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Indice:
Ebook della Gara sta…
Regolamento delle Gare…
Fausto Scatoli
Ida Dainese
Nunzio Campanelli
Carol Bi
Lodovico
Roberto Bonfanti
Liliana Tuozzo
Daniele Missiroli
Laura Traverso
Tiziano Legati
Draper
una produzione
Sostieni la nostra p…

 

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presenta


Lettera a Giovanni

e gli altri racconti


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ebook della Gara stagionale di Autunno 2018


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Ebook della Gara stagionale di Autunno 2018


A cura di Massimo Baglione e Laura Ruggeri.


illustrazione di copertina: Lettera.


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di Braviautori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara saranno pubblicati in un  ebook gratuito e a ogni ciclo di stagioni pubblicheremo un'antologia annuale.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Fausto Scatoli

(vincitore della Gara d'Autunno 2018)


Lettera a Giovanni


"Apri le braccia, apri le braccia, il fiore di roccia nel tuo cuore libera amore".


Oggi hanno crocifisso Giovanni. Sono stordito, mi sento male.

Tutto mi aspettavo, ma non questo.

Una persona così disponibile e rispettabile inchiodata al muro.

Lo conoscevo da anni. Padrone e gestore della "Taverna della croce", era una persona come poche ne esistono al giorno d'oggi.

Una di quelle che una volta incontravi ovunque e che invece, di questi tempi, non si trovano facilmente.


Giovanni, anima libera, che ti hanno fatto?

Ti hanno appeso al muro perché eri dolce?

Dava fastidio quella tua bontà, la voglia d'amore, la disponibilità?

Sì, probabilmente dava fastidio, disturbava la mente e il cuore di qualcuno, invidioso poiché incapace di capire.


Porco giuda, Giovanni, quante volte abbiamo brindato insieme?

Quante volte ci siamo sbattuti l'anima e il corpo per divertirci, ridere, scherzare…

Quante volte hai alzato le braccia per dire: basta, calmiamoci!

Te le hanno fatte alzare ancora una volta quelle braccia, ma tu non sapevi che sarebbe stata l'ultima.


Mi sembra di aver vissuto una vita intera, ma cos'è una vita?

Ho da poco passato da poco i trenta e mi sento vecchio, come se oramai il tempo avesse valore solo in certi momenti, quei momenti che poi non riesci a rivivere perché unici, irripetibili, anche se ogni volta hai l'impressione possa essere meglio.

Ho passato i trenta e, a tratti, ho pena di me stesso. Soprattutto quando sono solo e pieno di quel vino schifoso che ingurgito ogni qualvolta mi reco nelle taverne di basso rango, le mie taverne, per il solo gusto di bere e non poter così pensare.

Cos'è la vita?


Cos'era la vita, Giovanni? Era trascinarsi?

No, per te era una gioia, per questo te l'hanno tolta.

So che siamo in un mondo di merda, fatto di violenze e soprusi. Io stesso contribuisco a tutto questo, vendendomi a chi paga meglio per le mie prestazioni, ma un onore ancora ce l'ho, e fino a che mi sarà possibile cercherò di mantenerlo. Non fosse altro che per fottere nell'anima chi lo nega, chi ti ha fatto fuori.

Non sono un assassino, non lo sono mai stato. Ti vendicherò in modo diverso, strano, ma tu capirai.


Sai, Giovanni, ogni volta che entravo nella tua taverna mi si apriva il cuore.

Sapevo che ne sarei uscito a pezzi, ubriaco e massacrato, però vedevo il tuo viso sempre sorridente e questo già mi bastava come consolazione per tutto ciò che sarebbe accaduto in seguito. Tu ridevi sempre, qualsiasi cosa accadesse. Io non ne ero capace, ma vederlo fare a te mi aiutava immensamente.

Non te l'ho mai detto, ma in un certo senso ti ho amato. Anche se non so bene cosa significhi, lo sento dentro.


— Alza le braccia, Giovanni, alza le braccia — ti hanno detto.

E tu l'hai fatto, come mille altre volte, inconsapevole di quello che stava per accadere. Ho saputo che ti hanno preso in tre, e mentre due te le tenevano in alto, il terzo ha cominciato a inchiodarti al muro.

Il sorriso è diventato un urlo disperato, una richiesta d'aiuto, ma nessuno ha voluto ascoltare.

E l'urlo è continuato fino a quando uno di loro ti ha tagliato la gola, soffocando il respiro del tuo corpo, senza sapere di liberare quello dell'anima.


Quando ti ho visto sono rimasto di pietra.

Per un attimo, mi è salita una risata: il taglio alla gola sembrava la tua bocca sorridente.

Sotto, però, scendevano le righe rosso scuro del sangue ormai rappreso, essiccato, e la risata è morta.

È salito il pianto, poi la rabbia, e poi ancora… non lo so. Non so cosa sia arrivato alla fine, so che stavo male e per un momento avrei voluto uccidere tutti quelli che incontravo.


Porca puttana, Giovanni! Perché ti sei fatto ammazzare?

Perché non hai reagito, tirato un calcio in faccia a chi stava per inchiodarti al muro?

E come hai fatto a non accorgertene prima? Eri così idiota, così imbecille da non vedere un nemico?

No, scusa, Giovanni, scusa, la rabbia mi sta facendo dire cattiverie.

So che non è colpa tua, so che erano loro a sentirsi derisi, quasi irrisi dalla tua gioia di vivere, dalla tua accettazione di ogni cosa portata dall'esistenza, fosse un bicchiere di vino, un bacio o un ceffone.

Mi hai sempre detto di prendere ogni cosa col sorriso sulle labbra, perché la vita ti dà tutto quello di cui hai bisogno, basta essere attenti e saper cogliere i frutti nei momenti giusti, né prima né dopo.


Non l'avevo capito, Giovanni, lo sto capendo ora. Mentre ti scrivo queste parole che forse troverai senza senso o senza logica, mi sono accorto di essere intriso del tuo amore, quello più puro e naturale, che mi hai trasmesso con gli sguardi e i comportamenti, con quei tuoi detti che definivo insensati e illogici, che spesso mi hanno fatto arrabbiare, ma che ora afferro.


Ti hanno crocifisso, Giovanni, non ti hanno ucciso.


N. D. A. Questa "confessione" è ambientata in un tempo e in luogo indefiniti. Potrebbe essere la zona di qualche porto commerciale agli inizi del secolo scorso, o qualche altro posto nel settecento, ottocento. Ciò non ha importanza alcuna, il lettore può collocare il tutto dove gli pare, quello che conta è il senso che voglio dare alla storia, positiva nonostante alcune scene o descrizioni violente, sperando che possa essere compreso.

La frase di apertura è tratta da una canzone di Fossati e Prudente, dal titolo "Apri le braccia". L'album è "Poco prima dell'aurora".


(fine)



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Ida Dainese


Storie di carte


Successe un pomeriggio di fine ottobre, mentre il sole di una bella giornata regalava ancora un piacevole tepore e l'aria sapeva di mosto, di funghi e di foglie secche.

Nella vecchia casa di campagna, sotto al portico, Gino e i suoi tre amici erano impegnati in una partita a carte e, a turno, sbattevano sul tavolo quella buona che raccoglieva punti o lanciavano con un gesto un po' sprezzante quella che non valeva niente, intervallando esclamazioni e sorsi di vino.

Luca, il nipote di Gino, li guardava affascinato. Era solo un bambino di sette anni ma conosceva le figure delle carte; queste del nonno erano colorate e diverse da quelle del papà, piene di cuoricini rossi e foglioline nere. A lui piacevano le carte del nonno, in particolare il Re di Denari, che aveva la faccia paffuta come un bambino.

Finita la partita, il nonno si era allontanato con gli amici verso il fienile. Luca salì sulla sedia e guardò le carte sul tavolo. Il Re di Denari era lì e lo fissava, senza sorridere.

— Sei triste? — gli chiese il bambino e gli venne un'idea. Prese la carta e la nascose nello zaino, insieme ai libri e ai quaderni che si era portato dai nonni per finire i compiti.

Quella stessa sera, a casa, cercò le carte del papà nell'armadietto sotto la tivù.

— Le Regine delle carte del nonno non sono tanto carine. Qui, invece, ce n'è una che ti piacerà.

Sfogliò le carte da poker finché trovò la Regina di Cuori. Quanto gli piaceva quella figura che aveva perfino la bocca fatta a cuoricino! Sarebbe piaciuta anche al Re di Denari.

