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Indice:
La gara
Prefazione
Lo spettacolo
Veri mostri
A un tragico tramonto …
Dicotomia di un dett…
Laverò i tuoi peccati
Nazione Zombi
La voce dei morti
7 gennaio 1983
Il racconto di famig…
Sostieni la nostra p…
Copyright
Una produzione

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La gara

Gara 35

ZOMBIE & INCIPIT

GENNAIO 2013
antologia per BraviAutori.it
da un'idea di Ser Stefano e Skyla75
Impaginazione e grafica: Ser Stefano
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

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Prefazione

Era una notte buia e tempestosa.
Non è vero. Sarà stata una mattinata sonnacchiosa. Skyla aveva parlato della sua voglia di fare un tema sugli zombie. Io quella mattina mi sentivo tale, uno zombie per capirci. Poi skyla aveva optato per un incipit, io ero contrario. Dopo trentadue e-mail non eravamo ancora approdati a un accordo.
Poi, l’idea. Due vincitori nella Gara precedente, due banditori in quella odierna. Perché no? Due bandi distinti.
Ser… sei un grande!
Ecco come il tutto è stato sottoposto ai gloriosi Braviautori:
Bando n. 1 - ZOMBIE
È stato scritto e visto poco su questi adorabili bipedi, vero?
Ma noi siamo pronti a scommettere che le vostre menti malate riusciranno a partorire qualcosa di originale.
Non occorre che gli zombie siano in primo piano (può anche esserci solo sullo sfondo uno scenario apocalittico zombesco) né deve essere per forza qualcosa di horror (la prima cosa che mi viene in mente è una storia d'amore dentro un supermercato assediato da lenti divoratori di carne umana).
Insomma... non siate banali.

Bando n. 2 - INCIPIT
Non sarà un vero incipit, ma bensì una frase da inserire a piacimento all'interno del racconto, all'inizio, centro o fine (e non sarà conteggiata nel numero di caratteri previsto).
La frase su cui costruire il racconto è facile facile:
L'incidente ebbe conseguenze spiacevoli. Il fotografo riteneva fosse nostro dovere acquistare almeno una dozzina di copie ciascuno, dal momento che il novanta percento della fotografia riguardava noi, ma noi rifiutammo. Non avevamo alcuna obiezione a essere ritratti a figura intera, ma preferivamo essere fotografati in posizione verticale.

Se qualcuno, tra voi amebe, riuscirà nell'arduo compito di unire i due bandi, riceverà un punto extra.
Alla fine della Gara, vince una Monica Porta in ottima forma (tra l’altro, l’unica ad aver unito i due bandi in maniera concreta), tallonata, a un soffio di distanza, da una spumeggiante Lorella in veste rosso sangue.
Terzo il solito Mastronxo, da circa dieci Gare sul podio, ma senza alcuna vittoria. Gli consiglio una buona fattucchiera.
Bando al bando, diamo il via ai sanguinosi racconti.
Gustateveli perché stavolta i Braviautori hanno dato il peggio di se stessi!


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Lo spettacolo

di Patrizia Benetti
Lo scopritore di talenti, il grande Oscar, dopo che gli fu sottratto Elephant Man, cadde in depressione.
Il grande palco illuminato per lui si era improvvisamente spento. L'uomo però non si dette per vinto ed ebbe un'idea strepitosa... Sì, adesso era pronto per un nuovo spettacolo!
Era così emozionato quel sabato sera, mentre indossava il suo sgargiante frac rosso. Doveva essere un ritorno in grande stile. Voleva stupire, divertire, sconcertare il suo pubblico.
Era una calda serata di primavera, tra un po' il sipario si sarebbe magicamente aperto e lo spettacolo sarebbe ricominciato più bello di prima.
"Venghino signori e non se ne pentiranno! Solo tre soldi e vi prometto che rimarrete a bocca aperta! Vi stupirò con ben due attrazioni eccezionali!".
La folla accorse numerosa, vogliosa di emozioni forti, e fu accontentata.
"Ecco a voi gli inimitabili, collerici, mostruosi giganti Flick e Flock!" disse il presentatore.
Fu così che apparvero sul palco, illuminato da luci psichedeliche, due esseri orribili, alti quasi due metri, dai volti cerei e dalle profonde occhiaie, vestiti di nero dalla testa ai piedi.
Non avevano alcuna obiezione a essere ritratti a figura intera, ma preferivano essere fotografati in posizione verticale. Abituati al buio e al silenzio, furono sballottati all'improvviso su una grande pedana. I giganti erano smarriti, abbagliati da quelle luci così potenti e frastornati dalle urla della folla. Si muovevano a scatti, goffi e legnosi come burattini.
Uno dei due pestò involontariamente i piedi all'altro che, imbufalito, gli staccò un orecchio con un morso.
La gente sembrava impazzita di gioia e di stupore e inneggiava a quel feroce combattimento.
Il gigante si gettò sul "collega", staccandogli a sua volta il naso! L’altro reagì troncandogli con un'accetta il braccio sinistro. Questi prese una sega elettrica e portò via al nemico la testa che rotolò sinistra sul palco. Il pubblico era in delirio. Fu una lotta senza quartiere che terminò col totale smembramento dei due lottatori.
Finito lo spettacolo, il bravo presentatore raccattò i pezzi dei suoi fenomeni e li caricò su un camioncino. A notte fonda si recò al cimitero.
Bussò tre volte a un uscio e la porta si aprì cigolando. Si affacciò il custode, un ometto dallo sguardo stralunato, con un grande sorriso sdentato, che scaricò il camion e fece sparire gli zombie. Poi allungò la mano destra, sporca di terra e l'uomo in frac gli diede cinque bigliettoni e disse: "Mi raccomando! Ne voglio altri due per sabato sera".


