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Indice:
IL BANDO
PREFAZIONE
Ser Stefano
Massimo Tivoli
Daniele Missiroli
Angela Catalini
Nunzio Campanelli
Enrico Gallerati
Angelo Manarola
una produzione
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Gara 65
Viaggi, amici, bagagli
luglio/agosto 2017
antologia per BraviAutori.it
da un’idea di Ida Dainese
illustrazione di copertina: immagine da internet
illustrazioni allegate ad ogni racconto di: autori vari
Si ringrazia Massimo Baglione per il supporto e gli Autori di questa raccolta per la
partecipazione.

trasformazione digitale: MiCla Multimedia
Nota: l’antologia impiega l’editing degli autori.

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IL BANDO

Il tema per partecipare a questa Gara era “Viaggi, amici, bagagli.”
Un tema vacanziero, visto che la Gara si svolgeva in un periodo in cui chi non era ancora in vacanza si stava organizzando per andarci e chi non poteva andarci poteva ripescare nei ricordi di viaggi passati o di progetti futuri.
Si poteva raccontare di viaggi solitari o fatti in compagnia di uno o più amici, di breve o lunga durata, svolti con qualsiasi mezzo di trasporto e verso qualsiasi meta.
Potevano essere viaggi di sogno o vere odissee, dove si erano fatte nuove amicizie o ci si era accapigliati con quelle vecchie, dove si erano persi bagagli o ci si era presi quelli degli altri.

Infine, si poteva raccontare anche del viaggio che si sarebbe voluto fare, quello sempre desiderato e mai realizzato.

Ammesso qualsiasi genere letterario.
Ida Dainese

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PREFAZIONE

Ecco, pronti da leggere, i racconti creati dai Bravi Autori, nel senso sia di coraggiosi che di talentuosi, sul tema proposto.
È sempre interessante vedere quante interpretazioni sboccino da un piccolo tema di partenza. Qui il lettore incontrerà il viaggio classico e quello esotico, quello nella storia e quello nei ricordi, quello surreale, quello comico e quello della vita.
Sono racconti che sorprendono e strappano un sorriso, che fanno sognare, sospirare o riflettere, che commuovono e solleticano la nostra fantasia, perché in essi, anche nei più fantasiosi e alieni c’è sempre un pezzettino dell’autore che l’ha scritto.
Una traccia dei suoi pensieri, dei suoi ricordi e dei suoi sogni che resta tra le righe e dà un’anima al racconto.
Una sorta di bagaglio, insomma, che chi scrive regala a chi legge e sarà come se entrambi partissero insieme.
E anche questo è un altro viaggio.
Buona Lettura!
Ida Dainese

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Ser Stefano

UN ATTIMO
(Racconto primo classificato)
Carlo ha sedici anni e una sola cosa in testa, anzi due. Le sta fissando proprio in quel momento e quasi non riesce a deglutire. Guarda ipnotizzato la goccia di sudore che scivola nella camicetta di Silvia, aperta di un bottone oltre il lecito. La carrozza è sprovvista di climatizzazione e fa un gran caldo. Lei ha almeno dieci anni più di lui, lo sguardo perso fuori dal finestrino e un sorriso compiaciuto appena accennato: dal riflesso nel vetro vede l'espressione del giovane sconosciuto che le guarda il seno e questo la rincuora. Quella stessa mattina ha modificato il proprio stato social da "fidanzata" a "single", il giorno prima ha sorpreso il fidanzato con la migliore amica in atteggiamenti molto più che ambigui. Questo viaggio è solo la naturale irrazionalità di allontanarsi dal luogo e dai problemi, dal dolore e dalla vergogna.
A fianco del ragazzino che la mangia con gli occhi, siede quella che probabilmente è la madre. Sembra una donna determinata e sicura di sé. Niente di più sbagliato. Almeno tre volte alla settimana viene picchiata dal marito. Quattro, se riesce. Lo fa arrabbiare apposta, cucina male, nasconde le magliette preferite, rompe sbadatamente piatti e bicchieri. Non lo ammetterà mai a nessuno, neanche a se stessa, adora essere picchiata.
Una logora moquette bordeaux sul pavimento divide le due file di sedili come una spada medievale. Dall'altra parte Giulio ascolta musica dall'auricolare del telefonino e legge un libro di fisica applicata. In realtà sta pensando alla chimica, cioè a quello che succederà nel corpo quando stasera fumerà uno spinello con l'abituale cricca di amici. Gli esami sono alle porte, deve pure scaricare la tensione in qualche modo.