Mise le due carte sul suo comodino, appoggiandole alla lampada con le stelle, vicino ai libri di fiabe.

L'intesa tra Denari e Cuori sbocciò fin da subito, pur essendo così diversi, nella carta, nei colori, nelle forme. Si ammirarono, si compresero, gli occhi dell'uno fissi in quelli dell'altra, meravigliati delle proprie esistenze, stupiti per quell'incontro possibile solo al di fuori dei loro mondi.

Lei lo trovò affabile e bello, lui fu affascinato dal suo essere timida ma appassionata. Si innamorarono alla luce delle stelle di una lampada, tra i boschi, le fate e i folletti della copertina di un libro.

Durò solo una notte. Al mattino la mamma di Luca rimise le cose a posto, spiegando che né il papà né il nonno avrebbero potuto giocare se mancava anche solo una carta dal mazzo.

Così, Re di Denari e Regina di Cuori chinarono la testa, accettando la realtà e tornando ai propri regni. Dai nonni, Luca rimise il Re nel mazzo con gli altri, non senza averlo guardato ancora una volta, per vedere se fosse meno triste, dopo quell'avventura.

Il viso del Re di Denari era disegnato e non poteva sorridere né mostrare emozioni, i suoi occhi non potevano inumidirsi di lacrime, la sua bocca non poteva piegarsi in una smorfia.

La sua figura era quella di sempre, inadatta a mostrare il dolore di un addio, la felicità di un amore così intenso, lo strazio per aver dovuto lasciarlo andare.


(fine)



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Nunzio Campanelli


Ottagono


Stavamo viaggiando da molte ore. Mi avevano svegliato all'alba dicendomi che dovevo essere pronto entro dieci minuti. In carcere non occorre molto tempo per radunare le tue cose, visto che non ti appartiene nulla. Ero però preoccupato per i libri, dei quali potevo disporre in discreta quantità grazie alla generosità di alcuni amici.

— Non perdere tempo con quelli. Dove stai per andare saranno inutili. Aprite questa porta!

Il tintinnio delle chiavi, gli scatti della serratura, il battere del chiavistello contro il fine corsa, il cigolio dei cardini che accompagna la porta mentre si apre. Rumori che ormai avevo codificato in una sequenza logica che ritenevo indissolubile dalla mia esistenza. Erano bastati diciotto mesi per fare di me un perfetto alienato.

Il direttore, autore di quelle poche parole, entrò nella cella con la solita aria di superiorità che adottava nei momenti ufficiali. Era così anche il giorno del mio arrivo; credo inoltre che indossasse lo stesso vestito. Un alienato anche lui, solo che non se ne rendeva conto. Prese un libro dallo scaffale guardandolo come se fosse trasparente, che infine gettò sopra il letto dopo averne letto ad alta voce il titolo e l'autore.

— Io Claudio, di Robert Graves… di che parla?

— Di un uomo che fu costretto a fare ciò che non voleva.

— Curioso. Sembra quasi la tua storia.

Ero l'unico ospite di quel furgone. Mi avevano fissato delle catene alle mani e ai piedi, e la tortuosità del percorso mi stava procurando una forte nausea. Il mio colorito doveva aver assunto una ben strana tonalità, tanto che l'agente di scorta fece fermare immediatamente il veicolo consentendomi di avvicinarmi al finestrino laterale per prendere un po' d'aria. Eravamo in una zona arida con poca vegetazione. Di fronte a me, a una distanza di un paio di chilometri, una collina tonda e levigata come un teschio ospitava sulla sua sommità una costruzione di forma quadrangolare, lunga di lato e di modesta altezza. I miei occhi interrogarono in silenzio quelli del mio custode, che confermarono i miei timori. Era dunque quello il posto in cui avrei trascorso i prossimi cinque anni.

Arrivammo che il sole stava tramontando dopo aver percorso le ultime curve di quella strada maledetta. Ringraziai il cielo per la fine di quel viaggio, ma appena sceso dal furgone capii subito che forse ero stato precipitoso.

Fronteggiavo una lunghissima parete in mattoni la cui altezza appariva limitata solo se rapportata alla vastità della base. In effetti la costruzione raggiungeva un'elevazione di almeno una ventina di metri. La facciata era del tutto priva di aperture, con l'unica eccezione di una porta. Guardai allontanarsi il furgone, ritrovandomi solitario al cospetto di quell'edificio, la cui sinistra presenza si materializzava in modo preoccupante nell'oscurità che nel frattempo si stava impadronendo della scena. Mi avevano persino liberato delle catene, avrei potuto tentare la fuga. Succube di quel posto, però, rimanevo lì a osservare quell'immenso muro che stava esercitando su di me la medesima influenza con la quale il carnefice soggioga le proprie vittime.

Feci alcuni passi in direzione della porta di entrata e muovendomi mi resi conto di essere stato vittima di uno strano fenomeno ottico. Quella che sembrava un'unica, gigantesca parete era in realtà la proiezione sul piano prospettico di tre lati dell'edificio, di cui quello centrale, sul quale insisteva l'unica apertura, relativamente corto in confronto dei due laterali che dipartivano obliquamente dalle sue estremità estendendosi fino a perdersi nel buio. Mentre stavo cercando di raffigurarmi in pianta quella costruzione, udii dei rumori metallici provenire dalla porta d'ingresso. Mi approssimai per comprenderne la natura, e fui investito dalla luce accecante di una lampada. Mi fermai, coprendo gli occhi con le mani.

— Dentro.

A quell'ordine perentorio, pronunciato da una voce che sembrava provenire dall'interno, fece seguito un forte scatto. Accompagnai con lo sguardo la porta mentre si apriva fino a quando non si fermò.

Mi avvicinai.

Le gambe divennero molli, sostenendomi a stento mentre entravo. Da qualche oscuro angolo della mente riemersero antichi versi che mi sembrarono adeguati alla realtà che stavo vivendo.

" …Le mura stesse della prigione sembrarono d'un tratto crollarsi, e il cielo sulla mia testa divenne come un casco d'acciaio scottante…".

Dall'entrata ci s'immetteva direttamente in un vasto ambiente di forma ottagonale. I lati del poligono, uguali tra loro, avevano la stessa dimensione di quello su cui insisteva la porta. Nel ricordare l'ampiezza del resto dell'edificio smarrii il senso delle proporzioni.

Fatti alcuni passi che sentii risuonare nel silenzio, la porta si richiuse dietro di me. Sulle pareti insistevano delle arcate continue sia in linea che in colonna, conferendo a quel posto l'aspetto di un'arena. Il soffitto si chiudeva in una volta emisferica, al centro della quale era un foro circolare che sembrava comunicare direttamente con l'esterno. L'arditezza delle raffinate scelte architettoniche richiamava le antichità romane e la vetustà dei luoghi faceva pensare che molto probabilmente quella costruzione risaliva a quell'epoca. Sapevo che era impossibile, ma ormai avevo smarrito anche il senso del tempo.

Gli innumerevoli archi di cui era composta l'ossatura portante di quell'arena poligonale avevano il fondo chiuso con una parete in mattoni, tanto da sembrare delle edicole, tipo quelle costruite sulle facciate delle chiese per contenere delle statue. Questi, però, erano molto più grandi e invece di statue contenevano libri. Sostenuti da strutture lignee, se ne potevano contare a migliaia per ogni singolo arco, e di archi ce n'erano a centinaia. Quelli del primo ordine potevano essere raggiunti direttamente dal pavimento, quelli superiori tramite balconate collegate tra loro da scale. Pensai che se non fossi stato imprigionato non avrei mai visto un luogo come quello, e me ne rallegrai. Evidentemente avevo smarrito anche il buon senso.

Il posto sembrava solitario, ma ero consapevole di essere osservato. Abituato alla confusione del penitenziario da cui provenivo, il silenzio quasi ascetico che regnava in quel luogo reprimeva in me ogni istinto di ribellione. Sembrava di essere più in un monastero che in un carcere, dove espiare le proprie colpe nella meditazione. I miei sensi superstiti mi avvertivano però che non poteva essere così.

— Mi segua, prego.

Mi girai rapidamente. Vidi un uomo esile vestito di scuro incamminarsi verso la parete opposta all'entrata. Lo seguii. Entrammo in una stanza priva di arredamento con l'eccezione di alcuni scaffali ricolmi di libri e di una scrivania che subito raggiungemmo.

Sui sessant'anni, calvo, una leggera barba biancastra, occhiali con lenti brunite, quell'uomo mi stava osservando in silenzio. Decisi di prendere l'iniziativa.