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Veri mostri

di Lodovico
“Ergon”: la parola greca che indica il lavoro. Era stato paradossale vedere sulla carta intestata della ditta Ergon S.r.l., l’annuncio che per lui il lavoro non c’era più.
“Licenziamento per riduzione del personale”. Il proprietario, il dottor Mazza, gli aveva spiegato che, con le nuove tasse imposte dal governo, aveva dovuto tagliare drasticamente i posti di lavoro. Il problema non era solo loro. In tutto lo Stato le aziende licenziavano. Ancora peggio. Non avrebbe trovato un altro impiego. Niente stipendio, niente soldi per la famiglia. Era finita.
Mario abbandonò definitivamente l’officina e si diresse verso casa chiedendosi come avrebbe fatto a pagare l’affitto del mese successivo. La porta si aprì sul modesto salotto rivelando sua figlia distesa sul divano davanti al televisore. Sua moglie gli venne incontro, come ogni giorno, e lo accolse con un bacio. Il cuore gli si spezzò.
Le sue mani decomposte riuscirono finalmente ad aprire la bara. Sentiva ancora in bocca il sapore acre del vomito che lo aveva soffocato la notte in cui, per la disperazione, aveva bevuto una bottiglia di whisky e ingoiato una scatola di sonniferi. Mario si alzò cercando di togliere un po’ di terra dal vestito buono che gli avevano messo il giorno del suo funerale. Si toccò il viso. Le ossa delle falangi sbatterono contro lo zigomo spoglio facendo un rumore come di legna secca. Era venuto il momento della vendetta.
Il responsabile della sua morte l’avrebbe pagata. Mario cominciò a camminare, incerto sulle ossa delle gambe, verso l’uscita del cimitero. Numerosi cigolii gli annunciarono che non era solo. Pochi metri e si unì a lui il suo collega ragioniere del secondo piano, con il cuore spezzato in due da un infarto per il dolore del licenziamento. E la segretaria del capo, imputridita sul fondo del lago dopo essere stata costretta a lasciare la sua casa.
I suoi occhi dalle palpebre grigie e decomposte individuarono il suo ex datore di lavoro a pochi metri da loro. Faticò a riconoscerlo, era dimagrito in modo impressionante e il colore terreo del suo viso si confondeva con il vestito marrone di ottima fattura. Non pareva in buona salute, anche per un altro dettaglio. Un impressionante buco nella scatola cranica. Se lo era fatto col suo fucile da caccia quando la Ergon S.r.l. era fallita. Lo sguardo di Mario lanciò un saluto. Il dottor Mazza si unì a loro.
La strada che li avrebbe portati a Roma era lunga. Da ogni cimitero qualche cadavere in giacca e cravatta o in tuta da operaio si metteva a marciare verso la capitale. Erano migliaia, centinaia di migliaia. Con un unico scopo, quello di vendicarsi di chi aveva provocato loro sofferenze e morte. Ne conoscevano benissimo il nome, era lo stesso nome con cui era definita la legge che aveva messo in ginocchio l’economia di mezzo paese.
L’ampio bicchiere panciuto conteneva una generosa quantità del cognac più costoso di Francia. L’uomo, panciuto come il bicchiere, ne gustò un sorso sorbendolo rumorosamente. Di fronte a lui un altro uomo, meno panciuto, rise, portando il liquore alle labbra. Improvvisamente la porta, le finestre, i muri, i cancelli della ricca abitazione risuonarono di rumori di ossa sbattute, di unghie sfregate, di teschi percossi.
Quando il Ministro delle Finanze sentì scuotere la porta ebbe un brivido.
Un brivido di piacere.
Davvero quei cervelli marci pensavano di coglierlo di sorpresa?
Terminò senza fretta il cognac. La stessa cosa fece il Ministro della Difesa seduto di fronte a lui, poi quest'ultimo prese il cellulare.
- Generale, tocca a lei.
I bagliori dei lanciafiamme dell'esercito illuminarono il salotto a giorno.
- Un altro sorso di cognac?- chiese il Ministro delle Finanze.
- Volentieri, stasera si festeggia, domani dobbiamo ricominciare a lavorare per l’Italia.


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A un tragico tramonto
segue sempre un’alba funesta

