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Indice:
La gara
Prefazione
URANOFOBIA (racconto
UN MONDO MIGLIORE
FRONEMOFOBIA
MEGLIO I POP-CORN
IL GIARDINO DELLA DE…
PENSARE UCCIDE TE E …
TEQUILA
LA SOGLIA DI SICUREZZA
LINDA
LA FOBIA DEL PARADISO
LA REGINA DELL’ANELLO*
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Una produzione

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La gara

Gara 18
BRIVIDI A NATALE
gennaio 2011
 
antologia per BraviAutori.it
 
a cura di Mastronxo

immagine copertina presa da:

Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
 
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
 
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

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Prefazione

 
Sarò breve.
Questo e-book è da leggere. Tutto.
Non c’è bisogno di spiegare i motivi, come non c’è bisogno di una presentazione fenomenale per catturare l’attenzione di un lettore fuggiasco. Una volta che ti sarai lasciato dietro agli occhi l’ultima riga dell’ultimo racconto, capirai da solo.
Ti spiego solo brevemente in cosa consisteva la Tenzone, detta Gara 18, a questo giro.
Gli autori che trovi di seguito menzionati, detti Braviautori (mica a caso), hanno dovuto scegliere una fobia come tema predominante della loro breve opera.
“La solita zozzeria”, penserai.
«Sbagliato!» ti risponderò manganellandoti sul midollo allungato e versandoti olio piccante nelle mutande.
Le fobie da scegliere erano… Strane. Talmente strane, che era possibile riderne. Risata, che risulta essere il mio personalissimo metodo per auto-esorcizzarsi dalla paura. Paura, che sta diventando la nostra più fedele e puzzolentissima compagna di giochi e viaggi e vita. E se non si vuole rimanere con una compagna musona per tutto il percorso che ancora ci rimane da macinare, temo che sarebbe meglio imparare a ghignarle dietro qualche impropero. O anche davanti, ancor meglio.
E allora mi permetto un consiglio. Fatti prendere per mano (o per altre parti del corpo, come preferisci) dagli Autori e dalle Autrici che si sono scontrati con termini un po’ moderni e un po’ desueti quali l’ “Araquibutirofobia”, la paura dei gusci di arachidi; la “Fronemofobia”, altrimenti chiamata paura di pensare; il controsenso grottesco della “Hipopotomonstrosesquipedaliofobia”, meglio conosciuta come paura delle parole lunghe; la terribile (per una donna) e paratatticcamente, parossisticamente intollerabile (per un uomo)“Ithyphallofobia”, che si presenta ai più come paura dell'erezione del pene; e per chi non si accontenta dei problemi di “questa vita”, abbiamo dietro al sipario, bel bella in agguato come una tigre sdentata, l’“Uranofobia”, aleggiante mostruosa nelle menti più bieche in qualità di paura del Paradiso.
 
      
Tutto questo condito da un pizzico di Natale, tanto per non dimenticarsi del periodo in cui questi lavori sono stati confezionati, impacchettati, decorati, ammucchiati sulle slitte, distribuiti sotto gli abeti plastificati e infine scartati.
Nel senso buono.
La finisco qua, preferisco tu legga qualcosa che abbia davvero un senso.
Che Babbo Natale sia dentro di te.
Che la Paura Ossessiva ti accompagni.
Che la voglia di ridere di Lei non ti passi mai.
E che questo piccolo libro ti aiuti nell’intento.
 
Mastronxo


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URANOFOBIA
(racconto vincitore)

Miriam Mastrovito
 
 
Quest'anno le luminarie si sprecano.
"Sembra di essere in una discoteca del cazzo".
Così pensa Leo seguendo la corrente. Però, un paio di anfibi nuovi per sé e una felpa con l'effige di Rozz Williams per la sua bella valgono bene un irritante bagno di folla.
"Merry Xmaaaas".
D'improvviso la suoneria del cellulare interrompe il suo flusso di coscienza.
Non è la canzoncina zuccherosa da bimbi di scuola elementare. Sono chitarre distorte sovrastate dalla cazzutissima voce di Godano.
Leo legge il nome sul display. Non ha alcuna voglia di rispondere ma non riattacca per godersi ancora qualche nota della sua canzone natalizia preferita.
Il leader dei Marlene sta vomitando il terzo "Merry Christmas" quando un tipo dallo scatto felino gli soffia l'apparecchio dalle mani e prende il volo.
«Brutto figlio di puttana!» Il ragazzo lo insegue imprecando. Ignora il semaforo rosso e si tuffa al centro strada. Esulta nel realizzare di aver agguantato un lembo di cappotto logoro.
Il resto somiglia a una sequenza al rallenty disturbata dal destino beffardo.
Un pezzo di panno lercio in pugno, il dito medio alzato dello stronzo che gli ha fottuto il telefono, due fari abbaglianti, uno stridio di freni.
"Ho l'universo in fiamme che mi lacera le gambe".
L'ultimo pensiero in musica prima che cali il sipario.
 
Non sono farfalle a solleticargli le ciglia e non è gioia il senso di leggerezza che prova riaprendo gli occhi, piuttosto una fastidiosa sensazione di incorporeità.
Leo si guarda intorno con aria smarrita. Una stanza bianca. Potrebbe essere una camera di ospedale se non fosse per quei banchi di ovatta sparsi sul pavimento e pendenti dal soffitto. Tanto basta a metterlo in allarme.
Sente freddo. Prova a cingersi in un abbraccio ma gli arti gli attraversano il torace in un bizzarro scontro di aria contro aria.
«Sono morto, cazzo!», balbetta, poi il suo sguardo si posa su uno scranno che pare fatto di zucchero filato. Un uomo dalla barba e i capelli bianchi che somigliano tanto a una nuvola lo scruta bonariamente.
Non è tanto quel sorrisino del cazzo quanto il mazzo di chiavi che gli riposa in grembo a fargli esplodere la sirena nel cervello.
«Sono in paradiso?!» Leo si esibisce in un falsetto isterico.
Il vecchio in poltrona annuisce con fare serafico.
L'anima in pena comincia a vibrare come le corde di una Fender percosse con troppa violenza.
Come spiegare a Babbo Natale che sono uranofobico?
URANOFOBICO. URANOFOBICO.
Ribadisce il riff nella sua testa.
«Deve esserci un errore» mugugna.
«Il Buon Dio non sbaglia mai» sentenzia l'altro con voce baritonale.
«Non sono buono, non sono buono per niente» farfuglia il ragazzo. Fosse ancora di carne sarebbe madido di sudore.
«Fumo le canne, mi sparo le seghe e non vado a messa dal giorno della mia prima comunione.» È talmente agitato che parla di sé al presente.
Barbabianca non si scompone, allarga le braccia in un gesto che trasuda amore universale.
«Il Buon Dio perdona e legge in fondo al cuore.»
«Forse non ci siamo capiti, nonno. Ho tutta la discografia dei Christian Death» rilancia Leo anche se, vista la piega che stanno prendendo gli eventi, gli sembra il male minore.
«Hai salvato una vita. Questo cancella qualsiasi peccatuccio. Ti sei guadagnato il paradiso.»
«Ma che salvato! Quello voleva fottermi il cellulare. Non si fosse strappato il suo cappotto di merda…»
«Sarebbe stato investito al posto tuo» conclude il suo interlocutore.
«Volevo pestarlo, non salvarlo, mi capisci?» Urla Leo in preda al panico. Gli vengono i brividi al solo pensiero di finire tra le nuvole con una tunica pastello e i boccoli d'oro a intonare un coro di mielosi hallelujah. Roba da far contorcere le budella rimaste a marcire sull'asfalto!
«Merito di andare all'inferno» più che una constatazione, la sua suona come una supplica ma il vecchio si mostra duro di comprendonio.
Leo si sente come un topo in trappola.
URANOFOBICO. URANOFOBICO.
Insiste il riff che ormai gli martella le tempie fantasma. Sta per cedere al terrore quando una folle speranza lo rianima di quel tanto che basta a suggerirgli la mossa successiva.
Se commettesse un omicidio, forse il Padre Celeste si vedrebbe costretto a riesaminare la sua pratica.
Si avventa sul nonno deciso a farlo fuori ma le sue mani evanescenti stringono un collo privo di consistenza. Perde l'equilibrio e cade in ginocchio. È sul punto di urlare e piangere lacrime fatte di vento quando scorge un serpente strisciare tra i cirri sparsi sul pavimento. È solo allora che un ghigno diabolico gli si dipinge sul viso. Forse non tutto è perduto.
Senza rendersene conto, adesso anche lui ha cominciato a strisciare.
«Andiamo amico» sibila, «fammi vedere dov'è che il Buon Dio nasconde le fottutissime mele.»
 