Tutti i sedili davanti sono vuoti, evento più unico che raro.
Abderraim è in piedi, vicino all'uscita della carrozza, concentrato a vedere quando arriverà la prossima stazione e, soprattutto, se salgono controllori. Non ha il biglietto. Al suo paese non l'ha mai fatto, non concepisce che senso abbia iniziare ora.
Sullo stipite della porta, accanto alla sua mano c'è un disegno osceno che non riporterò. Tra lo spazio vuoto dei due vagoni si può notare con la coda dell'occhio un pettirosso che si allontana precipitosamente, spaventato.
La carrozza davanti è climatizzata, ma sembra funzionare al minimo e l'aria fresca che produce è quasi impercettibile.
Sul sedile di destra Vanni e Lucia si stanno baciando. Vanni l'ama alla follia, è sicuro di aver trovato la ragazza perfetta, non vorrà nessun'altra. Lucia sta pensando di lasciarlo. Ha scoperto di essere innamorata di un compagno di classe, ma non sa come scaricare Vanni che è diventato improvvisamente scomodo e orribile.
Sui sedili dall'altra parte del separé, ci sono proprio i suoi compagni di scuola, due ragazze e tre ragazzi. Uno di loro sta tirando una bottiglietta di acqua verso l'altro, ma nella traiettoria colpirà una ragazza. L'amica potrebbe avvertirla, ma la considera una smorfiosa quindi non lo farà. Il terzo ragazzo guarda Vanni e Lucia avvinghiati e freme d'invidia. Sa che Lucia prova qualcosa verso di lui, lo sente, ma finché ci sarà di mezzo Vanni non potrà succedere niente.
Davanti alla porta di fine carrozza c'è Maria Giovanna, ottantasei anni. Da oltre sei prende quel treno per andare a trovare i nipotini in città. Per lei è stata una giornata fantastica, i nipotini le danno tutta la gioia che sembrava perduta dopo la morte del marito. Eppure le iridi di Giovanna si stanno dilatando. Sta guardando qualcosa davanti a sé, oltre i due spessi plexiglass di divisione.
Nell'intercapedine tra le due carrozze, guardando in basso, noteremo che il rivestimento del pavimento è curvato, quasi che il giunto di collegamento sia piegato. A dir la verità, tutto il vagone davanti è inclinato verso il basso, la sensazione dell'inizio discesa delle montagne russe.
Paolo è in piedi, più o meno al centro della vettura, parla al cellulare isterico. Sta discutendo con l'assicuratore che non lo vuole rimborsare perché al momento del tamponamento non aveva la cintura di sicurezza. Ah sì, è sollevato di venti centimetri da terra.
Tutti i presenti non sono più seduti sui sedili, sono come sospesi, alcuni verso l'alto, altri verso il sedile davanti. A Carlo piacerà andare contro il sedile davanti. C'è anche un neonato, sta prendendo il volo con culla, ciuccia e pupazzetto giallo di un sole che ride. La madre sembra non accorgersene, intenta ad aggrapparsi a qualcosa. Un grosso signore stava bevendo da una bottiglietta, gli è scivolata dalle mani e ora disegna criniere cristalline nell'aria.
Oltre a quel vagone c'è solo la motrice. Quando vi entriamo veniamo accolti da turbine di fogli di carta, penne, qualche borsa di plastica e un panino mezzo mangiato. Andranno a sbattere verso la parte posteriore perché la motrice è quasi in posizione perpendicolare.
Roberto è avvinghiato alla manopola dell'acceleratore e la tira come fosse un pilota di un aereo in decollo. Sta urlando, il viso deformato in un'espressione folle, impossibile da replicare. La certezza che oggi morirà. Gli mancano solo due anni alla pensione.
Sotto la motrice, diverse rotaie di acciaio si librano nel cielo, ancora intatte. Non hanno ceduto loro. Dalla percentuale di pezzi di cemento e tondini di ferro che volano sotto e intorno al mezzo è ovvio che l'armatura era sottodimensionata. La conseguenza non era questione di "se" ma di "quando".
Duecento metri più sotto, tra le rocce umide e ricoperte di muschio, la lucertola ha scorto una gustosa preda e si sta avvicinando con circospezione. Vi rinuncia, avvertita da un innato sesto senso e da un'ombra che si allarga velocemente tutto intorno. Si prepara a correre veloce sulle zampette per salvare, se non il pasto, almeno la propria vita.
(fine)

