BraviAutori.it


NO JAVASCRIPT
NO VOICE
leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
(usa CTRL +/- per ingrandire o ridurre il testo)
torna indietro  -  chiudi

Indice:
La gara
PREFAZIONE
IL CUORE DI ACHILLE
OMAGGIO A NOVECENTO
NON S’HA DA FARE
NUIT D’UN POÈTE
EVEN ACNA IB
WILLY
LE DUE SOLUZIONI
WELCOME HOME… CONDOM…
NON CI SONO PIU’ LE …
PAOLO E FRANCESCA
CATTIVE INFLUENZE
LA METAMORFOSI
Sostieni la nostra p…
Copyright
Una produzione

up Torna su

La gara

Gara 29
STORIE PARALLELE
“La cultura rende liberi!
Liberi anche di stravolgere il destino di un personaggio e modificarne la sorte.”
MARZO 2012
antologia per BraviAutori.it
Edizione a cura di: Ser Stefano
Copertina: fonte anonima
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

up Torna su

PREFAZIONE

Il compito che mi sono assunto può sembrare inutile, facile per alcuni, assurdo per altri. Me lo sono chiesto anch’io: perché editare un’antologia di due anni fa che, probabilmente, verrà letta da tre o quattro incalliti divoratori di storie?
Mi sono dato due risposte. La prima è per completezza e correttezza del sito con cui collaboro. Ogni Gara è stata pubblicata in e-book, a disposizione di tutti e in modo totalmente gratuito, non sopporterei di vedere che manca una Gara, sarebbe come un pugno in un testicolo. Oltre al fatto che ci sono autori che hanno speso tempo e fatica per “partorire” i propri lavori. Non mi sembra giusto neanche nei loro confronti.
In secondo luogo trovo terribili che le opere (qualsiasi esse siano e qualsiasi valore abbiano) vengano dimenticate, semplicemente scompaiano. L’e-book resterà, se non online, su qualche pc. È un po’ come dare l’eternità a delle parole inesistenti. Sì, mi sento un po’ Dio. Perdonatemi.
Ma passiamo alla Gara in questione, organizzata da Antonella P., di cui non ho trovato nemmeno il nome del vincitore. Credo sia stato Luigi Bonaro, ma a distanza di tanto tempo non ha più importanza, anzi forse è meglio così. Se leggerete i racconti potrete voi decretare il vincitore. Il bello delle storie scritte è che puoi rileggerle e cambiare percorso, interpretarle, viverle in maniera differente
Il bando:
“Che vita avrebbe condotto Mattia Pascal se non fosse morto? Quale carriera avrebbe intrapreso Harry Potter se non avesse frequentato Hogwarts? E se la Veronika di Cohelo non avesse tentato di uccidersi, avrebbe lo stesso capito il vero senso della vita?
Raccontatemi quale sarebbe stata la sorte del vostro personaggio, se a scrivere il libro in cui è imprigionato, foste stati voi stessi.”
E ora i racconti.

up Torna su

IL CUORE DI ACHILLE

di Polly Russel
Il fumo delle pire funerarie aveva formato ampie volute. Arabeschi resi scarlatti dal sole morente, abbracciavano le mura di Troia.
Lui era seduto sulla sabbia, gli occhi vitrei di Patroclo impressi nella mente e il suo sangue, ancora fra le dita.
Non era preparato a tanto dolore.
Sua madre Teti, aveva bruciato ogni parte del suo corpo. Aveva posto sotto mistiche fiamme il suo corpo di bambino. Nulla avrebbe potuto ferirlo. La nereide però, aveva dimenticato l’organo più importante. Era il suo cuore che ora, tracimava rabbia e tormento.
Gettò un’occhiata ai guerrieri, disattento. La fila di Mirmidoni in attesa, lo sguardo dritto verso il cielo; puntato contro il disco rosso di quel dio, che per lui avevano sfidato. Achille, non si mosse, non era tempo di battaglia. Bisognava onorare i caduti.
Sfiorò con la destra il corpo di Ettore, riverso ai suoi piedi. Quell’impasto vermiglio di sabbia e sangue gli era stato nemico e tormento.
Un suono si levò dal tempio di Apollo.
Scattò in piedi.
L’avamposto era stato falciato dalla furia degli Achei, la città sottoposta a continui attacchi e il tempio di Apollo distrutto, ma lei era rimasta.
Ogni sera levava il suo canto al tramonto. Soave e straziante.
Non l’avevano uccisa. Achille non lo avrebbe permesso.
Mentre la più giovane figlia di Priamo alzava le braccia a occidente, il guerriero tendeva l’orecchio e apriva il cuore.
Nulla come il canto di Polissena acquietava il suo spirito, null’altro gli donava pace.
«Signore, c’è...»
Uno scatto e baluginio di metallo. La sua spada sfiorava la gola del Mirmidone.
Solo quando la sacerdotessa richiuse le braccia al petto e scomparve tra le colonne, si voltò verso il soldato. «Ora, dimmi.»
Il vecchio avvolto da una coperta era venuto a elemosinare il corpo di suo figlio. Non era un Re, quello prostrato ai piedi di Achille, solo un padre.
Il pelide lo osservò silenzioso, solo la risacca sovrastava il loro respiro. «Un figlio per un figlio: Ettore per Polissena.»
Le labbra del vecchio sussultarono, la voce, un tempo tonante, ridotta a un lamento, «hai profanato il tempio, trucidato i suoi fratelli e ora vorresti sposarla?»
Non ci furono altre parole. Il guerriero rimase immobile, mentre il vecchio Re trascinava il corpo del suo figlio prediletto lungo le sponde sabbiose, alla volta di Troia.
Il canto della sacerdotessa salutò l’aurora. La ragazza sollevò le braccia al cielo, affondandole nelle spire dell’incenso. Modellò il fumo tra le dita.
Aveva ascoltato suo padre, aveva cremato suo fratello e aveva parlato con il suo dio. Danzò tra le volute grigie e, solo quando il rosa dell’alba lasciò il posto all’oro del mattino smise. Cadde in ginocchio al termine della danza, lo sguardo rivolto alle mani di pietra di Apollo. Scese la scalinata, carica di detriti avviandosi lungo la scogliera. Nere colonne di fumo si stagliavano compatte, affondando nel cielo come lance. Il clangore del metallo e le grida della battaglia violentavano le orecchie, l’odore del sangue e del fuoco saturava l’aria. Volse lo sguardo a Troia, alle sue mura annerite.
Il suo si, avrebbe fatto cessare il massacro.
Giunse alla tenda di Achille. Spostò i drappi scuri, una forminx era adagiata su alcuni cuscini, ne sfiorò le corde e un arpeggio malinconico si perse nell’aria. L’armatura scintillava accanto alla lancia, poggiata su alcuni pali annodati.
Il guerriero apparse da dietro una cortina di conchiglie, scostò con la destra i fili, in un tintinnio armonico e abbassò appena il capo. «Sapevo che saresti venuta.»
Polissena lo guardò negli occhi, nell’azzurro irrealmente compatto le parve di scorgere una scintilla. Forse il riverbero della sua anima dilaniata, strappata dalle mani dei morti che si era lasciato alle spalle. Forse il baluginio della gloria, unica compagna della sua vita, unica spinta al suo fervore.
Achille le toccò i capelli, ne annusò il profumo. «Hanno predetto che morirò qui e che il mio nome vivrà in eterno. Pensavo fosse questa la mia strada, ma forse mi sbagliavo.» Prese tra le sue quelle mani delicate e la avvicinò a se. La sua pelle vibrava, la strinse, accarezzandole il capo. «Vieni via con me, e nessuno più canterà di Achille il guerriero.»
La sacerdotessa sollevò la testa, poi con gesti gentili, lentamente si discostò da lui. Si inginocchiò ai suoi piedi e li cinse tra le sue braccia.
Il dolore fu talmente intenso che Achille non ne capì l’origine.
Si accasciò al suolo mentre brividi corposi guizzavano dalla gamba a tutto il corpo. Una deflagrazione dal torace, come se il suo cuore pompasse fuoco, lo costrinse con le mani al petto. Digrignò i denti cercando di cavarne una parola, «perché?»
Polissena si ergeva in piedi davanti all’eroe sconfitto, tra le dita sottili la freccia intrisa di veleno, con cui gli aveva trafitto il piede.
La battaglia continuava a infuriare appena poche centinaia di metri più avanti, il boato degli arieti si confondeva con lo sciabordio delle onde. Le grida di chi continuava, nonostante l’olio bollente, nonostante l’impietosa pioggia di frecce, ad assaltare la roccaforte.
Achille si sollevò sulle braccia, ormai malferme. Un fremito lo scosse, mentre ancora cercava lo sguardo di lei. Avrebbe rinunciato alla gloria, all’immortalità. Avrebbe rinunciato a divenire leggenda per lei. E per lei, il suo cuore si stava spezzando.
Non lo avrebbe ucciso la spada, le frecce mai avrebbero potuto scalfirlo, mentre il dolore gli bloccava il respiro capì quale fosse l’unica cosa che non aveva considerato.
Una lacrima sortita dal rammarico e dalla delusione, sgorgò da quegli occhi blu.
Polissena si inginocchiò accanto a lui e lo accarezzò, lambendo la goccia salata, «nessuno ti ha sconfitto sul campo. Achille l’imbattuto.» Con entrambe le mani prese quel viso di nuovo sereno, «nessuno saprà che una donna ti ha strappato alla vita.» Gettò la freccia che aveva rubato a suo fratello Paride sulla sabbia fredda, poi si sedette accanto a lui.
Lo abbracciò, adagiandolo sulle ginocchia. Gli permise di salutare Ade con la testa tra le sue braccia.
Avvicinò le labbra al suo orecchio e cantò per lui.
L'Iliade termina con Priamo che riporta a casa il corpo del figlio.
La morte di Achille viene narrata in diverse opere e, anche se è sempre Paride a uccidere il Pelide, la figura di Polissena compare sempre. Tanto che poi sarà uccisa da Nottolemo, figlio del defunto Achille.