 
 


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UN MONDO MIGLIORE

Ser Stefano
 
L'arrugginito cancello di ferro si era appena chiuso che Rocco vi sputò contro, e rise forte.
'Scemi' pensò piegandosi dalle risate. Poi si stiracchiò verso il cielo, con un sorriso di trionfo, lasciando che la dolce aria di libertà scacciasse dai polmoni quella stantia della cella.
Non c'era nessuno ad aspettarlo. Ovvio, anche i parenti più stretti lo avevano sempre evitato come la peste. Meno ovvio era il fatto che l'avessero rilasciato dopo neanche una settimana di isolamento e un paio di giorni in ospedale per esami e iniezioni.
Il rilascio era stato una gradita sorpresa ma non privo di perplessità. Aveva subito pensato a una malattia incurabile ma i medici lo avevano rassicurato. Il motivo della scarcerazione era dovuto al fatto che non rappresentava più una minaccia per la comunità. Rocco si era prodigato in mille pentimenti e rassicurazioni e loro, incredibile, si erano bevuto tutto.
Sprofondò le mani in tasca e fischiettando Jingle bells, s'incamminò verso casa.
 
Viveva solo, ormai cinquantenne e brutto come un nano da giardino. La sua baracca era un letamaio: sporcizia ovunque, lattine e bottiglie vuote, avanzi di cibo sparsi in giro. Un paio di materassi stesi a terra rappresentavano il suo giaciglio e il suo principale divertimento. Il tanfo aleggiava opprimente e insopportabile su tutto. Ma a lui non interessava. In quella settimana trascorsa in cella non aveva fatto altro che pensare a lei, alla dolce Stefania. Una quattordicenne biondina che passava ogni giorno davanti a casa sua. Un corpo da bambina che stava sbocciando in piccoli seni appena accennati e gambe lunghe e sottili che aspettavano solo di essere aperte.
Rocco cominciò a pregustare l'odore del suo giovane corpo e le sue urla di paura e di dolore, quando l'avesse presa. Perché, ne era certo, sarebbe stata sua, e le avrebbe fatto molto male.
Si appostò alla finestra ormai nerastra dallo sporco accumulato negli anni. Presto sarebbe passata proprio davanti alla sua proprietà. La stradina sterrata scendeva ripida verso il vicino paese. Non c'era anima viva, nemmeno la sua giovane futura amante. Sperò non avesse cambiato orari poiché a quell'ora doveva essere già in cammino per la scuola.
Era deciso a prenderla quello stesso giorno, al ritorno dalle lezioni. L'avrebbe tramortita, portata dentro e gettata sul materasso. Sarebbe stata "sua" a lungo. Molto a lungo. Il più possibile. Di sicuro non avrebbe rinunciato alle vergini cosce di Stefania per qualche settimana di carcere. Sempre ammesso che lo scoprissero.
Un movimento sulla destra lo fece quasi sobbalzare.
La quattordicenne oggi indossava una graziosa gonna azzurra e una maglia attillata. Sublime. Perfetta, nell'immaginario di Rocco. Non poteva sperare di meglio. Un rivolo di saliva gli sfuggì da un angolo della bocca e gli scivolò sul mento, mentre la divorava con gli occhi. Stefania camminava lentamente, quasi stesse facendo una sfilata, solo per lui. Come se sapesse che lui la spiava e si stesse facendo ammirare. Rocco era sicuro di questo, tutte uguali, le donne. Fu sopraffatto dal desiderio di possederla, subito, tanto che riuscì a stento a trattenersi da uscire e prenderla.
Si portò una mano tra le gambe come per cercare di contenersi, per darsi un momentaneo sollievo. Doveva far durare la voglia il più possibile così la violenza sarebbe stata maggiore.
Sentì una cosa strana. Il suo membro cresceva e diventava duro ma era diverso dalla sensazione cui era abituato, c'era qualcosa che non andava. Formicolava, e non gli dava il solito piacere. Cominciò a tremare, dalla testa ai piedi. Brividi freddi che gli fecero accapponare la pelle e scuotere furiosamente le spalle. Lasciò subito la presa ai genitali.
Allargò l'orlo dei pantaloni e sbirciò affannato dentro. Nell'oscurità delle sue lerce mutande intravide la sua fonte principale di piacere. Riuscì a guardarlo solo per pochi attimi, una mano di pietra gli afferrò lo stomaco e strinse forte, per poi risalire le pareti dell'esofago, fino in gola. Fu scosso da conati di vomito e spasmi. Cadde pesantemente sulle ginocchia. Riprese fiato per un attimo ma l'immagine del suo membro eretto gli tornò in mente… e cominciò a urlare. Urlò di paura. Urlò a lungo, in agonia, preso da un dolore fisico e mentale, come se qualcuno gli stesse segando tutte le ossa contemporaneamente. Urlò fino a restare senza fiato e voce.
— Cosa… mi hanno fatto — balbettò sottovoce.
Poi pianse, per tutto il giorno.
 
Stefania sentì le grida dalla casa appena passata.
Alzò le spalle, era già in ritardo. E poi, oggi, avrebbe chiesto a Marco di andare al cinema con lei, e al pensiero, tremava tutta.
 
 
 


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FRONEMOFOBIA

Alessandro Napolitano
 
 
L'intelletto annulla il fato. Finché un uomo pensa, egli è libero.
(Ralph Waldo Emerson)
 