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Massimo Tivoli

MADAME POPOVA
(Racconto secondo classificato)
Il viaggio e il senso di colpa mi stanno consumando. Inginocchiata, i gomiti spingono contro l'asse della panca, le dita delle mani intrecciate l'una all'altra. Il mento poggia sulle nocche e chiudo gli occhi per vedere l'anima. È nera e brucia. Brucerà per sempre.
Fisso le immagini dei santi dipinte sul pannello di legno di fronte a me. Qui dentro si dimentica di percorre la Gran Via Siberiana. Incrocio gli occhi del Cristo, non ce la faccio a reggere lo sguardo. Così mi concentro sulle tre dita sollevate della mano destra, ma neanche la benedizione funziona. Ritorno a guardarlo negli occhi.
"Potrai mai perdonarmi? Riuscirai a caricarti anche della mia croce?"
L'arrivo a Mosca è prossimo. Tra meno di un'ora potrò scendere. Mi viene in mente casa, la tinozza con acqua e sapone, e il minestrone con le scorze di formaggio lesse e le patate. Emano l'olezzo di ventitré ore trascorse tra la panca della terza classe e quella della carrozza-chiesa. Sono impregnata del miasma di miseria e del sudore versato a trainare battelli lungo il Volga, nella speranza di non affondare con le gambe nel fango e nella neve. Perché tra i Burlaki non ci sono solo gli uomini, ci sono anche le donne, ci sono anche io. Ma noi siamo considerate bestie con così tanta naturalezza da considerarci tali noi stesse. Eppure lei mi fece capire che non ero un animale al servizio del maschio.
"Ma a quale prezzo?"
Puzzo adesso ma puzzavo già prima, di morte.
"Signore, perdonaci."
Finalmente scendo dal treno. È da Samara che lo desideravo. Stringo il sacco, e non per i viveri, o il cambio di culotte e vestaglia, ma per la lettera che lei mi ha inviato dopo il processo. L'unico bagaglio di cui mi interessi qualcosa. La stessa lettera che mi ha curato dai traumi del passato e, allo stesso tempo, mi ha iniettato il senso di colpa che mi sta divorando. La porterò con me fino alla morte. Il Signore saprà se usarla per infliggerci la punizione che meritiamo o perdonarci facendoci ricongiungere.
Devo trovare il binario del treno per San Pietroburgo. Al diavolo le quindici ore di viaggio. Non sono niente di fronte a una vita non vissuta, strappata via sul nascere dalla cecità del caso che non solo ha voluto che fossi donna, ma ha preteso che fossi anche il frutto di una violenza cancellata facendomi risultare figlia di nessuno, scaraventata nell'inferno dell'orfanotrofio. Come direbbero il Pope e lo Zar, figlia di un'insignificante perdita di controllo da parte di un povero uomo oberato dalla fatica e dal lavoro lungo le rive del Volga. Dimenticano che è lo stesso lavoro che fanno anche le donne. Povero uomo, colmo di delusioni e frustrazioni ma anche di Vodka. Troppa Vodka.
Devo rivederla un'ultima volta e, soprattutto, farmi vedere. Deve sapere che non è sola, che ho ricevuto la lettera e che ho avuto la forza di continuare a fingere, rispettando le sue ultime volontà. Dio solo sa quanto vorrei essere al suo posto, in attesa della fine. Chissà se la sua cella è peggiore di quella in cui la polizia mi trattenne.
Il tempo veniva scandito dalle gocce che stillavano dalla muffa adesa al soffitto. Si gonfiavano come bubboni d'acqua, precipitando ora sul mio capo, ora sul pavimento.
Udii l'inconfondibile calpestio degli stivali del poliziotto di guardia e, quando terminò, capii che l'uomo si era fermato davanti alla mia cella. Lo sentii armeggiare con la serratura e subito dopo udii la chiave girare i quattro paletti della chiusura blindata.
Portai una mano sulla fronte per pararmi gli occhi dalla luce che filtrava dalla porta.
– Signora Sorokina, il direttore vuole parlarle – disse impassibile. – Si dia una sistemata e mi segua.
– Allora, signora Sorokina, il suo periodo di carcerazione preventiva è terminato – disse il direttore sorridendo.
Ricambiai il sorriso ma non riuscii a non sgranare gli occhi. Rivolsi lo sguardo al capitano di polizia che subito intese e aggiunse: – Ci ha detto la verità. Madame Popova – fece un ghigno – ha confermato di aver operato a sua insaputa.
Feci appello a tutte le mie forze per non svenire. Mi chiesi per quale motivo lei stesse salvando la sua traditrice. Il capitano proseguì: – Ha confessato di aver aggiunto il veleno nella Vodka che le donò per suo marito, dopo che lei si confidò sulle violenze che subiva in casa. E ha ribadito che lei era inconsapevole.
Sfogai tutta la paura di essere scoperta, accumulata nei giorni in cella, scoppiando a piangere. Il capitano mi accarezzò una mano e disse: – Ci perdoni, ma era necessario trattenerla. Dovevamo appurare che quello che ci ha detto durante l'interrogatorio non fosse un tentativo di accusare la vecchia per un omicidio che, invece, avrebbe potuto commissionare lei, o addirittura commettere in complicità.
– Capisco – risposi, dissimulando la vera ragione del mio pianto.
– Sa, si trattava di suo marito. E poi quei segni sul suo collo, l'occhio gonfio – arrossii e il capitano se ne accorse perché abbassò lo sguardo – tutto faceva pensare a…
– Non si senta in dovere di darmi altre spiegazioni. Adesso voglio solo tornare a casa e dimenticare tutto.
– Mi dispiace per suo marito. È andata a confidarsi con la persona sbagliata. Ma chi se lo poteva aspettare che quella vecchietta era in realtà un serial killer. Ha confessato tutto. Pare che suo marito sia stato il trecentesimo omicidio per avvelenamento in trent'anni. Ma come può una persona normale diventare improvvisamente un mostro?
Non è un killer. Non ha mai preteso niente in cambio. È la giustiziera di tutte le donne di Samara. Se avessi ricevuto la lettera a quel tempo, avrei saputo rispondere alla domanda del capitano. La violenza subita decise per lei, e per me. Salgo sul treno.
La piazza è gremita. Che illusa che sono stata. Sarà impossibile farmi vedere.
"Eccola lì, Madame Popova" diranno tutti. Il mostro, la strega da mettere al rogo. È incredibile come adesso anche le donne la disprezzino. Ha ragione lei. Non ci sarà mai nessuno ad aiutare donne come noi, dobbiamo arrangiarci.
Bastardi. Hanno schierato un plotone di esecuzione, neanche avessero davanti il demonio in persona.
Non posso smettere di guardarla. Non si scompone nemmeno di fronte alla morte. Fiera di essere donna, di essere Madame Popova. Penso a quello che ho fatto quando, ignara del passato custodito nella lettera, l'ho consegnata alla polizia dichiarandomi innocente e mi chiedo: sarai mai fiera di essere la persona della lettera?
Mi do da fare sbracciando e urlando. Forse è solo la mia immaginazione, ma i suoi occhi mi fissano, sorride.
"Addio, mamma."
(fine)

