareva assorto, concentrato nel suo compito: incanalare il magnetismo animale direttamente nel sistema nervoso di Jager. Zweig, per quanto scettico, giurò di aver visto qualcosa di etereo, impalpabile sprigionarsi dalle palme delle mani del professore. Al tempo stesso, Jager, dopo un lieve stato convulsivo, sentì le palpebre farsi pesanti. Fu allora che Anton sfiorò con i pollici gli occhi del paziente.
– Come vi trovate? – chiese infine.
Con un filo di voce Jager rispose: – C’è qualcosa qui con me…
– Rilassatevi. Provate sollievo dalla mia imposizione? Siete in grado di avvertire il flusso di energia?
Jager non rispose, si guardò attorno con l’espressione spaurita di un gatto appena nato.
– Ha qualche ricordo della sua vita?
Zweig osservò con occhi increduli il paziente sussultare sulla poltrona in preda a spasimi convulsivi, stavolta di grave entità. Jager sbavava e pareva aver perso il controllo del proprio corpo.
E fu proprio allora, quando fu passata la mezzanotte da circa trenta minuti, l’ora in cui i demoni e le streghe sono soliti palesarsi agli occhi increduli dei comuni mortali, che Karl osservò la realtà con i nuovi occhi che la sua recente condizione gli aveva donato. Improvvisamente tutto prese ad ardere tra gigantesche fiamme infernali. Jager gridava e cercava goffamente di spengere quell’incendio.
Zweig scosso dall’evidente stato confusionale del paziente si rivolse al Professore: – Interrompa subito lo stato di ipnosi! La prego!
– Lei, dottore, non ha la benché minima idea del prodigio al quale sta assistendo! – rispose con aria impettita l’altro.
– Cosa va blaterando?
– La più grande scoperta della storia… – poi rivolto al paziente: – Ci racconti Jager, cosa sta vedendo?
Decine e decine di nudi corpi, emaciati e glabri circondavano i tre uomini e mostravano denti gialli e marci spalancando enormi fauci, ma solo Jager ne era consapevole. Un fetore nauseabondo infestò la stanza. Poi si voltò verso il Professor Anton e notò che le sue fattezze erano mutate, sebbene i lineamenti del viso fossero ancora riconoscibili. L’uomo si era trasformato in una bestia, un demone con enormi ali nere da pipistrello. Jager ne udiva il grugnito. Era la sua presunzione ad averlo ridotto così, la sua pretesa a sostituirsi a Dio. Karl gridò a squarciagola ininterrottamente per qualche secondo, tanto che Frau Blücher irruppe preoccupata nello studio per controllare se fosse successo qualcosa di grave.
– La prego Professor Anton ponga fine a questo strazio! Risvegli il paziente!
– Lei continua a non capire: ho sconfitto la morte…
O sì che capiva, adesso! Come aveva fatto a non pensarci prima! La difficoltà nel flettere gli arti: il rigor mortis! Non erano le ferite che sembravano muoversi, bensì i vermi, che al buio della stanza non aveva notato. La terra che aveva addosso era quella della propria sepoltura. E quell’odore…
Zweig rabbrividì. Il professore aveva ipnotizzato il paziente sul letto di morte affinché questo si risvegliasse esattamente quella notte, e voleva che il Dottor Zweig fosse testimone della sua strabiliante scoperta, ma ancora più strabiliante era la possibilità che si era aperta di poter indagare sull’ignoto. Non aveva tenuto conto, il Professor Anton, che Jager potesse riportare con sé dall’oltretomba forze sconosciute.
Jager continuava a dimenarsi terrorizzato. Si diresse verso il camino, raccolse l’attizzatoio e lo agitò in aria, prima cercando di colpire Anton, poi inveendo sull’essere abominevole in cui Frau Blücher (schiava in gioventù della propria lussuria) si era tramutata. Un colpo netto sul lobo temporale uccise all’istante la povera governante. Un altro colpo, stavolta una deflagrazione, uccise una seconda volta Karl Jager che cadde a terra esanime.
– Eravamo a un passo dalla verità. La prossima volta dovremo legare il paziente. – disse Anton, la pistola in mano ancora fumante. – andiamo c’è molto da fare ancora…
Il Dottor Zweig, ancora turbato, lasciò il Professore con i suoi due cadaveri, indossò cappello e mantella e in silenzio abbandonò la residenza dei Mesmer scomparendo nella notte.