L'albero di Natale era un pino sintetico colorato di bianco, illuminato da un filo di luci intermittenti e avvolto da un nastro dorato. Era alto fino a sfiorare il soffitto e sistemato accanto alla finestra del salone, dove Matteo godeva di una prospettiva invidiabile. Osservava le persone accalcarsi tra le vie del centro, tanti pedoni della stessa scacchiera, disposti a barattare un pezzo di vita per un acquisto alla moda. E tutti incapaci di riflettere sui propri pensieri.
"Dovrei essere come loro, dovrei inseguire quelle facce, quelle espressioni e riconoscermi in quei girotondi senza direzione. Sarebbe più semplice pensare a come ucciderli. Ma non sono capace di imitarli, questo è stato il mio limite. E poi, quale senso avrebbe diventare uno di loro? Sono tutti uguali, omologati e logori. Sarebbe più opportuno cullare tra le mani il ferro di una pistola. Accarezzare il grilletto come i capezzoli di una sconosciuta e scegliere nel mucchio la vita da prendermi."
— Signore, il suo ospite è arrivato. — La voce del maggiordomo lo fece trasalire.
— Fai entrare, Alberto, e servi un brandy.
Matteo vestiva uno smoking color crema e un papillon blu elettrico spiccava sulla camicia. Aveva i capelli pettinati all'indietro, lucidati da un gel che garantiva un elegante effetto bagnato. Le sopracciglia ben pettinate incorniciavano gli occhi allungati, simili a quelli di un asiatico. Appariva perfetto, come sa esserlo il pianto di un bambino appena nato, il sì di una sposa, o l'attenzione con cui si preparano i morti alla sepoltura.
Dalla soglia della camera parlò un uomo grasso, e disse una parola sola:
— Buonasera.
Poi fece il gesto di togliersi il cappello, facendo attenzione a sfiorarlo appena, e lasciando scivolare la mano verso un trench sgualcito. Il movimento si esaurì con un inchino goffo per quanto ostentato. Matteo sedette sulla poltrona accanto all'albero di Natale e con lo stesso dito con cui aveva tamburellato la vetrata, indicò all'ospite la sedia su cui accomodarsi.
— Il mio nome è Ras…
— Non ho chiesto nulla di lei, non sono interessato a come si chiama, ma solo a ciò che ha da offrirmi.
L'uomo slacciò i bottoni del trench, infilò la mano destra all'altezza del cuore e si assicurò che l'impermeabile non fosse troppo aderente. Rimase in silenzio.
— Non volevo essere scortese, capirà che le intenzioni di una persona come lei possono risultare pericolose. Sono fin troppo preoccupato a reprimere i miei di pensieri, e a impedire che si manifestino.
Matteo si passò una mano sulla fronte, premette con forza e la sfregò più volte, avanti e indietro. In quel momento chiuse gli occhi e digrignò i denti. Quando si rilassò, aggiunse:
— Si chiederà se sono pazzo. Starà pensando che sono un folle, che nulla possa giustificare le mie intenzioni. Nonostante le abbia assicurato fino all'ultimo centesimo, ho paura che rifiuterà il lavoro.
— Questo può escluderlo. — La voce dell'ospite vibrò con forza.
— Molto bene, mi compiace sapere che concluderemo l'affare.
Alberto entrò nel salone e servì agli uomini un bicchiere di René Briand. Si avvicinò alla vetrata e chiuse le tende. Da lì, vide i bagliori dell'albero di Natale brillare negli occhi di Matteo e percepì nello sguardo dell'uomo una sensazione di assoluta tranquillità. Di certo, pensò, tanto preziosa quanto rara.
Matteo sorseggiò il brandy, prima di ricomporre il papillon e di portarsi le mani ai capelli. Sollevò il parrucchino facendo attenzione a non rovinarne la piega. L'uomo in trench osservò sbigottito quanto ebbe a vedere.
— Faccio impressione?
L'ospite non distolse lo sguardo da due cicatrici lunghe quanto la testa. Erano spesse un dito, e marchiavano a forma di croce il cuoio capelluto.
— I miei pensieri reclamano spazio, vogliono prendere il sopravvento sulla ragione. Sono come serpenti, stringono il cervello fino a sopirlo. O peggio ancora a dominarlo. Nessuno è riuscito a trovare una cura che possa sopprimerli, il loro veleno è più potente di qualsiasi antidoto. Le assicuro che non è semplice avere dei momenti di lucidità come questo, poter parlare senza che i pensieri prendano il sopravvento. Come vede ho anche provato a estirparli, ma a quanto pare non è stato sufficiente.
Solo allora l'ospite abbassò lo sguardo.
— La sto annoiando. — Irruppe Matteo, infilando la mano nella tasca della giacca e tirando fuori una busta di carta. — Qui dentro c'è la metà di quanto stabilito; a cose fatte la servitù provvederà a saldare il conto.
— Signore, sono un professionista, vengo pagato per il lavoro che svolgo e non faccio domande, tanto meno riflessioni.
— Bene così. Non voglio pensare che lei possa credere di commettere un errore. Sarebbe un'idea orribile, non saprei affrontarla. Invidio il controllo che dimostra, a me è mancato il giorno in cui i serpenti hanno ucciso mio figlio. Questo è uno dei motivi per cui lei è qui. E oggi voglio solo pensare a non pensare.
— Capisco signore, e ho rispetto per lei. Quando vuole… — L'ospite sospirò tanto da allargare la cassa toracica.
— Alberto. — Esclamò Matteo senza guardarlo.
Il maggiordomo si chinò sulle gambe e staccò una spina elettrica dalla parete. Le luci dell'albero di Natale si spensero.
Nella penombra di una sera di dicembre, Matteo indossò il parrucchino facendo attenzione alla piega. Dopo aver picchiettato la tempia con l'indice della mano, chiuse gli occhi e deglutì. Davanti a lui, uno sconosciuto con indosso un trench sgualcito, infilò la mano sotto il braccio sinistro, estrasse una calibro nove e gli esplose due colpi contro la fronte.
Solo allora i pensieri di Matteo si sciolsero nel nulla.
 
 


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MEGLIO I POP-CORN

Manuela
L'adolescenza è l'epoca in cui l'esperienza
la si conquista a morsi.
(Jack London)
 
Le versi un bicchiere di coca-cola gelata nel suo bicchiere preferito: la mamma dice di averne bisogno perché lo zucchero va via dal sangue insieme alle lacrime durante la sequenza in cui Rick dice addio a Ilsa, mentre Sam continua a suonare in sottofondo sempre la stessa canzone. Pensi: "Eccola di nuovo con gli occhi lucidi".
— Grazie tesoro… — mormora quando ti vede svoltare piano piano l'angolo del soggiorno con il bicchiere colmo fino all'orlo. Le fai un sorriso e resti concentrata, ma qualche goccia cade sul pavimento.
Guardate il film fino ai titoli di coda, poi ti alzi in piedi e fai alzare anche lei, per mimare l'ultima scena.
Discutete su come gli attori muovono gli occhi quando si guardano da vicino e su come sia impossibile fissare lo sguardo di chi ti è di fronte.
— Un giorno capirai… su, su! — reciti la battuta finale, con fare esagerato, sfiorandole il mento con il dorso della mano.
— Buona fortuna, bambina! — continua lei e ti abbraccia forte e ti dà una carezza sulla testa.
— Mamma sono quasi più alta di te! — dici e ti metti sulle punte, le dai un bacio sulla fronte, solo per farle notare che hai ragione.
Tua madre saltella scomposta fino alla cucina e prende le arachidi tostate, quelle chiuse sottovuoto. Taglia la busta con le forbici e l'odore si diffonde per tutta la stanza. Ti viene la nausea.
— I gusci non ci sono, per fortuna! — affermi un po' agitata.
Lei ribatte che lo sa bene che ti fanno schifo, che non riesce a capirne il motivo. E aggiunge che non tutto al mondo deve avere necessariamente una spiegazione. Lo fa come se stesse pronunciando una sentenza assoluta, definitiva. E sorride, passandoti accanto con la bocca socchiusa per tenere un'arachide in equilibrio tra le labbra.
 
Trattieni il voltastomaco. Litigavano per un pranzo finito male. Era Natale anche allora. Forse. E forse non litigavano proprio per il pranzo. Stavi sparecchiando. Avevi tolto quasi tutto, tranne le bucce delle noccioline.
Dovevi sbrigarti: se avessi fatto in fretta, mamma e papà avrebbero smesso di litigare.
Ma quelle bucce non solo s'infilzavano nella trama della tovaglia, sembravano muoversi, spostarsi, pungere, saltare negli occhi e attaccarsi al maglione e restare avvinghiate sui polpastrelli. Cattive, subdole, mostruose. Perché erano state loro le artefici di quella discussione e rimanevano lì a voler affermare, sostenere e ribadire che non ce l'avresti mai fatta a toglierle, nemmeno se le raschiavi via con la lama del coltello e che avrebbero vinto loro. Certe si vedevano, ma erano incastrate; altre minuscole non riuscivi a pinzarle perché le tue unghie erano troppo corte, le mangiavi nervosa, ora non lo fai più.
Le parole di quel giorno ti si accavallano ancora nella testa, non ne conoscevi il significato allora, ti sembravano troppo difficili. E se fossi riuscita a pulire tutto? La discussione sarebbe finita? Alla fine hai levato quelle bucce vischiose. Non sei mai riuscita a fare lo stesso con le parole.
 
Provi a pensare ad altro, cerchi di dimenticare quelle parole che continuano a tornarti in testa. Provi a non pensare al fatto che ancora adesso non ne conosci il significato, restano sempre troppo difficili.
Sorridi. Fai le facce strane mentre tua madre sgranocchia le noccioline. Ti senti soffocare, ti senti un groppo che ti chiude la gola quando tenta di imboccartene una. Non glielo fai capire, scherzi. Storci la faccia, ridi, ti pieghi in due per il ridere, serri la bocca, poi protesti: — Basta, non ne posso più!
Lei si ferma, rovescia la ciotola semipiena nella pattumiera e viene da te, vi accoccolate sul divano, sotto la stessa coperta. Cambi canale. Su MTV ci sono video colorati e rumorosi. Le dici che ti piace tanto l'ultima canzone di Rihanna e la inviti a ballare. Tua madre si rifiuta muovendo il dito e la testa a ritmo con la melodia e ti dice che non sa nemmeno chi sia Rihanna.
Pensi che non sa un mucchio di cose.
Poi arriva un altro video, un po' sfocato con strani cantanti che sembrano mascherati e si alza e ti porge la mano. Balli con lei per farle piacere, anche se non conosci quella musica, e resti stupita nel vederla dimenarsi e sudare.
— Mamma, io vado a letto — dici di colpo e resti ferma a guardarla.
— Va bene, piccoletta — commenta, con l'aria un po' delusa.
Spegne il televisore.
Pulisce le gocce di coca-cola che avevi fatto cadere e che hanno formato un alone appiccicoso sul pavimento e la senti borbottare dolcemente: — Mai più noccioline!
Quando sei nel letto, si affaccia sulla porta della tua camera.
— A proposito — fa con aria esitante, come sempre. — Com'è andata in questi due giorni?
Non le dici niente dell'altra. Le dici che è andato tutto bene, che papà ha un nuovo videogioco fantastico, che alla cena della vigilia eravate in tanti, che ti ha spiegato che è lui che fa Babbo Natale e che tu hai fatto finta di niente ma lo sapevi già.
 