— Posso porle una domanda?

— Certamente! A una sola condizione.

— Quale?

— Prima dovrà rispondere sinceramente alla mia.

— Va bene.

— Guardi che non la obbligo.

Avevo accettato volentieri quella condizione, anche se quella puntualizzazione mi rendeva inquieto. Decisi comunque di proseguire in quello che ormai sembrava uno strano gioco.

— Avanti. La sua domanda, prego.

— Bene. Al suo processo lei ha dichiarato di essere innocente. Giusto?

— Sì!

— Perché?

— Perché?! Io sono innocente. Non ho commesso il reato di cui sono stato imputato.

— Lei crede di essere innocente. Si è mai posto il problema del giudicare?

— No. Io non ho mai giudicato nessuno.

— Quindi, in estrema sintesi, lei si dichiara vittima di un errore giudiziario.

Senza darmi tempo di rispondere, si alzò in piedi, andò verso la libreria addossata alla parete retrostante, ne trasse un libro che iniziò a sfogliare mentre ritornava verso di me, finché non trovò quello che stava cercando. Con aria soddisfatta richiuse il libro, un'edizione ottocentesca, segnando però la pagina, ponendomi una domanda volutamente retorica.

— Conosce Voltaire?

— Un poco.

— Bene. Questo è il Trattato sulla tolleranza. L'ha letto?

Non capivo bene quali fossero le sue intenzioni. Decisi di rimanere sulla difensiva.

— In parte, ma è trascorso molto tempo.

— Lei sa, comunque, che fu Voltaire con il suo trattato a introdurre il concetto di errore giudiziario.

— Sì, ma quando scrisse il libro la giustizia era amministrata non certo liberamente, bensì con tutto il peso del giogo fanatico della confessione imperante.

— Guardi che Voltaire non ha bisogno di giustificazioni. Non delle sue almeno.

L'ultima esternazione mi consigliò di usare maggiore prudenza. Si rialzò in piedi riaprendo il libro nel punto segnato.

— Voltaire sbagliava. Non esiste l'errore giudiziario.

L'espressione che assunse il mio viso lo rese consapevole della necessità di spiegarsi.

— Il sacerdote, ogni volta che celebra la messa, permette il compiersi del mistero. Allo stesso modo il giudice celebrando la legge consente alla giustizia di compiersi. Prima può avere dei dubbi. Dopo, no.

— Se fosse come dice lei, esisterebbe un solo grado di giudizio, non tre!

— Esiste un'opinione laica sulla giustizia… un'opinione situata al di fuori. Per questo i tre gradi di giudizio. Ma la possibilità dell'errore no. Non esiste!

Terminò l'ultima frase in piedi con l'indice della mano destra puntato verso l'alto, una posizione statuaria che durò pochi istanti, riacquistando in breve la sua naturale compostezza.

— Le concedo ora due possibilità. Ritirare la sua presunzione d'innocenza, dichiararsi colpevole e ritornare al penitenziario dal quale proviene per finire di scontare la sua pena o restare qui dove potrà avere tutte le risposte che desidera. Attenzione però, chieda solo ciò che è sicuro di volersi sentire rispondere. Le domande non sono mai pericolose; le risposte, a volte, lo sono…

— Se scelgo di rimanere qui, quanto tempo…

— Vedo che ha scelto la seconda ipotesi.

Quella frase, pronunciata con voce gelida, acuì il mio nervosismo.

— No! Io non ho scelto niente. Volevo solo sapere…

— La prego! Deve solo scegliere.

— E se scelgo di non scegliere?

— Anche questa è una domanda.

Restai in silenzio per lunghi minuti, a pensare se quello che stava accadendo fosse reale o parto della mia fantasia. Poi guardandomi intorno ritornai col pensiero al momento in cui ero arrivato in quel posto, alla conformazione di quelle mura, di quel primo vastissimo ambiente in cui ero entrato, alla sua eccezionale biblioteca.

— In effetti sono ancora in credito di una domanda. Ricorda?

Senza mostrare alcun tipo di reazione l'uomo vestito di scuro continuò a fissarmi da dietro le sue lenti annerite. Quella staticità prolungata stava alterando il mio sistema nervoso, finché non notai un leggero movimento della testa, che io interpretai come un cenno di assenso.

— Che posto è questo? Voglio dire, com'è possibile che non mi sia mai capitato di sentirne parlare, che non ne abbia trovato traccia nemmeno nei più seri testi di architettura da me consultati. Fin da quando l'ho visto è insorta in me una prepotente voglia di sapere, di conoscere. La prego…

L'altro, che aveva ascoltato le mie parole perseverando nella sua immobilità, disegnò con le labbra un sorriso di vaga consistenza.

— Le uniche domande lecite, mi consenta, sono quelle di cui si conoscono le risposte. Le era stata concessa la possibilità di restare qui per poter avere le risposte di cui crede di aver bisogno. Le era stata usata anche la cortesia di metterla in guardia. Ma lei non ha saputo, o voluto, approfittarne. Lei conoscerà, certo, anche molto di più di quanto possa pensare. Ha già veduto la prima sala, ne vedrà delle altre. Sa quante sono in tutto? Altre otto. Uguali alla prima come struttura, certo, ognuna collegata alle altre, ma ognuna diversa dalle altre. Lei vuole sapere, e le sarà concesso. Qui troverà tutto ciò che è stato scritto dall'uomo, sia esso stampato, manoscritto o inciso. Potrà consultare libri, pergamene, rotoli, papiri o tavolette di argilla. Ma dovrà fare molta attenzione, perché potrà andare solo avanti, di sala in sala, senza poter tornare indietro, e l'edificio dispone di una sola porta che comunichi con l'esterno, che è quella dalla quale lei è entrato.

— Se le uniche domande consentite sono quelle delle quali conosciamo le risposte, per quale motivo dovremmo porle?

— Mi perdoni, ma la sua domanda è inutile.

Capii infine che continuare quel dialogo ormai era veramente inutile, visto che qualsiasi questione io ponessi immancabilmente segnava un punto a mio sfavore. Era già stato deciso che io dovessi restare in quel posto che, per quanto avevo capito, assomigliava a un labirinto. Dove non si poteva tornare indietro, e avanti si andava solo se si ponevano le giuste domande, quelle di cui conosciamo già le risposte. E qui si entra in un altro labirinto. Mentale.

Nel silenzio, rassegnato seguii quell'uomo.


Citazioni:

- La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde

- Il Contesto di Leonardo Sciascia


(fine)



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Carol Bi


Al Bar


Si erano dati appuntamento in un bar del centro. Arrivò per prima. Il bar era affollato e attese qualche minuto prima di riuscire a occupare un tavolo. Non aveva fatto colazione e la nausea cominciava a salire lenta. Nell'aria aroma di caffè, profumo di cornetti appena sfornati, di dopobarba, di sudore. Aveva indossato un sobrio vestito nero con una lieve scollatura che lasciava intravedere appena il solco dei seni. Si mise a cercare convulsamente il cellulare nella borsa, tra fazzoletti di carta usati, biglietti dell'autobus e caramelle alla menta. Le mani tremavano nervosamente. Un uomo di mezza età urtò distrattamente la sua sedia e la fece sobbalzare facendole scivolare dalle mani il telefono che era appena riuscita ad afferrare. Trattenne un'imprecazione. Si ricompose, cercò di richiamare l'attenzione del cameriere alzando un braccio, ma invano. Accanto al suo tavolo una mamma cercava di calmare un neonato che strillava come un forsennato, mentre una donna attempata riversava sulla giovane donna tutta la sua passata esperienza. Le ascoltò per un attimo, sorridendo, mentre con i denti si mordeva il labbro levandosi quasi tutto il rossetto color pesca. Guardò l'ora dal grande orologio murale appeso alla parete di fronte: 11.30. Era decisamente in ritardo.

"Ok" si disse "Stai calma, fai un bel respiro… non ti ha dato buca, è solo in ritardo, e poi potrebbe già essere qui ma tu non lo vedi, in fondo non lo conosci, non vi siete mai visti". Questo era vero, non si erano mai visti. Cominciò a guardarsi intorno con più attenzione… poteva essere quel ragazzo moro al banco che leggeva il giornale, o forse l'uomo che le aveva urtato la sedia, o il tizio seduto al tavolo in fondo alla sala che più di una volta le aveva sorriso quando gli sguardi si erano sbadatamente incrociati. Ma lei aveva quel cerchietto giallo tra i capelli, un segnale distintivo, riconoscibile, come d'accordo e nessuno si era avvicinato. Le gambe iniziarono a muoversi involontariamente, strisciando le ginocchia tra loro. Una calza si ruppe.