Dafank

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Il tardone

 
Chiamo una amica che mi confessa di invidiarmi per il mio periodo da sposina: “Pensare che eravamo convinti che tu non ti saresti mai lasciata andare ai piaceri mondani. Ti abbiamo sempre dato il nomignolo ‘la sottocontrollo’, chi l’avrebbe mai detto?” – dice entusiasta la sua voce al telefono. Confermo passivamente le sue intuizioni sbagliate senza sgarrare di una virgola, in parte per non darle un dispiacere e anche perché è proprio vero che quel giorno del fatidico: “Sì, lo voglio” persi completamente la ragione.
Sistemo in fretta la cucina. Preparo ossessionata la caffettiera per il mattino dopo: impossibile versare acqua e caffè nello stato comatoso nel quale regolarmente mi ritrovo alle ore sei. Ne verserei più della metà fuori, oppure metterei sul fuoco una caffettiera vuota delle cinque che ho a mia disposizione. È così, purtroppo per me, dai tempi dell’adolescenza: non sapevo all’epoca della mia anomalia, ma comunque intuivo che qualche meccanismo cerebrale strano si annidava in me.
Sono in procinto di mettere la caffettiera sul fornello, quando mio marito mi chiama frenetico per farmi partecipe del programma in Tv, quella trasmissione che interessa soltanto a lui e io, per non fargli il solito dispetto di cui vengo sempre accusata, mi siedo sulla poltrona a fianco cercando di seguire, per quel che posso, quelle stupidate che a lui fanno maledettamente ridere. Contemporaneamente, cerco di riscattare dal profondo del mio cervello quelle immagini che desidererei plasmare nel mio prossimo scritto e che, regolarmente, rimuovo per poter seguire le sue prepotenti consuetudini. Infatti, questi tre mesi, riguardo al mio piacere di scrivere, potrei paragonarmi alla “Fame in India”.
Tra una favola e due risate forzate per non dare all’ometto un terribile sgomento, mi accorgo che le dieci sono già più che passate e che, come ogni sera, non riesco a mantenere ciò che da quel dì mi riprometto: “Andare a cuccia al più presto!”.
Mentre suonano le campane, quasi fossi Cenerentola, saluto il mio nottambulo amore e mi dirigo verso la camera da letto, tanto lui può continuare a vedere programmi e permettersi di andare a dormire anche alle tre di notte. Ma sorpresa: per questa sera pianta lì, spegne tutto e mi accompagna.
“Finalmente ha capito!” – dico tra me, continuando a meditare sui miei metodi per spiegargli l’importanza che ha per me il ritmo sonno-veglia, il sacrificio che mi comporta alzarmi presto, in quanto non appartiene ai miei cicli. E che se aggiungo a ciò il poco riposo, prima o poi potrei retrocedere da lunatica verso una forte ricaduta del mio disturbo, di quella sindrome contro la quale lotto da anni ormai, ancor prima di aver conosciuto lui. Mi dico anche che, forse per questo, avrebbe dovuto comprendere decisamente prima. In fondo, non glielo ho mai nascosto e lui sembrava aver colto il mio modo di essere, le mie priorità. Ma sicuramente la convivenza è un’altra cosa, e poi certi uomini sono un po’ tardi nel cervello oltre che tardoni altrove.
Comunque sia, mi complimento con me stessa, e mentre sto per sdraiarmi sul letto penso commossa al fatto che il mattino dopo, mentre starò prendendo il caffè per svegliarmi dal mio “Coma Carus”, lui mi farà quel regalo che da tanto tempo desidero: “Mi risparmierà il riassunto concentrato e veloce, a mo’ di spremuta d’arancio, sui vari programmi che ha visto in Tv la sera prima”, e che, come gli ho già spiegato un’infinità di volte, più che gli aranci in succo, riduce, come fosse un tritacarne, il mio cervello in poltiglia.
Non ho ancora finito di togliermi le ciabatte che attacca con i suoi mille e un bacino, e più che una favola mi sembra di star vivendo un incubo.
Sono molto stanca e – diciamolo pure – terribilmente delusa, più che altro di me stessa. Non avevo mai perso il controllo mentre cercavo di compiacerlo, pur rischiando di far riaffiorare la mia patologia, ma dentro me sento un vulcano ardente più che per la passione d’amore per la lava rovente. Cerco quindi di sottrarmi agli eventi, a quegli eventi per cui un tempo, quando eravamo fidanzati, e quindi dormivo per i fatti miei, ci andavo pazza e per i quali un bel dì – con il senno dell’oggi, funesto – decisi di sposarlo.
Non riesco a tenerlo distante più di tanto, né a trovare scuse se non quella di essere stanca. Cerco di respingerlo, ma cedo di fronte al suo pesante ricatto: mi accusa di non amarlo più. E forse a questo punto non ha tutti i torti.
È notte fonda quando, col mio cuore in preda a una tachicardia galoppante, con soddisfazione lui mi dona con parsimonia, nei due minuti più lunghi della mia vita, il suo milleun bacino. Guardo la sveglia con rassegnazione, sono le due, e mi auguro che almeno sia stanco quando suona alle sei, e non venga a farmi compagnia mentre sono in intimità con la mia tazza di caffè.
Ma si presenta al mattino, dopo due secondi dall’accensione del fornello, con delle energie che vorrei averne io soltanto la decima parte. Intanto lui di lavorare non se ne parla, ed ecco che pian piano, da prima come un macinino da caffè, passa a tritarmi quel pochino di sostanza grigia sopravvissuta al suo intervento notturno, per convertirsi infine in un macigno sul mio cranio.
Più lumachina che mai mi vesto, prendo le mie cose e apro la porta di casa col pensiero di cambiare la serratura, rivolgermi all’avvocato e cacciarlo via. Ma decido in una specie di raptus, visto che si suol dire che chi non capisce con le buone forse capisce con le cattive, di salutarlo con un bacino, il milledue, e aprendo la mia mandibola il più possibile gli do un morso talmente cannibalesco sulla lingua e sulle labbra da restituirgli e sputargli a sangue i suoi milleuno.
 
Gigliola

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Una strana idea

 
 
“Una, due, tre…” Simona contava le mattonelle della sua cucina, seduta per terra, cercando di seguirne il disegno geometrico: “Se le conto senza sbagliare, tutto tornerà come prima”, si ripeteva come un mantra. Non ci credeva neppure lei; voleva solo provare a cancellare quello che era successo la notte precedente, che poi succedeva da una vita, se ci rifletteva bene. No, non voleva rifletterci. Serrò le palpebre e sperò che tutto passasse in fretta: era uno stratagemma che usava da bambina. Chiudeva gli occhi per non vedere e insieme alle cose brutte sparivano anche i cattivi pensieri. Ma poi era costretta a riaprirli e, come adesso, era costretta a vedere tutto, compresi i pensieri che la tormentavano. Non riusciva a ricordare bene quello che era successo. Si sentiva fuori di sé: la sua mente stava cercando di difenderla. Le rimandava le vicende vissute nel presente e nel passato in maniera più dolce, come un sogno: per quanto sia brutto e per quanto si ricordi lucidamente, non appena svegli, poi, con il trascorrere del tempo, il ricordo si affievolisce e rimane solo una vaga sensazione. Una volta aveva sognato che le tagliavano i piedi e si era sentita proprio così.
Con Bruno le capitava esattamente lo stesso: nessun ricordo felice, d’accordo, ma nemmeno nessun ricordo troppo triste. Ne era grata al suo cervello, perché questo le rendeva più sopportabile il dolore. Eppure… Il cadavere di suo marito giaceva sul balcone, avvolto in un tappeto. Non era possibile: era rimasta sola e non sapeva che fare, non era abituata a stare in compagnia di se stessa. Si sentiva mancare, non riusciva nemmeno a piangere. Avrebbe dovuto essere felice, invece non lo era. Anzi, non era e basta.
 