Le chiedi sottovoce se domani le andrebbe di andare al cinema.
Lei si avvicina, ti dà un bacio e sussurra: — Certo! Ci vediamo un film divertente e ci mangiamo una montagna di pop-corn!
 
 


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IL GIARDINO DELLA DELIZIA

Roberto Guarnieri
 
 
"Sai perché mi darebbe proprio fastidio morire?"
Federico si sedette a terra tra i ciottoli riarsi dal sole e si tolse l'elmetto passandosi una mano tra i capelli sudati. Tenendo vicino il fucile d'assalto svitò il tappo della borraccia e bevve un lungo sorso d'acqua, calda e dal sapore di cloro.
"È la domanda più idiota che abbia mai sentito." Toni rimase in piedi, incapace di rilassarsi, appoggiato alla jeep e nascosto dietro i suoi Ray-ban sporchi di polvere. "Stupida e inutile come 'sto schifo di deserto roccioso."
"Può essere. Ma prova a darmi lo stesso una risposta."
"Senti" ringhiò l'altro guardandolo dall'alto in basso. "Oggi non sono decisamente dell'umore giusto per sentire le tue cazzate filosofiche. Sarà che siamo in questo paese dimenticato da Dio da ormai quattro mesi, sarà che oggi è Natale e giuro di non aver mai visto nulla che assomigli di meno al Natale di questa pietraia senza fine, sarà che fa un caldo merdoso ma proprio non ho voglia nemmeno di pensare."
Federico abbozzò uno stanco sorriso. "Va bene. Capito il messaggio." Poi raccolse un sasso consumato dal vento e lo porse all'amico. "Prendilo. Quando torniamo a Base Italia lo appendiamo all'albero. Sembra proprio una pallina."
" Sei un cretino. Tu, il Natale e la morte."
"Sarò anche un cretino ma di questa cosa devo parlare." Fece una pausa a effetto e proseguì. "Quello che mi fa paura non è morire, ma finire in Paradiso. Ecco, l'ho detto. Sembra assurdo ma è così. Il solo pensiero mi terrorizza."
Toni sbuffò. "Voi laureati siete tutti matti e svalvolati. A forza di studiare vi si fonde il cervello. Ma dico io che razza di stronzata. A parte il fatto che tu non andrai mai in Paradiso, per ovvi motivi, ma se anche fosse? Dove sta la tragedia?"
"È l'idea di dover passare l'eternità a non far nulla, immobile seduto tra le nuvole contemplando la luce di Dio, magari con una musichetta celestiale in sottofondo. L'Eternità, capisci? Un immenso arco di millenni di ozio e di inattività che non finirà mai. Da impazzire."
"Beh, cazzo, sempre meglio che bruciare all'Inferno, no?" Toni non avrebbe voluto proseguire, ma suo malgrado era affascinato da quella conversazione. Qualsiasi cosa pur di non pensare alla sua famiglia in Italia, seduta a tavola vicino a un vero abete addobbato con festoni e luci. "Voglio dire, quella sì che sarebbe una situazione di merda!"
"E perché?" Federico scosse la testa perplesso. "Almeno lì hai la cognizione del tempo che passa. Dolore. Orrore. Sensazioni forti che ti tengono vivo. Ma lassù? Con il cervello che gira a vuoto per secoli, rimuginando e ritritando i tuoi ricordi all'infinito?"
Toni stava per rispondere a tono ma il colpo di fucile del cecchino, unico e preciso, glielo impedì. La testa del compagno esplose in una nuvola rossa mentre lui si gettava a terra rotolando tra la polvere.
 
Federico si alzò lentamente. Avvertiva un po' di vertigine ma non dolore. Si sfiorò il viso e lo sentì integro e senza ferite. Non aveva più indosso la tuta mimetica ma una morbida veste di seta rossa. Davanti a lui dei campi di un verde intenso, debolmente ondulati, erano percorsi da piccoli ruscelli dagli strani colori. Infilò una mano nel più vicino ritraendola piena di liquido giallo e profumato. Miele. Sfumato in lontananza gli sembrò di intravedere un grande palazzo, dai riflessi d'oro, con torri e cupole che brillavano nel tiepido sole del pomeriggio. All'improvviso udì una voce, dal tono basso e suadente. Voltandosi lentamente scorse una ragazza, dai lineamenti perfetti, venirgli incontro con una coppa di cristallo in mano. Dietro di lei una seconda, fasciata di porpora e seta e con bracciali di argento, reggeva un vassoio con grappoli d'uva e datteri maturi.
"Dove sono?" riuscì a mormorare confuso.
La prima ragazza gli sorrise e fu come se il sole splendesse ancora più luminoso. "In verità sei in Paradiso. Nel Giardino della Delizia."
Con un lampo ricordò il suono del fucile e l'impatto del proiettile con il suo cranio. Era stato ucciso. Era morto. Eppure la sua mente era ancora integra, i suoi pensieri coerenti.
"Ma io…" balbettò Federico incredulo. "Voglio dire non… non mi aspettavo una cosa del genere. Sono un cristiano… Pensavo…"
Le ragazze sorrisero “Certo. Immaginavi QUEL Paradiso. I vostri profeti terrestri erano solo uomini. E quindi fallaci. Hanno sbagliato tutti, a qualsiasi religione appartenessero, nel raccontarvi l’Aldilà. Vi hanno parlato di Inferno, di reincarnazione, di Purgatorio e di vergini sacrificali. Tutte sciocchezze. Ora però sei qui e questo è ciò che conta. Questo è il luogo finale di tutte le anime, buone o brutte che siano. Sarai servito e riverito, potrai scegliere quali cibi gustare e avrai per te palazzi lussuosi, morbidi tappeti e tutte le fanciulle che desideri. Per L’Eternità.”
Federico era confuso. Si guardò attorno assorbendo lentamente la pace e la serenità di quel luogo. Il deserto, gli agguati e il terrore erano lontani e il loro ricordo sbiadiva sempre più. Allungò una mano per prendere un dattero, sorrise alla ragazza e, di colpo, comprese che il Paradiso non gli avrebbe fatto più tanta paura.
 
 


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PENSARE UCCIDE TE E ANCHE GLI ALTRI… SMETTILA!