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Daniele Missiroli

IL VIAGGIO DELLA VITA
(Racconto terzo classificato)
"Io non voglio partire", pensò Amir. Erano diversi giorni che il bambino ripeteva mentalmente questa litania e tutti quelli come lui ormai la conoscevano a memoria.
– Perché continui a pensarci? – gli chiese Jadia. – Tanto sarai obbligato a farlo, come gli altri prima di te. Non siamo noi a decidere.
– Io non me ne andrò – rispose lui – sto bene qui e non voglio partire.
– Quando sarà il mio turno, invece, io sarò felice di farlo. Ho sentito dire che ci sono cose meravigliose dall'altra parte.
– A me non interessano. Sono sempre stato qui e voglio rimanerci per sempre.
– Dicono che sia impossibile. Tutti dovremo partire, prima o poi. Ormai ho visto andar via così tanti bambini che ho perso il conto.
– Anch'io non li conto più. È triste perdere tutti gli amici, uno dopo l'altro.
– Quando saremo di là, ce ne faremo di nuovi.
– Sei sicura di questo? Io preferisco parlare con te e con tutti gli altri. È bello conversare fra noi, ma dall'altra parte ho sentito dire che è obbligatorio imparare la loro lingua. E poi bisogna salutare, stringersi le mani, inchinarsi. Tutte cose assurde e inutili. Infatti noi non le facciamo.
– Però dicono che si impari in fretta e dopo sia tutto più bello e divertente. L'altra parte è un mondo diverso, non è come siamo abituati qui.
– Io non ci credo. È per questo che ho deciso di restare.
– Guarda che se continui a insistere, attirerai l'attenzione di qualcuno. Poi te la vedrai con lui.
– Chi sarebbe questo?
– Io non l'ho mai visto. Però si mormora che esistano individui che intervengono nei casi difficili e convincano a partire anche il bambino più recalcitrante.
– Vengano pure: voglio proprio vedere come faranno a convincere me.
– Allora ti auguro buona fortuna – gli disse la bambina, salutandolo – ne avrai bisogno.
Poi si allontanò, in attesa del suo turno. L'aspettava da tanto tempo e ignorava, come tutti gli altri, la data della sua partenza.
Amir restò solo con i suoi pensieri e nessuno si mise più in contatto con lui.
Passarono i giorni, quando all'improvviso avvertì una presenza.
Non gli sembrava uno dei bambini che conosceva, e questo lo sorprese.
Poi si ricordò di ciò che gli aveva detto Jadia e si spaventò.
Dev'essere quello incaricato di convincermi, pensò.
– Ciao Amir – gli disse l'individuo. – Ho saputo che non ci vuoi lasciare.
– Chi te l'ha detto? – disse lui.
– Se ne parla da tempo. Credevo che avresti cambiato idea, ma ormai è arrivato il tuo turno e ti devi preparare. Sono venuto di persona per essere sicuro che saresti partito.
– Io resterò qui. Non c'è niente che tu possa dire per farmi cambiare idea.
– Non capisco questa tua testardaggine. Ignori che cosa ci sia dall'altra parte, e nonostante questo vi rinunci. È un viaggio breve e c'è già chi è pronto a riceverti. Sarai sfamato e vestito. Troverai persone che ti vogliono bene e che aspettano il tuo arrivo. Crescerai felice e potrai andare a scuola, un'attività che ora non sai nemmeno cosa sia. Incontrerai tanti amici, troverai un lavoro e molto probabilmente anche una bella ragazza, di cui ti innamorerai. Laggiù c'è la vita vera, mentre qui non hai niente.
– Io sto bene qui.
– Stai bene, ma non fai nulla. Ti svegli, ti nutri, ti addormenti. Non puoi fare altro. Questo non è vivere. La vita inizierà dall'altra parte, nel mondo vero.
– Mi parli solo dei vantaggi. Io ho sentito dire che ci sono anche dei pericoli. Mi puoi garantire che non succederà nulla durante il viaggio?
– Ti dirò la verità: il viaggio è pericoloso. Anche se succede raramente, qualcuno è morto.
– E dopo? Sarò al sicuro, una volta arrivato a destinazione?
– Anche quando sarai arrivato, i rischi ci saranno sempre. Potresti morire durante il viaggio, oppure appena arrivato, o anche subito dopo o fra molti anni. Questo non lo può sapere nessuno. Però succede di rado e vale la pena correre quei rischi, pur di vivere una vita piena.
– Ecco, lo sapevo. La mia decisione rimane la stessa: resterò qui.
L'individuo soppesò le parole del bambino, poi scosse la testa e disse: – Mi hai costretto tu. Io non sono cattivo, ma a questo punto devo farlo.
Prese una foto dalla tasca e la mostrò ad Amir.
– È bellissima – disse lui, sorridendo. – Chi è questa signora?
– È la donna che attende il tuo arrivo. Ti accudirà e ti farà crescere con amore. È la tua mamma.
– La mia mamma – mormorò il bambino, eccitato. – Non ricordo di averne mai avuta una. Avrò una mamma nuova, tutta per me?
– Questo è ciò che ti aspetta dall'altra parte. Vuoi ancora rinunciare?
Amir meditò a lungo, poi disse: – Perché me l'hai mostrata? Ora la mia decisione mi farà soffrire.
– Non volevo giungere a questo – disse l'uomo – però manca poco e devi sapere che se non parti subito, la ucciderai!
– Io non sto facendo niente, come posso causare la sua morte?
– Tu sei ancora piccolo e non conosci il mondo. Se ti ostinerai a rimanere qui, le resteranno solo pochi minuti di vita.
– No, ti prego… salvala! Tu puoi farlo, ne sono sicuro.
– Io non ho alcun potere: è tutto in mano tua.
– Va bene, farò quello che vuoi, ma non farla morire, ti supplico.
– Lasciati andare e tutto finirà bene. Sono venuto per aiutarti, non per fare del male a te o a lei. Ecco… così… bravo…
In quel momento il dottore disse: – Complimenti signora: tre chili e otto. Ha già deciso il nome?
– Lo voglio chiamare Amir – disse la puerpera.
Poi il medico sussurrò all'infermiera: – Questo parto è stato molto difficile, ma per fortuna si è risolto bene. Pensa che stranezza: all'improvviso è stato come se avesse deciso lui di uscire!
(fine)