up Torna su

OMAGGIO A NOVECENTO

di Nathan
“Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla.”
Lui l’aveva una buona storia. Lui ERA la sua buona storia.
Poi ne ho fatte di fesserie, se mi mettete a testa in giù non esce più niente dalla mie tasche, anche la tromba mi sono venduto, tutto, ma quella storia, no… quella storia non l’ho persa, sta ancora qui, limpida solo come era la musica quando, in mezzo all’oceano, la suonava il pianoforte magico di Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento.
Era stato trovato da un marinaio sul pianoforte della sala da ballo, poco dopo lo sbarco dei passeggeri a Boston, il 1 Gennaio del 1900, dentro una scatola di cartone, aveva forse poco più di dieci giorni. E quel marinaio decise di tenerlo quel bambino, che crebbe sul Virginain con un equipaggio come famiglia. L’imponenza del nome lo avrebbe destinato a grandi cose, secondo il padre, ed aveva ragione. Tutti però lo chiamavano Novecento.
Quando il padre morì, lui aveva otto anni e aveva già fatto avanti e dietro dall’Europa all’America una cinquantina di volte. L’Oceano era la sua casa. E sulla terra non ci aveva mai messo piedi. Il fatto era che il padre temesse che glielo portassero via con qualche storia di documenti.
Scoprirono il suo talento nel cuore di una notte, quando tutti accorsero nella sala da ballo. C’era gente in pigiama e in piedi, passeggeri, marinai e tutti i negri della sala macchine. Tutti in silenzio a guardare. Era seduto sul quel pianoforte dove lo avevano anni prima abbandonato, con le gambe a penzoloni, e stava suonando. E bisognava sentire cosa gli veniva fuori.
Da allora non aveva mai smesso. Perché non era musica normale, non quella che le nostre orecchie erano abituate ad ascoltare. Quello che faceva Novecento al pianoforte era qualcosa di unico, di nuovo, di mai sentito. Suonò per anni, avanti e indietro sull’Atlantico, deliziando migliaia di persone con le sue note. Le suonò tutte, e suonò anche quando non era rimasto più nulla da suonare.
Non scese mai a terra, ma arrivò il giorno in cui la sua musica decise di farlo, attirando con le sue note persone che erano disposte ad attraversare il mondo pur di veder con i propri occhi quel pianista divenuto leggenda.
Ci vollero anni per trovare il coraggio fare quella domanda, ma alla fine glielo chiesi.
“Novecento, perché non scendi? Perché non scendi a guardare il mondo? È lì in fondo a quella fottuta scaletta! C’è tutto oltre quei quattro gradini! Perché non scendi una volta almeno? Una volta sola.”
Solo dopo 32 anni vissuti sul mare, sarebbe sceso a terra, per vedere il mare.
“Però mi verrai a trovare, no? Sulla terra…”
Mi fece venire in groppo il gola, io detesto gli addii, e mascherai con una risata penosa i miei sentimenti prima che avessero il sopravvento. Gli dissi che sarei andato a trovarlo e non so quante altre stronzate. Lui rideva, ma dentro sapevamo entrambi che la verità era un’altra, la verità era che stava per finire tutto e che non c’era più nulla da fare. Gli regalai il mio cappotto di cammello, avrebbe fatto un figurone quando avrebbe messo piede sul mondo. Lo guardai scendere lentamente lungo la scaletta, con quel cappello e una grande valigia in mano.
Si fermò al terzo scalino. Rimase immobile per un tempo che mi parve infinito. Guardava davanti, sembrava cercasse qualcosa. Poi tornò indietro.
Temetti che non mi avrebbe mai detto cosa avesse visto sul quel maledetto terzo scalino, invece si avvicinò a me e mi invitò a seguirlo. Scendemmo insieme lungo la scaletta, mentre quel vento fastidioso giocherellava con i nostri vestiti.
“Guarda” disse indicando la città. “Non se ne vede la fine. La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?”
Lo guardai cercando di capire, ma fu lui a spiegarmi.
“Puoi capirlo, fratello? È quello che non vedo che mi ha sempre spaventato. Ho sempre cercato, in tutta quella sterminata città c’è tutto, tranne la fine. Quello che non ho mai visto è dove finiva tutto. La fine del mondo.
Ora pensa ad un pianoforte. In tasti iniziano e finiscono. Sai che sono 88, non sono infiniti. TU sei infinito. Questo lo so e a me piace. Riesco a viverlo. Ma se scendo questa scaletta e si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi che non finiscono mai. Questa tastiera è infinita!
E se è infinita non c’è musica che io possa suonare, vuol dire che sono seduto su un seggiolino sbagliato. Su seggiolino su cui suona Dio.
Vedi le strade? Anche solo le strade, hai visto quante sono? Come fate a sceglierne una? Sono migliaia! E scegliere una casa? Una terra? Una donna? Un paesaggio da guardare? Un modo di morire?
Tutto quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce! Non hai mai avuto paura di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla…”
Io sono nato su questa nave e il mondo che passava anche qui, ma non più di quello che poteva starci tra poppa e prua. Suonavo la mia felicità su una tastiera che non era infinita. Ho sempre pensato che la terra fosse una nave troppo grande per me. Un viaggio troppo lungo. Una donna troppo bella. Una musica che non so suonare.”
All’improvviso capii. Capii tutto e anche di più. Novecento mi aveva aperto gli occhi, e con quelle parole riuscii finalmente a comprendere ciò che lo aveva legato al Virginian per tutto questo tempo.
“Si suona un po’ per volta.”
Mi guardò serissimo cercando spiegazioni.
“La vita non è come un pianoforte, lo hai capito meglio di me. Anzi, è come un pianoforte. Ci sono musicisti che eseguono uno spartito, altri che lo creano come fai tu. Sei tu che sei infinito. Si tratta di fare delle scelte, senza sapere bene se quello che salterà fuori sarà quello che ti aspetti o quello che non ti aspetti. Potresti suonare da cani laggiù, è vero. Ma potresti suonare anche qualcosa di unico, di magico ed irripetibile. Potresti scoprire che quello che è confinato sul Virginian in 88 tasti non è che in infinitesimo di quello che potresti fare. E che quello che ti aspetta là fuori, in quel mondo senza fine, ti permetta di vivere senza quel limite.
Di sicuro non sarà facile, ma credimi, non lo è per nessuno. E tu sei migliore di tutti i nessuno che conosco.”
Si voltò vero la città e rimase a fissarla, poi senza voltarsi mi domandò a bruciapelo.
“Verresti con me?”
No. È una scelta tua. La prima forse di molte altre, ed è giusto che tu la prenda da solo. La prima nota prima di iniziare a suonare lo spartito più importante di tutti.”
Lui annuì, e quando mosse il primo passo non immaginavo proprio quale direzione avrebbe preso.
Fece un gradino, poi un altro, poi un altro ancora. Lo guardai percorre quella scaletta di metallo, che lo separava dall’infinto. Poi lo raggiunsi di corsa.
“Allora? Dove si va?”
Lo colsi così di sorpresa che sobbalzò dallo spavento.
“Hai detto che non venivi.”
“Tastiera infinita, infinite possibilità.”
Lui sorrise, e fu il suo sorriso più bello.

Omaggio a Novecento, di Alessandro Baricco.
Il libro originale finisce in modo diverso, Novecento non scenderà mai dal Virginian, spaventato da mondo. Si lascerà morire durante la demolizione della nave.

up Torna su

NON S’HA DA FARE

di Lodovico
- Or bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, - questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai.
- Ma signori miei, siete uomini di mondo, sapete come vanno queste cose, anche se a me non ne viene nulla in tasca il dover del buon curato è quello di non prostrarsi a due galantuomini che paiono minacciarlo.
- Orsù, lei c'intende, il nostro signore don Rodrigo avrebbe piacere che lei non maritasse Lucia...
All'udir tali parole al nostro don Abbondio, che tanto pacifico pareva essere, montò la mosca al naso.
- Lor signori riferiscano all'illustrissimo don Rodrigo che il matrimonio si farà - e con passo lesto s'allontanò dai due Bravi che restarono con un palmo di naso.
Or bene, s'accorgeranno i miei venticinque lettori, che il nostro prete di campagna era nato con cuor di leone, ma poco senno. Non ubbidir al comando dell'illustrissimo è comportamento foriero di guai.
Perpetua l'accolse sull'uscio. S'accorse dell'agitazione di Abbondio dallo sguardo adombrato.
- Che v'è successo, cos'avete signor padrone?
- Nulla, Perpetua, gente senza timor di Dio pretende ch'io non celebri il matrimonio di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella.
- Per l'amor del cielo, e chi sarebbe tale birbone?
- Nientemeno che l’illustre don Rodrigo.
- Ohimé, padrone, don Rodrigo è assai pericoloso. Non celebrate il matrimonio, ve ne prego,ne va della vostra vita.
- Prima della mia vita viene il mio ufficio, non vi scordate, Perpetua che io sono un ministro del Signore.
La giovine donna appariva assai impaurita per la sorte del curato. Lasciata che l’ebbe don Abbondio, Perpetua si recò lesta da Agnese, madre di Lucia.
Agnese, nella stanza terrena stava a cucire la veste di nozze di Lucia, quando vide, trafelata, la servetta di don Abbondio entrar dall’ uscio.
- Che avete, Perpetua, calmatevi.
- Or ve lo devo dire, Agnese. Il mio padrone è stato minacciato di morte se celebrerà domani il matrimonio di vostra figlia!
- Santissima Vergine, e chi sarebbe tale dannato che osa minacciare il curato?
- Don Rodrigo, signora.
- Oh, per amor di Dio, che imbroglio, che si può fare?
- Convincete il mio padrone a non maritar vostra figlia, ve ne prego Agnese, ne va della vita!
- Ma che posso fare io…
Dette tali parole l’uscio si aprì e Renzo apparve sulla soglia. Perpetua cominciò a tremar come una foglia.
- Che succede Agnese? Che ci fate qui Perpetua?
- Oh che imbroglio, Renzo – disse Agnese. – Quel mascalzone di don Rodrigo vuole che domani voi non vi maritiate con Lucia.
- Ah, no, questa è l’ultima che fa quell’assassino, ora mi…
- No, Renzo, il curato è minacciato di morte se celebra il matrimonio.
- E allora che fare, Agnese? Rimandar le nozze? O rischiare la vita di don Abbondio?
Renzo si accorse della presenza di Perpetua che non aveva punto considerata fin lì.
- Voi lo sapete, Perpetua, che ha detto il curato?
- Lui vuole maritarvi lo stesso- disse tremante e balbettante la donna. – Non si cura della sua vita, dice che è nelle mani del Signore.
- Va bene- disse Renzo. – Organizzeremo una ronda de’ conoscenti con pale e forconi nell’intorno della chiesa, vedremo se i Bravi avranno il coraggio di avvicinar il curato.
Detto che l’ebbe Renzo s’avvicinò alla porta per curarsi di organizzare per il giorno susseguente, ma prima di uscire si voltò verso Perpetua.
- Vi ringrazio, senza di voi il soverchiatore ci avrebbe colto di sorpresa- e le sorrise come solo lui sapeva sorridere.
Perpetua arrossì fino al collo e non spiccicò parola.
La strada per tornar alla casa del prete parve molto lunga. Ogni pensiero che le passava nella mente veniva tolto da un altro più tetro e spaventoso.
Giunta, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch'era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano, aprì, entrò, richiuse diligentemente. don Abbondio sedeva dinanzi al tavolo di legno immerso nel messale, la salutò silenzioso.
Il sorriso di Renzo l’aveva accompagnata fin lì. L’idea ch’ebbe la scosse. “Che Dio abbia misericordia di me” fu il suo ultimo pensiero prima di toccar la soglia della cucina.
- Non ho punto fame stasera, Perpetua.
- Mangiate, don Abbondio, mangiate. E bevete un bicchiere del vostro vino, servirà a cancellar i pensieri.
Don Abbondio, prese il bicchiere, con la mano non ben ferma, lo vuotò poi in fretta, come se fosse una medicina.
Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e i gomiti appuntati davanti, guardò fisso il curato con tristezza.
Don Abbondio sentì un dolore lento salir dal ventre.
- Soffrirete un po’, ma per fortuna avete vuotato tutto d’un fiato il vino. Più è il veleno più in fretta funziona.
- Perpetua, m’ avete avvelenato- disse il curato tra i crampi che lo prendevano allo stomaco. – Perché?
- Dinanzi a voi avete una donna, una donna innamorata, innamorata e disperata. Amo colui che non potrà mai essere mio, ma non voglio che sia d’altre.
- Che dite?
- Io amo Renzo, Renzo Tramaglino, Dio m’e testimone del mio amore. Ma domani si mariterà con Lucia. Non posso permetterlo. Chiesi a don Rodrigo di spaventarvi affinché il matrimonio non si facesse, ma voi non vi piegaste e io sono costretta a uccidervi per l’amor che mi lega a lui.
Detto che l’ebbe vide il curato steso a terra che già il veleno aveva fatto il suo ufficio.
Perpetua si diresse alla camera dicendo a bassa voce. -Questo matrimonio non s’ha da fare.