Skyla
 
 
Tra le cose che non avrei mai creduto di pensare c'è come mi sarei trovata a essere pazza e accorgermene. Sprofondare nell'oblio a occhi aperti mentre il buio t'inghiotte.
Mi spiego.
Anni fa ebbi un attacco d'asma molto forte (ne avevo già avuti altri da bambina ma niente di preoccupante) a causa dell'Aspirina. Venne la guardia medica e chiamò l'ambulanza. L'imbarazzo della barella che non entra in ascensore (troppo piccolo, il condominio aveva voluto risparmiare), il trasbordo sul telo medico, quattro rampe di scale con i vicini che si affacciano per vedere chi sta per morire. Una giovane donna, non il solito vecchio, questa sì che è una novità, accorrete ragazzi!
E poi via verso il Sant'Orsola a sirene spiegate.
Tutto il resto è non respiro. E il non respiro somiglia così tanto alla morte da sembrare di sprofondarci dentro.
Sono stata dallo pneumologo: spirometria normale, Rx torace normale.
Solo che non è passato un bel niente.
Ogni attacco è una pugnalata. Piena notte, la mamma che rovescia i cassetti per trovare la bomboletta del broncodilatatore, io che gesticolo senza respiro, un pesce fuor d'acqua… solo che il mio elemento è l'ossigeno, sempre che il Creatore non si sia confuso al momento della mia nascita. Di nuovo il cortisone, di nuovo la guardia medica, il pronto soccorso in piena notte con gli infermieri che sbadigliano mezzo addormentati.
Fino a una settimana fa. Quando l'ombra è arrivata per la prima volta, credevo a un'allucinazione. Mi è seduta in petto, ha aspettato che io pensassi "asma" e allora si è scatenata. Quella notte sono stata malissimo, asma a non finire. I giorni successivi, la sera, senza la mia dose di Ventolin non potevo pensare di mettermi a letto, non potevo pensare all'ombra, non potevo pensare alla mamma che saltava giù dal letto e faceva il numero della guardia medica.
Non potevo pensarlo perché poi si avverava.
NON DEVO PENSARE NON DEVO PENSARE.
L'ombra… alle volte è un gomitolo, alle volte sinuosa come un gatto, altre volte si replica per la stanza come una maledetta Matrioska.
Ho i nervi a fior di pelle, sono fragile come un cristallo.
Ho cominciato a fare pensieri torbidi, di quelli che si hanno quando si sta per impazzire e non lo puoi dire a nessuno. Anche adesso, mentre scrivo, non devo pensare "asma", non devo pensare "morte", non devo pensare "follia"… sto già rantolando.
Sono stata di nuovo dallo pneumologo che mi ha visitata. Ha detto che ho una bronchite asmatica, mi ha prescritto esami allergologici e altre stronzate fatte cento volte.
Non voglio morire, non voglio impazzire ma non lo posso pensare.
L'ombra si sta facendo spavalda, adesso mi gira intorno anche in pieno giorno.
Credo di sapere il suo nome, ma non lo posso pensare.
Mi sono documentata. Un'allergia? Il diabete? Dicono che chi è in crisi da insulina vede le ombre. Dicono che se sei allergico a qualcosa, respiri male.
Ecco, giusto, voglio concentrarmi sulle allergie e sul diabete.
La maledetta ombra si nutre dei miei pensieri, giusto? Allora niente asma e niente morte, m'imbottirò d'antistaminici e penserò solo all'allergia.
Fanculo, sono allergica, ecco! Nocciole, latte, non c'è che da scegliere basta respirare, basta…
Ho appena pensato a shock anafilattico…
L'ombra apre le sue fauci e mi salta alla gola.
E tu a cosa stai pensando?
 
 


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TEQUILA

Exlex
Eva si appoggia alla balaustra, leggermente brilla. In mano tiene il bicchiere di tequila, che ondeggia pericolosamente minacciando di rovesciarsi sul bel vestito rosso.
L'aveva scelto apposta per rendere omaggio alle feste natalizie e trovarsi intonata con l'ambiente della festa. In realtà, a nessuno nel locale importa davvero. Tutti sono più interessati alla musica avvolgente, all'alcool che scorre in gola bruciandola, alla notte infuocata che qualcuno avrebbe passato.
"Oops!"
Eva aveva versato la tequila a terra sbattendo con il bicchiere sulla ringhiera. "Già sono imbranata di mio, devo pure andare in giro camminando storta con la tequila…"
Un dejà-vu illumina quella mente obnubilata. Quattro mesi prima, si ricorda, era successa la stessa cosa.
 
«Sono Davide», si presentò il giovane uomo offrendole una salvietta.
«Ehm, grazie» sorrise la ragazza imbarazzata, «sono Eva.»
Eva si era rovesciata addosso la tequila dopo essere inciampata nei suoi stessi piedi. Si accorse anche che la caviglia destra le doleva, ma non ci fece caso più di tanto.
Con mani gentili e sicure Davide aveva asciugato la macchia che andava allargandosi sul vestito. Le sfiorò anche un seno in un gesto che parve completamente casuale.
Un sorriso, due ubriachi, una notte. Bastarono.
E si trovarono a letto, lui che la spogliava con gesti sicuri sussurrandole parole dolci impastate con l'alcool.
Per Eva, vent'anni, era la prima vera esperienza sessuale. Che si trasformò in un incubo.
Nello stesso momento in cui lo vide.
Il membro di Davide. Enorme. Lungo. Che si ergeva, ingrossandosi.
L'aveva guardato impietrita, Davide pensò che ne fosse colpita piacevolmente…
Ma Eva era senza fiato. Il respiro, già accelerato dall'eccitazione del momento, le gonfiava la cassa toracica a intervalli sempre più vicini. Perle di sudore freddo si formarono sulla fronte, e un rivoletto le corse lungo la guancia, come una lacrima.
Cosa che seguì subito dopo.
Eva piangeva. La bocca tremante e semiaperta, lo sguardo puntato lì, su quel "coso" che la terrorizzava.
Quando Davide tentò di sfiorarle i capelli, vedendo che non stava bene, lei lanciò un urlo e si rannicchiò su se stessa, indietreggiando e sbattendo la testa contro un cassettone. Lui le si avvicinò coprendosi, ma lei non osò alzare lo sguardo. Era scossa da tremiti, sembrava un animale indifeso e impaurito.
Ancora ubriaco e confuso, forse più di lei, Davide non sapeva che fare. Eva, appena recuperò un po' di coraggio e forza nelle gambe, afferrò gli abiti che giacevano a terra e fuggì attraverso la porta.
Non lo vide mai più.
 
Era stato in quel momento che qualcosa era scattato in Eva, e lei decise di farsi visitare.
Ithyphallofobia.
Così l'avevano chiamata. In poche parole, lei non avrebbe mai potuto avere un rapporto normale senza cadere nel panico più agghiacciante. Fu presa dallo sconforto.
 
Anche adesso è presa dallo sconforto, mentre osserva la macchia della tequila che si allarga sotto le sue scarpe rosse tacco dodici.
Sente una voce alle sue spalle.
«Ehm… c'è qualcosa che non va?»
Eva si volta. Contro il rettangolo di luce pulsante del finestrone che si apriva sulla terrazza si staglia un contorno maschile.
«Io… beh, ehm» la ragazza è confusa.
«Su, dammi quel bicchiere. È scheggiato, potresti farti male…»
Eva si lancia su di lui, abbracciandolo e scoppiando in lacrime.
Lui le passa il palmo aperto sulla schiena, con fare consolatorio. Un gesto casto, senza tentativi di palpeggiamento o simili. Il che è strano, a questo tipo di feste. La lascia sfogare, dopodiché le porge un fazzoletto per asciugarsi il viso.
Lei lo ringrazia.
«Come ti chiami?» tenta lui nuovamente.
«Eva.»
«Sono Nicola. Molto piacere», sorride nell'oscurità, «se non vuoi dirmi perché piangevi va bene, ma di solito si dovrebbe essere allegri a una festa…»
Eva scuote la testa, facendo ondeggiare i capelli. Le si è staccata qualche forcina. Tenta maldestramente di risistemarsi, ma Nicola la ferma. Gliela risistema lui.
«Ecco, adesso sono a posto. Ma eri bella comunque.»
La ragazza arrossisce, ma lui non se ne accorge a causa della luce soffusa e del rossore donatole dall'alcool che già le tingeva le guance.
In Eva persiste solo il pensiero che anche se fosse stato quel giovane il suo compagno per la vita, non avrebbe mai potuto compiere un atto d'amore con lui senza provare schifo e terrore.
Una nuova lacrima le spunta dall'angolo dell'occhio.
«Coraggio, basta piangere», Nicola le passa dolcemente un dito sul viso, portando via quella perla casta di acqua e sale.
 
Due sere dopo, Nicola bussa alla porta del monolocale di Eva. Ha trovato l'indirizzo sull'elenco: vive da sola e non è stato difficile rintracciarla.
Lei apre, in accappatoio e con i capelli umidi. Si è appena fatta la doccia.
Lo fa accomodare su una poltrona e gli offre una coca-cola.
«Mi avevi incuriosito l'altra sera… alla festa. Ti ricordi di me, vero?» le chiede.
Eva annuisce. Sì, se ne ricorda. Aveva sentito una scintilla in sé, vedendolo.
"Esiste davvero il colpo di fulmine?", si domanda.
«Io… mi hai chiesto perché piangevo», esordisce Eva. Sente di colpo che può fidarsi di Nicola, come se si conoscessero da sempre. Deglutisce. Quello che sta per dire non è facile da ammettere. «Sono ithyphallofobica.» Non spiega che cos'è, non riesce a dire altro. Aspetta che glielo domandi lui.
«Fobia dell'erezione del pene?» Nicola spalancò gli occhi.
«Sì, è… è… orribile. Non ho mai fatto sesso con nessuno. Non potrò mai farlo.»
Nicola si alza in piedi e abbraccia Eva. Si commuove anche lui, adesso. La sua voce trema, mentre sussurra alcune parole: «Sai, io sono impotente. Ho avuto un incidente, quand'ero bambino…».
 