di Nunzio Campanelli
Infine giunse l’aurora, il cui debole chiarore consentì ai miei occhi di smettere di frugare invano nell’oscurità della camera, alla vaga ricerca dell’artefice di quei rumori inquietanti. Quando la sottile striscia di luce penetrante dalle feritoie della persiana iniziò a disegnare i bordi degli oggetti e dei mobili assumendo abbastanza consistenza da permettermi di vedere, mi alzai dal letto scostando le lenzuola madide di sudore. Provai, per l’ennesima volta e unicamente per ottenere la conferma sulla fondatezza dei miei timori, ad accendere la lampada sul comodino. Nessuna luce apparve evocata dal clic dell’interruttore.
Avevo raggiunto quella locanda la sera prima, durante un temporale che aveva reso impossibile pensare di proseguire il tragitto. Stavo tornando a casa dopo essere stato nei luoghi in cui ero nato per seppellire la mia anziana madre, improvvisamente deceduta. Mio padre non l’ho mai conosciuto.
Lasciata l’auto davanti all’ingresso entrai nella solitaria hall, sperando di poter ottenere un alloggio per la notte. Ero così stanco che desideravo solo dormire. Suonai il campanello per richiamare l’attenzione del padrone o di un suo eventuale dipendente, ma non rispose nessuno. Immaginando che potesse essersi allontanato per esaudire le richieste di qualche cliente mi sedetti sul divano del salotto. In poco tempo mi addormentai.
Al risveglio mi ritrovai in camera, spogliato dei vestiti e senza più orologio, disteso sul letto sotto le coperte che, a giudicare dalla polvere, non venivano usate da mesi.
L’assenza di corrente elettrica, la porta chiusa a chiave, le finestre bloccate, il buio più assoluto, nessun segno di vita dalle stanze adiacenti e le mie urla inascoltate, provocarono una regressione mentale che mi spinse a rifugiarmi sotto le coperte, nel perpetuarsi di un arcano gesto puerile, evidente segnale del mio convincimento della presenza di alieni e oscuri voleri.
Poi iniziarono i rumori. Dapprima impercettibili, di seguito sempre più evidenti. Fruscii, sordi colpi alle pareti, un lento salmodiare di cori lontani, urla che sembravano provenire dalle cantine, e quel pianto, quello strenuo singhiozzare che a fasi alterne si avvicinava per poi allontanarsi di nuovo. Provai a pregare, a supplicare di smetterla, di lasciarmi stare, ma in breve mi resi conto che nessuno mi stava ascoltando.
Trascorsi così l’intera notte, la cui durata mi parve interminabile, nell’attesa di un nuovo giorno che speravo riconsegnasse il mio destino a vicende di normale comprensione.
I rumori cessarono non appena il primo sottile raggio di luce si insinuò nella stanza e finalmente riuscii a vedere il luogo in cui avevo trascorso quella terribile notte, ma quello che si presentò ai miei occhi aumentò a dismisura la portata del mio terrore. Ebbi chiara visione del significato delle parole che avevo letto la sera precedente prima di addormentarmi sul divano, senza comprenderne il significato. Su una parete del soggiorno, in mezzo ad altri dipinti, c’era un quadro che rappresentava lo stesso panorama in due diversi momenti del giorno, il tramonto e l’alba. Non vi feci caso, ieri sera, ma ora rammento, il quadro rappresentava la locanda, e in un riquadro in mezzo al dipinto vi era scritto “ A un tragico tramonto sempre segue un’alba funesta”.
Le parole non bastano per descrivere l’immonda progenie di esseri che popolavano la mia stanza, rannicchiati in fondo al letto, intenti a osservarmi con attenzione. I loro volti disfatti non mostravano tracce di umanità, d’altronde credo che non appartenessero né a questo mondo né a questo tempo. Lentamente cominciarono ad avvicinarsi muovendo le loro membra disarticolate, e ripresero i rumori, sempre più forti, sempre più opprimenti. L’orrore, l’indicibile paura che provavo alla loro semplice visione attenuava la mia comprensione di quegli eventi, e di nuovo preda del terrore compii lo stesso puerile gesto della notte appena trascorsa, rifugiandomi sotto le coperte. Ero circondato dai morti viventi, dagli zombie. Solo allora mi resi conto che stavo rivivendo lo stesso incubo che popolava il mio sonno da bambino, facendomi svegliare di soprassalto per poi rifugiarmi sotto le coperte gridando e piangendo, finché non accorreva mamma.
Ora gli stessi mostri stavano emergendo dal passato per popolare la mia vita da adulto, materializzati non so da chi o cosa, abitando quell’incubo a occhi aperti che sembrava non finire mai. Io urlavo, ma chi, chi poteva ormai correre in mio aiuto?


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Dicotomia di un dettaglio

di Monica Porta may bee
L'odore di morte e stantio saturava l'aria nella stanza. Con Alicia questo era tutto il mio mondo.
Eravamo entrambi in ospedale per il turno di notte. Come patologo forense accreditato avevo anche diritto a un'assistente personale: Alicia appunto.
Allungai le mani. Lei sorrise e mi concesse il brivido.
Che c'era poi di male a farlo? Niente. Era quasi mezzanotte e nessun caso si profilava all'orizzonte. Avevo appena stretto i miei fianchi contro i suoi, le bocche incollate ai respiri, le dita che già toccavano la pelle, quando la porta si spalancò e un fotografo mi rovinò la fine.