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Angela Catalini

MONDO PERDUTO
Premessa: Percy Harrison Fawcett è stato un militare, archeologo, esploratore britannico. Assieme al figlio maggiore, Fawcett scomparve nel 1925 durante una spedizione alla ricerca della "Città perduta di Z", come dal titolo del film di James Gray. La sua scomparsa scatenò decine di spedizioni di ricerca, ognuna delle quali tornò con ipotesi rivelatesi poi infondate. Si dice che circa cento persone siano morte nel tentativo di ritrovarlo. Questo è il racconto di una di quelle spedizioni. Un racconto di fantasia.
Molti anni dopo Stephen Lockwood avrebbe rivisto Taïs china su di lui, con lo stesso sguardo enigmatico a respirargli il respiro, accucciata come un animale.
Tentò di parlare, ma la gola era stretta in una morsa, rigida come il corpo che giaceva sul terriccio umido, trafitto da milioni di piccoli aghi maligni. Solo la mente gli apparteneva ancora, ma non era sempre lucida. Quando succedeva, Stephen si aggrappava ai brandelli di ricordi come un naufrago, chiudeva gli occhi e tornava nella sua amata Inghilterra.
Solo otto mesi prima era stato convocato da Sir Highwall, della Royal Geographical Society per intraprendere un viaggio alla ricerca del maggiore Percy Harrison Fawcett, disperso nella foresta Amazzonica insieme al figlio Jack. Stephen conosceva Percy, avevano prestato servizio nella Royal Garrison Artilery a Cork e per di più, era già stato nel Sudamerica. Partì insieme ad alcuni amici dell'Università, tra cui un geologo e un antropologo. Sebbene le intenzioni e le forze in campo fossero le migliori che si potessero auspicare, nessuno era preparato per affrontare l'oceano verde, che li inghiottì e li risputò come cibo indigesto.
Le malattie e gli animali feroci non erano gli unici pericoli che dovettero affrontare. La giungla era piena di segreti, di trabocchetti e di primitiva ferocia e non si fermava mai, non riposava mai, era invincibile. La spedizione, dopo aver lasciato Manaus, si era imbarcata su un battello che risaliva il Rio Negro. Ma la via fluviale, sebbene fosse la più comoda, si rivelò anche la più infida, perché le rive erano popolate di tribù indigene che si accampavano lungo i corsi d'acqua sugli alberi o sulle palafitte. Attaccati dai selvaggi, fiaccati dalle febbri, assediati dai serpenti velenosi e dai caimani che infestavano il Rio Negro, rimasero in pochi e l'Inghilterra, dopo neppure un anno, cedeva lo scettro all'Amazzonia, dichiarandosi sconfitta.
Fu durante uno di quei terribili giorni in cui le scorte di cibo cominciavano a scarseggiare e l'umore dei portatori era sempre più irascibile, che trovarono la ragazzina. Doveva appartenere a una delle tribù dell'entroterra, perché aveva tatuaggi diversi rispetto a quelli delle tribù che avevano incontrato. A parte gli animali totemici, alcuni parevano costellazioni, astri nascenti. Qualcuno le aveva tagliato la lingua e l'aveva lasciata legata e agonizzante vicino a un nido di formiche. Il motivo di tanta crudeltà era incomprensibile data la giovane età, e Stephen si prese cura di lei, nonostante il parere contrario delle guide indios che la ritenevano uno spirito maligno.
Quando Stephen si ammalò, poiché era l'unico occidentale rimasto — dopo che gli altri si erano dati per vinti e avevano deciso di tornare indietro, o erano deceduti durante i numerosi incidenti — non costituiva più una minaccia, e i portatori pensarono bene di dileguarsi, lasciandolo agonizzante nel bel mezzo della giungla.
"Subirò la stessa sorte di Percy, divorato da un luogo lussureggiante e misterioso, bellissimo e mortale" pensò Stephen. La fumosa Inghilterra era lontana, con i suoi cieli grigi e la pioggia fitta che avvolgeva la brughiera e ne cancellava i confini.
La ragazzina nel frattempo aveva riacquistato le forze e benché la pietà non fosse nella natura indigena, forse più per curiosità, si prese cura di lui procacciando i pasti, spalmando unguenti, recitando preghiere mute, bruciando erbe, proteggendolo dagli animali, dal freddo, da se stesso.
Molti anni dopo, quando Stephen si trovava nella residenza per anziani di Brighton, tra la vita e la morte, ritrovò Taïs, la piccola indios. Quasi completamente occidentalizzata, vestita alla moda, con i capelli raccolti in una veletta, non aveva perduto lo sguardo animale e quel modo di respirare così vicino alla bocca, quasi per carpirne i segreti e infondere energie.
— Ne hai fatto di strada, piccola indigena — disse Stephen accennando a un sorriso. — Non abbiamo trovato Percy ma, quel viaggio, è stata la cosa migliore della mia vita. Ne sono uscito rafforzato ed è stato come se avessi percorso l'intero Universo.
Taïs tirò fuori dalla borsa un sacchetto di erbe, versò un po' d'acqua nel bicchiere e le fece galleggiare, controllando che andassero per il verso giusto con soffi regolari.
Fuori il vento portava il suono degli uccelli che accorrevano a frotte per nascondersi dalla bufera.
Stephen chiuse gli occhi grigi come il cielo d'Inghilterra e immaginò l'Amazzonia, le scimmie che saltavano sugli alberi, i pappagalli che s'affollavano sui rami e il rumore dei tronchi sul fiume, scintillante serpente indomito e fecondo.
(fine)