"Stupida, stupida, stupida… ti fai sempre abbindolare dal primo che ti presta un po' di attenzione." Era sempre così critica con se stessa, ma questa volta sembrava tutto diverso, ci aveva creduto davvero.

Uno sguardo all'orologio: 11.52.

Si alzò, nessuno badò a lei, neanche quando inciampò sulla ruota di un passeggino. Avvampò per l'imbarazzo, si chiuse il cappotto e uscì dalla porta che dava su via Menotti. In quel momento si aprì l'ingresso principale ed entrò un bell'uomo moro, elegante… si guardò intorno, poi vide un tavolo libero. Si sedette, la sedia era ancora tiepida, guardò l'orologio sulla parete. Era in ritardo.


(fine)



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Lodovico


Steam


Ho sempre odiato i concorsi letterari a tema libero. Ore a trovare un argomento originale, un soggetto stimolante, per poi accorgersi di pescare nel solito stagno. Ma, d'altra parte adesso le Gare di BraviAutori.it sono a tema libero e non voglio perdermi la partecipazione. Allora che fare?

Il caso, il fato mi aiuterà.

Dizionario d'italiano Sabatini-Coletti. Scorro le pagine come il giocatore di poker fa con le carte, poi punto l'indice e leggo incuriosito:

"elettrodomèstico s. M. [comp. di elettro e domestico] (pl. — ci)".

E ora? Come faccio a scrivere un racconto su di un elettrodomestico? E quale?

Poi ci ripenso, in fondo quel genere di apparecchi è così elettrizzante! Si può fare, ma ho bisogno di una trovata, quindi mi concedo il solito aiutino letterario che spesso trovo in frigo o in freezer. Vago per la casa in compagnia di una vaschetta di gelato alla crema, musa indiscussa degli scrittori casalinghi.

Bene! Ora uno dei miei amici con il filo elettrico diventerà il protagonista del racconto breve. Ma quale?

L'eleganza del robot da cucina e il casto minimalismo dello sbattitore testimoniano la bontà della scelta letteraria, ma, stanco di Mastechef et similia, preferirei allontanarmi da soggetti legati all'arte culinaria.

La lavatrice ha un aspetto troppo austero, tutta in bianco e con quell'oblò perfettamente circolare, non stimola. Il frigo e il freezer sono dei tipi troppo freddi e compunti, per non parlare dell'aspirapolvere, chiassoso e puzzolente. Il televisore è già più dinamico, ma si può definire elettrodomestico? Nel dubbio lo depenno dall'elenco mentale e comincio a temere di non trovare un soggetto degno di essere eternato in uno scritto.

Poi Chicomexochtli, dio azteco degli artisti, mi viene in aiuto. Come in una visione mi appare, nella mente, il ferro da stiro che fa bella mostra di sé in camera da letto.

L'eccitazione mi prende, supero di slancio la rampa di scale che mi divide dall'oggetto del mio carme. Ed eccolo, luccicante di cromo e di plastica bianca, leggermente ingiallita in vicinanza della piastra.

Devo conoscerlo meglio. Le istruzioni. Ho bisogno le istruzioni. Svuoto d'impulso il cassetto dove mia moglie tiene scontrini sbiaditi e libretti inutilizzati. Niente, non ci sono. Dovrò affidarmi alla conoscenza empirica.

Mi avvicino e ne tasto l'impugnatura. È liscia, ma antiscivolo. Il serbatoio dell'acqua, opalescente, svela in trasparenza il suo contenuto, la punta arrotondata riflette la luce alogena che mi sovrasta. Inserisco la spina. Due occhi fiammeggianti, giallo e rosso, si mettono a fissarmi con insistenza, poi uno di essi si spegne.

Uno sbuffo di vapore, tale e quale a quello dei draghi medioevali, si libera dai fori della piastra. Meraviglioso. Lo impugno saldamente e ne saggio il funzionamento. Il fazzoletto cede alla forza del ferro e stende le sue fibre, soggiogato dal vapore esuberante.

Ormai lo conosco, la sua anima è mia. Lo poso e, rapito dall'estasi creativa, mi accingo a recarmi al computer.

Tutto succede in un attimo. Inciampo nel filo elettrico, il ferro tentenna sull'orlo dell'asse, poi si getta nel vuoto con la punta verso il basso, come il suicida che si lancia dal ponte scelto per l'ultimo triste tuffo. L'angoscia mi assale; devo salvarlo. Inserisco generosamente la mano tra lui e il pavimento.

L'odore è quello che ricordo quando, da piccolo, guardavo mia mamma passare sulla fiamma il pollo, per bruciare i residui delle piume.

Il ferro è salvo, ma la mano ha bisogno di cure.

Penso che scriverò del frullatore.


(fine)



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Roberto Bonfanti


Il Futuro


Il futuro arrivò improvvisamente una notte di primavera.

La sera precedente la gente era andata a dormire nel solito vecchio presente e non si accorse di nulla fino al mattino dopo.

I pochi nottambuli che assistettero all'evento, in seguito furono concordi nel dire che il futuro era arrivato alle quattro, undici minuti e trentadue secondi (tale precisione è facilmente spiegabile, nel futuro l'esattezza è la norma, non l'eccezione).

Fra i primi a rendersi conto della situazione ci furono i redattori dei quotidiani, che cambiarono in tutta fretta le prime pagine, come al solito dedicate al malgoverno, all'aumento della criminalità e allo sport, per dare risalto al sensazionale avvenimento; nonostante l'ora tarda riuscirono a far arrivare i giornali puntualmente in edicola al mattino (un miracolo, potrebbe pensare qualcuno, ma non dimentichiamoci che ormai eravamo nel futuro).

"Comincia una nuova era", "Il Futuro è qui", "Viviamo nel Futuro"; i titoloni a nove colonne si sprecavano, anzi, no, erano giusti, nel futuro non ci sono sprechi.

Anche senza i titoli dei quotidiani la gente si accorse subito che le cose erano cambiate. E qui dobbiamo intenderci sulla parola cambiamento, la vita sulla terra procedeva esattamente come prima, con una sostanziale differenza: tutto funzionava alla perfezione.

Dopo secoli e secoli di attesa, di previsioni, di modelli di sviluppo, di teorie su un costante ma progressivo miglioramento, il futuro era arrivato di colpo, ed era alla portata di tutti.

Quella notte scomparve dai vocabolari e dall'immaginario collettivo la parola "progresso": il progresso era un mezzo, quando il fine è raggiunto che senso hanno i mezzi?

Le guerre cessarono da un momento all'altro, i beni vennero ridistribuiti fra gli uomini in maniera egualitaria, scomparvero le carestie, il cancro e le altre malattie, i politici portarono avanti efficacemente i programmi esposti nelle campagne elettorali.

Splendeva il sole e la pioggia cadeva solamente quando ce n'era bisogno, la squadra del cuore vinceva sempre e il lavoro era diventato un piacevole passatempo, la vita scorreva come un meccanismo ben oliato e secondo l'ordine naturale delle cose.

Il crimine era debellato, l'uso delle armi dimenticato, il sopruso rimosso dall'indole umana, il benessere era il fondamento della vita quotidiana di ognuno.

In un primo tempo i leader delle grandi potenze mondiali fecero a gara ad attribuirsi i meriti della situazione, finché qualcuno fece loro garbatamente notare che, nel futuro, non c'era più bisogno di leader, di governi e di superpotenze: costoro (i più refrattari ad apprezzare i benefici della nuova vita) chiesero scusa a tutti e si dedicarono ad altre attività più divertenti, mentre la gente prese ad amministrarsi da sola, in piena libertà e nell'assoluto rispetto delle libertà altrui.

La morte arrivava in tarda età e serenamente, senza dolore ne traumi per il morituro, mentre i parenti e gli amici salutavano il defunto con grandi feste nelle quali si celebrava la vita piacevole che aveva condotto e che rimaneva per i vivi.

Lo studio della storia era serenamente tollerato nei confronti di pochi eccentrici i quali, poveretti, avevano voglia di tenere vivo il ricordo dei giorni andati; "Che spreco di tempo", pensava la gente "ricordare il passato, proprio ora che siamo nel futuro!" ma li lasciava fare, rispettando, senza capirlo, il loro pensiero.