up Torna su

NUIT D’UN POÈTE

di Jane90
Pierre Gringoire si svegliò d’improvviso, gocce fredde di sudore gli inumidivano la pelle sottile delle tempie, brividi violenti percorrevano il suo corpo magro. La pelle, pallida, era scottante nonostante il freddo. I muscoli della mascella contratti, i capelli neri scarmigliati per essersi agitato durante il sonno.
Quella notte non riusciva a prendere sonno. Il suo animo, drammatico per natura, attribuiva la mancanza di sonno ai dubbi filosofici che gli occupavano la mente.
Si stava per girare sull’altro lato, ma uno scalpiccio lo fece sobbalzare.
- Maledetti topi - sussurrò, e la sua voce rimbombò nel vicolo in cui quella notte aveva deciso di albergare.
Ormai incapace di prendere sonno, il poeta si alzò in piedi e prese a camminare, lento ed assonnato, per le vie di Parigi.
L’aria della notte, fredda e frizzante, non lo faceva sentire meglio. Conosceva quell’aria: preannunciava l’arrivo del periodo più freddo dell’inverno, già abbastanza gelido secondo l’opinione di Gringoire. Come avrebbe potuto rallegrarsi ad un tale presagio? Come poteva essere lieto, con la neve che già lo copriva durante il sonno, all’annuncio di un freddo ancora più intenso?
Certo questo imminente abbassamento di temperature non poteva rallegrare in alcun modo l’animo di un poeta disperato, senza una dimora e senza i soldi per una locanda.
Nella sua vita già diverse volte aveva dovuto far fronte a tale problema. Eppure, quell’anno era diverso dagli altri. Sentiva di aver sfruttato e perduto ogni possibilità.
Il mestiere di poeta, l’unico che gli appartenesse, non gli avrebbe certo fruttato alcun guadagno: quanti rozzi ignoranti popolavano Parigi, che non apprezzavano la sottile finezza della sua arte!
Solo il giorno prima avrebbe avuto ben due possibilità per scaldarsi dal gelo invernale, entrambe sfumate. E ora? Chi avrebbe accolto un povero poeta sfortunato? Alla Corte dei Miracoli non osava tornare, anche se la tentazione era forte. Nessuno l’avrebbe ospitato, lì: la bella Esmeralda aveva avuto la malaugurata idea di farsi accusare di stregoneria, e probabilmente sarebbe stata impiccata da lì a poche ore, se si fosse presentato al reame d’Argot avrebbe dovuto conoscere la corda in un modo che non gli piaceva affatto.
Un belato familiare lo riscosse dai suoi pensieri e il poeta si guardò attorno per trovarne la fonte.
- Djali, mia cara!- esclamò sorpreso Gringoire chinandosi per chiamare a sé la capretta che gli era sfuggita poche ore prima, non appena la barca aveva portato via Esmeralda e il Prete Nero. – Sai, bellezza, i miei pensieri erano per l’appunto rivolti a quella sciocca della tua padrona- rivelò grattando con affetto il collo della capra. –Chissà se l’hanno già accompagnata al patibolo, spero non si sia spaventata troppo… e dire che è talmente semplice sfuggire alla forca. Puoi credermi se te lo dico, io l’ho fatto almeno due volte, e sono negli ultimi mesi. E dire che ho fatto tanto per salvarla, povera fanciulla…
Mi hai abbandonata.
Il poeta si accigliò non appena quella voce familiare giunse alle sue orecchie. – Tu hai sentito, Djali? Mi hai lasciata a lui…
- Chi è?- domandò Gringoire, e un brivido percorse la sua schiena mentre si guardava attorno… quella voce…
- Io ti salvai quando tu venisti alla Corte… ti salvai, e tu mi hai lasciata al Prete…
-Ventre di Dio, uno spirito!- gracchiò Gringoire scattando in piedi, tremando non più per il freddo, mentre il cuore batteva con forza nel suo esile petto.
- È colpa tua…
- Vattene!- gridò il poeta muovendo un passo indietro. – Ho provato a salvarti, ho tentato…
Non l’hai fatto, bugiardo! Hai scelto Djali, mi hai lasciata nelle sue mani nelle mani del Prete.
- No!- un altro passo indietro, il corpo scosso da fremiti inconsulti. Quella voce era ovunque, proveniva da ogni luogo, era dentro di lui.
Sono morta… ed è colpa tua.
- No, non è vero.
- Tu mi hai uccisa.
Stavolta la voce provenne da una direzione precisa. Sconvolto, Gringoire abbassò lo sguardo. Sul muso di Djali brillavano non i suoi occhietti neri e furbi, ma due occhi verdi che un tempo erano stati ingenui e amorevoli e che ora erano crudeli e vendicativi.
- E-Esmeralda…- balbettò. Sul volto della capra comparve la smorfietta che tante volte aveva increspato le labbra della gitana defunta.
- Tu mi hai uccisa - accusò la capra con la voce di Esmeralda.
- Era vero dunque!- gridò il poeta, la voce intrisa di terrore. – Sei una strega! Questa è stregoneria!
- Tu mi hai uccisa - con espressione maligna Djali avanzò e il poeta indietreggiò spaventato. Le acque della Senna accolsero la sua caduta.
- Tu mi hai uccisa.
La capra, o la Esmeralda che fosse, osservò con gelido piacere il poeta dibattersi nell’acqua gelida del fiume, lottare inutilmente contro la forza oscura che lo trascinava verso il fondo. Quando il capo dell’uomo fu immerso nell’acqua, continuò ad osservare la sua ombra.
Gringoire, agitandosi e lottando, morì con i polmoni pieni d’acqua e gli occhi sbarrati. Nelle iridi chiare rimase per sempre il volto vendicativo di colei che si riprendeva quella stessa vita che un tempo aveva salvato.