Bruno urla stasera, accade spesso. Sono appena tornati da una cena. Lui la incolpa di cose che non esistono. E lei reagisce. C’è l’ennesimo litigio. Che poi non è questo. Non è solo questo. Simona sta male con lui, ma senza di lui non sta meglio. È che si porta dentro troppe cose e da troppo tempo, ormai. E non ce la fa più.
Bruno va a letto e poco dopo si addormenta. Lei si sdraia sul divano e comincia a giocare con il telecomando. Ha bevuto e ha la mente un po’ confusa, solo un po’. È mezzanotte quando decide di andare a dormire anche lei. Però non riesce a stare tranquilla. Una strana idea le gira in testa. Prende tra le mani un lembo del lenzuolo e tira: la trama della tela di cotone cede facilmente e, seguendo la linea dello strappo, ne fa due strisce lunghe. Poi le lega insieme, è brava con i nodi, qualcuno deve averle insegnato a farli. Con la lucidità che l’assiste in quel momento, forma due cappi. Il marito sta russando. Gli mette un cappio intorno alle caviglie e stringe forte. Poi gira la corda improvvisata e la fa passare intorno alle mani, che lega insieme. Passa l’altro cappio intorno al collo e questa volta stringe appena un po’. Vuole solo spaventarlo. Però si sente eccitata, sta compiendo un’impresa impossibile e può vincere qualcosa. Non sa quale sia il premio ma, sicuramente, vale la pena giocare. Mentre Simona continua a stringere, Bruno si sveglia.
L’uomo impiega qualche secondo per capire cosa sta succedendo. Probabilmente il suo cuore batte forte, non può parlare, la corda gli stringe il collo e l’aria entra a fatica. Prova a spaventare la moglie con lo sguardo, poi tenta di liberarsi, ma i nodi gli tengono ferme le gambe e le braccia. Cade dal letto e trascina con sé Simona, strappandole la camicia da notte.
Lei si rialza subito e lo colpisce in testa con l’abat-jour sul comodino. Guarda Bruno: è stordito, la ferita alla testa sanguina appena, e anche se non riesce quasi a muoversi, sembra un animale furioso. Simona si libera facilmente dalla debole presa di Bruno che, nel frattempo, ha provato ad aggrapparsi a lei. È indifeso Bruno, è rabbioso, è spaventato, è inerme. Vederlo così le provoca la reazione contraria a quella che lei stessa si sarebbe aspettata: invece di liberarlo, lo colpisce ancora sulla testa, questa volta con un cofanetto di legno, fino a fargli perdere conoscenza. Poi gli mette un piede sulla spalla e, facendo forza, tira la corda intorno al collo. Forte, più che può, fino a quando lo sente tossire e poi non muoversi più. Forse ha esagerato. Dà un’occhiata al marito e corre in cucina: torna pochi secondi dopo con un coltello in mano, per liberarlo, ma non c’è più niente da fare.
Libera.
Si guarda intorno e solo in quel momento capisce dove si trova. È tornata da un viaggio: il letto sporco di sangue, la sua camicia da notte ridotta a brandelli, l’abat-jour frantumata. E Bruno è morto. Fa un respiro profondo e rimane ferma, immobile, per qualche secondo. E desidera tornare indietro e promette a se stessa che non vuole più soffrire. Ma lo sa bene: i desideri non si avverano e le promesse non si mantengono. Rimane a guardare il corpo del marito per tanto, tanto tempo, fino a quando la faccia di lui comincia a gonfiarsi. Allora lo copre con i sacchi neri, quelli per l’immondizia, e poi lo avvolge in un tappeto e lo trascina fuori, sul balcone. Pulisce tutto finché l’alba schiarisce il cielo.
 
Simona riaprì gli occhi e formò il numero dei carabinieri.
– Ho ammazzato mio marito, venite subito – disse, piangendo. Non aveva neppure aspettato che dall’altro capo del telefono avessero il tempo di parlare.
 
Manuela

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Dopo mezzanotte

 

– Ahhòò, passo a pijatte.
– Quanno?
– Dopo mezzanotte, ar solito posto. Ahò, ssei sicura? Te pagheno?
– Sìsì.
– No perché, Ceneré, vedemo da capisse bbene, io non c’ho niente en contrario co’ tutto ‘sto bballo, ma dimenasse a gratise me pare proprio ‘na sola.
– Mannò, me pagheno, nun ce piove… (ogni tanto pensava: qua famo come a Praga, Anna se sbatte e Remo se paga).
– Ah, mbè, vabbè. Allora Ciao Amò.
– Ciao Principì.
 