 


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LA SOGLIA DI SICUREZZA

Hellies15
 
 
— Signora Shultz, credo che suo marito sia affetto da hipopotomonstrosesquipedaliofobia.
Quando una persona comune sente per la prima volta questa parola ha, normalmente, due tipi di reazioni: o pensa che sia uno scherzo o pensa che si tratti di una malattia terminale. L'espressione della mia interlocutrice mi fa propendere verso la seconda opzione.
— Signora, si calmi, non è niente di grave. Nel 2030 possiamo tranquillamente dire che si tratta di una fobia molto comune.
Non sto raccontando alla signora una balla per rassicurarla: realmente l'hipopotomonstrosesquipedaliofobia, di anno in anno, sta raggiungendo picchi di diffusione sempre più elevati. E a voler esser precisi proprio tutti conoscono questa fobia, solo che il suo complesso nome tecnico è stato da tempo sostituito col termine giornalistico di "paura delle parole lunghe". Già, perché proprio di questo si tratta: di una reazione ai termini che superano una certa lunghezza (otto o dieci caratteri, a seconda delle persone).
— Come non è niente di grave? Mio marito sta molto male!
La signora Shultz è comprensibilmente agitata: mentre si trovava al consueto pranzo natalizio del quartiere, questi si è gettato a terra, si è rannicchiato su sé stesso, urlando come un ossesso, serrando le palpebre e tappandosi le orecchie. Una reazione più che comprensibile: chi è affetto da hipopotomonstrosesquipedaliofobia, infatti, al semplice suono di una parola troppo lunga comincia a vedere gli oggetti allungarsi e a sentire i suoni prolungarsi. Un circolo vizioso, peraltro, poiché arrivati a quel punto ogni vocabolo, anche la parola "mela", potrebbe suonare terribilmente simile a "precipitevolissimevolmente". E pensare che, fino a soli venti anni fa, questo genere di fobia generava solo un lieve nervosismo…
— Suo marito ha un problema; io ho il rimedio. Ma la avverto che ha un prezzo molto alto…
— Oh, dottor Hellies, non si deve preoccupare di questo! La mia famiglia è molto facoltosa e…
— Signora Shultz, temo che mi abbia frainteso. Non mi riferivo a quel tipo di prezzo! Vede, per questa fobia non esiste una cura permanente: in passato delle buone sedute psichiatriche avrebbero sortito qualche effetto positivo, ma oggi non è più così. Questa fobia ha assunto una forma per niente trattabile, con la quale si deve imparare a convivere, in tutto e per tutto.
Faccio questo lavoro da dieci anni, eppure ancora non mi sono abituato a questa parte del mio mestiere. Sarà perché finisco per immedesimarmi troppo coi miei pazienti e i suoi familiari, ma proprio mi risulta difficile comunicare loro che d'ora in avanti la loro vita cambierà radicalmente. Le persone affette dalla "paura delle parole lunghe", infatti, non possono continuare a vivere nella società civile, poiché ogni giorno (ma che dico: ogni minuto!) verrebbero in contatto con parole insopportabilmente lunghe. Paradossalmente, l'unica speranza che hanno per poter continuare a vivere normalmente è di vivere anormalmente, in un mondo a parte, destinato unicamente ai soggetti affetti da tale fobia.
— La città più vicina adibita a ospitare i soggetti affetti da hipopotomonstrosesquipedaliofobia è Stronxonville. Non deve pensare a certi posti come a dei lager moderni: sono studiati appositamente per le famiglie che vi vivono, affinché si sentano assolutamente a loro agio, in una società affatto simile a quella in cui hanno sempre vissuto. Avrete un lavoro, una casa, cinema, farmacie, parchi e tutto quello che le può venire in mente. Solamente in una cosa queste città differiscono dalle altre.
— In cosa?
— Beh, nel vocabolario. Ogni abitante della città deve infatti rigidamente attenersi a un vocabolario scrupolosamente elaborato per fare in modo che l'hipopotomonstrosesquipedaliofobia diventi solamente uno spiacevole ricordo. Nessuna parola supera i sette caratteri, considerata la "soglia di sicurezza".
La signora Shultz si accomoda sul divano e si passa le dita delle mani sulla fronte. Forse pensa di avere una scelta, mentre in realtà non è così: anche se l'opinione pubblica non ne è al corrente, nessun governo al mondo consente più ai soggetti affetti da questa fobia di circolare liberamente. Il che, se ci pensate, è perfettamente normale: si tratta, infatti, di persone costantemente in bilico tra lucidità e follia, che non possono assolutamente permettersi normali relazioni con le altre persone. A voler essere brutali, non sono altro che scarti della società che vengono rinchiusi dentro gabbie d'oro: le città come Stronxonville, infatti, sono l'emblema della perfezione; perfezione offerta dall'erario pubblico. È per questo che ultimamente…
Vengo distratto da un movimento. La signora Shultz si è alzata: vuole raggiungere suo marito. Non vorrei più turbarla, ma c'è ancora un'altra cosa fondamentale che deve sapere.
— D'ora in avanti dovrà categoricamente evitare qualsiasi parola che superi la "soglia di sicurezza". Lo so: è difficile, ma è anche una necessità. Se vuole un consiglio, inizialmente parli il meno possibile, e nel contempo acquisti e studi un vocabolario di hipopotomonstrosesquipedaliolingua (abbr. Hmpl).
Lei ormai mi ascolta passivamente: la sua mente sta già approdando ad altri lidi. Probabilmente si sta chiedendo se ne vale la pena. Se vale la pena rovinarsi la vita per rimanere accanto a suo marito. Oppure non ha questo tipo di dubbio, ma immagina quello che la attende; e ciò, forse, è ancora peggio.
Saluto i coniugi Shultz misurando bene (in tutti i sensi) le mie parole e torno nel mio studio. Riattivo il mio I-spad 23 e rileggo il documento mandatomi dal Ministero della salute. Si tratta di un'analisi dettagliata del fenomeno dell' hipopotomonstrosesquipedaliofobia, descritto non come una malattia, ma come un "costo sociale". Gli ospedali pubblici sono stati eliminati ovunque ormai da un decennio perché le casse degli Stati non riuscivano più a sostenerli. Nel 2030 sembra essere il turno delle città che accolgono le persone come il signor Shultz. La cosa più preoccupante è, però, quale fine faranno gli affetti da tale fobia se questa politica passerà: non potendo in nessun caso vivere insieme alle persone "normali", il loro destino è quello di essere rinchiuse in veri e propri manicomi o, peggio, di essere eliminate fisicamente.
Non mi sento a posto con la coscienza. Forse avrei dovuto dirglielo, alla signora Shultz. Forse questo documento "riservato" dovrebbe essere reso pubblico affinché la collettività torni a prendere coscienza delle scelte che riguardano la società e delle persone che vengono ridotte ai suoi margini. Affinché, una volta di più, l'economia non abbia il sopravvento sulla vita. Affinché tutto il mondo capisca che anche noi "normali" abbiamo una soglia di sicurezza che non dovrebbe essere sopravanzata.
Lascio il mio studio con tanti pensieri per la testa. Spengo le luci dell'ufficio ma vorrei tanto spengere quelle della mai testa. Non so se stanotte riuscirò a prendere sonno.
 