Dietro di lui irruppe un'orda d'infermieri terrorizzati in cerca del mio aiuto.
I paramedici tenevano le mani strette sulle cinghie di sicurezza dei sei lettini che a stento trasportavano. Le fasce d'acciaio legavano ciascuna le salme distese.
Il reporter scattò. La mia sala operatoria dal silenzio tombale ora sembrava il mercato di Bagdad in un giorno d'estate.
Stavo per costringere l'intruso a consegnarmi il rullino, ma vidi l'espressione terrorizzata di Alicia nel guardare i cadaveri e l'attimo passò. Il reporter fu invitato a lasciare la sala dalle guardie della security che erano sopraggiunte in corsa, togliendomi così la possibilità di recuperare lo scatto rubato.
Mi fermai a pensare mentre mi rivestivo. Alicia no. Alicia urlò e si arrabbiò. Arrivò persino a insultarmi per la mia mancanza di spirito nell'affrontare il pubblico imprevisto. Indossò il camice slacciato e scappò dall'uscita di emergenza lasciandomi solo ad affrontare il nuovo lavoro.
Rimasi per un istante sotto shock, poi il professionista che ero recuperò il sangue freddo.
Mi avvicinai ai lettini. Accesi il microfono e cominciai l'indagine.
Avevo di fronte sei maschi adulti, d'incerte origini considerando i lineamenti e la stazza che sbordava dai supporti. Erano orribili alla vista, e puzzolenti da vergogna.
Trattenni i conati dietro la mascherina d'ordinanza. Dallo stato di decomposizione dei corpi non esitai a pensarlo: quelli che vedevo erano diventati cadaveri da anni.
L'espressione rigida dei volti mi ricordava le maschere vendute per le feste di costume. I corpi butterati da pustole e tagli sfidavano la perfezione nel panorama zombesco, tanto erano credibili.
Potevo già ipotizzare che il gruppo fosse stato vittima di un macabro gioco di ruolo.
Provai a toccarne uno: il ginocchio reagì prontamente.
Sobbalzai all'incredibile stupore. Gli uomini che stavo per sezionare erano ancora vivi. A questo punto non potevo più negarlo: erano morti viventi.
Guardai stranito i miei colleghi cercando di capire se stavo impazzendo.
«Non hai sentito i rumori dal pronto soccorso? Li abbiamo dovuti sedare con dosi da cinghiali» disse il capo reparto asciugandosi il sudore dalla fronte, e gettandomi ancor più nello sconforto.
Mossi la testa negando l'accaduto. Un rossore acuto per l'imbarazzo mi scaldò il volto.
Intervenni d'istinto e recisi la giugulare del primo. Il gigante non se ne accorse nemmeno.
Ripetei lo stesso trattamento con gli altri e chiesi di rimanere da solo con i morti.
Fu il mio errore più grande.
Si rialzarono dopo un'ora e non potei che sedermi ascoltandoli parlare.
Scandivano poco le parole, stentavano a trovare i termini appropriati ma si notava che erano state persone intelligenti.
«Dottore, il bisturi per noi?» uno mi rise in faccia.
Considerata la loro grave condizione, non mi arrabbiai.
«Un dottore salva le vite, non le uccide mai se non per necessità» ribattei calmo «vediamo invece di capire come posso aiutarvi. Perché è questo che volete da me, dico bene?» continuai con il tono più gentile che sapevo riprodurre.
Mi sorrisero tutti.
«Ricorda "Marcinelle"? Nessuno venne a prenderci» disse un altro.
Spalancai gli occhi. Era un caso che trent’anni prima aveva fatto notizia in Belgio e Charleroi distava solo pochi chilometri dall'ospedale. Io stavo guardando un miracolo: sei minatori uccisi dal lavoro tornati chissà come per raccontare al mondo i fatti.
Mi trattenni dall'imprecare alla sfortuna ammettendo che erano italiani come me.
«Vi aiuterò» dissi alla fine «dovete avere fiducia»
I sei acconsentirono a grugniti.
Così ordinai loro di sdraiarsi di nuovo sui lettini. Obbedirono e la cosa mi dispiacque. Speravo comprendessero che non potevo fare altrimenti ma non mi arrischiai a renderli partecipi delle mie intenzioni. Attivai il pulsante che apriva l'ingresso del forno crematorio. Non urlarono nemmeno.
Fu allora che pensai di capire. I mostri quella notte volevano morire.
Il fuoco si sprigionò, lì incenerì come carta.
Fu una notte lunga. Quando il mattino apparve, non vidi Alicia. Davanti a me c'era il reporter della sera prima che ritornava all'attacco. Per la foto del nudo mi chiedeva soldi, diecimila euro per l'esattezza.
L'incidente ebbe conseguenze spiacevoli. Il fotografo riteneva fosse nostro dovere acquistare almeno una dozzina di copie ciascuno, dal momento che il novanta percento della fotografia riguardava noi, ma noi rifiutammo. Non avevamo alcuna obiezione a essere ritratti a figura intera, ma preferivamo essere fotografati in posizione verticale. Parlai anche per Alicia, certo che non avrebbe voluto cedere a ricatti. Dopo aver espresso il mio pensiero, lo fissai negli occhi. Forse fu il mio sguardo a fargli cambiare idea perché arretrò verso l'uscita, ma non perse il suo vizio maledetto. Scattò a ripetizione, di nuovo e senza il mio permesso.
Non riuscii più a trattenermi.
Lo afferrai. Sentii le sue ossa scricchiolare sotto il mio attacco.
Sotto i morsi degli zombie ero diventato più forte. Cominciai dalla gola affondando gli incisivi.
Il beep della macchina fotografica continuò a immortalare l'evento, ma a me non importava più di nulla, ormai.
Io ero già morto.