Costoro, insoddisfatti, cercavano di minimizzare in pubblico la propria "diversità" ma, intanto, tramavano nell'ombra.

"Non capite quello che ci è stato tolto!" arringavano i nuovi adepti al loro movimento, "La scienza è morta, la ricerca si è fermata, la tecnologia si è piegata ai capricci e alle voglie più ingenue dell'uomo, l'umanità è ridotta a una massa di pecore incapaci di esprimere la propria individualità, rassegnate a una vita incolore. Altro che nuovo mondo, altro che futuro! Questo è un ritorno alla vita primitiva, a una condizione animalesca, un imbarbarimento!"

Nella semiclandestinità il verbo passatista si diffuse e guadagnò sempre più consenso, ciecamente tollerato dalla massa che viveva spensieratamente nel futuro, acquistando discepoli soprattutto fra gli intellettuali, una minoranza pericolosamente sottovalutata, che veniva considerata come una specie di reliquia dei tempi che furono.

Il Partito del Tempo Passato, dunque, crebbe e divenne sempre più forte, nell'indifferenza generale, fino al punto di scendere per le strade a mostrare il proprio dissenso.

"Il futuro è un bluff", "Fuori dal Limbo", "Progresso e Libertà", tuonavano minacciosi e destabilizzanti gli slogan dei nuovi carbonari, che colsero impreparata la popolazione mondiale, costringendola a destarsi dal torpore futurista.

"Rivogliamo il passato, con i suoi dolori e le sue gioie, i suoi splendori e le sue miserie. Siamo stanchi di questo futuro asettico, torniamo a una vita più vera, forse peggiore ma più intensa!" dicevano i manifestanti, e sembravano decisi a tutto.

La maggioranza si sentiva tradita da questa strana protesta: "Ma perché questa gente non si gode la vita come tutti noi, invece di perdersi nei sofismi e nelle elucubrazioni mentali?" si chiedevano le persone di buon senso.

Si cercò di capire, di parlare con i dimostranti e spiegare loro l'assurdità delle loro pretese, ma il dissenso non accennava a placarsi e rischiava di compromettere l'equilibrio perfetto al quale nessuno voleva rinunciare.

Alla fine venne messo insieme un corpo di polizia, un'istituzione di cui si era quasi perso il ricordo, per riportare l'ordine e la calma nella società.

Non si sa con esattezza chi fu a cominciare, quel che è certo è che fu il primo omicidio a scatenare la catastrofe: le cronache del tempo raccontano che un anonimo agente, forse provocato, forse accerchiato dai manifestanti e spaventato da una violenza alla quale non era più abituato, perse la testa e si accanì contro un giovane No-Future, picchiandolo selvaggiamente con il manganello, finché non lo vide morto, per terra.

Alla vista del sangue la folla si fermò per alcuni istanti, come sopraffatta dall'orrore e dallo stupore, poi la rabbia esplose incontrollabile e prese il sopravvento sulla ragione.

La rivolta si espanse a macchia d'olio e nel volgere di poche ore in ogni piazza, in ogni strada e quartiere, in ogni città della terra infuriava la guerra civile.

Fucili, pistole, coltelli e ogni tipo di arma di cui si era dimenticato l'uso tornarono alla luce e furono impiegati in una lotta fratricida e barbarica, della quale ben presto non si ricordarono più le ragioni che l'avevano scatenata.

Riemersero dall'oblio antichi odi e rancori ad alimentare un bagno di sangue che si protrasse per giorni e giorni, in ogni angolo del pianeta.

Gli uomini si macchiarono di ogni tipo di delitto e di efferatezza, finché, decimati dalla lotta, cominciarono a riunirsi in tribù e a negoziare una tregua.

Lentamente e con grandi sforzi si arrivò a una relativa stabilità, si contarono i morti e cominciò la ricostruzione di quanto travolto dalla furia devastante del conflitto.

Progressivamente la vita riacquistò una parvenza di normalità, anche se i focolai di guerra non erano del tutto spenti, si doveva combattere la piaga della criminalità, le malattie e le carestie mietevano vittime fra i sopravvissuti, la giustizia era amministrata in modo imperfetto e il lavoro era tornato a essere una schiavitù per gli uomini.

La restaurazione fu lunga e faticosa ma, non appena la scienza e la tecnica si poterono indirizzare verso altri scopi, si cominciò a ipotizzare un futuro migliore nel quale si sarebbero corretti gli errori del passato.


(fine)



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Liliana Tuozzo


Addio al nubilato


La zip incastrata finalmente si alzò. Si guardò nello specchio soddisfatta del risultato.

Niente cipria, un décolleté che lasciava intravedere la linea delicata dei seni, un rossetto sensuale, orecchini a grappolo che ravvivavano il viso rotondo e brillavano dorati tra i lunghi capelli.

Quanto era felice. Volteggiava.

"Hotel Mirabella" …le sue amiche avevano escogitato proprio una bella trovata.

Lo zircone incastonato splendeva luccicante sul suo anello di fidanzamento, stava per coronare il suo sogno d'amore. Per le nozze lo zio Carl aveva donato i biglietti per una romantica gita oltreoceano.

Hans, il suo bellissimo futuro marito, aveva organizzato una festa di matrimonio davvero glamour.

— Taxi!

Dopo pochi minuti era arrivata.

Lo zerbino immacolato… passetti silenziosi, abito nero, corto. Dentro una Roma gelata.

Oh, quante erano…

— Fatti vedere, Helen!

— Meravigliosa…

— Bellissima, tesoro!

La zia Ivana più sedici amiche la circondarono in un attimo, conducendola al tavolo in prima fila. Sulla tovaglia candida: calici di cristallo e un secchiello di ghiaccio con lo champagne.

Si sedette, alla sua destra zia Ivana e dal lato opposto Mara. Le altre presero posto ai tavoli del locale, nei loro abiti da sera fruscianti come uno sciame di farfalle colorate.

Lo spettacolo stava per iniziare…

L'attrazione della serata era il cantante Donald Ulrich: ridente, grazioso.

"Oooh! Quanta energia" vociavano con enfasi le donne, attratte, più che dalla voce, dal corpo statuario del giovane.

Poi diedero il via alle danze, mentre i bicchieri si vuotavano uno dopo l'altro.

— Ehi, miss… balla, tesoro!

Nientemeno lui, Donald, le chiedeva di ballare.

Incitata dalle donne, che cominciarono a battere le mani, si lasciò condurre in un tango argentino appassionato col bel tenebroso.

La zaffata inattesa di un profumo maschile penetrante che sapeva di muschio e corteccia contribuì a rendere l'atmosfera notevolmente "caliente".

— Divertiti! — Era la parola che sentiva arrivare da ogni direzione.

Un rock galvanizzante le regalò istanti d'oblio. Quale enfasi felina stava vivendo. Tutto sembrava girarle vorticosamente intorno.

Doveva fermarsi un attimo.

Si diresse alla toilette. Lo specchio le rimandò un'immagine sguaiata, che non riconobbe. Si sciacquò il viso. Stava per tornare in sala quando la porta si aprì improvvisamente e qualcuno le afferrò i polsi attirandola verso di sé: era Donald.

Divertirsi sì, ma Helen non aveva nessuna intenzione di tradire il suo Hans. Con un calcio ben assestato, alle parti basse, lo fece arretrare. Nella sala del locale le sue amiche ballavano e bevevano.

La zia Ivana su un divanetto sonnecchiava; gli occhiali le cadevano sulla punta del naso.

— Zia, andiamo a casa — le disse, scuotendola.

La donna aprì gli occhi.

— Ho un gran mal di testa, cara. Sì, portami via…

— Ragazze, noi andiamo. Voi che fate?

Le amiche la guardarono male, non avevano nessuna intenzione di abbandonare la festa.

"Hotel Mirabella, buonanotte" pensò Helen, mentre sottobraccio a sua zia lasciava il locale.

— Taxi!


(fine)



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Daniele Missiroli


L'importanza del bambù


Teo suonava da due anni in un gruppo di sei elementi. Purtroppo, essendo alle prime armi, non avevano uno staff tecnico e dovevano fare tutto da soli. Dopo aver viaggiato per ore, una volta arrivati nel locale, scaricavano gli strumenti, montavano l'attrezzatura, la collaudavano, si cambiavano e iniziavano a suonare. A notte fonda smontavano tutto e tornavano a casa. A volte sedici ore di lavoro per una paga irrisoria.