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Nunzio Campanelli

IL SALTO
Il paesaggio era un'unica, arsa pietraia. In mezzo un'autostrada in costruzione si allungava per chilometri, generandosi dal centro di quel deserto per poi finire contro una parete rocciosa. All'improvviso un soffio asmatico proveniente dal motore della mia auto mi costrinse a fermarmi a lato della strada. Una rapida verifica mi fece capire che non sarei riuscito a farla ripartire. Ero in viaggio da quella mattina. Avevo un appuntamento al quale non potevo mancare. Lo stato aveva stanziato altri soldi per la costruzione di quell'autostrada, e dei subappalti m'interessavano. Dovevo vedermi con alcune persone che potevano aiutarmi. Una busta piena di banconote era quello che si aspettavano da me. Vista l'inutilità del cellulare, m'incamminai. Percorsi un paio di chilometri, con la camicia avvolta sulla testa in cerca di un po' di riparo dal sole. Mi accorsi solo allora di un giovane che se ne stava seduto all'ombra di una piccola rupe. Lo chiamai.
— Mi serve un meccanico. La mia macchina… si è fermata a circa due chilometri.
Le mie parole sembravano non interessarlo. Poco dopo lo vidi alzarsi in piedi, facendomi segno di seguirlo. Ci avviammo. In breve rimasi indietro, e quando arrivai, l'auto non c'era, così come il ragazzo. Esausto, mi sedetti su una pietra che emergeva dalla scarsa vegetazione. L'appuntamento era andato, e con lui gli appalti. Dal quel posto si vedeva l'intera vallata, violentata da quell'inutile autostrada. Stupito di aver consentito ai miei pensieri di giungere fino a quel punto, rimasi in contemplazione del paesaggio. Dopo un po', la percezione di un leggero movimento dove il nastro stradale s'interrompeva per poi riprendere dopo una quindicina di metri catturò la mia attenzione. C'era un'automobile in mezzo alla strada. Era la mia, ne ero sicuro. Senza pensarci, cominciai a correre in quella direzione. Raggiunsi il punto in cui la carreggiata autostradale si divideva in due monconi, risalii la ripida scarpata di terra fino al piano della nuova strada, dove vidi la macchina. Era vuota, salii a bordo. Le chiavi erano inutili, avevano strappato i cavi elettrici dell'accensione per metterla in moto. Come un ladro, avvicinai i fili tra loro per fare contatto. Il rombo del motore fu l'unica nota positiva di quella giornata. Infilai la retromarcia per fare manovra e andarmene. Solo allora lo vidi. Stava seduto sull'asfalto, nel punto in cui s'interrompeva. Sotto passava la vecchia strada. Seduta al suo fianco una giovane donna. Senza capire che cosa mi spinse a farlo, mi avvicinai loro sedendomi anch'io.
— Non sono riuscito a farlo.
Disse lui. Il mio sguardo l'interrogò.
— Il salto.
— Che salto?
Gridai. Una voce femminile si manifestò al mio fianco.
— Lo lasci stare. Oggi… due anni fa, in questo giorno, è morto suo padre.
Restai in silenzio. La ragazza continuava a parlare.
— Lei deve andare, no? Credo abbia un appuntamento alle sei; se corre ce la può fare.
Un tremito alla mano anticipò di poco la mia reazione.
— Perché lui… sì quello laggiù, insomma chi è, il tuo ragazzo no? Voleva fare il salto, come lo chiama lui. Voleva lanciarsi nel vuoto con la mia macchina, no? Mi sbaglio? Perché?
Gli occhi della ragazza mi fissarono.
— Lei vuole sapere troppe cose. C'è capitato per caso, in questa storia, e ne sta uscendo con pochi danni, mi sembra. Si accontenti, mi creda.
Quegli occhi continuarono a fissarmi ancora per un po', poi addolcendosi in un lieve sorriso se ne andarono.
Salii in macchina, e ritornai sulla vecchia strada bianca. L'orologio segnava le sei. Tornai a transitare nel punto in cui l'autostrada, sopraelevandosi, si divideva in due tronconi. In mezzo passava la via che stavo percorrendo. Su uno dei contrafforti in cemento che avrebbe dovuto sorreggere il cavalcavia vidi un riquadro bianco in marmo con dei fiori. Una lapide. Senza alcuna ragione, mi fermai per leggere l'iscrizione.
"Salvatore Palmieri, nato il diciotto dicembre millenovecento sessantadue, morto il diciassette agosto duemila dieci. Il figlio."
"Oggi, sa… due anni fa, in questo giorno, è morto suo padre." Queste parole risuonavano nella mia testa.
— Lo conosceva?
Quelle parole pronunciate da una voce sconosciuta riuscirono a riportarmi alla realtà. Mi girai e vidi che provenivano da un furgone attrezzato per la vendita di cibarie e bevande, parcheggiato sulla banchina opposta. A pronunciarle era stato un uomo in canottiera indaffarato nella sistemazione del suo bar ambulante.
— Come dice, scusi?
Gli risposi avvicinandomi.
— Era un suo amico, o un parente?
— No, no, mi sono fermato solo per curiosità. Lei sa dirmi qualcosa, chi era, perché quella lapide.
— E come no, sono qui per servirla. Magari, se intanto vuole ordinare…
— Sì, certo, come no, mi scusi.
Ordinai un panino già pronto e un bicchiere di acqua tonica.
— L'ingegnere, sì, Palmieri, quello della lapide, dirigeva i lavori pubblici, su al comune, sa? Gli avevano affidato il controllo della costruzione dell'autostrada, come si dice, la super…
— La supervisione!
— Ecco, quella cosa lì, come dice lei. Fu una disgrazia, sa? Avevano già steso l'asfalto, poi la notte prima, non si sa perché, tolsero il ponte, il cavalcavia, e lui con la sua macchina c'è finito dentro. È caduto proprio in mezzo alla strada, qui davanti.
— Tolsero il ponte? E perché?
— Eh, signore caro, lei vuole sapere il perché. Che domande mi fa, eh? Magari lo può chiedere al sindaco. Tra poco arriva.
— Il sindaco? Qui?
— Già. E pure gli assessori. Per la commemorazione, no? Il sindaco si farà il suo bel discorso, gli assessori pure, la gente è contenta così, no?
— Beh, lei dice che hanno tolto il ponte la notte, e la mattina Palmieri con l'auto è precipitato qui, su questa strada. Vuol dire che l'hanno levato apposta, il ponte, per simulare un incidente?
— Io non voglio dire niente.
— Sì, sì, chiaro, l'ho detto io. Buongiorno.
Mi girai per andarmene.
— Magari le interessa sapere del salto.
M'immobilizzai.
— Quale salto?
— Quello che vuole fare il suo amico, quel ragazzo con cui parlava poco fa. Si dice che abbia minacciato di saltare con una macchina sul sindaco e gli assessori durante la commemorazione. Voci di popolo, comunque. Senza fondamento. Lei, però, si mette a parlare con quell'esaltato. Proprio oggi, poi, che aveva quel suo appuntamento. A proposito, la stanno aspettando, si sbrighi. Il viaggio di ritorno sarà lungo.
Come una frana quelle parole mi precipitarono addosso. Corsi verso la macchina, riuscii a metterla in moto con le mie mani tremanti, e sollevando polvere e sassi abbandonai quel posto, seguito dallo sguardo del venditore in canottiera.
(fine)