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Laverò i tuoi peccati

di Lorella15
Oggi sono stato in parrocchia, la mamma ha detto che ora il pomeriggio devo andare lì perché lei lavora e non posso stare a casa da solo.
C'erano tanti ragazzi, abbiamo fatto i compiti, poi giocato. Ci sono i biliardini, il campo da calcetto, un sacco di giochi. Io non ci volevo andare invece mi sono divertito. Anche il prete è simpatico. Mi ha presentato gli altri ragazzi e mi ha detto che se ho bisogno di aiuto di chiedere a lui.
Prima il babbo non voleva che andassi in parrocchia, diceva che i preti sono tutti falsi. Ora che lui non c'è più invece la mamma vuole che ci vada. Ma chi li capisce 'sti grandi!
Don Claudio è molto simpatico, scherza sempre con me, anche se sono l'ultimo arrivato. Quando ha saputo che il mio babbo è morto, mi ha detto che ora è con Dio e non devo essere triste. Il babbo dal cielo mi vede e veglia su di me. Io in queste cose non ci capisco niente, forse se vado al catechismo poi capirò meglio come funziona.
Da quando vado al doposcuola di Don Claudio, sono più bravo a scuola, la maestra è contenta. Don Claudio mi ha detto che ha tanti libri per bambini e che se voglio posso prenderli in prestito, così imparo a leggere meglio e più veloce. Domani vado a scegliere un libro da portare a casa.
Mamma mia quanti libri ci sono! Sono divisi per età, Don Claudio mi ha fatto vedere lo scaffale sette/otto anni. A me piacciono quei libri con le figure, c'erano quelli con i dinosauri, sembravano veri.
Poi c'erano anche dei libri per le femmine, a me quelli non piacciono. Don Claudio mi ha chiesto se so la differenza tra un maschio e una femmina. Io gli ho risposto che le femmine hanno la patata e i maschi il pisello. Lui mi ha detto che non ci credeva che ero un maschio perché avevo i capelli lunghi ed ero così carino che secondo lui ero una femmina. Io gli ho risposto che c'avevo il pisello e allora mi ha chiesto di farglielo vedere. Io un po' mi vergognavo, ma lui mi ha detto che era come se lui fosse il mio babbo e allora gliel'ho fatto vedere.
Ho fatto vedere alla mamma il libro con i dinosauri. Mi ha detto che è contenta che il pomeriggio sono al sicuro. Però se è contenta perché quando va a letto piange sempre?
Oggi ho giocato a calcetto e ho sudato molto. Gli altri bambini sono andati via, sono rimasto solo io perché la mamma lavorava fino a tardi. Allora don Claudio mi ha chiesto se volevo fare la doccia. Io ho detto di sì, perché la mamma si arrabbia sempre quando sudo, dice che poi mi ammalo. Io non voglio farla arrabbiare, è sempre così triste. Però mi piace giocare a calcio. Don Claudio ha voluto fare la doccia con me. Anche con il babbo facevamo la doccia insieme al campeggio. Mi ha insaponato tutto con le mani e voleva che lo insaponassi anche io. Io non lo volevo fare, ma lui ha detto che i bambini devono fare quello che dicono i grandi, che questo ero un segreto tra me e lui, perché io ero il suo "eletto" e se facevo quello che mi diceva la mia mamma non avrebbe più pianto.
Io alla mamma non volevo dirglielo, ma si è accorta subito che avevo fatto la doccia perché mi profumavano i capelli. Mi ha preso in braccio e si è fatta raccontare tutto, lei lo sa che a me i segreti non riesce di tenerli. Poi ha detto una parolaccia e che il babbo aveva ragione e se c’era un Dio doveva impedire queste cose. Mi ha stretto forte forte e si è messa a piangere. Ha detto che non andrò più in parrocchia. Ma chi li capisce 'sti grandi!
Io che ho vissuto lontano dai comandamenti della chiesa, ma fedele ai mie principi, ho venduto quell’anima a cui non ho mai creduto per poter assaporare la vendetta. Ora bramo solo sangue e carne a placare la sete e la fame di questo corpo mostruoso che non riconosco, che si sazierà solo affondando le unghie e i denti nelle viscere di quell’essere corrotto che si nascondeva sotto una veste da donna, dietro una croce. Eccolo, l’acqua scorre sul suo corpo, quell’acqua che non potrà mai mondare le sue colpe, solo il sangue laverà i suoi peccati. Mi muovo lento in questo corpo pesante, mi ha visto, si fa il segno della croce, ancora una volta vorrebbe nascondersi dietro quell’emblema che per anni l’ha protetto. Ma ora sono io più forte, attraverso la tenda, affondo le mani nel suo ventre che si apre come burro, sazio quella fame che non è solo di carne. Ho fatto giustizia, quella giustizia che non avrebbe fatto né l’uomo né Dio. Oro posso andare, non so cosa succederà alla mia anima, ma so che solo il fuoco può liberarmi di questo corpo. In chiesa, devo scendere in chiesa, lì non mancherà il fuoco…
Sono successe delle cose strane. Il babbo non è più al cimitero. Hanno trovato la bara aperta e il corpo del babbo non c'è più. È successo come a Mike Bongiorno, il corpo è stato "trafugato", così c'era scritto nel giornale che la mamma aveva nascosto.
Poi un'altra cosa ancora più brutta. Anche Don Claudio è morto, lo hanno trovato nella doccia tutto sbranato, come se lo avessero mangiato i cani. Eppure chiudeva sempre a chiave quando faceva la doccia.