 
 


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LINDA

Davide Sax
 
 
L'aereo, partito da Londra circa un'ora e trenta minuti prima, stava sorvolando le cime innevate delle Alpi. Già, da Londra, visto che le uniche destinazioni apparentemente non accessibili con un volo diretto dall'aeroporto di Dallas erano le capitali italiane…
"Don' worry pal!" gli aveva detto Phill prima che partisse, tirandogli la consueta pacca sul bicipite "Italians go' good food an' they go' good women. You'll be daaaam fine!" Si erano abbracciati e Mark era partito, lasciandosi alle spalle Dallas e la sua carriera stroncata.
Le cime innevate non c'erano più. Al loro posto, sotto il finestrino, una piatta pianura, squadrata da quelli che dovevano essere campi coltivati. Sembrava di guardare un vestito fatto di toppe, verdi e marroni, incorniciati da piccole striscioline grigiastre.
"My… wa' tha f…"
"Oh, mi scusi!"
Una hostess mora in tailleur si era sporta su di lui per prelevare il bicchiere d'acqua ormai vuoto che lui aveva accartocciato e ficcato nella tasca del sedile. Non aveva idea di cosa avesse detto, ma probabilmente erano delle scuse; difficile dire se per essergli passata davanti o per aver inavvertitamente sfiorato il suo braccio con un seno.
Mark si irrigidì all'istante. "S… sure".
Lei prelevò il bicchiere e proseguì il suo giro, sorridendo con un'aria vagamente imbarazzata.
L'aereo atterrò attraversando un banco di nubi, che però sembrarono seguirlo anche a terra. Mark attese come sempre che la maggior parte dei passeggeri defluisse per non intralciarli con le sue spalle ingombranti. Finalmente approdò allo sportello di uscita e mise piede… sulla scaletta di metallo che lo portò a terra dove un autobus lo attendeva per portarlo all'interno dell'aeroporto. Nemmeno l'ombra di un braccio meccanico… "My god… this is hell…".
Raccattato il bagaglio si diresse all'uscita, dove vide un ometto spelacchiato, praticamente sferico, con in mano un cartello: "Mark, the fotball player"
D'accordo sbagliare lo spelling di football… ma almeno il cognome…
Alzò un braccio per farsi riconoscere, per quanto non ce ne fosse affatto bisogno. Era largo il doppio e ben più alto di qualunque altro passeggero presente all'aeroporto. Ma questi veneziani erano tutti tappi? Se anche i suoi compagni di squadra erano di quella statura sai che bel campionato… da vergognarsi a scendere in campo.
Si portò involontariamente la mano all'anca destra, quella che aveva decretato la fine della sua carriera da professionista. Gli capitava sempre quando pensava al football. Era venuto in Italia per scappare, da cosa non lo sapeva nemmeno lui ma l'importante era stato allontanarsene il più possibile. Perché l'Italia? Perché gli avevano detto che lì almeno si mangiava bene.
L'ometto si chiamava Samuele, e lo condusse a una macchinetta grigia, alta come l'addome di Mark, con il logo FIAT ben visibile sul davanti. Aveva sentito dire che questa FIAT aveva comprato la Chrystler, qualche tempo prima, ma non era sicuro di ricordare bene. Pensò di fare la domanda all'ometto ma ci ripensò.
"Benvenuto in Italia Marc, I’m happy to see you here. We go eat now! You fame eh? Good food, good cibo qua da noi! Now I show you."
Ci misero circa venti minuti a percorrere la strada. Mark non si capacitava di quanto bassi fossero i cartelloni pubblicitari e di quanto piccole fossero le strade, era così assorto che non ascoltava nemmeno le sconnesse parole dell'ometto di cui aveva già dimenticato il nome.
Al ristorante trovò una tavolata di atleti ad attenderlo, presumibilmente i suoi compagni di squadra. Constatò con sollievo che, nonostante fossero meno robusti di lui, non erano affatto fuori forma.
"Hey Mark! Welcome! Welcome to Italy! How was flight? Yo yo, fratello! Superbowl! Superbowl!"
Superbowl? Lui? Gli avevano detto che gli italiani esageravano su tutto ma questo era fuori scala.
Il primo piatto arrivò. Mark non aveva molta fame in realtà, i viaggi in aereo lo mettevano sempre in subbuglio, ma si sforzò di sorridere.
"Tortelloni in brodo, for you!" disse eccitato Samuele.
Mark annusò il brodo… per un attimo gli sembrò di vedere la Vergine.
"Buono eh?" disse una voce femminile alle sue spalle.
Mark si girò stupito e si trovò davanti una biondona tanto figa da accecare, che gli sorrideva ciondolando la testa. "HI, I’m Linda."
Si girò di scatto e fissò dritto avanti, cercando di non respirare troppo forte mentre il sangue gli andava alla testa, e nell'altro posto dove non avrebbe voluto che andasse.
"Down boy" sospirò fra i denti.
Notò che alcuni compagni lo guardavano straniti e sperò di non aver fatto troppa scena.
In quel momento tornò Samuele, che si era alzato poco prima, e gli mise davanti un pacco rosso con un fiocco.
"For you! Buon Natale Marc!"
Già, era quasi Natale. Se n'era completamente scordato.
Aprì il pacco commosso, sperando che le lacrime non arrivassero agli occhi. Dentro c'era un casco, grigio con una striscia azzurra e una stella, della misura perfetta per la sua testa spessa. Scritti a pennarello, sopra, c'erano tutti i nomi dei suoi compagni.
Si alzò e ringraziò come poté, le parole non contavano. Diede il cinque a tutti e ricevette delle belle pacche sulle spalle. Alla sua anca non pensò nemmeno per un attimo.
Più tardi era nel bagno del ristorante. Il troppo vino italiano aveva i suoi effetti sulla vescica.
Chiuse la cerniera dei pantaloni e… "Oh sh…"
Linda era in piedi sulla porta chiusa. Biancheria rosso fuoco e cappellino da Babbo Natale, viso angelico, due cosce maestose.
Mark non fece in tempo a portarsi le mani all'inguine, per arginare l'inevitabile. Chiuse gli occhi mentre sentiva il membro premere contro i jeans e cercò disperatamente di fermarlo con la mano, scuotendo la testa freneticamente. "No… no…" sussurrava fra i denti "Down boy, down!"
Stava strizzando gli occhi talmente forte che gli facevano male. Il suo arnese sembrò calmarsi un po'. "That a boy… stay down now…"
Alzò gli occhi… Linda era ancora lì che lo fissava come una leonessa avrebbe fissato un cucciolo di facocero disperso per la savana.
"Vedo che sei un tipo timido." Disse ridendo e ancheggiando verso di lui minacciosa "Ma adesso ti prendo io, bel puledrone!"
Il sangue riprese a scorrere impazzito, mentre Mark finiva a sbattere col sedere contro un asciuga mani ad aria che partì a tutta birra. "Ohhh… fuck…".
 
 


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LA FOBIA DEL PARADISO

Tania Maffei
 
 
Il Signor Lorenzo è seduto, come tutti i giorni, al solito posto sospeso fra mille e nessun pensiero. Quel modo di essere lo fa sentire leggero, anche se non si sente pienamente a suo agio. La totale mancanza di memoria, in qualche modo, lo disturba. Ha una bella camera tutta per sé, mangia e fa solo ciò che vuole. Non sa quindi cosa volere di più. Tuttavia sente che c'è qualcosa che non va ma non sa definire bene cosa sia.
"Il Signor Lorenzo è desiderato dal Capo supremo" Già, c'è un capo supremo che ogni tanto incontra, anche se non ricorda nulla di quello che si dicono. Una graziosa fanciulla dagli occhi luccicanti come due smeraldi, lo prende per un braccio invitandolo a seguirla. Senza sapere come, si trova seduto su una comoda poltrona che quasi sembra voglia abbracciarlo. In realtà ha l'impressione che non lo lascerà andar via facilmente.
 