Quel giorno si erano esibiti a Roma. Da Ravenna ci vogliono cinque ore, rispettando i limiti di velocità. Dopo aver suonato fino alle due di notte, stavano tornando a casa. Il camioncino, però, aveva solo cinque posti e qualcuno lo doveva seguire con l'auto. Quella volta era toccato a lui.

Aveva già percorso molti chilometri quando le palpebre iniziarono a chiudersi. Per evitare un colpo di sonno, Teo aprì il finestrino. L'aria pungente della notte lo rinfrancò subito. Dopo un po' gli sembrò di vedere delle ombre in mezzo alla strada. Sapeva che non era un buon segno, per cui mise la testa all'esterno per ricevere sul viso l'aria fredda della notte. Le curve lo costringevano ad andar piano. Talmente piano che aveva perso da tempo il contatto con il furgone.

È scomodo guidare in questo modo, pensò, ma così non mi addormento di sicuro.

Stava albeggiando, ma ormai era arrivato in pianura.

Tra un'ora sarò a casa, adesso c'è un rettilineo a quattro corsie fino a Cesena.

Sorrise, sicuro di sé, poi… il nulla!

Si era addormentato!

Teo si bloccò in quella posizione. Il volante era fermo; il piede appoggiato leggermente sull'acceleratore. Per questo l'auto non aumentò velocità, continuando a procedere in linea retta per quella strada, quasi perfettamente dritta.

Sfortunatamente, la carreggiata piegava leggermente a destra, e quindi la macchina iniziò a spostarsi pian piano verso il centro. Sempre più al centro, sempre di più, finché raggiunse la doppia riga. Poi la superò. A quell'ora non circolavano altri veicoli, ma la situazione era diventata pericolosissima: stava viaggiando in direzione opposta al senso di marcia, sull'altra corsia di sorpasso. Raggiunse presto la prima corsia e infine si avvicinò pericolosamente al bordo sinistro della strada.

Più avanti c'era un ponte, perché la strada passava sopra a un corso d'acqua, e stava anche arrivando un TIR. I suoi fari illuminarono a giorno l'abitacolo, ma Teo non si svegliò.


— Papà, da quanto tempo — disse Teo.

— Quando hai bisogno di me, io ci sono sempre.

— Sai che ho suonato a Roma?

— Allora fammi sentire qualcosa.

— Mi serve l'organo.

— Dove l'hai messo?

— È sul furgone, con i ragazzi.

— Vallo a prendere! Svegliati e vallo a prendere! Subito!


In quel momento Teo aprì gli occhi. Vide i fari e udì il clacson dell'immenso camion che si avvicinava assurdamente alla sua destra. Quell'attimo gli bastò per evitarlo. Girò il volante a sinistra ed entrò nel fosso. Se avesse tentato di tornare nella sua corsia, sarebbe stato travolto.

La macchina si capovolse e iniziò a scivolare sul tettuccio, mentre una miriade di scintille illuminava l'abitacolo per via del filo spinato che era stato divelto.

Per un attimo Teo pensò che quello fosse un sogno molto bello e colorato, ma poi, nonostante gli sembrasse una follia, d'istinto aprì lo sportello e si gettò fuori, mentre l'auto s'inabissava nel fiume.

Ora Teo stava agitandosi per restare a galla, ma non sapeva in che direzione andare. La foschia gli impediva di orizzontarsi e poiché non nuotava molto bene, si mise verticale per verificare la profondità. Quando andò sotto, fu preso dal panico. Poi pensò che non potesse essere un fiume largo e iniziò a nuotare scompostamente in una direzione a caso. Anche se era sbagliata, prima o poi avrebbe raggiunto la riva.

Dopo quella che gli sembrò un'eternità, annaspando alla cieca a destra e a sinistra, si ritrovò una grossa canna di bambù tra le dita e vi si aggrappò, allo stremo delle forze.

Dopo qualche tempo, la temperatura del corpo di Teo iniziò a scendere. Era nell'acqua da molto e ora batteva i denti. Non aveva la forza di issarsi sulla riva. L'unica via di salvezza era rappresentata da quel bambù. Stringere con forza quella canna gli provocava dolore alla mano, ma lui era deciso a non lasciarlo andare per nessun motivo. Alla fine svenne.


Si risvegliò in ambulanza, insieme a due paramedici.

Ancora in stato confusionale, ripensò al sogno in cui il padre, scomparso alcuni anni prima, gli aveva detto cosa fare.

Poi, uno di loro gli disse: — Ragazzo, ora puoi lasciarlo.

Si guardò la mano destra e vide che stringeva ancora il bambù che gli aveva salvato la vita. Per tirarlo fuori dal fiume, avevano dovuto segarlo!


(fine)



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Laura Traverso


Cronaca triste di Angeli dimenticati


Zoe, labrador dal colore del miele, è stata tra le prime ad arrivare sul luogo della tragedia del Ponte Morandi a Genova.

Era assieme a Rocco, il suo conduttore, Vigile del Fuoco del Nucleo Cinofilo della Liguria. Seguita, però, da molte altre squadre di Unità Cinofile giunte da ogni parte d'Italia.

Il loro intervento è stato fondamentale per la ricerca delle persone ancora vive sotto le macerie. Senza risparmiarsi hanno lavorato sino allo sfinimento, mettendo a disposizione degli umani la loro immensa capacità, a rischio della propria vita.

Dopo il crollo del Morandi, durante la lunga e difficilissima fase alla ricerca delle persone precipitate dalla spaventosa altezza di 45 metri, dei nostri Angeli a quattro zampe ne hanno parlato i giornali e i telegiornali; su Facebook scorrevano video del loro estenuante lavoro di scavo tra l'enorme cumulo di macerie.

Tutti noi siamo rimasti incantati dinnanzi a quelle immagini indimenticabili, ai più sensibili si sono riempiti di lacrime gli occhi.

Si è saputo che, tra i tanti cani impegnati a scavare tra i blocchi di cemento, c'era anche Greta, pastore belga, eroina del terremoto del 2016 a Pescara del Tronto: individuò e salvò la piccola Giorgia, rimasta sepolta per circa 16 ore sotto le macerie della propria abitazione.

Ma molti umani hanno la riconoscenza labile e la memoria corta: non è infrequente, infatti, vedere cartelli, affissi alle porte di svariate attività commerciali, con su scritto "Io qui non posso entrare".

Fanno molta tristezza certi divieti assurdi. Dovremmo, invece, sempre ricordare, che i nostri amici a quattro zampe sono capaci di salvarci la vita in molte circostanze, l'elenco sarebbe lungo…

Per tutte queste ragioni, loro, devono poter entrare.


(fine)



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Tiziano Legati


Paolo e la buca


La cosa cominciava a diventare comica oltre che dannatamente snervante. "possibile che un uomo non riesca a scavare una stupida buca nel suo stupido giardino?" pensò Paolo.

Il manico del badile che stava impugnando si era spezzato come un ramoscello e nemmeno aveva cominciato a scavare.

Eppure il piano di Paolo era solido e ben congegnato, primo, recuperare il piccone dal capanno degli attrezzi e iniziare a scavare nel punto stabilito.

Secondo, utilizzare il badile per allargare la buca fino che fosse diventata una piccola vasca per i pesciolini rossi, in fondo aveva sempre sognato una piccola vasca per i pesciolini rossi.

Quindi aveva raggiunto il capanno degli attrezzi ed era tornato con un piccone inesistente, un badile mezzo rovinato e un diavolo per capello.

— Ma dove caspita è il mio piccone?!

Mandò al diavolo quel cretino del vicino che se ne era andato al mare senza restituirgli il piccone, la classica giornata storta.

Tornato al capanno degli attrezzi, per riportare il badile, intravide la motozappa che il vicino, quello del piccone, gli aveva prestato due anni prima per vangare l'orto, esaminò pregi e difetti dello strumento e decise che confaceva al lavoro per la realizzazione della piccola vasca per i pesciolini rossi.

Dopo venti minuti, esausto, mandò una nuova bordata di imprecazioni a quel cretino del vicino e alla sua stupida motozappa guasta.

Paolo contemplò lo stupido giardino, lo stupido badile, la stupida motozappa e la casa dello stupido vicino, pensò "ho sempre desiderato un bellissimo gattino".


(fine)



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Draper


Postilli S.a.S.


[Questo è un racconto possibile. Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale. Per ora.]