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Enrico Gallerati

IL CIRCO DALLA CUPOLA D'ARGENTO
Avevamo iniziato a vagabondare senza meta. All'inizio del nostro vagare avevamo un passo carico di afflizioni, ma strada facendo avevamo sentito il passato sciogliersi alle nostre spalle, e una piccola serenità ci aveva guidato in quell'ignoto vivido di novità e speranze.
Ora camminavo al fianco di Sveva, mano nella mano, sopra la volta celeste e il rumore di un ruscello invisibile.
Avevamo mangiato accanto a quel rumore segreto. Ormai ero abituato a quella visione, io, Sveva e i tre gatti, i nostri odori erano l'inchiostro con cui avevamo scritto gli ultimi otto anni delle nostre vite.
Avevamo fatto l'autostop, andavamo dritto, sempre dritto fino a che la terra non avrebbe lasciato posto al mare.
Non dovevamo essere distanti, io lo immaginavo dietro le tre montagne che si scorgevano oltre il bosco, forse era proprio lì, mi pareva di sentirne il profumo, il suo piacevole rumore.
Quella notte io e Sveva parlammo a lungo, lo facemmo con un'empatia mai provata prima d'allora.
Tra le mille lucine gialle appese nel cielo plumbeo, e il nostro amico falò, parlavamo, fitto fitto.
Non riuscivo più a vivere senza il crepitio del fuoco, ci aveva tenuto compagnia nella ruggine della vita, aveva filmato le nostre vite sui muri di quella discarica sotterranea. Ricordo tanti momenti, tanti silenzi, e il fuoco che era l'unico a parlare.
Il fuoco era ormai un rito, lo accendevo sempre, con la pioggia o il sole, d'inverno e d'estate, il suo profumo m'infondeva tranquillità in quel periodo estremamente difficile.
Il viso di Sveva era dolce, dentro gli occhi si specchiavano le sue parole, erano parole di dolore di una madre che aveva perso forse per sempre la figlia, erano i sogni infranti, era il non aver capito sé stessa e il prossimo, così gesticolando mi spiegava come tutto fosse così confuso.
Ci svegliammo presto, c'era un forte odore di frutta. Eravamo entrati in un piccolo bar, era sul fianco di quell'infinita serpe d'asfalto che correva al lato del dirupo. In certi punti il paesaggio era davvero spettacolare, la natura era potente. Le montagne, i boschi, il fiume che correva a centinaia di metri sotto di noi.
In certi momenti pareva che Dio lì fosse più vicino.
I tre gatti erano sul finire del precipizio, anch'io e Sveva eravamo ai piedi di quella spaccatura arcaica.
L'aria era fredda e ognuno di noi era immerso a osservare il paesaggio, tanti occhi lucidi davanti a quel dirupo aereo.
Cinque creature legate dalla sorte. Cinque creature abbandonate eppure in grado d'amare. Eravamo gli orfani del nuovo mondo come lo erano le stelle.
Poco dopo eravamo davanti al mare, avevamo trovato un passaggio su un furgone, alla guida un ragazzo di poche parole, però aveva un fare gentile, rassicurante.
Lo avevamo ringraziato, e poi lui aveva proseguito per la sua vita e noi per la nostra.
C'era il mare, a est il tendone colorato di un circo, la sua cupola era d'un maestoso color argento. Sveva la osservava dalla battigia, in alto la notte. Mi piaceva l'aspetto poco curato di Sveva, la natura libera come il vento quella notte l'aveva voluta bella.
Poi, usando il sesto senso che solo le donne hanno, aveva captato che la stavo osservando, così si era voltata e aveva fatto un sorrisetto carino.
— E' incredibile – aveva detto Sveva con il volto rivolto sempre verso il tendone del circo.
— Ieri notte ho sognato che lavoravamo in un circo… e che c'era… — ora si era fermata, aveva dentro gli occhi una profondità pura, il quel momento le stelle mi pareva fossero in sintonia con lei, e lei al centro di quella cupola nera disseminata di coriandoli, aveva gli occhi languidi d'emozioni.
— Che strano… questo circo è davvero uguale a quello del sogno, è incredibile… —
Lei d'istinto faceva piccoli passi in direzione del tendone che era issato in una radura, intorno a delle culle di legno con in grembo delle buffe barche cabinate abbandonate all'incuria.
Sveva si era fermata a contemplare il suo strano sogno, come a volerlo liberare dal buio della notte in qui le era apparso.
Sul mare c'era disegnata la falce della luna, Sveva camminava sulla battigia scalza, pareva guidata da un'entità soprannaturale.
Il circo era chiuso ma le mille luci che lo addobbando erano rimaste accese, lì sulle robuste cime dei tiranti, sembrava una nave da crociera spiaggiata.
Sveva guardava il circo estasiata, con la bocca aperta e gli occhi puerili.
— Milo, oggi è il compleanno di Dorota, compie quattordici anni… —
— Già e vero, sai che ormai non me ne ricordo neppure più – dissi sconsolato.
Ci abbracciammo: davvero quella sera c'era qualcosa di strano, anche il paesaggio pareva leggero, tutto era in armonia. La chiatta che avevamo davanti si muoveva sotto la spinta del moto ondoso, il legno cigolava, c'erano delle persone che cenavano e parlavano amabilmente. Era un ristorante in stile asiatico, dalle cucina usciva il tipico profumo della cucina cinese.
Io e Sveva avevamo fame e sonno, ma quella notte non era uguale alle altre. Bevemmo un paio di birre e poi passeggiammo lungo la battigia. Nel cielo c'era uno scarabocchio di stelle che sembravano parole.
Ci addormentammo così, davanti a quelle parole di luce stampate negli abissi dell'universo.
Sveva aveva la testa sulle mie gambe, Oliver e Artù sulla pancia di Sveva, e Berto sulla mia, tutto come otto anni fa quando questa atroce storia era cominciata.
Sentivo il rumore del mare, qualche parola lontana, e poi mi sembrava che Dorota ci fosse accanto, con la sue manine lattee accanto al viso. Sentivo il suo respiro, il suo odore, ma voltandomi notai che era Oliver. Aveva cambiato posizione e ora dormiva tra di noi come faceva Dorota fino a otto anni fa. Ricordo che una volta addormentata la portavo nella sua cameretta. A volte mi fermavo a guardarla a lungo, forse avevo la sensazione di perderla, forse no, fatto sta che la scrutavo con una punta d'amarezza nel cuore.
Lei respirava piano, la coda color cenere dritta sul cuscino.
Sognavo a occhi aperti: chissà se nostra figlia Dorota lavorava davvero in quel circo dalla cupola color argento?
(fine)