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Nazione Zombi

di Alessandro Pedretta
(fuori gara)
È un mondo normale.
La normalità si identifica per non avere picchi di nessun genere.
La normalità si equilibra in pantomime di vite registrate che hanno un fine, cercano di compierlo, perdono, vincono, chi si uccide e chi guadagna.
Sempre uguale, chi ha la meglio, chi la peggio.
C’è la stima e la precarietà, il potere e gli affetti, la perdita e la solitudine.
Tutto comunque stabilito.
Il karma si distingue per non avere decisionalità propria.
Si insinua a casaccio e approda nelle vite in termini indecifrabili.
Il karma vaga e si butta, inconsapevole.
Il karma se ne fotte.
Chi ne fruisce gode.
Chi non lo possiede soffre.
Abbiamo nugoli di pendolari che salpano da una sponda di consuetudini insopportabili compresse tra famigliari cene strazianti, una TV come droga ipnotica, battesimi di mostruosi nipoti sconosciuti e sconsolanti Natali sotto alberi ammiccanti, per approdare a quelle sponde infernali che sono assoggettamento a un capo ufficio con alitosi e un ego in erezione, il peregrinare della mente dentro sadici grafici aziendali e deliranti pause caffè condite da grottesche maldicenze incentrate sui culi straripanti delle segretarie.
Non lo sappiamo ma questo è morte.
Ci glorifichiamo tra elisir al sapor di trionfo carrieristico, misurandoci l’estensione dell’auto cromata e il numero d’amanti perforate in serate alcoliche.
È un preludio alla fine.
Il limbo del peccato originale che ha assunto la forma di un guardaroba alla moda e mazzi di biglietti da visita cesellati con dorate lettere in rilievo.
I treni dei pendolari sono la barca di Caronte in perpetuo viaggio.
Andata e ritorno.
Purgatorio e inferno. Interscambiabili.
Costante transumanza di morti che non sanno d’esserlo.
L’ignoranza della propria involuzione cadaverica.
Alla fila 9 del vagone centrale al posto 14 l’impiegato a cui è stato dato il nome Pietro si aggiusta la cravatta, il colletto è a posto, la camicia linda e ben stirata, ma un pezzo di carne in un lembo sottile si apre come l’ala di una libellula dallo zigomo, e con le scosse del treno sbatte ritmicamente come un macabro metronomo di carne strappata.
Pietro è morto, certo, ma non lo sa.
È lo zombie del progresso.
Il Dio dei necromanti è il Capitale.
Maestro di morte: il denaro.
Ti dicono: gestisci la tua vita, creati una famiglia, vai a Messa.
E il giorno dopo è peggio, le tue energie vengono incanalate completamente in quella sorgente di finta sicurezza che il telegiornale della sera promette tra stupri vicini e guerre lontane, che lo Stato ti obbliga a ingoiare, che la pubblicità ti costringe a credere.
Bush è uno zombie
Reagan è uno zombie.
Il Mahatma Ghandi è uno zombi desnudo che resta immobile.
Buddha, Allah e Cristo sono zombi in tunica che ti esortano a rinascere. C’è chi ti incita a sfamarti del suo corpo, anche.
Le banche rinchiudono in casseforti computerizzate il sudore dei morti deambulanti, il frutto del loro sangue in cassette dai codici numerici inviolabili, l’energia dei vivi tramutata in morta materia interscambiabile.
Pietro è seduto sul treno. Pendolare tra i pendolari. Morto tra i morti.
Pietro cerca di aprire gli occhi ma una patina opaca come un’appiccicosa membrana pare cementargli le palpebre.
Con quel poco di spiraglio dal quale le pupille grigie riescono a far passare la vista riesce a intravedere gli altri morti, gli altri zombi, gli altri impiegati, i pendolari, il circo ambulante del lavoro salariato. Assiepati sui sedili o barcollanti lungo i lucidi sostegni orizzontali i loro corpi dinoccolati sembrano scomparire all’interno dei doppi petto Hugo Boss, le profumate giacche D&G, gli spessi occhiali Bulgari da cui traspaiono quelle ferite a forma di foro che sono gli occhi.
Questi vagoni, che sono un supplizio immatricolato, e continuo, inesauribile e sempre uguale, sono le vetture psicopompe di una realtà distorta.
Abbiamo generato morti, siamo morti.
E oggi ci divoreremo.
Non basta il portafoglio gonfio come una bibbia appoggiato al cuore. E neanche la villa con sensori telecomandati. Neppure l’aggressivo pastore tedesco addestrato per uccidere e con pedigree di fama.
Pietro si alza di scatto e sferra un morso al morto vicino di posto. Allo zombi al suo fianco uno schizzo di sangue gli macchia la giacca in un punto esclamativo e anch’esso si alza e afferra alle spalle l’impiegato barcollante davanti a lui, gli stringe le tempie e con una secca mossa di polsi gli spezza il collo. Si avvinghia al corpo piegato come un manichino spezzato e morde, accanito, con rabbia psicotica. Il sangue crea sfumature vermiglie negli spruzzi sui finestrini ermeticamente chiusi e la sua bocca si fa rossa e grugnisce, rantola, gorgheggia tra la carne dilaniata.
È un orgasmo di redenzione non-morta.
Necrofilia nirvanica.
È la vita.
È la morte.
È una speranza sconfitta.
Il vagone diventa un bolgia da macelleria dantesca.
I corpi accecati da smania assassina. Carne che scricchiola su incisivi bramosi.
Volevano vivere con delle certezze.
L’hanno sempre detto i nostri vecchi: l’unica cosa sicura è la morte.
Ora sul treno c’è in atto un’opera di amalgama di corpi che si azzannano in golosa voglia di sangue.
È un’orgia dell’assassinio di ciò che è già morto, in verità.
È una zuffa di pelle strappata, di arti divelti e ghigni distorti, di organi interni che decorano le pareti come rosse ghirlande gocciolanti.
Un pene strappato è conteso da due zombi che lo strattonano sbavanti, lo scroto penzolante che segue ritmicamente la sfida di forza.
La normalità si identifica nel non avere picchi – perciò la morte si mangia la morte.
La morte si annusa e si ricerca.
I vivi, in mezzo, aspettano un’occasione.