up Torna su

EVEN ACNA IB

di Conrad
La regina era avvolta in un'elegante mantello nero e viola, un girocollo d'oro alla Baracus e diademi grandi come pugni.
Guardò il volto del guardiacaccia riflesso sullo specchio. Notò che le stava guardando i fianchi e le natiche, cosa che le trasmise un piacevole calore al basso ventre.
- Fai come ti ho detto - disse all'uomo. – E quando avrai eseguito i miei ordini potresti ricevere qualcos'altro oltre la mera ricompensa in denaro.
Mentre lo diceva fece scorrere piano le mani sulla curva dei seni, per poi farle scendere lungo il corpo fino a posarle sulle cosce. Gesto molto più eloquente di qualsiasi parola.
Il guardiacaccia sgranò gli occhi e si passò la lingua sulle labbra screpolate. Balbettò un – S-Sarà fatto.
Appoggiò il fucile al tronco di un grande albero ed estrasse il lungo coltello il cui uso principale consisteva nello sventrare cinghiali e cervi. Il paese era relativamente vicino e avrebbero potuto udire lo sparo. Meglio non correre rischi.
La mente del guardiacaccia era ancora in subbuglio per la generosa offerta della regina. Il tondo sedere era impresso a fuoco nella memoria a breve termine.
Ma non aveva tempo per dilettarsi ora. La sentì cantare una tediosa melodia, avvicinarsi.
Si nascose dietro un folto cespuglio che fiancheggiava il sentiero. Percorreva quel tragitto ogni giorno, per attraversare il bosco e oggi non faceva eccezione.
La vide tra le foglie. Lucenti capelli neri le scendevano morbidi sulle spalle, impreziositi da un elegante nastro rosso, un'ampia gonna gialla e un corpetto blu che le stringeva la vita e le pompava il seno.
Era senza ombra di dubbio la più bella ragazza del paese. Forse, pensò il guardacaccia, è proprio per questo che la regina la vuole morta. Una matrigna che vuole uccidere la figlia del compagno. Strana storia davvero.
Appena gli passò davanti, uscì dal nascondiglio e si diresse con rapidità contro di lei.
Il salto di sorpresa e paura le salvò la vita. Il coltello lacerò appena il corpetto lasciandole scoperto un ampio pezzo del ventre.
- Chi sei? Cosa vuoi da me? Sibilò la giovane con voce resa stridula dalla paura.
- Ti strapperò il cuore puttana – ringhiò il guardiacaccia.
Al che, la principessa, si voltò e fuggì con una velocità di un centometrista.
- E che cazz... - esclamò sorpreso il cacciatore. Si gettò all'inseguimento fendendo l'aria con la lunga lama.
L'ingenua brunetta si era introdotta furtiva in una piccola cassetta, probabilmente di qualche minatore. Le pendici della montagna erano state sede di numerosi scavi.
Il guardiacaccia, prima di fare la sua mossa, appurò che non ci fosse nessuno, oltre alla principessa, nell'abitazione.
Si avvicinò cauto ala finestra spiando da uno dei vetri colorati.
Vide diversi letti, molto piccoli. Tutti vuoti eccetto uno, dove la principessa si era adagiata per un sonno ristoratore, forse sfinita dalla lunga corsa.
Aprì la porta e le si avvicinò con passo reso silenzioso da molti anni di esperienza.
La osservò un istante dall'alto, vittorioso infine. Saltò sul letto, imprigionandole il corpo col proprio peso. La giovane si svegliò urlando.
Le diede un pugno sul viso, uno sulla gola e una gomitata in pieno petto. Poi si esibì in un supplex.
Una volta tramortita le strappò con forza ciò che restava del corpetto e ammirò i piccoli seni. Poi le sfilò la gonna...
Si allacciò i calzoni di tela marroni con un sorrisetto compiaciuto increspato sulle labbra. Se avesse avuto la sua pipa, avrebbe fatto volentieri una tirata, ma stava calando la sera e doveva finire il lavoro.
Prima il dovere, poi il piacere, pensò, ma subito si corresse con un altro sorriso: prima il piacere, poi il dovere, poi altro piacere.
Dietro di lui, sul letto, la principessa era completamente nuda, le gambe spalancate e il coltello infilato nel petto. Per tutti i santi, quanto aveva urlato e pianto. Aveva pregato di lasciarla andare, di prendere il cuore di un cerbiatto al posto del suo, la regina non si sarebbe mai accorta, e bla bla bla.
Il guardiacaccia aveva riso mentre la prendeva violentemente, più volte, fino ad essere completamente soddisfatto. Poi, stanco delle sue suppliche, aveva messo fine alla questione affondandole la lama tra i bei seni, con disinvoltura e disinteresse.
Salì sopra il cadavere che andava raffreddandosi velocemente.
- Peccato non avere più tempo per noi – le sussurrò dolcemente mentre iniziava la rozza pratica dell'estrazione del cuore. Il lago di sangue dilagò veloce sotto il letto, propagandosi anche a quelli vicini, quasi fosse senza fine.
Ripose il molliccio muscolo in una scatola per dolci.
Si stava avviando verso l'uscita quando la porta si spalancò di colpo.
Contò sette nani, tutti armati di picconi e vanghe. Lo accerchiarono minacciosi.
Il guardiacaccia ricordò con una bestemmia di aver lasciato il fucile nel bosco. Aveva solo il coltello, sarebbe bastato, doveva farselo bastare.
- Nani del cazzo – ringhiò sottovoce. – Io odio i nani.
In una piccola casetta nel bosco, si stava consumando l'ennesima sfida tra i servi del potere e gli anarchici mezzi uomini.
L'esito non era scontato. La regina osservò tutto il combattimento dal suo specchio magico, pervasa da brividi di piacere e scoppi di isteriche risate. Chi fosse rimasto in piedi non era più così importante. Aveva vinto. Era lei la più bella del reame.


up Torna su

WILLY

di Carlocelenza
Willy il coyote, sdraiato in cima al Grand Canyon, guarda lo scatolone su cui spicca in rosse lettere cubitali la scritta ACME. Appena sotto a quella una più piccola a caratteri neri dice “estreme fishing evolution”.
Ha provato tante volte a catturare il road runner, con le più svariate e fantasiose tecniche, ma l’impresa non gli è mai riuscita.
Dopo tanti tentativi è convinto che la colpa non è sua ma dell’attrezzatura. I piccoli razzi da attaccare ai pattini non partono mai al momento giusto, di solito lo fanno quando si toglie il pattino e ci guarda dentro, col solo risultato di bruciarsi la faccia.
Le incudini da lanciare addosso al velocissimo pennuto per arrestarne la corsa di solito rimbalzano e gli tornano addosso schiacciandogli, come al solito, la testa. Le leve che usa per far precipitare i massi sul cammino del road runner, si piegano e alla fine catapultano via solo lui stesso mandandolo a schiacciarsi, ovviamente a testa avanti, su un costone roccioso.
Guarda di nuovo il pacco con sospetto, quasi teme di aprirlo, ma alla fine decide di farlo.
Cerca di strappare a morsi il nastro adesivo americano che chiude il pacco ma ci rimane attaccato coi denti. Punta i piedi e libera la testa ma le zampe anteriori si attaccano a loro volta al nastro.
Con gli occhi iniettati di sangue per l’ira strattona violentemente il pacco per liberarsi ma rimane invischiato anche con le zampe posteriori.
Mentre affannosamente cerca di liberarsi sente il Beep Beep del road runner che si avvicina e con la coda dell’occhio riesce anche a vederlo. È ancora abbastanza lontano ma sa che in pochi secondi gli sfreccerà sotto come un razzo.
Aumenta i suoi sforzi ruzzolandosi assieme allo scatolone fino quasi al bordo del canyon ma quando sta per riuscire a liberarsi il pacco supera il bordo di roccia e inizia a precipitare con lui attaccato addosso. Poco più in basso si schianta su una roccia sporgente aprendosi e liberando il suo contenuto, una lunghissima rete che comincia a srotolarsi lungo il fianco dello strapiombo. Willy sa che ora precipiterà a terra e che la rete gli cadrà addosso tirandosi dietro la grande roccia in cui si è impigliata, che come al solito gli schiaccerà la testa.
Durante la caduta guarda con occhi melanconici la lunga rete che si srotola come un lunghissimo nastro e non crede ai suoi occhi quando vede che la sua estremità si libera dallo sperone e volteggia libera precipitando assieme a lui.
Inaspettatamente qualcosa frena la sua caduta, un grosso cespuglio abbarbicato alla parete di roccia rossa, lo accoglie come una mano gentile mentre la rete continua a precipitare verso il basso.
Guardando giù con gli occhi spalancati dalla meraviglia, vede il road runner continuare la sua corsa seguito da una lunga nuvola di polvere ignaro della rete che gli sta precipitando addosso.
Lo vede incappare con la testa nelle sue maglie e proseguire la sua corsa come se nulla fosse. La rete comincia a stendersi ma non rallenta la corsa del beeppante animale che continua imperterrito a sollevare nuvolette di polvere con le sue zampe mulinanti. La rete continua a stendersi diventando sempre più stretta, tanto da diventare un solo cavo nero che continua ad allungarsi. Sembra non possa spezzarsi mai.
Ma quando lo farà, pensa terrorizzato Willy , mi tornerà addosso dritta in faccia. Voltare le spalle alla tragedia imminente sembra l’unica soluzione, ma ogni tentativo è vano, il tenace nastro adesivo americano lo tiene ancora legato alla scatola che conteneva la rete e ovviamente anche alla rete che ormai è diventata un sottile cavo di violino che vibra nell’aria.
Willy che poggia sulla pianta, più una corda tesa, più un animale inarrestabile, risultato, un piccolo fungo atomico e una faccia bruciata, ovvio, ma la corda non si spezza, il primo a cedere è l’arbusto.
Con un urlo di paura Willy viene catapultato verso la strada assieme allo scatolone e al cespuglio che si è lasciato dietro tutte le foglie. Queste si guardano tra loro stupite prima di mettersi alla rincorsa del loro cespuglio.
Lo vedono che è già oltre la prima curva, assieme allo scatolone e al coyote che sbatte continuamente a terra come la coda di un castoro.
Con le orecchie tirate indietro dal vento Willy china la testa in avanti e con terrore vede che il road runner si è fermato.
Ora lui partirà al contrario e io mi spiaccicherò su quella roccia che sporge in fondo alla strada, a testa avanti, pensa triste tra se, sentendosi ormai in balia della sorte, ma mentre si rassegna al suo destino incontra gli occhi del road runner, sono gli occhi di chi vede la sua stessa fine avvicinarsi. Dopo un solo istante il gruppo rete, coyote, arbusto senza foglie, gli piombano addosso per fermarsi dopo qualche saltellamento in mezzo alla strada.
Willy si ritrova seduto sopra un garbuglio di rete intrecciata e dentro c’è il road runner che ora non beeppa più.
Si guarda attorno, la strada è deserta e silenziosa, dal fianco del canyon non piovono massi, non ci sono candelotti pronti a esplodere, tutto sembra immobile e silenzioso.
Si accorge di essere libero e si alza in piedi continuando a guardarsi attorno pronto a scansare un’eventuale minaccia, ma il mondo sembra cristallizzato in una silenziosa istantanea.
Vede arrivare le foglie che con un sospiro di sollievo si riattaccano ai rami dell’arbusto e dopo quel leggero frusciare, di nuovo il silenzio di una valle stupefatta dall’accaduto.
La sua bocca si apre in un sorriso incredulo e stando in equilibrio su un piede solo tocca con un unghia il groviglio di rete che ormai non si agita più.
L’ho preso, pensa, ma non vuole crederci e si avvicina a guardare.
Qualche lunga penna celeste spunta dalle maglie. Non resiste alla tentazione e ne strappa via una, ma dal mucchio di rete non viene nessuna reazione.
Con aria solenne si piazza la penna in testa legandola con le orecchie e si siede sul ciglio della strada sorridendo.
Passano i minuti e poi le ore fino a che il sole comincia a tramontare e la strada è ancora deserta e silenziosa.
Willy guarda il disco rosso del sole e il suo sorriso si affloscia.
E adesso, si chiede.