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Angelo Manarola

MONA SENZA LISA MA CON SCARPE, CALZONI E CAMICIA TUTTI RIGOROSAMENTE BIANCHI
Il viaggio sognato da una vita è prossimo. Le istruzioni parlano chiaro: check-in due ore prima dell'orario di decollo con destinazione il paradiso: l'isola di Zanzibar.
Viaggio di avvicinamento perfetto con le uniche soste — pipì — della fedele compagna di vita che, come tutte le donne, pare sempre colpita dalla sindrome da vescica iperattiva ogni volta che sale in auto.
La macchina improvvisamente inizia a sbandare e lo sterzo diventa più rigido. Freccia e sosta sulla piazzola d'emergenza: pneumatico forato.
"Arriveremo tardi in aeroporto?" chiede la vocina preoccupata di mia moglie, come al solito semi addormentata al mio fianco, escludendo ovviamente gli imprescindibili pit stop da — se non ti fermi subito, te la faccio sul sedile —
"A tutto c'è rimedio" rispondo calmo.
Non sono assolutamente un tipo tranquillo ma, almeno, evito che lei inizi a cercare di calmarmi con noiose massime di dottrina yoga.
Bestemmiando dentro di me come un turco imbufalito, estraggo cric e ruota di scorta; tre litri di sudore e qualche escoriazione alle dita dopo, posso ripartire.
Parcheggiata l'auto, entriamo nella hall dell'aeroscalo e prima di tutto, mi reco in bagno per lavarmi le mani ancora sporche per la sosta d'emergenza.
Accanto me c'è un tizio vestito come se fosse estate nonostante il mese invernale.
Ha scarpe, calzoni e camicia tutti rigorosamente bianchi. Ovvio sia anch'esso in attesa di volare in una qualche destinazione tropicale.
Mi osserva distrattamente e poi esclama un:
"Boia can, che fredo"
— Grazie al piffero; fuori nevischia e tu sei vestito come un gelataio a ferragosto — rifletto tra me e me.
Raggiungo mia moglie, presentiamo i vauchers, consegniamo le valigie da stiva e ci rechiamo al bar per la solita colazione speciale che offrono gli aeroporti: cappuccino e brioche come ovunque, ma con prezzi da aragosta a Porto Cervo.
"DLIN DLON. Avvertiamo i passeggeri del volo numero AKGL3PER2UGUALE6 per Zanzibar, che l'orario del decollo avverrà con due ore di ritardo"
Subito dopo una voce dal tavolino dietro il nostro:
"Zio can, averlo saputo mi saria alzato alle quattro e non alle due"
Era il tipo di bianco vestito, incontrato nei servizi igienici.
Mentre mia moglie girovaga tra boutique free tax e toilette denominate: — non sia mai che mi scappi di nuovo -, mi collego in internet: vediamo che dice Baglione a proposito della sua rivista letteraria chiamata — E basta guardare donne nude in rete: leggete ogni tanto, che non vi ammazza!
Trascorsi quasi novanta minuti di attesa, ecco di nuovo la voce:
"DLIN DLON. Avvertiamo i passeggeri del volo numero AKGL3PER2UGUALE6 per Zanzibar, che l'orario del decollo avverrà con ulteriori due ore di ritardo, siamo dispiaciuti per l'inconveniente"
"E vorria veder se g'avean anco da eser contenti. Averlo saputo mi saria alzato alle sei" esclama la voce del gelataio gondoliere qualche sedia più in là.
Altre due ore. Mentre mia moglie prosegue a farsi dissanguare nei negozi, mi ricollego nuovamente a B.A. Così curioso un po' nel forum. Chi avrà postato?
Uno dei due Tivoli?
Oppure ci sarà Skyla in preda a un orgasmo per aver trovato un errore di ortografia in un racconto della gara?
Forse c'è anche Lodovico col suo occhio gelido che pare dirti: "Che cacchio scrivi a fare? Tanto vinco io"
Ah no, ci sono Ida e Angela (da scrivere senza d eufonica) che se la raccontano e se la ridono mentre Ser Stefano posta il suo solito
"Vabbeh, miseri mortali, magnanimamente parteciperò alla gara tanto per passare il tempo" mentre tutti gli altri, invece, se lo immaginano già mentre smadonna come un camionista al termine della competizione, dopo aver constatato che non ha vinto neppure stavolta.
"DLIN DLON. Avvertiamo i passeggeri del volo numero AKGL3PER2UGUALE6 per Zanzibar, che l'orario del decollo avverrà con un ulteriore ritardo di due ore, ma poi parte sicuramente sennò ci fate un coso grande così"
E subito dopo l'eco del bianco vestito:
"Vorria ben veder. Ostregheta, averlo saputo, no g'avrei meso neppure la sveglia e mi saria alzato all'ora che volevo io"
Scambio qualche messaggio con Carlocelenza che mi risponde immediatamente. Due risate e quattro battute tra e su di noi ma anche riguardo a Mastronxo, Mirta, Daniele e Fabrizio, mi fanno passare il tempo allegramente.
Finalmente l'urlo dei reattori ci porta in cielo.
Viaggio lunghissimo ma, appena scesi dalla scaletta, la felice sensazione di non aver volato per chilometri ma per mesi: siamo decollati in una fredda giornata di dicembre e atterrati in pieno luglio.
Purtroppo, evidentemente, questo primo giorno di vacanza lo è anche per la signora Sfiga che deve aver deciso anche lei per una vacanza al caldo tepore equatoriale.
Non contenta di forature e ritardi, uno dei pulmini anteguerra che ci stanno portando al villaggio si blocca come un asino recalcitrante.
Dopo aver aperto il cofano e aver finto di capirci qualcosa, i due autisti propongono la più ovvia delle soluzioni:
— Donne e bambini sulla vettura ancora miracolosamente funzionante e i maschi adulti ad attendere il ritorno del pulmino superstite —
Rimasti soli, la voce del — lagunare candido — propone:
"Ohi putei, possiamo fumarci una sigaretta de fora, mentre attendemo che quèli tornino"
Non l'avesse mai detto; di lì a poco, un violento acquazzone tropicale ci costringe a tornare immediatamente all'interno del minibus in panne, mentre lo sterrato si trasforma in poltiglia.
Non contento, l'immacolato, dopo i dieci minuti canonici di temporale e uscito nuovamente il sole, propone una soluzione fai da te:
"Andemo tutti de drio a spingere, magari questa ferraglia se mette in moto"
Iniziamo tutti a spingere; ma il venexian, in quanto tale, è evidentemente poco pratico di ruote, autoveicoli e strade sterrate inzuppate perché si posiziona dietro le ruote e in corrispondenza del tubo di scappamento.
Dopo un rantolo, un colpo di tosse e un rumore di cinghie allentate, il mezzo parte sgommando sul terreno bagnato spruzzando fango e sputando una nuvola di fumo nera come la pece.
Soddisfatti, risaliamo tutti a bordo assieme a qualche incomprensibile parola in veneto.
Dopo un viaggio in balia degli ammortizzatori scarichi e più shakerati di un Daiquiri, arriviamo alla meta.
Ci accoglie un silenzio irreale finché, improvvisamente, appaiono festanti i ragazzi dell'animazione al grido:
"Benvenuti nei viaggi del Ventaglio!"
Uno solo risponde; è abbigliato con scarpe, calzoni e la parte inferiore della camicia color fango putrido mentre il resto, oltre a collo, viso e capelli sono di un'allegra tinta — nafta — che lascia intravedere solo il bianco degli occhi:
"Andei tutti in mona! Voi e il vostro ventaglio".
(fine)

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