Ceneré caracollò traballando su perfette finte Armadillo. Tacchi alti fino alla luna, dello stesso argento un po’ consumato, la alzavano fino al segno per non pagare il biglietto sull’autobus.
Inoltre, dopo tanto su e giù, un tacco aveva ceduto… La luna si allontanava un altro po’.
Sedette sconsolata sul ciglio della strada, pensando ai fatti suoi.
Tra tante disgrazie, restava pur sempre Lui.
Quantè bbello, pensò Cenerè.
Er Principe c’ha stile DA VENNE, pensò Cenerè.
Serà ‘sto look eccentrico, li capelli “moderni”… La pelle a lampadine, i Okkiali Turbo a mascherina portati pure de notte, ahò. Canottiera sopra ‘a majetta, jeans stretti a vita bassa infilati nei carzini, mutanne Carvin Clain. Pure è Shox, origginali.
Una cosa sola je mancava: la borsetta finta de Prada, mo’ portata anche da’ maschi.
Ma non si trattava solo di mera apparenza!
Quanno sto cor Principe so’ felice, pensò Ceneré.
Nnamo in giro co’ a musica a palla, er sabbato pomeriggio se ferma co a machina tiranno giù er finestrino ppe ffà sentì a musica bbella alta a e vecchie e ppe fà lo svelto je chiede indicazzioni pe’ posti tipo er tatuatore, a palestra de kikke boxing… Da ammazzasse da lo ride ahò!
Chemmefrega se l’“amiche” mia tutte a ddì: che housettaro de mme*** te sei trovata?
Camina come c’avesse un proiettile nel c***.
Embè? Ce devo stà io, mica voartre!
L’invidia, ahò.
E provate ancora a ddì che er ragazzo mio è no stupido: ve ggonfio.
Sì, circolavano ingenerose leggende metropolitane sul Principe. Tutte da acclarare, però.
Una consisteva nella voce che il suddetto tempo prima si fosse recato al cinema e dopo aver letto sulla locandina “Vietato ai minori di 18” fosse tornato ripresentandosi con altri 17 amici.
Secondo Cenerentola ignobili maldicenze.
Lei vedeva oltre.
Era una fanciulla matura, per la sua età.
Capace di grandi sacrifici.
Per esempio, perso il partaimme da cubbista perché “co e minorenni nun volemo grane” siccome che er principone suo c’aveva la paga der soldato ma li vizzi den generale…
… Ormai disoccupata, a pochi passi da strade ad alta percorrenza… Aveva ottimizzato.
Ora girava a borzetta sul GRA.
Ispirazione giunta dal personale della disco, un tempo era detta “un metro e venti de libbidine”. Ahò, ne la vita ce se deve da renne conto, l’attitudini vanno coltivate!
Lei coltivava. Er Principe però nun dovea sapè GNENTE.
Era troooppo sensibbile, capace che la mollava pure, ppe così ppoco.
Cenerè però non sapeva che quella sera cambiava a vita sua.
Dopo settimane e settimane in cui aveva visto più piselli che ‘r minestrone de su nonna…
Si fermò Lui.
All’inizio non fu molto ben disposta.
Er Principe diceva sempre: ammazza ‘sti africani ariveno ce fregheno er lavoro ce pijeno le donne ahò tutti nella foresta devono da tornà!!
Quando accostò mise un’aria sostenuta.
– Ahò, che vvoi? – Mmazza, pensò, sei tarmente grosso che pe’ guardatte tutto me stanco…
Cenerè era piuttosto sensibile alla prestanza fisica maschile in generale.
E ancora, fra sé: Ahò, che machina… Mica c’avrà deppiù de trenta? No eh? Nun me va de stà co’ uno tanto vecchio che a l’inaugurazione der Colosseo ha preso er Vermut cor diplomatico, mortàààcc…
– Signorina, cosa fa qui al freddo, tutta sola?
– Aspetto er regazzo mio, smamma.
Cenerentola notò che l’Uomo Nero parlava senza qualsivoglia cadenza dialettale. Forse perché il mandingone era laureato alla Carlo Bo di Urbino, chissà? Magari c’entrava qualcosa… Ma Ceneré non poteva saperlo. Le venne il dubbio che l’Uomo Nero fosse in realtà un ricco italiano troooppo abbronzato.
Oppure… O gaudio, o meravigliosa gioia del cuore, o alati aneliti, nodi d’amore, passeggiate tra viole e pervinche… Che fosse uno nero ma coi soldi?
Ma certo, un calciatore!!!!
– Signorina, dove deve andare? La riaccompagno. Poi ha anche un tacco rotto, come cammina così? Venga, la porto a destinazione.
Cenerè guardò obliquamente la lunghissima, lucidissima vettura nera, il ragazzone nero, elegantissimo nel completo nero, e l’unica cosa che brillava nel buio, un fantastico sorriso.
Anziché l’Uomo Nero sembrava il Gatto del Cheshire.
Lei titubava.
– Di me si può fidare. Mezzanotte è passata da un pezzo, se il suo ragazzo avesse avuto problemi?
Poi capì che sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda era indispensabile. Disse:
– Non vorrà star qua a sbatte ‘e brocche per freddo tutta notte, vero?
Ahò, gli affari so’affari, nun famo tanto ‘e schizzinose, si disse Cenerè.
Venti minuti dopo, in una piazzola di sosta, avvinghiati, formavano una sorta di enorme tao vivente: lui tutto nero meno il sorriso, lei tutta bianca meno uno gnocco di fango sulle Armadillo sfracchiate, Lui, manona nera sulla guancia di Lei, presa da cestista da fare invidia a Kadour Ziani; Lei, manina bianca protesa sul lato B di Lui come Kay Sandvik colta in flagrante mentre saggia consistenze da American Dream Boy.
Lui convinto del più travolgente, mozzafiato colpo di fulmine della sua vita, lei convinta di non aver mai incontrato cotanto estimatore della sua prestazione d’opera.
Non chiarirono mai i rispettivi punti di vista.
Ah, il lieto fine. L’Uomo Nero la tenne ben più di un anno intero.
Flashforward per chi non ce sta ddentro più: Lui traghettò Lei fuori dalla Strada della Perdizione attraverso il Sacro Svincolo del Matrimonio. Ora sono felici, hanno figli meravigliosi, vivono agiatamente, soggiornano in resort da sogno dove scambiano Lui per animatore, Lei per una santa donna che ha adottato tre bambini.
Er Principe?
S’è fatto ‘na Joint Venture (leggi: n’accrocchio d’organizzazione): rimasterizza cd house per Porta Portese.
Ma questa, come si dice sempre in simili occasioni, è un’Altra Storia.
 