up Torna su

LE DUE SOLUZIONI

di Tuareg
- Secondo me, mio caro Poirot, la prima ipotesi da lei fatta sul modo in cui è stato commesso il delitto è la giusta. Proprio così, e proporrei che fosse appunto questa la soluzione del problema che daremo alla polizia jugoslava quando arriverà. È d'accordo con me, dottore?
- Senza dubbio! - Si affrettò a rispondere il dottor Constantine. - Quanto poi al referto medico, mi sembra... uhm!... mi sembra di aver detto cose non proprio esatte.
- E allora - concluse Poirot, - poiché ho prospettato la vera soluzione del problema, e cioè la prima, ho l'onore di ritirarmi. Il mio compito è terminato.
Il silenzio che seguì quell’affermazione fu interrotto dal controllore Pierre Michel, il quale avvertì i passeggeri che la linea ferroviaria era stata sgombrata dalla neve e che entro pochi minuti il treno avrebbe ripreso la sua marcia fino alla successiva stazione.
La notizia allentò l’evidente tensione avvertibile tra gli astanti che, rinfrancati da quanto ascoltato, ripresero a conversare tra loro come se non fosse accaduto alcunché.
Qualche ora più tardi il convoglio raggiunse la stazione di Zagabria.
Il signor Bouc, direttore della Compagnia ferroviaria, si affrettò a scendere dal vagone per informare la polizia dell’accaduto.
Pochi minuti dopo, il commissario Granec si recò presso la vettura Istanbul-Calais, incuriosito dalla presenza a bordo del famoso Hercule Poirot più che dal crimine perpetrato.
Dopo essere stati presentati, il noto investigatore si appartò a colloquio con il funzionario slavo, esponendogli la prima versione degli eventi: quella dello sconosciuto, travestito da ferroviere, che dopo aver pugnalato più volte Ratchett, approfittò della sosta obbligata del treno per dileguarsi nella notte.
A supporto di quanto affermato, fornì gli alibi inattaccabili degli altri ferrovieri e mostrò il bottone della divisa, tipica del personale ferroviario, trovato nello scompartimento dell’assassinato.
Non menzionò nulla dell’efferata uccisione della piccola Daisy, commessa anni prima da Ratchett alias Cassetti, e dei legami che la vittima potesse avere con i dodici ospiti di quella carrozza.
Dopo averlo ascoltato con attenzione, Granec replicò: - Ho una grande ammirazione per lei ma questo non mi obbliga ad accettare le sue conclusioni.
Poirot arricciò i suoi baffi e rispose: - Trova questa versione fallace?
- Non possiedo certo il suo acume ma non posso accogliere una simile ricostruzione proprio perché fatta da lei. Nessun colpevole abbandonerebbe un treno in piena notte per attraversare una campagna, coperta da una considerevole coltre di neve, nella quale sarebbe stato impossibile non lasciare tracce dall’evidenza inoppugnabile.
Intercorse un intenso scambio di sguardi tra i due, prima che Granec riprendesse: - Voglia perdonarmi, illustre collega ma mi sembra ovvio dedurre che è suo palese proposito tentare di proteggere qualcuno.
- A cosa vuole alludere?
- Sono molto deluso dalla scarsa considerazione che dimostra nei confronti della polizia jugoslava e nei miei in particolare, nonché dal suo incomprensibile senso di giustizia. Pertanto mi vedo costretto a fermare e interrogare tutti i passeggeri. Lei compreso.
Poirot trascorse pochi secondi a riflettere prima di replicare: - Allora le esporrò un’altra versione dei fatti. Sarà poi compito suo decidere, come dice lei, il senso di giustizia che riterrà opportuno.
Granec ascoltò con attenzione la descrizione dell’orribile crimine commesso da Cassetti, le vere identità dei viaggiatori coinvolti e il movente che li aveva spinti a commettere quell’assassinio, prima di commentare: - Comprendo il motivo della sua fama e me ne congratulo. Ma la giustizia prescinde dal sentimentalismo.
- Che cosa intende dire?
- Cassetti poteva anche meritare quella fine ma la condanna deve essere pronunciata da un tribunale, non da singoli individui animati da rivalsa.
- La giustizia degli uomini non è infallibile e può incorrere in errori. Questo caso ne è un’evidente dimostrazione.
- Ciò non toglie che dodici persone hanno premeditato, pianificato e commesso un reato volontario, e questo è contrario a ogni legge.
Poirot annuì e chiese: - Vuole accusarli tutti e dodici?
- Mi permette di fare alcune osservazioni sulla sua ricostruzione?
- È un suo diritto.
- Cassetti è stato narcotizzato per evitare che potesse difendersi dalle pugnalate. Questo m’induce a dubitare di Mac Queen, il suo segretario personale. L’unico che potesse operare senza destare sospetti. Ma anche se non fosse stato lui, mi chiedo perché non aumentare la dose di sonnifero e procurarne subito la morte?
- La risposta dovrebbe già conoscerla.
- Esatto. La vendetta doveva appagare tutti e non solo uno di loro. Converrà che questa è un’aggravante che aggiunge la cinica volontà di partecipare all’assassinio.
- E con questo?
- Sottolineo che i dodici complici hanno voluto infierire su un corpo inerme non per procurare sofferenza alla vittima bensì per soddisfare il proprio desiderio vendicativo, per un delitto avvenuto diversi anni prima, e quindi senza l’attenuante dell’impeto istintivo ma consci e partecipi dell’esecuzione di una sentenza emessa da loro stessi.
- Vuole insinuare che quelle persone sono più truci dello stesso Cassetti?
- Di più no di certo ma considerando le loro posizioni sociali, non avvezze ai crimini, non si può approvare il loro agire.
I due trascorsero alcuni minuti a riflettere scontrandosi più volte con lo sguardo, fino a che Poirot ruppe il silenzio chiedendo: -Ora che è informato di tutto, posso conoscere le sue intenzioni?
Granec rispose: - Anche se l’autopsia riuscisse a determinare la causa della morte di Cassetti, ritengo impossibile stabilire chi possa aver sferrato la pugnalata fatale. Ne consegue che il crimine non potrà essere addossato a un solo colpevole.
- Allora conviene con me che la prima soluzione prospettata sia la più equa.
- Niente affatto, illustre collega. Coloro che sono coinvolti saranno denunciati per concorso in omicidio volontario e spero che lei vorrà suffragare questa tesi. Mi dispiacerebbe molto doverla accusare di favoreggiamento.
- La sua è una minaccia?
- Con tutta franchezza, sì! Lei è molto famoso e non mi dispiacerebbe che, dopo una vita trascorsa nell’ombra, un po’ di fama arridesse anche alla mia persona.
- Cosa vuole sottintendere?
Granec fissò Poirot negli occhi e con tono perentorio affermò: - Prendo esempio da lei e le offro anch’io due possibilità. Essere coinvolto nella denuncia o dichiarare alla stampa che il merito della seconda ipotesi, e quindi della brillante risoluzione del caso, è solo opera mia.