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La voce dei morti

di Mastronxo
“Ho sempre avuto paura di papà. Sempre, anche dopo la sua morte.
Eppure, quando l’altro giorno l’ho visto in piedi davanti alla televisione a guardare lo schermo, inebetito, stavo quasi per tirare dritto senza neanche accorgermene. Già. Lo sapevo che non sarebbe mai morto, neppure dopo morto.
Quel maledetto non se ne vuole proprio andare.
Scommetto che adesso è giù da basso che gironzola per il salotto, oppure se ne sta a sbavare sul lettone.
Bastardo.
Un distante rumore di cocci in frantumi.
Ah, chissà cosa sta combinando. Mi verrebbe voglia di andare giù a piantargli la piccozza nella testa. Ma a cosa servirebbe? Meglio lasciare le cose come stanno, temo di aver già fatto troppi...
Un frastuono assordante. Qualcosa di enorme è crollato.
Oh, cavolo! Adesso gliela faccio vedere una volta per tutte, gliela faccio!
Il calpestio dei piedi nudi sul pavimento.
Poi, gli stessi piedi che scendono le scale. Cauti. Prudenti.
In sottofondo un lamento, sempre più vicino. Fa affluire il ghiaccio nelle vene.
Papà… Ma la vuoi smettere? Che hai combinato? Oh, no… L’armadio!
Il lamento diventa un gorgoglio. Pare la risata di un impiccato.
Non c’è niente da ridere! Adesso te ne stai lì, che se no ti tagli con tutti quei vetri. Vado su a mettermi le scarpe e poi sistemiamo. Non muoverti!
Piedi nudi salgono le scale.
Cavolo, non riesco a odiarlo. Perché non riesco a odiarlo? Devo avere qualche malattia che mi impedisce di volergli male! Vedo un morto che se ne sta a sguazzare in mezzo ai vetri, un morto che tira giù un intero armadio, un morto schifoso che tiene tra le mani la nostra fotografia, e cosa riesco a fare io? A impietosirmi! Sono un debole e nient’altro, ha ragione la mamma. Dovrei spararmi in faccia, ecco cosa.
Il cigolio di una porta aperta.
Poco dopo piedi pesanti, non più scalzi, che scendono i gradini.
Papà? Papà! Ecco, lo sapevo. Se n’è andato. Tanto meglio, non mi sarebbe di grande aiuto.
Imprecazioni infantili intervallano il cigolio dei vetri che vengono raccolti.
Una scopa struscia sull’impiantito, raccogliendo i rimasugli.
Poi un aspirapolvere.
Il più è fatto. Papà! Da solo non ce la faccio a tirarlo su!
... Papà? Ma dove sei?”
La registrazione si interrompe. Non c’è altro.
L’ispettore Morabito Alfredo si porta le mani al volto, strofina con forza come per lavare via il sonno, la stanchezza. Non serve.
Sei giorni prima era arrivata una bella signora, elegante. Aveva tirato fuori dalla borsa un piccolo registratore audio, di quelli che vanno forte adesso.
I più li usano quando si allontanano di casa per un po’. Li mettono in camera da letto, o in salotto, o nei pressi del telefono. E così vengono a scoprire cose spiacevoli, del tipo che il marito non ha più un soldo e chiede prestiti ai colleghi, che la moglie fa cigolare le molle del letto fino alle quattro del mattino, che il figlio quattordicenne ha simulato una rapina in casa per procurarsi l’eroina.
Quei cosi infernali vanno avanti a registrare per più di una settimana.
«L’ho trovato in salotto qualche giorno fa» aveva detto la donna. «Ogni volta è in un luogo diverso. Stavolta, come dicevo, sul tavolo del salotto. Quando era piccolo, mio figlio se lo portava sempre appresso: era un regalo di suo padre. Gli piaceva tenere un diario vocale, sa? Lo sentivi discutere con se stesso tutto il tempo. Ascoltiamolo insieme, la prego» aveva supplicato, suadente.
Morabito avrebbe scoperto più tardi che quella malizia rappresentava solamente una maschera: la donna era sul baratro della pazzia, non dormiva da giorni. Il trucco nascondeva lo sfinimento solo a uno sguardo superficiale.
«Signora, sarebbe il caso che mi spieghi prima cosa contiene.»
«No, non servirebbe spiegare, agente.»
«Ispettore.»
«Non servirebbe spiegare, ispettore» la donna era rimasta rigida sulla seggiola a fissarlo con quegli occhi da fattucchiera, fino a quando lui non aveva abbassato i propri.
Una volta che entrambi ebbero ascoltato il file, lei aveva cominciato a parlare.
E Morabito era giunto alla conclusione che l’orlo della pazzia fosse stato già superato da un pezzo, in quella donna. Fino a quando lui stesso non aveva svolto delle ricerche, che non avevano smentito quanto gli era stato riferito quel giorno.
Lei era la madre di quel ragazzino, quello che parlava nella registrazione. Si chiamava Giovanni, aveva undici anni ed era stato ripetutamente violentato dal genitore negli ultimi cinque.
«Io lo sapevo, certo che lo sapevo» aveva detto la donna. «Tutte le madri sanno, quando succede. Ma non lo volevo credere, e non volevo… Sa, un bambino ha bisogno anche di un padre. Sembrava che si dimenticasse sempre tutto. Sembrava felice.»
Quelle parole così fredde, così calcolate, lo avevano fatto rabbrividire.
«Poi suo padre, mio marito… È morto. Caduto dalle scale. Sono quasi sicura che sia stato un incidente, sa, il bambino non lo odiava per davvero. Non avrebbe mai potuto spingerlo.»
La verità che Morabito aveva intravisto in quel discorso era ben diversa. Tuttavia, non aveva commentato. Stava ancora cercando di capire come si sarebbe potuto concludere il racconto. Probabilmente, il bambino soffriva di epilessia o di un forte disturbo dissociativo, dovuto all’assassinio del padre, avvenuto per mano propria, e alle violenze subite. E si era ricreato un mondo in cui il padre fosse ancora in vita.
«Il piccolo Giovanni è morto sette giorni dopo» aveva concluso la donna senza scomporsi.
Morabito si era sporto in avanti sulla propria scrivania. «Come ha detto, scusi?»
«Ha inghiottito tutte le pillole dal flacone. Non avrei dovuto lasciarle lì, lo so, non mi guardi con quella faccia. Non è stato un incidente, era pentazemina e lui sapeva che tutta quella roba l’avrebbe ucciso.
Continuava a ripetermi che suo padre era vivo e si muoveva nel salone tutte le notti, che era tornato e non sarebbe mai morto» lo sguardo della donna si era fatto sognante, la voce delicatissima, «non avrei dovuto lasciare il flacone lì sul tavolo, vero? Non trova?» un sorriso le era affiorato all’angolo della bocca. «Non mi faccia rinchiudere per questo, la prego. Sono stata una buona madre, l’ho fatto per lui. Non ce la faceva più…»
L’ispettore Morabito, disgustato dai propri ricordi e da quanto non riesce ancora ad afferrare, guarda l’orologio. Tre del mattino.
Il padre è morto tre anni fa. Il bambino è morto sette giorni dopo il padre. La registrazione risale a neanche dieci giorni prima. È tutto vero, tutto documentato. Il file non ha subìto modifiche.
Chi è che parla, in quel registratore?
Rabbrividisce.
Clicca sul file per la trecentosessantasettesima volta.