Vecchiaziapatty

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Deviazione

 
 
Mille parole.
Sono troppo poche e dopo questa premessa ne avrò già sprecate una quindicina.
La mia notte, quella indimenticabile, non riguarda una donna e sesso in una località esotica.
La mia notte, quella unica, non riguarda un concerto irripetibile in mezzo a migliaia di persone.
Quelle notti sono altre notti.
La mia notte non è stata solo mia.
Riguarda amici, cartelli stradali, una Fiat Argenta color oro che in futuro sarebbe diventata nera, “The Logical Song” dei Supertramp, il caldo d’Agosto con la sensazione che non verrà mai dimenticato.
Cinque amici, la voglia di divertirsi organizzando qualcosa di memorabile che ancora oggi ci fa sorridere. La preparazione, durata giorni, con quei furti che erano prestiti da depositi abbandonati e cantieri sparsi. L’attesa per il giorno deciso, mentre chiamavamo la nostra operazione “La Nave” in modo che nessun altro potesse capire di cosa stessimo parlando.
Quasi venti anni e i ricordi sono ancora pennellate di singoli piccoli ma indelebili particolari.
 
Fermi nella notte in macchina ci guardiamo l’un l’altro mentre fuori un cartello stradale che indica “lavori in corso” ci ha già detto tutto. Abbiamo deciso senza dire una parola.
Alessandro esce di corsa mentre Maurizio apre da dentro il bagagliaio. So quello che sta per succedere ancor prima che accada. Il cartello portatile sparisce dentro la macchina ed è solo il primo. Il nascondiglio, offerto da grossi tubi di cemento abbandonati nei pressi di un acquedotto, si riempie a poco a poco di tutto il necessario.
Coinvolgiamo anche Matteo e Claudio per completare un quadro che si rivelerà perfetto.
L’attesa per la notte decisa cresce in un misto di eccitazione e paura. Stiamo per fare qualcosa di illegale e profondamente stupido ma non abbiamo ripensamenti. Mentre il momento si avvicina non ci rendiamo ancora conto dell’importanza che avrà per noi il ricordo di quello che stiamo per fare, ma dentro di noi qualcosa ci dice che niente potrà andare storto. Una sorta di sesto senso guida tutto e ci lasciamo trasportare senza troppe domande.
Alla vigilia dell’operazione chiedo a mio padre la macchina in prestito, una vecchia Fiesta grigio metallizzato che insieme all’Argenta sarà indispensabile. Lui pensa che faremo nottata a vedere le stelle cadenti. Dopotutto, è San Lorenzo. Non sospetta minimamente quello che stiamo per fare.
Gli dico che prima tornerò a dormire un paio d’ore, ma poi non lo faccio. Esco alle nove di sera da casa e non ritornerò fino alla mattina dopo. Usciamo con altri amici, come sempre, ma tiriamo a far tardi. Arrivano le tre di notte, il momento è arrivato.
Ci ritroviamo in quattro, manca Claudio, l’unico che è andato a dormire davvero. Dobbiamo svegliarlo. Colpi alla finestra sul retro per dieci minuti e alla fine esce. Ci dividiamo in due gruppi.
I cellulari ancora non esistono quindi sincronizziamo gli orologi, non c’è altro modo. Io e Claudio sulla Fiesta, gli altri tre sull’Argenta. Andiamo ai tubi e ci dividiamo tutto l’occorrente. Partiamo per due destinazioni vicine ma diverse. Il ricordo del tragitto è surreale. Il momento sembra non arrivare mai ma in realtà è un attimo. Io e Claudio da una parte, gli altri dall’altra, decidiamo di operare contemporaneamente a un orario prestabilito. Parcheggio la macchina e spengo i fari, iniziamo ad aspettare.
Una pennellata: Claudio che corre portando un cartello che illuminato dalla sola luce della luna sembra volteggiare in aria da solo, mentre si allontana a circa centocinquanta metri dalla strada in cui il traffico sarà deviato. Piazzati i cartelli, via verso gli altri tre dalla parte opposta.
Un’altra pennellata: Maurizio e Alessandro che correndo battono la testa l’uno contro l’altro e cadono entrambi a terra. Anche se doloranti, in un attimo sono di nuovo in piedi.
Come in un film tutto funziona alla perfezione. Entriamo nella deviazione stradale e torniamo indietro. Sono ormai quasi le cinque del mattino e ci fermiamo a fare colazione in un piccolo bar. Su una montagna vicina un principio di incendio ci spinge a lanciare l’allarme. Telefoniamo ai pompieri dal telefono fisso del bar poi, presi da una smania incontrollabile, decidiamo di andare a vedere da vicino l’incendio passando per la deviazione.
Altra pennellata: Claudio con il cappuccino in mano che impreca perché lo stiamo lasciando lì.
Un camion davanti a noi si ferma davanti ai cartelli che abbiamo piazzato poco prima. Dopo alcuni secondi il conducente decide di fidarsi e imbocca la stradina. Gli alberi ai lati della strada vengono potati dall’inusuale transito. Il successo viene festeggiato con la solita canzone dei Supertramp che avevamo eletto a colonna sonora dell’estate. Dopo aver visto l’incendio da vicino, torniamo indietro e troviamo ancora il nostro lavoro perfettamente funzionante e Claudio nel bar incazzato come una bestia. Ormai sono le sette e mezzo.
Ennesima pennellata: colazione con spaghettata al pesto a casa di Alessandro.
Dopo un paio d’ore a girovagare in paese senza meta, torniamo da me. Mio padre è fuori dalla porta di casa e sembra tutto normale.
– Buongiorno! – Esordisco raggiante.
– Buongiorno un cazzo! – La risposta di mio padre.
Enorme pennellata: le risate degli altri che mi prendono per il culo.
 
Non avendomi visto tornare a casa per dormire un po’ i miei si erano preoccupati, così avevano chiamato i carabinieri per sapere se era successo qualche incidente o roba del genere. Mentre facevamo la deviazione stradale ero ricercato… roba da matti.
Ci sarebbero tante altre cose da raccontare di quella notte, altre pennellate e particolari che rendono questo ricordo indelebile, ma come scritto all’inizio, mille parole sono troppo poche.