up Torna su

WELCOME HOME… CONDOMINIUM

di Luigi Bonaro
…le loro vite erano entrate in una
dimensione chiaramente più sinistra.
James Graham Ballard — Condominium
Lo so. Sono lì che mi spiano. Maledetti condomini. È tutta una congiura. Silenzio per favore! Potrebbero sentirvi.
Ho distrutto il telefono. Aveva un codice a barre sul lato.
Pensate che sia pazzo, non è vero?
Non tutti sanno che Woodland e Silver, gli inventori del codice a barre, erano due ibridi umano-alieni.
L'ho scoperto visionando accuratamente un episodio di XFiles.
Non è un caso che nel 1992, Woodland abbia ricevuto dal presidente George H. W. Bush la medaglia per la Tecnologia.
Loro, gli alieni, utilizzano i codici per schedarci, controllarci, possedere le nostre coscienze.
E gli abitanti del mio palazzo sono tutti posseduti.
Prima fra tutti la signora Zawistowska, quella dannata vecchia. Proprio l'altro ieri, l'ho spiata dalle persiane ed ecco ciò che ho visto. La vecchia polacca tornava dall'alimentari con in mano i sacchetti della spesa.
Indovinate che cosa c'era a lato delle busta? Codici a barre.
Dice che fa la badante, la maledetta. Lo so io che cosa fa! E gli altri? Vanno a trovarla, le affidano i bambini, capite?
Non diventerò come loro. Mi sono barricato in casa.
Maledetti alieni, pensate che provavano a chiamarmi sul telefonino. La settimana scorsa, il cellulare squillava emettendo uno strano suono. Ho svitato il coperchio posteriore e indovinate che cosa ho trovato all'interno?
C'erano dei transistor piccolissimi, ciascuno con un barcode impresso al di sopra. Ho dovuto distruggerlo.
La mia ex moglie dice che sono ossessionato. Secondo lei dovrei trovarmi una donna e cambiare vita. Insomma, smetterla con questi incubi.
Come dite?
No. State tranquilli. È talmente ripugnante che anche gli extraterrestri avrebbero dei seri problemi a collocarla in un qualsiasi punto di un astronave.
Da quando ci sono gli alieni, la mia vita, qui nel palazzo, sta diventando insostenibile.
Certo, ognuno ha il suo incubo personale, un'insofferenza che innervosisce e spesso porta alla lite. Sotto la facciata della tolleranza reciproca, sotto quell'apparenza pacifica, non di rado, si nascondono scontento e disagio.
Le difficili relazioni condominiali portano spesso a un senso di frustrazione. Il più delle volte ci si adegua a malincuore a decisioni prese da altri, pensando di non avere spazio per esprimere i propri bisogni. In verità, per quanto sia datato, è il Codice civile che stabilisce le regole di condominio. Ho chiesto una convocazione dell'assemblea perché ci hanno sostituito i contatori e al posto dei classici piombini ho trovato dei sigilli con dei codici a barre. Ebbene, i condomini mi hanno ignorato. Poco male, mi sono fatto giustizia da solo.
Ma una delle cause di scontro condominiale, in genere più frequente, è il rumore, che può diventare molesto quando è ripetuto e costante.
Ad esempio, il mio dirimpettaio, Isi Badmotorfinger ascolta quella chiassosa musica infernale a volume alto, oppure la signorina Maria Pompadoro che urla e fa rumore camminando con quegli zoccoli nelle ore più insolite. Certo, non mi lamenterei mai con quella poverina.
Come? Non conoscete la signorina Pompadoro?
È quella che vive nell’appartamento sopra il mio. La chiamano Dirty Mary.
Insomma, di notte, sento sempre una voce metallica, lei che parla al citofono, il suo passo pesante, la porta d'ingresso che si apre e, quasi subito dopo, il cigolio delle molle della rete del letto. Poi, inizia il supplizio. Inizia a lamentarsi. I gemiti diventano sempre più intensi per fermarsi di colpo. Poi, dopo un poco ricomincia, voce metallica, passo pesante e così via. Questo succede ogni notte. So cosa state pensando. È straziante.
Sono Loro, gli alieni che la torturano. Fanno su di lei quegli esperimenti. Pensa che l'altra volta, l'ho incontrata sul pianerottolo e le ho chiesto il perché del rumore e me lo ha detto, pensate quanto è sincera. Fidatevi, è l'unica persona onesta del palazzo. Mi ha riferito proprio queste testuali parole: «Mi dispiace ma loro mi fanno visita e io non riesco a resistergli». Capito? Quella povera ragazza rappresenta una testimonianza vivente di possessione aliena. E tutti gli altri condomini? Sanno e non parlano. Sono spietati, sentono le urla e alzano il volume della televisione. In definitiva, sono tutti d'accordo.
Eh, ma le ho detto di resistere e di bruciare come ho fatto io, tutti i codici a barre presenti in casa.
Mi ha guardato interdetta. Povera Mary. Tutto ciò è pietoso.
Scusate non mi sono ancora presentato. Sono Robert Laing e nell’altro condominio facevo il medico. Adesso lavoro come assistente mortuario presso il cimitero del paese. Sono in aspettativa e vivo qui, confinato nel mio appartamento.
L'altro ieri, mi è arrivata una notifica da parte del deposito giudiziario. Hanno rimosso il mio Lupetto dal piazzale perché dovevano dipingere delle strisce pedonali.
Tutte stupidaggini. Sì, amici. Questo è ciò che Loro vogliono farvi credere. Ma prendete l'ascensore e andate sulle vostre terrazze. Conoscerete la verità. Quelle strisce sono enormi barcode che trasmettono codici in continuazione.
Ieri, mi è arrivata una raccomandata. L'alieno che me l'ha consegnata era travestito da postino. Aveva in mano una pistola laser ma gliel'ho distrutta. Continuava a dirmi che doveva sparare il codice della busta quando ho tirato fuori la mia Smith & Wesson e gliel'ho puntata in faccia:
«Dammi lentamente quella pistola laser» gli ho detto.
Non ha fiatato. Mi ha dato l'infernale marchingegno. Si è accorto che sapevo.
Ho scaraventato quel maledetto spara codici per terra e ho fatto fuoco su di esso facendolo in mille pezzi. L'alieno è scappato.
La raccomandata parlava di un'ingiunzione del tribunale per manomissione delle apparecchiature della società elettrica.
Il mio appartamento è l'ultimo presidio contro gli alieni. Ora, Loro sono dietro la mia porta travestiti da carabinieri. Sto per aprire. Stringo forte la mia sputa fuoco.
Venderò cara la pelle.


up Torna su

NON CI SONO PIU’ LE BRAVE RAGAZZE

di Lorella15
Anastasia e Genoveffa si erano sbagliate alla grande se credevano che lei fosse disposta a subire le loro angherie. Un po' aveva sopportato per portare il buon per la pace ma ora si era veramente scocciata. Suo padre l'aveva lasciata proprio in una bella situazione. Prima si era invaghito di quell'arrivista, l'aveva sposata e portata in casa assieme alle due figlie. - Vedrai sarà come una madre per te e le ragazze due sorelle!
E lei a cercare di aprirgli gli occhi - Non ti fidare, babbo, lei vuole solo farsi sposare, mira ai tuoi soldi, alla nostra casa. Lui niente, non ragionava e alla fine lei si era arresa. All'inizio era tutta moine ma appena l'aveva portata all'altare si era rivelata la feccia che era. Suo padre non era stato in grado di farsi valere e alla fine non aveva trovato di meglio che morire d'infarto. Così ora era rimasta sola in balia di quelle tre vipere che, dopo averle usurpato il cognome, avevano fatto perdere traccia del suo nome e per tutti era Cenerentola. Ma ora basta, quando è troppo è troppo, si era detta la ragazza. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato l'invito per il ballo del principe. Si mormorava in giro che il ballo era stato organizzato perché il principe voleva incontrare tutte le ragazze in età da matrimonio e Cenerentola non poteva farsi scappare un'occasione così. Invece le tre vipere volevano farla restare in casa, anche perché, brutte come erano, avrebbero di sicuro fatto una pessima figura accanto a lei. La matrigna aveva comprato dei vestiti stupendi per le befane, soldi buttati al vento perché era come vestire un manico di scopa e un pagliaio. Vedere Anastasia e Genoveffa vicine era una barzelletta, una secca come un chiodo e lunga lunga, l'altra tonda come un mappamondo e piccola piccola.
Cenerentola aveva preparato loro un bello scherzetto. Da tempo si dilettava con le erbe. Ne conosceva per tutte le indisposizioni e sapeva preparare dei decotti miracolosi. Già da una settimana le sorellastre l'avevano messa al lavoro, una voleva una tisana diuretica, nella speranza di sgonfiare. L'altra voleva una tisana depurativa sperando che le si spegnessero i foruncoli che le deturpavano il viso. Anche la matrigna ci si era messa, lei pretendeva una tisana distensiva, ma quello che voleva distendere erano le rughe. Cenerentola aveva preparato invece un'unica tisana lassativa. Mentre lei andava al ballo le tre streghe invece di leticare per il principe, si sarebbero accapigliate per il gabinetto. Il vestito ce lo aveva, aveva fatto delle modifiche a un abito di sua madre, poi su di lei tutto faceva figura. Per fortuna la natura l'aveva aiutata. Era alta e snella con un seno prosperoso che la generosa scollatura del vestito accentuava. I capelli biondo cenere erano appena mossi da onde naturali, un paio di occhioni azzurri facevano di lei l'innocenza fatta persona. Il problema era arrivare da sola al castello, ma avrebbe risolto anche quello, aveva un'amica che faceva miracoli, l'avrebbe di sicuro aiutata.
Ora doveva pensare a sé stessa, altrimenti avrebbe finito per far la serva tutta la vita a chi le aveva rubato tutto, dall'amore di suo padre, al suo denaro. Aveva perso anche l'eredità di sua madre, per la leggerezza e la stupidità di un uomo. E la vita fino a oggi questo le aveva insegnato: con gli uomini bastava saperci fare. Un bel faccino, qualche moina, un po' dare, un po' negare e cadevano a terra come pere. Il prossimo sarebbe stato il principe.


up Torna su

PAOLO E FRANCESCA

di Roberta Michelini
Noi leggevamo un giorno per diletto
di Lancillotto, e come amor lo strinse.
Soli eravamo, e senza alcun sospetto.
Paolo e Francesca sedevano vicini sul bordo del letto, con il libro appoggiato alle ginocchia. Lei leggeva e lui ascoltava assorto, rapito. Le loro braccia si sfioravano. Le loro teste erano inclinate l'una verso l'altra. Lui le appoggiò la testa sulla spalla, teneramente. A lei tremò la voce, e si confuse. Lui non seppe trattenersi: d'improvviso le cinse la vita con il braccio e, ruotando leggermente il busto, la strinse e le baciò la bocca. Francesca rimase senza fiato.
– Paolo – disse. - No, ti prego... Non dobbiamo. Ma lui le afferrò la nuca e la baciò ancora più forte. Francesca sentiva le gambe molli, le girava la testa. Si sentiva intrappolata tra le sue braccia come in una ragnatela. Cosa le stava succedendo? Dopo quel lungo bacio si sentì come se avesse saltato un burrone. Tutto quel che c'era stato prima, era rimasto dall'altra parte. – Paolo - disse ancora. - E adesso?
- Adesso cosa? - rispose lui ridendo. E ricominciò ad abbracciarla.
Da quel giorno passarono lunghe ore ad abbracciarsi in quella stanza, e il loro amore cresceva ogni giorno di più. Finché un pomeriggio…
Un rumore per le scale. Ma loro erano così presi dall'impeto della passione che non lo sentirono.
La porta si spalancò di scatto, ed entrò Gianciotto, detto Gianne lo sciancato. Un uomo deciso e valoroso in battaglia, dal carattere energico, che si era creato la fama di uomo sanguinario e vendicativo.
- Che succede qui! - tuonò!
- Cielo, mio marito! - disse lei.
- Cazzo, mio fratello! - esclamò lui.
Si ricomposero in fretta, mentre Gianciotto squadrava la stanza con aria torva e minacciosa. Paolo si affrettò a pulirsi la bocca dal rossetto, lei si rassettò la gonna, si chiarì la voce; entrambi si ravviarono i capelli, guardandosi di sottecchi e prendendo un po’ le distanze, ma continuando a sfiorarsi di nascosto la mano.
- Allora? Che state facendo, razza di sfaticati? - abbaiò Gianciotto, misurando la stanza a grandi passi zoppicanti, con le mani sui fianchi e il mento sollevato in alto.
- Niente caro, stavamo leggendo..
- Razza di fannulloni lavativi, non avete di meglio da fare? Leggendo? E che cosa cacchio stavate leggendo, di grazia?
- Un romanzo caro, un romanzo cavalleresco.
- Ma tu guarda se mi doveva capitare un fratello frocio che perde tempo a leggere romanzi da donnicciole…
- Ah, i romanzi, i romanzi rovinano la vita... Vabbè, continuate pure a trastullarvi con queste sciocchezze, io ho di meglio da fare.
Prese la spada e scese in cortile. Dalla finestra Paolo e Francesca lo guardavano. Gianciotto sguainava la spada, poi la rimetteva nel fodero, la sguainava di nuovo, appoggiava la mano al fianco, si metteva in posa, fingeva di attaccare un nemico. - Ehi, dici a me? - esclamava con aria di sfida, ammirandosi nello specchio del cielo. E menava fendenti qua e là, saltellando per il cortile.
Paolo si avvicinò a Francesca, che stava affacciata alla finestra, e cominciò a strofinarsi su di lei e a baciarle il collo. - No, dai Paolo, per favore…
- Mmmmhhh… allora smetto? Francesca cominciava a farfugliare: - Sì, no, lasciami… no non smettere, no lasciami, dai ti prego…
E Paolo le afferrava i seni da dietro e l’avvinghiava come una piovra. - Secondo te ha capito qualcosa? chiedeva Francesca.
- Ma che vuoi che abbia capito… Non lo vedi quant’è grullo? E’ sempre stato così - rispondeva lui senza smettere per un solo istante di accarezzarla e baciarla sul collo, premendo il corpo contro di lei ancora affacciata alla finestra. - Scommetti che se lo facciamo qui affacciati alla finestra non se ne accorge nemmeno?
- Dai Paolo, quanto sei porco.
Insomma, questo era l’andazzo. Da allora in poi ogni pomeriggio i due amanti si incontravano con la scusa di leggere romanzi, mentre Gianciotto si esercitava fendendo l’aria con gran colpi di spada. “Tieni, vile marrano!” e giù una sforbiciata al ramo del tiglio. - Prendi questa, stolto! - e giù un’altra sforbiciata. Finché Francesca lo chiamava: - Gianciotto, è pronta la cena!
- Che hai fatto di bello oggi cara?
- Oh sai amore, ci siamo trastullati come sempre leggendo romanzi… sai com’è, una pagina dopo l’altra, ci si prende gusto. - Contenti voi.
Un anno dopo, seduti sul bordo del letto, Paolo e Francesca leggevano il best seller dell’anno. Paolo, senti questa:
Amor, ch’a nullo amato amar perdona
Mi prese del costui piacer sì forte
Che come vedi, ancor non m’abbandona
- Che carini, sembriamo proprio noi!
Amor condusse noi ad una morte...
- Accidenti… finisce male però!
- E per forza Fra', sono all'Inferno.
- Comunque cucciola, stai tranquilla: mica tutti son grulli come Gianciotto! Dai togliti ‘sta gonna che il tempo stringe.
- Cara! - chiamava intanto Gianciotto dal cortile. - Guarda che bella catasta di legna t’ho preparato.
- Sì amore vengo! - gridava lei. E Paolo se la rideva mentre affondava gli ultimi colpi di spada.