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7 gennaio 1983

di Exlex
Al mio risveglio, tentai di aprire i miei liquidi occhi appiccicosi.
Una sostanza giallastra li ricopriva. Tersi le palpebre che si schiudevano a fatica.
Non mi muovevo con grazia: sentivo le mani gravi e poco controllabili. Mi resi conto solo dopo che, dei due occhi che credevo di possedere, di uno era rimasto solo un'orbita vuota. Aprii la bocca. La mascella ballonzolò. Una mano calda, molto più calda della mia carne, si avvicinò a chiuderla con dolcezza.
Era un uomo. Mi fissava con commozione, come fossi un bambino appena nato che era stato dato in braccio al papà. Mi passò una mano sulla fronte, scostando i miei radi capelli che parevano paglia scura. Una lacrima scese da quegli occhi verde acqua. Un sorriso si aprì su quel volto circondato dai chiari capelli.
Ritirò la mano. Mi parlò.
In quel momento, ero davvero come un bambino appena nato. Non potevo rendermi conto di niente, eppure scrivo in questo diario ogni sensazione provata.
Non credo lui si renda conto di quanto ha creato.
Non capii ciò che mi stava dicendo, ma qualcosa dentro di me lo registrò.
E lo elaborai in seguito.
Era felice. Si chiama Jeffrey. Ed è ancora felice, quando mi vede.
Quando imparai a muovere i primi passi – caracollanti, scoordinati, mossi senza alcun barlume di equilibrio – imparai, o meglio, “guardai alle mie reminiscenze”, come dice Jeff, a capire e ad articolare il linguaggio. Mi insegnò a scrivere e a leggere, poiché sembravo non ricordare più nulla.
Lui disse che prima di nascere così avevo un'altra vita, prima. Mi ha insegnato a ricordare ciò che sapevo fare, cose così.
Disse che mi chiamavo Steven.
Avevo una ragazza, ma lui se l'è mangiata. Quando me lo disse sentii una stretta allo stomaco, ma null'altro. Ha sempre voluto che ricordassi ciò che desiderava lui.
Mi illustrò il modo in cui mi aveva “creato”. M'invitò a portare le mie dita cedevoli sul profilo sinistro del cranio, a scoprire un foro che aveva praticato Jeff stesso. M'invitò a infilarvi le dita, accarezzando l'osso. Liquidi scuri che non conosco escono ogni qualvolta lo faccio.
Jeff mi insegnò a capire le base della chimica. Acido cloridrico. Disse che era la chiave per la vita.
Disse che nessun uomo al mondo prima di lui era riuscito a creare uno zombi.
Io non provo dolore, non sento il caldo e il freddo, ma il barlume di ogni sensazione proveniente, credo, dalla mia precedente esistenza. Jeff mi ha spiegato tutto.
A volte mi fa voltare e mi fa sentire qualcosa di duro. Sento qualcosa a livello del bacino, sento la sua pelle che si fa più calda rispetto alla sua solita temperatura.
Sento.
Non sento.
Non saprei descrivere questo aspetto di me. Jeff mi disse poco tempo fa che aveva provato a creare un altro zombi. Ma lei era sopravvissuta solo poche ore dopo la lobotomia con l'acido cloridrico. Non era stata fortunata come me. Evitò di farmela vedere, e stette via un'intera notte per portarla fuori Milwaukee.
Jeffrey ha sempre paura che io faccia come lei, che improvvisamente mi accasci al suolo senza un lamento, che muoia una seconda volta. Sì, perché a quanto pare sono già morto. La mia pelle non è rosea come quella del mio creatore, la mia unica sclera non è così bianca.
Sento una voce: Jeff mi chiama, devo dargli una mano. Deve aver portato un altro aspirante zombi, o del cibo. Capita che porti persone già morte, e le mettiamo in frigo. Sono molto buone.
Continuerò domani sera a scrivere. Credo di essere diventato abbastanza bravo e ci sto davvero prendendo gusto.


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Il racconto di famiglia

di Freecora
- Sai come abbiamo cominciato a fare i modelli, tua madre e io? – Andrea pose la domanda con tranquillità, ma un luccichio negli occhi faceva presagire un colpo di scena ben mascherato.
- Papà ancora racconti quella storia? – Antonio intervenne, entrando in cucina, con tono annoiato, ma condividendo uno scherzo segreto col genitore.
Elena non conosceva quella storia. Aveva sentito spesso i suoi fratelli ridere riguardo alla professione dei genitori, quando erano ancora giovani fidanzatini, ma non era mai riuscita a comprenderne il divertimento. A sedici anni ormai conosceva bene le attrattive del sesso, ma sapeva anche che per i suoi familiari restava ancora la piccola di casa e quindi troppo ingenua per determinati racconti. Quindi, quel racconto, doveva riguardare la sfera sessuale. Come mai il padre aveva deciso tutto d’un tratto che era cresciuta?
Non mostrò avido interesse e neppure noia, solo l’indifferenza avrebbe spinto l’uomo a spifferare tutto.
- Quell’anno la nostra scuola decise di seguire la moda statunitense del ballo di fine anno, tenuto nell’edificio. Eravamo entrambi andati alla festa come singoli…
- Si dice single, caro – lo interruppe la moglie. Anche lei giunta per godersi il racconto. Per la milionesima volta forse.
- Allora si diceva singoli e, se debbo raccontare, voglio essere fedele al tempo. O vuoi farlo tu?
- No continua pure.
- Lo sai papà che la mamma vorrà godersi in pace le lacrime – intervenne Antonio irriverente.
- Allora basta interruzioni e se arriva anche Ignazio tappategli la bocca. Dunque, stavo dicendo? Ah sì. Ci ritrovammo subito insieme e iniziammo a ballare. E a chiacchierare. Mi piaceva molto quella ragazza e quindi feci in modo di portarla in un angolo appartato per provare a rubarle un bacio. Ero così preso che dimenticai la presenza dei fotografi e della tv locale.
- Dato che non mi era per nulla indifferente, io gli diedi corda. Non dovette faticare molto a conquistare le mie labbra. – Lucia era intervenuta con tanta naturalezza che Elena comprese come fosse proprio suo padre ad essersi emozionato. – Eravamo dietro i tendaggi affissi per decorare l’enorme atrio-salone, quindi ci sentivamo abbastanza sicuri da sguardi indiscreti. Il bacio portò ad un abbraccio molto focoso e ci ritrovammo prima seduti a terra e poi stesi per accarezzarci meglio.
- Un amico venne a spezzare il nostro idillio di passione, per fortuna, avvisandoci che, nella foga, avevamo tirato giù la tenda. Nel timore che ci fossero altri testimoni della nostra débâcle, abbandonammo l’evento. Scappare poteva essere una soluzione dopotutto, con l’anno di scuola terminato non eravamo tenuti a tornare a scuola nei giorni successivi.
- Ma non fummo poi così fortunati! – intervenne Lucia con voce rotta. – C’erano le foto da ritirare.
- Ci stavo arrivando cara. – Andrea riprese il racconto con tranquilla ironia.L'incidente ebbe conseguenze spiacevoli. Il fotografo riteneva fosse nostro dovere acquistare almeno una dozzina di copie ciascuno, dal momento che il novanta percento della fotografia riguardava noi, ma noi rifiutammo. Non avevamo alcuna obiezione a essere ritratti a figura intera, ma preferivamo essere fotografati in posizione verticale. Magari mentre ballavamo. Era il massimo della passione che eravamo disposti ad ammettere al pubblico. Mentre discutevamo della situazione, ancora fuori al negozio, arrivò uno dei cameramen della tv locale, che aveva filmato la serata di ballo, accompagnato da un uomo distinto. Questi, appena incontrò il nostro sguardo, ci venne incontro con manifesta allegria.
- E, pensa, ci propose un contratto come modelli di costumi da bagno! – irruppe di nuovo la mamma – in coppia!


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