Sphinx

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24/12/2011 ore 23.30

 
 
…Mi chiamo Lorenzo Malcervelli, ho 52 anni… e due anni fa ho perso tutto…
 
08
 
Ero impiegato alle poste, uno sportello piccolo di provincia, in tutto 10 dipendenti compresi i due postini addetti al recapito delle lettere e dei pacchi al domicilio degli abitanti del paese. 7,30 ore al giorno per uno stipendio di circa 1.800 euro al mese, 30 giorni all’anno di ferie pagate e copertura per le spese mediche fino a un massimale di 3.500 euro all’anno… mica male, proprio mica male…
 
19
 
Finito il lavoro, alla sera e nei weekend mi godevo la mia famiglia, composta da una moglie bellissima e premurosa, Arianna, di poco più giovane di me e con tanta energia in corpo, mio figlio Davide, 20 anni, laureando in ingegneria e discreto calciatore di prima categoria e mia figlia Evelyn, 18 anni, iscritta alla 5^ A del liceo scentifico e una bellezza acqua e sapone che mi costringeva a tenere gli occhi aperti sulla fila di ragazzi che le facevano la corte! Ah, dimenticavo, c’era anche Dylan, il nostro affettuosissimo bulldog inglese di 3 anni…
 
36
 
La nostra vita proseguiva nella più totale serenità, fatta di piccoli grandi sogni e qualche cena con gli amici più intimi… La salute era davvero buona, i miei ultimi esami del sangue non mostravano nessun valore sopra la norma! Fumavo una sigaretta ogni tanto, magari dopo cena, quando te la puoi gustare veramente… Nonostante qualche acciacco per la non più verde età almeno due volte la settimana mi infilavo una tuta e due comode scarpe da ginnastica e mi cimentavo nel mio collaudato percorso di campagna di 5 km… Anche questo non male…
 
58
 
Per quanto riguarda l’abitazione, alla nascita di Evelyn avevamo deciso di fare una scelta impegnativa ma per me e Arianna molto stimolante… una bella villetta di 250 metri appena fuori dal paese, con un pezzo di terreno intorno e tutta l’indipendenza che sognavamo… Ricordo perfettamente che le prime notti che passammo in quella casa facevamo fatica a prendere sonno per il gran silenzio, noi abituati al passaggio di un camion o di un motorino ogni 30 secondi! Ovviamente per comprarla abbiamo fatto dei sacrifici e un mutuo di 15 anni, che è finito nel 2008…
 
74
 
Parenti purtroppo non tanti… io sono figlio unico e mia moglie ha una sorella con la quale c’è un rapporto di amore-odio, nel senso che mia moglie la ama e io la odio (non tutto può essere perfetto…). Abbiamo entrambi perso i genitori prematuramente, in parte per problemi di salute e in parte per un incidente, ma abbiamo superato da tempo il dolore e le cene di Natale le passiamo solitamente noi quattro più il cane… Ma forse vi sto annoiando? Ok, non preoccupatevi, adesso arriva il più bello…
 
 
90
 
Ecco… era proprio la Vigilia del SS. Natale del 2009, quando quei sei numeri maledetti hanno segnato l’inizio della distruzione… 8-19-36-58-74-90. Voi cosa fareste con 85 milioni di euro? Una villa bellissima? Un viaggio di due anni intorno al mondo? La piscina riscaldata interna/esterna con sauna e idromassaggio? La casa al mare, la casa in montagna, la casa al lago? Un investimento in BTP trentennali al 4% netto per tutta la vita? No, scordatevelo, niente di tutto questo…
Per prima cosa scopri che tua moglie, che ha 45 anni, non sopporta quelle maledette rughe intorno agli occhi e quel seno che non punta più all’orizzonte ma un po’ più giù (e dire che io quelle due cose le adoravo!). Con 85 milioni di euro la chirurgia ti toglie almeno 15 anni e quel meraviglioso massaggiatore del centro estetico con gli addominali scolpiti capisce immediatamente che dietro quelle operazioni c’è un portafoglio gonfio e comincia a corteggiare Arianna… Non è affatto vero che gli uomini sono tutti stupidi e le donne sono più furbe, 85 milioni di euro rendono anche le donne tremendamente stupide e circa un anno fa ho dovuto concedere il divorzio a mia moglie (o ex moglie se preferite).
Sono stati momenti molto difficili, ma non era che l’inizio della fossa… c’era ancora tanto da scavare…
Presi la decisione di licenziarmi da lavoro, non riuscivo più a concentrarmi e poi ogni cosa in quell’ufficio mi ricordava di Arianna, visto che l’avevo conosciuta lì. Non ci misi molto a rendermi conto che quella decisione fu sbagliata, ma ormai l’avevo presa e l’orgoglio mi diceva di non tornare indietro sui miei passi (anche perché avevo sonoramente mandato a quel paese il mio titolare davanti a tutti, colleghi e clienti!!). Purtroppo un uomo solo e pieno zeppo di soldi finisce per pagare troppo da bere ad amici occasionali incontrati in ogni birreria… e bevi oggi e bevi domani, non riesci più a fare a meno del colore giallo paglierino di un bicchiere di whiskey. Le mie ultime analisi arrivate due mesi or sono dicono che il mio fegato ha imparato a pregare per invocare la grazia divina…
Tra le varie cose che ti toglie l’alcool, la prima di tutte è la lucidità… non ti accorgi più di niente di tutto quello che accade intorno a te, per esempio io non mi sono accorto che Davide aveva cambiato amicizie, e che le persone che portava a casa erano quei ragazzi che tutti dicevano controllassero il traffico di cocaina del paese. Prima di andare in prigione Davide mi confessò che aveva preso quella strada perché era convinto che fosse il modo più breve per moltiplicare quei maledetti 85 milioni di euro…
Ed Evelyn? Beh, dico solo che la prima dose gliel’ha offerta suo fratello e che l’ultima gliel’ha offerta sei mesi dopo il suo fidanzato, fregato come lei da una partita tagliata male in arrivo dal Sudamerica…
Ed eccoci così arrivati ai giorni nostri. Ho dilapidato finalmente tutti quei dannati 85 milioni di euro (o per lo meno la mia parte). Ho fatto beneficienza vera, ma soprattutto tanta beneficienza falsa, a ragazze dai seni grossi e il cuore arido che svaniscono con il sorgere del sole… Ma la notizia che più di tutte le altre ha sancito la mia fine, la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, è stata la malattia incurabile di Dylan. Lui mi era rimasto accanto in tutto questo tempo, non aveva mai smesso una sola notte di dormire accanto a me nel letto da quando Arianna è andata via; mi ha guidato a casa innumerevoli volte quando ero completamente sbronzo e alla mattina quando mi risvegliavo non mi giudicava mai, ma mi leccava comunque la mano e mi appoggiava il quotidiano ai piedi del letto.
Una settimana fa l’ho dovuto sopprimere, i latrati di notte erano insopportabili e il veterinario mi ha detto che l’unica cosa che potevo fare per lui era una siringa che gli donasse la pace perenne…
In questo momento sono in piedi sulla sedia, mancano due minuti allo scoccare della mezzanotte e mentre mi aggiusto la corda intorno al collo ho una gran voglia di darvi un consiglio che potrebbe salvarvi la vita…
 