up Torna su

CATTIVE INFLUENZE

di Antonella P
Quel giorno Basil non era solo. Dorian non si aspettava un altro ospite, arrossì e balzò in piedi.
- Basil, non sapevo che fossi in compagnia.
- È Lord Henry Wotton, Dorian, un mio vecchio amico di Oxford. Gli stavo dicendo che sei un modello meraviglioso!
Lord Henry aveva una strana luce negli occhi: Dorian era meravigliosamente bello e gli schietti occhi azzurri e i capelli d’oro, avevano attirato l’attenzione dell’uomo. In Dorian brillava tutta l’appassionata innocenza della giovinezza. Il mondo non lo aveva ancora contaminato.
- Siete troppo affascinante per dedicarvi alla filantropia, signor Gray, troppo affascinante - esclamò Lord Henry, accasciandosi sul divano e aprendo il portasigarette.
- Dorian, ti avviso! Lord Henry esercita una pessima influenza su tutti i suoi amici, eccetto che su di me - nelle parole di Basil si distingueva perfettamente quella gelosia verso Dorian che non sapeva nascondere.
- Non esiste una buona influenza, ogni influenza è immorale! - ribadì l’aristocratico. - Influenzare un individuo significa dargli la propria anima!
Basil era assorto nella pittura: Dorian era perfettamente immobile e la luce che aveva negli occhi era perfetta. Non sapeva quello che Lord Henry gli stesse dicendo, ma doveva aver davvero fatto colpo sul ragazzo.
- Bisogna godere di ogni attimo di giovinezza, signor Gray. Noi siamo puniti per le nostre rinunce, ogni impulso che cerchiamo di soffocare ci avvelena! Peccando, il corpo si libera dal peccato, è una forma di purificazione. Cedere ad una tentazione, è l’unico modo per liberarsene!
Dorian era affascinato da quell’uomo: ne aveva paura, e si vergognava ad averne. Aveva suscitato in lui fiducia e stima e gli stava svelando i segreti della vita, nonostante lui non glielo avesse chiesto.
- La bellezza, mio caro Dorian, è una forma di Genio, anzi, ne è superiore, perché non ha bisogno di spiegazioni - aveva continuato a spiegare Lord Hanry, muovendo sinuosamente le mani bianche - E quando la perderete, non ne riderete, perché al contrario di quello che dicono, la bellezza non è superficiale. Gli dei sono stati generosi con voi signor Gray, ma loro, tolgono presto ciò che danno. La vostra giovinezza se ne andrà, la vostra bellezza si sciuperà, diverrete giallastro, scarno, inespressivo. Il mondo vi appartiene per questa stagione, poi…
- Finito! - l’estasiata voce di Basil distrasse Lord Henry, mentre Dorian combatteva contro la gelida mano che gli stava strozzando il cuore.
Il ritratto era perfetto: meraviglioso in ogni suo punto, una delle più grandi cose dell’arte moderna.
- Com’è triste! - mormorò Dorian. - Io diverrò vecchio, brutto, scarno, e questo quadro conserverà per sempre la mia bellezza! Per questo, darei tutto ciò che ho! Per questo, darei l’anima!
- Siate felice di avermi conosciuto - sussurrò Lord Henry, lasciando lentamente la stanza.
Il tempo passò e, avidamente, Dorian godeva della sua giovinezza, della sua immortale bellezza. Non l’avrebbe mai persa, non sarebbe mai invecchiato, non sarebbe mai diventato brutto, scarno, giallastro. I primi segni del tempo cominciavano a sgualcire il dipinto, che lui stesso aveva staccato dalla parete e chiuso a chiave in una stanza buia. Nessuno mai avrebbe dovuto scorgere il suo viso trasformato dal tempo! Era l’emblema della giovinezza, e di quella, avrebbe vissuto per sempre. Eppure, ne aveva timore.
Lord Henry divenne il suo compagno di sbronze: gli fece conoscere l’alcol, le donne, l’arte. Gli aveva svelato i più pericolosi segreti della vita e lo aveva lasciato libero, si fa per dire, di scegliere. Gli aveva concesso la possibilità di non perdere mai la sua giovinezza, e lui, ne aveva approfittato.
- Sono innamorato - disse un giorno Dorian a Lord Henry, arrossendo
- Di chi sei innamorato? - rispose
- Si chiama Sibyl Vane, e un giorno se ne parlerà.
- E dove l’hai incontrata? - domandò Henry
- Promettimi di non ridere! Una sera decisi di avventurarmi per Londra, ed entrai in un assurdo teatrino. Rappresentavano Romeo e Giulietta, e anche se mi sentivo piuttosto seccato all’idea di vedere Shakespeare, decisi di entrare - imbarazzato e preoccupato che l’amico potesse ridere di lui, continuò. - C’era un’orchestra spaventosa, diretta da un ebreo incapace, che quasi mi indusse ad andarmene. Poi entrò lei, Giulietta, la quale bellezza riusciva a riempirti gli occhi di lacrime! Una sera è Rosalinda, la sera dopo Imogene! L’ho vista morire, lo vista pazza e innocente! In ogni età e in ogni costume! Henry, perché non mi dici che l’unica persona che posso amare è un’attrice?
- Perché ne ho amate tante, Dorian. Nessuna donna è un genio. Ognuna è un sesso decorativo. Non hanno mai nulla da dire, ma lo dicono in modo incantevole. Che rapporti hai, con quest’attrice?
- Henry! Sibyl è sacra! - disse agitato Dorian, e balzò in piedi, furioso
- Solamente le cose sacre, meritano di essere toccate - rispose imperterrito e crudele Lord Henry, mentre Dorian, scompariva in fondo alla strada.
Aveva sbagliato. Aveva scelto di vivere attaccato alla bellezza. Aveva deciso di non abbandonare mai la giovinezza e aveva sacrificato così i veri piaceri della vita: i sentimenti, le emozioni. La bellezza, la giovinezza eterna, avrebbero mai potuto sostituire l’amore? Sibyl era sacra, era sua. Avrebbe voluto sposarla, avrebbe voluto amarla pienamente. Avrebbe potuto farlo, mantenendo quell’anima putrida?
Correndo in lacrime, si ritrovò ben presto davanti alla sua dimora: incessantemente suonò il campanello e il maggiordomo aprì, perplesso. Dorian lo spinse, e d’un balzo si ritrovò al piano superiore.
Aprì lentamente la porta che lo separava dal sacrilegio: il dipinto era li, sotto un telo purpureo che non aspettava altro che essere distrutto. Le rughe contornavano gli occhi dell’uomo nel ritratto, il biondo splendente dei suoi capelli, era divenuto opaco, le mani non erano più quelle sinuose di un tempo. Ma quegli occhi, erano quelli che gli facevano paura: attraverso di essi, Dorian poteva scorgere il cuore di ghiaccio e l’anima scura che si erano impossessati di lui. Voleva vivere l’amore appieno, non solo l’amore carnale, quello non gli bastava più.
Impugnò in tagliacarte che trovò sulla scrivania e si avventò contro il dipinto.
La mattina seguente si svegliò sotto gli occhi stupiti di Henry, che si era precipitato in casa sua.
Dorian si sentiva meno giovane, ma libero.