"Ebbene Lorenzo" dice una voce altisonante che riempie la stanza.
"Lei sa dove si trova?".
"Non ne ho la minima idea".
"Ma in Pa-ra-di-so ".
Viene preso dal panico.
"Io non voglio trovarmi in Paradiso, mandatemi via".
"Ebbene se lo desidera potrà cambiare il corso delle cose. Ora le faremo tornare la memoria o meglio sarà lei a scegliere cosa ricordare. Un processo doloroso alla fine del quale potrà esprimere un piccolo desiderio, sempre che lo voglia, si intende".
"Ma io… non so… fate voi".
"Bene allora cominciamo".
Prima iniezione.
Volo, confusione, dolore fortissimo al petto. Non respiro. Una sirena. Un colpo. Uno sguardo di donna che piange fiumi di lacrime. Sento tutto ma non posso muovermi. Sto allungando un braccio. No, non è vero. Vorrei correre lontano lasciare tutto. Mi ricordo quando ero piccolo. Vado in bicicletta. C'è la guerra. Gli americani mi dicono 'un giro in bici in cambio di una stecca di sigarette'. Io mi accordavo con loro e dopo, senza dire nulla a nessuno, compravo cioccolata e coca cola. Quel dolore ora è alla testa. Vedo del sangue scorrere. Delle persone mi stanno attorno. Nell'angolo rivedo la stessa donna di prima che piange disperatamente. Io la conosco. Si chiama Tiziana. Devo essere suo marito. Spostatevi fatemi guardare. Mi hanno intubato. Ha gli occhi che sono un mare in tempesta. I ricordi si annacquano, tutto sta scomparendo sento solo un grande dolore…
Seconda iniezione
…ah ecco. Sono un ragazzo che corre. Faccio atletica all'università. La mia specialità è il salto con gli ostacoli. Ho vinto qualche medaglia, forse. Gli amici, le donne, le prime macchine. Nel sud la guerra si è sentita poco. L'occupazione americana, a chi ne ha saputo approfittare, ha portato molti soldi. Mio padre ha una fabbrica di mobili. Io non voglio sostituirlo e lui si arrabbia; sta giorni senza rivolgermi la parola. La vita della fabbrica mi opprimeva. Come avrei potuto comandare a tutti quegli operai con cui da ragazzo avevo sempre giocato a pallone? Faccio l'università svogliatamente. Dopo la guerra tutto sembra possibile. Qualche lavoro sarebbe venuto fuori. Sento di nuovo le fitte. Ora sono al cuore. Lo sento battere ritmicamente. Il mio sguardo è vuoto; posso osservare la luce fortissima che ho davanti agli occhi senza abbagliarmi. Sono diventato cieco. Tiziana ha smesso di piangere. Mi guarda con tenerezza. Che donna sia io non lo so, la memoria non mi aiuta. Forse mi ama e la mia perdita la distruggerà. Le mando delle lunghe carezze che credo non riesca a sentire. Tutto sta svanendo la perdo, la perdo…
Il Capo Supremo.
"Prima della terza iniezione devo dirle alcune cose: lei è riuscito a ricordare solo sua moglie. Ora potrà interagire e fare qualcosa che cambierà il suo destino qui in Paradiso".
"Come, che significa?".
"È d'accordo ad andare avanti?".
"Sì vi prego. Poi potrò andarmene dal Paradiso?".
"Be’ se il suo comportamento sarà stato tale da… lo capirà da solo".
Terza iniezione
… buio totale. Terra appena smossa da strani individui vestiti di bianco. Odore nauseante. Mi stanno seppellendo. Posso vedere il mio corpo ma ne sono completamente fuori. Tutto è vasto, inesplicabile, ogni piccolo mutamento mi sconvolge. Un raggio di sole, una folata di vento, la gente che mi circonda, tutto mi spaventa. Ogni secondo che passa mi porta in un'altra condizione di tempo e di luogo. Provo un grande spaesamento e un fortissimo dolore dentro che non so spiegare. Non ho forma, odore, peso, posso diventare qualunque cosa. Sono un uccello che vola, la borsa della spesa di una signora che passa indaffarata, il libro di un ragazzo che legge, il peluche di un bambino in carrozzina, le scarpe di un uomo che corre veloce, le labbra carnose di una bella donna. Devo trovare Tiziana. Chiudo gli occhi e mia moglie è lì nel suo giardino. La vedo mentre prepara l'albero di Natale e addobba la casa. Vorrei provare amore per le cose reali ma non ci riesco. Entro dentro quegli oggetti natalizi che sta toccando e sento il calore delle sue mani. Per un attimo tutto è diverso.
Sta parlando con un uomo. Ma quello è Gianni. Il mio più caro amico. Cosa fa lì in casa nostra. Parlano del loro futuro assieme. Capisco che quella storia deve essere iniziata prima che io morissi.
La sera resto con loro. Gianni le sta dicendo che non la ama più, vuole lasciarla. Tiziana singhiozza disperatamente. Fra i due nasce un'accesa discussione. Io so che in casa è nascosta una pistola di piccolo calibro. Riesco a fare avvicinare Tiziana a uno sportello all'interno del quale si trova l'arma. Lo apre, la prende fra le mani. Si accorge che è carica. Spara. L'uomo muore sul colpo.
 
Il Signor Lorenzo è seduto come tutti i giorni al solito posto sospeso fra la malvagità della vita e la cattiveria dei morti. Quel modo di essere ora lo fa sentire leggero e soddisfatto. Gli hanno detto che il suo comportamento è stato ignobile e che fra pochi giorni lascerà il paradiso per recarsi all'inferno dove passerà l'intera esistenza. Non ricorda minimamente cosa sia accaduto ma è felice di abbandonare quel luogo da lui tanto temuto.
 
 


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LA REGINA DELL’ANELLO*

Cazzaro
 
 
In un posto dimenticato dai più c'era un nano guerriero mago pastore di nome Zyorzar. Era sempre seguito dal suo compagno di stupri, l'orco mago Skorgzyp, il quale proveniva dalle terre di Trogpor. Una tragica mattina i due gironzolando trovarono alle loro calcagna l'Onanista e strozzino coboldo guerriero pastore ninja assassino Thyugrar di Trogtor.
 
''Che Thranolok bandisca il Grundar!! '' esclamarono i due.
 
Così questi iniziarono a vagare per le lande di Wosdor in cerca del vituperato Goldone di Brodpar, poiché  il pappone Thyugrar di Trogtor esigeva dai due una parcella di 385 umberti d'oro per la rimozione dell'appendice che aveva fatto loro 7 ore prima nella lotta giovenca.
Purtroppo durante la sessione Zunbus, Protyor la moglie di Zyorzar fu impalata da un orribile zompocatarro e Zyorzar fu catturato dagli armigeri del partito politico filoinsopportabile noto come DENG. Erano i mutui onanisti del noto dittatore Grunfar di Protzor detto ''Il boss mafioso che ruttava''. Skorgzyp era andato a pisciare e non si accorse di nulla. Tuttavia l'urlo di Skorgzyp fu peloso. ''Venisse dunque un attacco di caghetto a quel vaccolunte di Grunfar di Protzor!!''. E fu così che Skorgzyp si impossessò dell'Incommensurabile Motozappa di Zyorgyap.
 
Skorgzyp agitando l'artefatto e scagazzando in giro, strangolò i 496 puzzolenti, insopportabili oclopotami che erano a guardia del castello del dittatore Grunfar di Protzor. Alla fine della battaglia Skorgzyp si infilò nel naso l'Incantato Assorbente di Thranfar la moglie di Grunfar di Protzor detto ''Il boss mafioso che ruttava'' il quale fu ricoverato all'ospedale per un clistere.
 
Scaccolandosi, Zyorzar si allontanò dalle terre di Zlomfor ridendo della morte della moglie Protyor, dato che avrebbe trombato la giovane ganza popputa e pupparola Pollygen la Sorgiva. Skorgzyp andò a cagare con la moglie di Grunfar di Protzor, la quale poi decise di dargli un morso. C'è chi crede che Skorgzyp dopo aver anche chiavato la moglie di Grunfar di Protzor, sia diventato un camorrista assai più orribile di il fu "Grunfar di Protzor boss mafioso che ruttava''. In ogni caso la motozappa di Zyorgyap aveva le candele consumate, la motocatena spiallata, e la vacca di Sgrunfioscio non faceva più il buon cimurro di Birago.
 
Dalle lande di Woszor, Zyorzar ebbe da Pollygen la Sorgiva un figlio vecchio e barbuto di nome Babbo Natale, il quale poi andò a vivere a Zanbus di Piota diventando bambino. Certo è che un eroe così inutile come Zyorzar (che detto tra noi nella saga della Regina dell'Anello, non ha mai fatto un cazzo), non lo vedremo mai più!!
 
 
*NOTA DEL CURATORE: “La regina dell’anello”, di Cazzaro, che ha come tema la Fronemofobia, è un racconto che apparentemente non ha senso. E infatti non ce l’ha. Parole dell’autore: è un plagio, l'ho copincollato togliendo termini pesanti (un autore che soffre della fobia di pensare, non può pensare un racconto). In realtà il testo lo ha generato un software di frasi casuali, cioè è stato pensato da una macchina, io l'ho solo adattato. (http://www.polygen.org/)
 
 


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