NON GIOCATE MAI AL SUPERENALOTTO!!!
 
Marcello

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Dodici distanti rintocchi scandisce la campana

 
 
 
 
Dodici distanti rintocchi scandisce la campana, nel silenzio deserto della piazza, tra i grigi lastricati lucidi di pioggia.
Le porte divelte della cattedrale giacciono a terra distanti dal portale, come se un gigante rabbioso le avesse strappate via gettandole lontano.
L’esile figura di un prete dal passo incerto esce dalla chiesa dalle pareti martoriate dai proiettili delle mitragliatrici. Le teste mozzate delle statue che un tempo la abbellivano, ora come incomprensibili mucchietti di pietra si spargono ai piedi delle mura.
Tirando via il cappuccio si scopre la testa e guarda avanti a sé la piazza deserta. Guarda le rovine che la circondano e ricorda i bei palazzi dai tetti rossi, le finestre aperte con le facce sporte a contendersi un’occhiata alla statua della madonna portata in processione.
Ricorda i suoni delle trombe, acuti e metallici, quasi insolenti a glorificare la propria stessa forza.
Le vesti nere e oro dei sacerdoti che avanzavano facendosi largo tra la folla, che si accalcava per strappare una carezza alla Santa Signora, spingendo, facendosi largo con le braccia, agitando una busta da depositare ai suoi piedi, sventolando una foto stinta dai baci.
Nell’acuto silenzio neanche il vento si muove.
Tre pezzi di pane ha lasciato sotto una tettoia, in una ciotola di coccio. Li guarda intatti e china il viso.
Ma qualcosa si muove e lui non osa spostare la testa per guardare meglio, trepidante e timoroso di dover interpretare quella sensazione come una angosciosa fantasia.
Un gatto scende da un muro diroccato e lo guarda, distaccato come una statua, poi va verso la ciotola e la annusa. A piccoli morsi poi inizia a mangiare.
– Grazie mia Santa Signora. – mormora il prete immobile – Domani sera dopo la mezzanotte suonerò ancora la campana; oggi un gatto, quando tu vorrai forse verrà una persona.
Lentamente dalla tonaca sfila un fucile e mira accuratamente il gatto che continua a mangiare.
Il colpo esce dal silenziatore con uno sbuffo quasi distratto e il gatto ruzzola via e rimane immobile.
Mentre si avvia a raccogliere la preda pensa fra sé, dodici rintocchi, coi gatti funziona, chissà con le persone?
 
Carlocelenza


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L’ultimo saluto

 
 
Nella sua camera Marco dormiva profondamente, fuori una lieve foschia avvolgeva la città. Un lampione a pochi metri dalla finestra emetteva una luce arancio, che filtrando dalle persiane proiettava coriandoli di luce sul letto dell’uomo. Una voce più simile a una vibrazione entrò prima nelle sue orecchie e poi nella sua mente facendolo svegliare di soprassalto. Marco sbarrò gli occhi, un senso d’inquietudine lo assalì, un uomo era ai piedi del letto e l’osservava. “Chi sei?” gridò, non ebbe risposta. D’istinto accese la luce sul comodino, un bagliore bluastro invase la camera, l’uomo era sparito. Marco rimase immobile. Nessun rumore proveniva dall’appartamento, solo il ritmico pulsare del suo cuore. L’idea che fosse stato solo un sogno si fece strada nella sua mente, più ci pensava più si convinceva che era andata proprio così, aveva sognato, l’uomo non esisteva. Decise comunque di dare un’occhiata in giro, controllò porte e finestre, erano esattamente come le aveva lasciate, dell’uomo nessuna traccia. Solo un sogno si ripeteva anche se terribilmente reale. Frugò in credenza recuperando un pacco di biscotti che cominciò a rosicchiare, ravvivò un tizzone nel camino godendosi il tepore sprigionato. Ormai era completamente sveglio, l’orologio in cucina segnava le 2:10, ancora 5 ore e poi il lavoro lo attendeva. Pensò ai colleghi, domani avrebbe raccontato la sua avventura facendosi due risate, anzi no meglio di no si disse, altrimenti quel rompipalle di Claudio lo avrebbe coglionato per tutto il giorno con la storia dell’uomo invisibile. Osservava la fiamma scaturita dal ceppo nel camino, il movimento ondulatorio lo ipnotizzava, l’immagine dell’uomo ai piedi del letto aveva qualcosa di familiare, gli sembrava…, “ma certo” esclamò, era suo padre vestito come quella volta che… Marco si avvicinò a una foto appesa in cucina, un uomo di mezza età sorrideva mentre abbracciava un ragazzo, ambedue vestiti da pescatori e impugnavano le canne da pesca, ai piedi un considerevole numero di pesci. Quel giorno erano stati al lago, si divertì molto pescando un sacco di pesci. Maria la sorella più piccola aveva scattato la foto. Una valanga di ricordi sembrò sommergerlo, un senso di nostalgia lo pervase, da quando tempo non vedeva suo padre? Fece mente locale e rimase stupito, l’ultima volta era stato a Natale, due mesi prima. Anni fa si era spostato in città per fare carriera, la sorella invece non si era mossa da casa, un po’ la invidiava, le cose in città non erano andate proprio bene. In quel preciso istante prese una decisione, l’indomani dopo il lavoro avrebbe fatto visita ai suoi vecchi. Ripercorse mentalmente la strada che portava dai suoi, attraversò la città poi la periferia e in fine su per le colline fino alla vecchia casa, ma non si fermò prosegui e raggiunse il lago e poi su per il bosco fino alle pendici della montagna che da quelle parti chiamavano “La Signora”. C’era qualcos’altro, suo padre gli diceva qualcosa nel sogno, ma per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordarselo, era stata proprio la sua voce a svegliarlo, ma niente, proprio non ricordava. Si sentì stanco, il sonno era tornato, l’orologio segnava le 2:37. Decise di tornarsene a letto col suo bagaglio di ricordi. Un trillo di telefono squarciò il silenzio, il cuore di Marco sembrò fermarsi. Rispose con rabbia:
“Pronto!”
“Marco…”, la voce era spezzata da un pianto convulso.
“Maria che succede?”
“Papà è…”
“Papa cosa?”
“ È morto.”
La cornetta gli cadde di mano, ora l’immagine era nitida, suo padre vestito da pescatore come quel giorno al lago lo salutava e sorridendogli gli diceva “Addio ragazzo”.