La risata dell'avvocato Notarangelo era la cosa più irritante che un uomo avesse la sfortuna di udire al mattino presto, un cinguettio stridulo e sfiatato, simile al singhiozzo d'un gabbiano. Mimmo la detestava, e tanto era profondo quel disgusto che solo a sentirla gli schiumava il midollo. Oltre al ghigno dell'esimio principe di Via Lanza, però, al signor Domenico Scopece repelleva anche la coppia di gattopardesche comparse che ogni giorno, in accordo col Galateo dei Ruffiani, aveva l'abitudine di ronzare attorno al vecchio procuratore, il dottor Scarpiello, lo strabico primario di Oncologia, e il notaio Pipoli, il cui unico vanto rimandava a una laurea in calligrafia.

— Mo' si mangia pure il barista. — bisbigliò Notarangelo, fra uno starnazzo e l'altro.

Mimmo colse la battuta squallida e addentò il primo dei suoi tre cornetti alla crema, maledicendo i bastardi al banco non solo perché gli avevano riso dietro mentre aveva cercato di accomodarsi al tavolino, ma soprattutto perché quel trio di pagliacci dalla lingua pelosa non aveva mai dovuto guadagnarsi nulla in vita propria. Se il loro patrimonio risaliva ai tempi di Franceschiello Borbone che ne sapevano di come si porta a casa la pagnotta? E che volevano capirne di sacrifici quando per secoli avevano dimorato in ville dove i letti e l'ingresso erano a un intero giorno di distanza?

La risposta era ovvia.

Domenico, invece, lui sì che veniva dalla gavetta. Sgobbava da che aveva quindici anni, era un uomo integro, di buona volontà, e grazie a Dio il suo titolare storico, il signor Remo, l'aveva scoperto giusto un mese prima di fondare l'azienda. All'epoca della sua assunzione, ricordava Mimmo, la società non era che una compagnia di spedizioni stipata in un capannone dietro il cimitero, e lui un fattorino che viveva in un caseggiato popolare di Via Boccaccio assieme ai genitori e sei fratelli. Circa un decennio dopo, tuttavia, il gruppo aveva incamerato tanti di quegli utili da riuscire a diversificarsi e investire in decine di nuovi reparti, dall'ufficio finanziario al team di controllo rischi, e così, attraverso una sana etica e il duro lavoro dei dipendenti, la Postilli S.a.S. si era evoluta nella più grande multi-servizi del Sud Italia. Ripensando alle fatiche di quella travagliata carriera e alle numerose responsabilità che ancora attendevano al varco, Mimmo sbriciolò la punta di un altro croissant con un morso secco. Un caldo schizzo di chantilly gli sporcò i baffi già lordi di schiuma, addensandosi sopra il suo arco di Cupido, ma lui non se ne curò e sorvolò persino sull'ennesima frecciatina del terzetto in fondo alla sala — le bestie.


— Cialànghe 'u chiàmene a Mimì — squittì Scarpiello al compare notaio, che in risposta gli mollò una pacca sulla spalla — Pecché 'n g'avaste maije, capì?


Domenico li ignorò di nuovo e stavolta ne approfittò per tracannare un lungo sorso di cappuccio. L'acredine del caffè nero violentò la vanigliata gentilezza del latte, scuotendo l'uomo con un brivido di guizzante frenesia. No, si rese conto Mimmo, adesso che i dirigenti avevano deciso di affidargli la gestione della filiale di Roma e nominarlo socio, competere con quegli scarafaggi aveva perso ogni logica. A differenza dei cari baroni che s'ostinavano a giudicarlo come fosse l'ultimo degli sguatteri, infatti, lui era sfuggito alla fame con le sue forze, e ora non solo abitava in un appartamento dalla cui finestra poteva ammirare le statue di Fedora e Chénier, ma a giorni sarebbe anche stato a capo di un'area vergine — guadagnando più soldi in un mese di quanti Notarangelo, Scarpiello e Pipoli potessero farne assieme in un decennio. Divorato pure il secondo cornetto, con le briciole di sfoglia che gli nevicavano dai polpastrelli, Mimmo iniziò a sistemare la pratica per l'ultimo. Di Remo Postilli, intanto, nemmeno l'ombra. Strano. Il direttore non tardava mai, era una cambiale.


Pizzicato da un lampo d'ansia, Mimmo leccò via un ricciolo di crema giallo-pus che colava dal croissant. Mancava poco all'incontro (lo sentiva) ma quanto poco?

Sollevando il polsino della camicia, l'uomo notò che il quadrante del suo President d'oro a diciotto carati segnava le sette meno dieci. Possibile? Ancora le sette meno dieci? No, non preoccuparti, si rincuorò lui, che nel frattempo aveva già lanciato un poderoso fischio, di quelli riservati ai bracchi, per attirare l'attenzione di Antonio, il ragazzetto che da quasi un anno gli serviva la colazione ogni mattina. Giusto per sicurezza, pensò Scopece, con i denti immersi nel ripieno. Un confronto.

Di colpo l'intero Bar Cavour piombò nel silenzio, e mentre Notarangelo e i suoi pupi restavano annichiliti da un così laido e vorace sfoggio di cafoneria, il giovane barista si asciugò di corsa le mani e aggirò il banco, diretto verso la voce del padrone.


— Ué, Tonì — esordì Mimmo, ripulendosi i baffi — Pure tu fai le sette meno dieci?

— Meno cinque, signor Scopé. — precisò l'altro. Il cameriere gli riservò un occhiolino, e nonostante le pietose condizioni del tavolo non parve disturbato dalla mole di rifiuti che aveva sotto il naso — chiazze di zucchero a velo ovunque, un bicchiere sporco di polpa d'arancia, tovagliolini macchiati, bolle di schiuma rappresa…

— Appo' allo' — replicò Scopece, che un secondo dopo accennò a Tonino di avvicinarsi — Me jà, mo' pìgghje 'sta rrobbe e pùrteme 'nu dolcette. Fai tu.

— Ci stanno parecchie cose stamattina, volete una dolce in particolare? — gli chiese.

— Ma niente, un biscotto. Pure piccolo va bene, ché fra poco me ne devo andare.

— Arriva subito.


Durante la conversazione, tuttavia, la mente di Antonio aveva fissato due parole soltanto — fai tu — e dato che il resto delle indicazioni non sembrava importante, il barista sparecchiò con calma per poi tornare con una sorpresa: un rotolo dolce.


D'altronde, fai tu significava proprio stupiscimi, sorprendimi, e soprattutto non portarmi qualcosa che abbia davvero le dimensioni di un Bucaneve. Per qualche sconosciuto motivo (come il ragazzo aveva intuito dall'oceano di briciole) il signor Scopece era teso, e quindi più che obbedirgli alla lettera bisognava interpretarlo.

— Assaggiate, assaggiate — lo incoraggiò il cameriere — È di oggi. Specialità siciliana.

L'uomo sollevò dal piattino il medaglione ricoperto, lo annusò e se lo infilò in bocca senza nemmeno spezzarlo con gli incisivi, mentre le scaglie di cioccolato gli piovevano sulla cravatta. Dopo due masticate in croce, quasi fosse un pellicano, lo ingurgitò prima ancora che le papille avvertissero il sapore della ricotta o la granulosità della pasta reale. — Buono. — apprezzò Mimmo, sfoggiando quell'affannata parlantina che mostrava solo in rare occasioni di felicità — cioè quand'era sazio. Un rutto ribadì la lode.

— Ci fa piacere, signor Scopé. — disse Antonio, che parlava anche a nome del suo capo, ma all'improvviso un nuovo arrivato scassinò la discussione con una battuta.


— U' gio', incartane uno purammé, và — ordinò il tizio a Tonino. L'uomo, il cui accento chieutino ne piallava la voce, indossava un cappotto di astrakhan — Anzi no — si corresse al volo — Fai due, ché l'altro lo portiamo ai ragazzi. Che dici, Mimì?

Domenico annuì, e subito lo colse un crampo allo stomaco. In un primo momento aveva creduto si trattasse di un attacco d'ulcera, ma il problema dipendeva dalla fame scatenatasi all'arrivo di Bruno Tavani, il capo-area di San Severo detto Malanno, che s'era presentato all'incontro senza alcun preavviso, al posto del titolare.

— Il signor Postilli non c'è? — gli domandò Mimmo.

— Ué, non t'agitare, madò, già si agita. Mica ti dobbiamo licenzià — rivelò Tavani — C'è stato solo un imprevisto, niente di che. Dobbiamo fare una riunione — spiegò — Dài, piglia la giacca, andiamo. T'accompagno io da Remo al ritorno, non ti preoccupare.

A quel punto, Scopece si alzò per pagare, ma al banco dissero che offriva la casa.