up Torna su

LA METAMORFOSI

di Diego Capani
Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po' la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante. La sola cosa che gli riuscì di dire fu: - Oh, cazzo! Poi, piombò nel silenzio sconfortante dei suoi pensieri: Com’è potuto accadere? Proprio a me, un giovane di così bell’aspetto: alto, magro e con un portamento, tanto elegante, da far girar la testa a qualsiasi donna! Mio Dio, cosa” sono diventato? Uno schifoso scarafaggio, una sudicia blatta, di quelle che sguazzano nei rifiuti e si nutrono d’immondizia, oddio non che i pranzetti di mia madre fossero un granché meglio. Una voce lo fece sobbalzare sul guscio.
- Gregor, figlio mio apri la porta e fai uscire il procuratore! È un brav’uomo e di certo saprà spiegare al meglio, la nostra particolare situazione al tuo datore di lavoro! – disse la madre trattenendo a stento le lacrime. Era una donna piacente e, anche se ormai non più giovane, poteva ancora sedurre un uomo se lo avesse voluto. Il marito ne era talmente geloso che le permetteva di uscire solo dopo averle fatto indossare una barba finta.
- Madre non datevi pena per me, sto benone nonostante l’apparenza, credetemi. Lo stesso non posso dire per il procuratore… Per il bene di tutti è meglio che io rimanga chiuso nella mia stanza ancora per un po’. Tremo, al solo pensiero di quello che potrei fare. – Gregor riusciva a controllare meglio la sua voce e, seppur con molto sforzo, ora appariva meno “inumana” di quanto fosse all’inizio.
- Cosa hai fatto a quell’uomo, Gregor! È un tuo superiore, lascialo uscire se non vuoi perdere il tuo impiego! – lo supplicò la donna che non ebbe però alcuna risposta.
Il padre, che non stava più nei gangheri, si avvicinò alla porta e con il pugno ben chiuso, cominciò a batterla come un pazzo.
- Apri, mascalzone! Guarda, che se entro ti faccio passare la voglia di fare il cretino a bastonate! Con tutti i sacrifici che ho fatto per farti avere quel posto di “commesso viaggiatore”, e tu cosa ti metti a fare: la Blatta!
Petror Samsa era un uomo tutto d’un pezzo. Portava dei lunghi e folti baffi spioventi e aveva due spalle tanto larghe da fare invidia a un armadio. Quando quella mattina aveva visto il suo primogenito zampettare, come se niente fosse, per il soggiorno non l’aveva persa molto bene e, in preda al dolore, aveva tentato più volte di gettarsi nel forno rovente. Era il suo modo di dissentire.
- Apri immediatamente la porta e fai uscire il signor Ghuther… Subito!
- Padre, ve ne prego, calmatevi. Lasciate che vi spieghi… non volevo fargli del male. Ma è successo e forse questo è un bene, per noi tutti. Avrebbe certamente raccontato ogni cosa in ditta e mi avrebbero cacciato! Del resto, che colpa ne ho se al risveglio il mio corpo non è più lo stesso di prima? Credete forse che sia piacevole per me non avere né testa, né tronco, né braccia, né P… Oddio, non l’ho più!
- Cos’è che non hai più Gregor? – chiese la madre.
- Non ho più il mio P…, aaah!
- Il tuo P… cosa? – ribatté la donna.
- Il suo P…, cara. - intervenne il padre - Sta dicendo che no ha più il suo amichetto di giochi… capito?
- Oh, cielo! Povera Maruska… non vorrà più vederti. Sciagura, tremenda sciagura!
- Oh, non dire scemenze e fai silenzio adesso - le disse il marito stizzito - poi continuò: - Gregor, apri questa porta, lascia che la tua famiglia ti aiuti – questa volta il tono non era severo ma suonava invece quasi supplichevole - Tua sorella è andata a chiamare il veterinar… ehm, volevo dire il medico. Ho sentito di una medicina che pare faccia miracoli… si mormora in giro che il rabbino Heshen ne prenda un cucchiaio tutte le sere prima di coricarsi e avrai notato anche tu che sembra un ragazzino, malgrado abbia passato i cento anni!
- Cosa vai dicendo, Petror – disse la moglie – il rabbino Heshen ha tirato le cuoia l’anno scorso, quello è il figlio, il giovane Heshen.
- Ssst… dicevo tanto per dire, sciocca! Uhm, il figlio, ne sei proprio sicura?
- Certo che sì!
- Come sarebbe a dire che “Certo che sì”? – disse l’uomo con fare sospettoso.
- No… dicevo soltanto. Oh, insomma, Petror, non si può dire niente in questa casa senza che tu ne debba pensar male!
- Ah, è per questo che non ti perdevi neanche un sermone? Ora, tutto mi è chiaro!
Driiin, driiin…Bussarono alla porta di casa. I due trasalirono dalla sorpresa.
- Chi sarà mai? Su, sbrigati, vai alla finestra e vedi chi è, ma attenta a non farti scorgere!
La moglie obbedì. Neanche il tempo di sbirciare da dietro la tenda che già la donna si era ritirata tremante.
- Santo cielo! Finita, la nostra famiglia è finita! – e per poco non svenne.
- Chi è, dimmelo presto, presto! - urlò lui mentre la scuoteva energicamente tenendola per le spalle.
- Guarda tu stesso, marito mio…
Niente di meno che due delle guardie imperiali e un supervisore avvolto nel suo mantello tutto nero!
Improvviso, dalla stanza del figlio, provenne un rumore di vetri in frantumi seguito da un breve e singolare lamento. Poi, silenzio. I due rimasero in ascolto per qualche secondo. Tutto taceva. Fu il padre a farsi coraggio per primo e con una poderosa pedata sfondò la porta ed entrò.
Mosse non più di tre passi prima di scivolare su di una pozza gelatinosa che si stendeva irregolare poco distante dal letto del figlio. Era il sig. Ghuther, o meglio quello che una volta era stato il sig. Ghuther.
La madre nel frattempo aveva raggiunto la finestra e, con il dito puntato al cielo, esclamava: - Laggiù, guarda Petror, laggiù!
Sui tetti di Praga, Gregor Samsa si stava dando un gran da fare, sbattendo le sue enormi ali come un disperato e, ormai, era poco più che un puntino all’orizzonte.
- Scappa Gregor, scappa. Non abbiamo più un figlio, Petror. Perduto, per sempre.
- Sì, moglie mia, perduto… per sempre (grazie a Dio).


up Torna su

Sostieni la nostra passione!

Puoi sostenere l'attività divulgativa dell'Associazione culturale BraviAutori acquistando uno dei nostri libri, i nostri segnalibri e altro ancora.
Libri ed Ebook
Nella nostra pagina de IlMioLibro.it sono acquistabili i nostri libri su carta.
Nella nostra pagina di Lulu.com sono acquistabili i nostri libri in versione ebook.

Segnalibri

2 segnalibri a scelta saranno vostri con una donazione libera superiore ai 3,00 euro. Per ogni segnalibro in più occorre aggiungere 1,00 euro. Il costo della spedizione semplice (busta chiusa) è incluso nel prezzo. Se desiderate una spedizione raccomandata, occorre aggiungere 6,00 euro al totale. E' possibile richiedere segnalibri con grafica personalizzata. In tal caso i costi sopra citati vanno raddoppiati (tranne la spedizione). Tutti i segnalibri (disegnati da Bonnie) misurano 17,5x4,5 cm, sono plastificati e a doppia faccia.
Puoi sottoscrivere un abbonamento, usufruendo così delle varie agevolazioni previste.
E' solo grazie alla tua generosità che questo sito letterario può continuare a esistere e a offrire l'attuale supporto per una consultazione libera.
Grazie a tutti coloro che ci hanno sostenuto!


up Torna su

Copyright

Tutte le opere incluse in questo documento sono pubblicate sotto licenza Creative Commons (Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia - www.creativecommons.it). Le opere originali di riferimento si trovano sul portale visual-letterario www.braviautori.it.
Tu sei libero:
di riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare, eseguire e recitare queste opere.
alle seguenti condizioni:
Attribuzione. Devi attribuire la paternità di ogni singola opera nei modi indicati dall'autore o da chi ti ha dato l'opera in licenza e in modo tale da non suggerire che essi avallino te o il modo in cui tu usi l'opera.
Non commerciale. Non puoi usare queste opere per fini commerciali.
Non opere derivate. Non puoi alterare o trasformare queste opere, né usarle per crearne altre.
- Ogni volta che usi o distribuisci queste opere, devi farlo secondo i termini di questa licenza, che va comunicata con chiarezza.
- In ogni caso, puoi concordare col titolare dei diritti utilizzi di ogni opera non consentiti da questa licenza.
- Questa licenza lascia impregiudicati i diritti morali.
Gli autori delle opere pubblicate nel presente documento possono essere contattati personalmente attraverso le loro schede personali presenti nello portale www.braviautori.it.

up Torna su

Una produzione

www.BraviAutori.it
Questo sito offre la possibilità agli autori di inserire le proprie opere in qualsiasi formato (testi, immagini, audio e brevi video). Il sistema funziona con l'integrazione di un database molto dinamico che gestisce numerose statistiche indicizzate, recensioni dei lettori, tags cloud, un comodo segnalibro, un forum, una chat, un correttore di testi che vi cambierà la vita, la possibilità di creare una propria pagina web con link statico e un programma online per la scrittura collaborativa (come Wiki o Knoll), messaggistica immediata tipo messenger o tramite messaggi privati.
Nel nostro forum organizziamo gare di scrittura creativa, dove i migliori elaborati saranno pubblicati nei nostri e-book liberamente scaricabili.
Le nostre attività prevedono, inoltre, concorsi letterari, collaborazioni con altri siti letterari e associazioni, pubblicazioni periodiche su antologie cartacee o in ebook dei migliori lavori inseriti su BraviAutori.it, reading in diretta radiofonica e tanto, tanto altro.
Le opere inserite nel formato ODT (LibreOffice, OpenOffice), DOCX (Word), ePUB (Electronic Pubblication) e TXT saranno trasformate in pagine HTML e saranno udibili grazie a una voce automatica che leggerà il testo. Questa funzione è molto utile per i non vedenti.
Per tutti gli utenti (anche non iscritti) e per tutti gli autori che vogliono inserire una loro prima opera, il portale BraviAutori.it è totalmente gratuito!
Non indugiare oltre, ENTRA!
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia


braviautori
lettore di documenti EPUB (Electronic publication) - powered by www.BraviAutori.it
Nota: se questo documento appare molto diverso dall'originale o con gravi errori di impaginazione, probabilmente l'originale conteneva troppe formattazioni del testo annidate una nell'altra. Ti invitiamo, in ogni caso, a segnalare questo problema per darci modo di risolverlo. Grazie.