Michele

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L’incubo

 
 
L’orologio della Chiesa batté i dodici colpi della mezzanotte e l’uomo sussultò nel letto, pervaso da un’incredibile angoscia che lo fece sobbalzare pieno d’apprensione e sospetto. Sentiva la moglie ansimare, mugolare come simulasse un amplesso e, per quanto fosse evidente che non ci fosse nessuno, pure egli avvertiva come una presenza, una sensazione mai provata di ansia e timore. Si rigirò più volte su se stesso, cercando di liberarsi da quella strana situazione, quando sentì la moglie sussurrare il nome del suo più intimo amico, morto pochi giorni prima, stroncato da un infarto mentre andava per mare. A essere onesti, per quanto avesse simulato un grande dolore, la morte di Gigi lo aveva liberato da una gelosia profonda e radicata nei suoi più tenebrosi pensieri. Non gli erano certo sfuggiti gli sguardi pieni di desiderio che l’uomo lanciava alla donna, ma soprattutto aveva notato che la moglie, apparentemente distratta, apprezzava quella muscolatura perfetta che l’uomo di mare aveva ostentato sdraiato sul ponte della barca che solcava i caldi mari caraibici. La vacanza sarebbe stata distensiva se, già prima di quella tragica morte, non fosse stata rovinata da quella smania che sembrava aver preso sua moglie, trascinata in un crescendo di sfrenata allegria. Qualche giorno prima aveva voluto imparare delle danze latine lascive e sensuali e, per quanto fosse piacevole vederla contorcersi in perfetto accordo con la musica sudamericana, pure l’uomo non poteva evitare che una malcelata gelosia s’impossessasse di lui. Gigi infatti la guardava e sorrideva e lei sembrava profittare di un attimo di distrazione del marito, per ricambiare quegli sguardi pieni di desiderio e di passione. L’infarto era giunto propizio a restituirgli la pace coniugale, ma ora sembrava proprio che sua moglie stesse godendo con Gigi, non solo per le paroline dolci che ogni tanto proferiva nel sonno profondo, quanto per quegli ansiti e sospiri che riempivano la stanza di un’imbarazzante sensualità. Si mise a sedere sul letto osservando la moglie che ancora si agitava tremante, la sentì ancora ripetere quel nome tanto odiato e non sapeva se svegliarla per chiedere spiegazioni o evitare una figuraccia perché era evidente che nella stanza non c’era nessuno. Si recò verso il bagno e la sua attenzione fu attratta da alcune gocce di acqua che bagnavano il pavimento. Si piegò a guardare, poi fulminato da un’improvvisa ispirazione, toccò quell’acqua con la punta dell’indice, portandola fino alla bocca per saggiarne il sapore. Sobbalzò tremando come una foglia. L’acqua era salata: era acqua di mare! Allora tornò a letto, si gettò come una furia sulla moglie tempestandola di domande preso da un raptus improvviso e violento, cominciò a parlare di fantasmi, di orgasmi, di gelosia, in un crescendo d’ira e follia, mentre la moglie cercava di calmarlo, di spiegarli che era stato solo un brutto incubo, che forse non avrebbe dovuto mangiare quei peperoni fritti la sera precedente. Finalmente l’uomo si svegliò, guardò rasserenato la bella moglie che si stiracchiava come una gatta appagata di carezze e cominciò a baciarla e carezzala e riempirla di dolci paroline. Ormai completamente sveglio e affrancato da tanta sofferenza e timore, si andava rallegrando che si fosse trattato solo di un brutto sogno, accese la luce, si accorse che si era fatto tardi e si precipitò in bagno per una doccia veloce prima di recarsi al lavoro. Sua moglie gli regalò un sorriso, si stiracchiò ancora una volta sbadigliando felice e si infilò sotto le lenzuola. L’uomo rasserenato, sorrise a sua volta, le mandò un bacio con la punta delle dita ma subito dopo il suo volto tornò buio e pensoso. Sul pavimento, proprio come nel sogno, c’erano delle piccole pozze d’acqua. Si chinò a saggiarne il sapore con la punta del dito e immediatamente trasalì: quella sul pavimento era, senza ombra di dubbio, una pozza di acqua di mare!
       
Dino

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