Fuori dal bar, lo sciabordio delle spazzatrici spumava a fil di nebbia e la bruma mattutina ancora resisteva per celare ai passanti la gelida fronte della città, venata di rughe liberty. Mimmo guardò la vecchia fontana in lontananza. Presto, immaginò, il sole sarebbe asceso a coronare il Pronao di Oberty e l'avrebbe inondata di luce cremisi.

— Vai. — fece di colpo Bruno, indicandogli il retro della macchina.

La Croma di Malanno era parcheggiata a mezzo metro dal marciapiede, col motore acceso. Scopece entrò, tirò a sé la portiera e i due partirono.

— Dove sta la riunione? — domandò a Tavani, e la risposta fu — A San Menaio.


San Menaio.

Non esisteva posto più lugubre per incontrarsi a dicembre, considerò Mimmo, ma il fatto in sé era solo una delle tante anomalie che pian piano sarebbero emerse dalle ombre di quella scampagnata fra colleghi, a cominciare dalla strada che percorrevano. Avrebbero potuto imboccare la A14, risalire verso i laghi, e invece Tavani aveva scelto di prendere la statale 89, valeva a dire mille tornanti e un'ora di viaggio superflua. La situazione divenne chiara soltanto quando la mole del castello clinico di Padre Pio fu scomparsa dal lunotto posteriore, fagocitata dal paesaggio attorno.


Fuori dai finestrini scorreva una sfocata pellicola di fronde e sprazzi di luce, non un lampione né una casa, verde ovunque. A quel punto Bruno, che fino ad allora non aveva fiatato, abbassò il volume della radio e costrinse Gino Paoli alla lingua dei segni. Erano in auto da una cinquantina di minuti.


— Com'è stato il matrimonio, Mì? — gli chiese Tavani, senza una ragione apparente.

— Un bello sposalizio, perché? Tu non ci stavi?

— No — replicò l'altro, proseguendo sulla 272 — Però a Remo l'avevo già avvisato, dovevo andare a Nicotera. Quelli non ti pensare che aspettano le messe. Avete mangiato bene?

— Assàje. Pure il vino era buono. — aggiunse.

— Ah, sì? E il problema è proprio questo, Mimì — lo incalzò subito Bruno, mentre ne osservava il viso bovino dallo specchietto retrovisore — Hai fatto piangere a Patrizietta.

— Io? Ma che dici?

— Manco te lo ricordi, uggesù mije — sbottò il chieutino — Le faldacchee, Domè. Le faldacchee. Ninuccio ù rusce m'ha detto che i ragazzi avevano lasciato le ultime due per Remo e Patrizia. Però quanne padre e figlia so' arrivati al buffet, nella guantiera non ci stava chiù 'nu cazz — abbaiò Tavani — Ma lo sai almeno che ti sei fregato, ciaciù?

— Oh, guarda che non sono stato.

— No, no, tu sei stato. T'hanno visto uguale uguale — lo zittì il compare, che nel frattempo aveva sfanalato a una Clio uscita troppo veloce da una curva — E comunque te lo dico io che ti sei fregato. I dolci della sposa. Erano un pensiero, mannàgge a chi t'è vive.

Don Remo l'ha fatti arrivare da Turi. L'ha preparati 'na suora cieca, l'ha preparati.

Ed ecco finalmente il motivo della riunione — realizzò Mimmo in silenzio. Dolci.

Le faldacchee confezionate da una che nemmeno ci vedeva. Da non crederci, la sua vita sbriciolata per un paio di mignon. Aveva offeso il capo, Remo ù Ciambacòrte, l'uomo a cui doveva prosperità e benessere, il vertice di un'onorata società che, se pure avesse voluto perdonarlo, di certo non avrebbe mai dimenticato la tristezza di una figlia che il giorno delle nozze finiva in lacrime a nascondersi dagli invitati. Bruno voltò piano a sinistra, portandosi sulla provinciale per Vico.


— E mo' lo sai che succede, Mimì?

— No. — si limitò a replicare l'uomo seduto dietro, con lo stomaco che brontolava.

— Che Roma è la mia, e da domani a trattare co' quelli di Montecitorio ci vado io.

Si giocava a carte scoperte ormai, il momento della liquidazione era vicino.


La Fiat marciò su quella serpe di curvoni che era la 528 per un'altra quarantina di chilometri, finché la strada non giunse al bivio con la provinciale 144, l'ennesimo rigagnolo d'asfalto che attraversava le alture del promontorio. Alle nove e mezzo circa, ormai a pochi minuti dal paese, i due scorsero da lontano i flutti dell'Adriatico che fustigavano le striminzite spiagge di San Menaio. La vista oltre il parabrezza era una cartolina dal Purgatorio — da una parte il mare, un eburneo nulla spennellato di bianco, e dall'altra la vecchia Difesa, un polmone di pini pronto a diventare un mausoleo.

Mentre l'auto s'inerpicava lungo uno sterrato che dalla litoranea deviava verso la pineta, lo stomaco di Mimmo ebbe un sussulto. Formicolava come un pugno di vespe.

— Siamo arrivati. — gli comunicò Bruno.

Qualche metro più in là, Scopece notò una voragine nel terreno, alla cui destra attendeva una coppia di sagome che già conosceva, erano Pippo Guerra ù favrecatòre e Ciccillo Rignanese detto 'zije Siponde, due cani da faida che don Remo prendeva a prestito dai suoi amici di Monte quando bisognava reclamare "quel che è di Cesare".

Tavani spense il motore, poi uscì dall'auto e s'avvicinò alla portiera dietro.

— Esci.

Mimmo obbedì rassegnato. Sarebbe stato doloroso, intuì poco dopo, dato che nessuno aveva portato con sé le armi — l'unico ferro sulla scena era la vanga sporca di fango che Guerra aveva usato per scavargli un monolòculo abusivo vista aldilà.

— Vai, su — con un cenno del capo, Bruno lo spinse a proseguire, e mentre lui si stringeva nel giaccone di astrakhan, l'altro camminava in direzione della tomba aperta — Fermati sul bordo, là, ué — ordinò infine, allungando la destra verso i sicari di Postilli.

Ciccillo tirò via la pala dalla fanghiglia e la porse a Malanno.

— Non so' stati i dolci ù probblème, Mimì — gli confessò il chieutino — Quella è solo una scusa. U' fatt' è che non ti controlli proprio. Ogge jè ù magnà, e domani? C'avèssema curcà col pensiero che un giorno che riscuoti po' àmma truà le briciole tue, è 'ccussì?

— Io a voi non v'ho mai rubato una lira.

— Non ancora, però don Remo dice che il rischio c'è.

— Ma tu lo sai che d'è la fame? Che significa à spàrte ù piatt' a ott', lo sai?

Tavani sospirò — Mimì — disse — A noi non ce ne fotte un cazzo se c'hai fame e che eri povero, so' problemi tuoi. Nuije sapìme schit' che guadagni bene e lavori, ma oramàije sije 'nu dammàgge. Ci possiamo mai fidare di uno che in questura s'u pònne accattà cu' trenda bignè? Stai sempre con la bocca aperta, jà… Inizia così e po' finisce che parli.

Mimmo guardò nella fossa. A occhio e croce, la buca era profonda quasi quattro metri e larga mezzo. L'avevano preparata su misura, come il suo abito a taglia calibrata.

— E allora sbrigati a fare que.

Malanno non lo lasciò nemmeno concludere. Gli mollò semplicemente un colpo di vanga sulla nuca — di taglio. Scopece piombò giù nel buco a peso morto, fratturandosi anche le ossa che non aveva, e i suoi centoventidue chili di lardo e manie finirono per sbriciolargli la spalla destra. Dall'alto si vedeva già il sangue scorrergli dalla tempia. Era ancora vivo, però, e questo lo sapevano tutti — incluso lui, accartocciato laggiù. — Nella macchina c'è un'altra pala — rivelò Bruno a 'zije Siponde — Pigliala, và.


Cinque minuti più tardi, in regola con le direttive d'impresa, Bruno Tavani delle Risorse Umane fu pronto a espletare le ultime formalità per il licenziamento del signor Scopece Domenico, meglio noto come Cialànghe. Giusta causa, avrebbero segnalato gli stagisti Guerra e Rignanese nella relazione finale, applicazione della clausola ematica per violazione del protocollo deontologico. La Postilli S.a. S. Non poteva tollerare un impiegato alla Mimmo, il direttore era stato piuttosto chiaro: — Se l'annà magnà i vìrme.


(fine)


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