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E
Regolamento delle Gare…
Mariovaldo
Roberto Virdo'
MattyManf
Marcello Rizza
Liliana Tuozzo
Anna Gri
Angelo Ciola
Carol Bi
Letylety
ElianaF
sezione 13
una produzione
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presenta


Beu

e gli altri racconti


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ebook della Gara stagionale d'Autunno 2020


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Ebook della Gara letteraria stagionale di Autunno 2020


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: ragazzo con fionda - www.fotosearch.com


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara saranno pubblicati in un  ebook gratuito e a ogni ciclo di stagioni pubblicheremo un'antologia annuale.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Mariovaldo

(vincitore della Gara d'autunno, 2020)


Beu


In paese il ragazzo era conosciuto solo come "Beu", con la stretta pronuncia della vallata che rendeva quel nome un suono secco, simile al verso che si usa per spaventare i bambini: buh!

Io non ho mai saputo cosa significasse quel nomignolo, sapevo però delle voci inquietanti associate alla figura allampanata e agli abiti dentro i quali Beu pareva potersi ritirare come in un carapace, tanto erano larghi e irrigiditi dai troppi anni e dai pochi lavaggi.

Quelle voci venivano sussurrate a labbra strette dagli altri ragazzi del posto a chi, come me, del posto non era. Dicevano avesse tra i quattordici e i quindici anni e che vivesse con una vecchia contadina, forse una zia, in una catapecchia mezza diroccata, isolata fuori del paese e raggiungibile soltanto con una mulattiera che si arrampicava lungo il torrentello ai margini del bosco.

Soprattutto, dicevano che fosse violento e cattivo, pronto sia a menare le mani ossute con chiunque gli desse fastidio, sia a uccidere con la fionda gli uccelli e qualsiasi altro animale gli capitasse a tiro.

Infine mormoravano che fosse meglio evitarlo se si era da soli in un posto isolato.

Di sicuro, Beu portava uno dei due cognomi che da soli riempivano buona parte dei registri dell'anagrafe del paese. Questo ricorrere di cognomi, testimone dei secolari intrecci di consanguinei in una vallata quasi isolata dal mondo sino al secolo precedente, era verosimilmente all'origine di una vena di follia che, in gradi più o meno visibili, più o meno pericolosi, percorreva una parte consistente della popolazione locale. Almeno questo era ciò che dicevano mia madre e mio padre nelle loro conversazioni a tavola, quando mi raccomandavano di stare attento a non dare troppa confidenza a buona parte delle persone e dei ragazzi che abitavano vicino a noi e che a me, invece, parevano solo brava gente, magari un poco stramba, ma simpatica e certamente gentile.

La guerra, finita da una quindicina d'anni, era ben viva nella mente degli adulti e non tutte le sue cicatrici erano consolidate, tanto che qualche anno dopo, quando il paese oramai faceva parte dei miei ricordi, il suo nome comparve per un certo tempo sui giornali, per oscure storie di omicidi mai risolti legati a presunti tesori nascosti dai partigiani alla fine della guerra; tutte cose che, ripensando al mio solitario aggirarmi per boschi e casolari, mi avevano spinto a riflettere sull'esistenza concreta degli angeli custodi e mi avevano fatto considerare sotto un'altra luce le parole dei miei genitori.

A quel tempo invece ero propenso a dar loro ragione soltanto per ciò che riguardava Beu, che io avevo sempre cercato di evitare, riuscendoci senza particolari difficoltà, almeno sino a un certo giorno.

Era un pomeriggio di autunno quando, sbrigati in fretta i compiti e salutata mia madre, scesi le poche scale di casa per i miei consueti giochi all'aperto.

Al di là della strada, appena fuori della palazzina popolare, mi attendeva il bosco e più tardi, nel posto segreto, tra il castagno scavato dal fulmine e la fontana, la combriccola degli amici.

Non a quell'ora però; mi piacevano i momenti di solitudine e li aspettavo, anzi, li creavo affrettandomi a finire i miei doveri scolastici per essere libero di uscire prima che arrivassero i miei amici.

I compiti alle scuole medie erano una cosa seria, tanto che due o tre ore, tutti i santi giorni, dovevano essere dedicate all'analisi logica, al latino e alla matematica. Poi la sera c'era una poesia da studiare a memoria, o qualche pagina di storia e geografia.

Tuttavia, allora come oggi, era la vita, per mezzo dei più improbabili maestri, a impartire gli insegnamenti fondamentali. Io, mentre imboccavo il sentiero del bosco, ancora non sapevo che ne avrei ricevuto uno che non avrei più dimenticato.

A passo lento mi godevo ogni metro di quella traccia scavata nell'erba, a tratti protetta da un muretto a secco, che dapprima saliva tra fichi selvatici. Meli e ciliegi, per poi inoltrarsi nella frescura del folto.

Il bosco era un castagneto, che già tra le foglie arrossate mostrava i suoi frutti irti di aculei, ma quegli alberi generosi non erano soli nel loro aggrapparsi al monte. In qualche spiazzo, magari accanto al rudere di un'antica legnaia, cespugli di nocciolo offrivano i loro frutti gustosi. Qua e là, appena riuscivano a trovare un ritaglio di cielo libero dalle sagome ingombranti dei castagni e il sole riusciva a penetrare per qualche ora, si affollavano i roveti, ricchi di more succulente. In stagione, i funghi erano un piccolo popolo silenzioso: le russole col loro colore proletario, spesso più ricche di piccole larve che di stopposo tessuto commestibile, i gialli gallinacci riuniti in famiglie numerose, i furbi porcini, rari e ben nascosti ma oggetto di caccia spietata, mentre i larghi cappelli dei prataioli biancheggiavano tra l'erba, là dove il bosco finiva e ricomparivano le fasce scavate da chissà quanti secoli e poi abbandonate, troppa la fatica per raccogliere giusto il prezzo del sudore speso.

E poi c'erano gli animali, gli uccelli su tutti, ma ogni tanto riuscivo a scorgere il movimento furtivo di qualche timido roditore, mentre la volpe non aveva paura di farsi vedere da un ragazzino innocuo e, se la incrociavo, si limitava a trotterellare fuori dal mio sentiero con apparente indifferenza.

Ero in cammino da pochi minuti quando un rumore di cespuglio smosso, poco più in basso, m'incuriosì. Mi affacciai con cautela al margine del sentiero, sperando di avvistare qualche animale; invece scorsi Beu che, la fionda in mano, stava prendendo di mira un grosso merlo posato incautamente sui rami bassi di un albero. Legati per le zampe con uno spago, alcuni uccellini pendevano dalla cintura del ragazzo, ai miei occhi prova evidente tanto della sua buona mira quanto della sua malvagità.

Concentrato sulla sua preda, Beu non mi aveva scorto; la mano destra tirava sempre di più l'elastico della sua arma, certo primitiva ma letale. Al malcapitato merlo restavano pochi secondi di vita.

Io ebbi una reazione tutta d'istinto, senza pensare alle conseguenze: battei le mani con forza e cacciai l'urlo più potente che mi riuscì di mettere insieme. Il merlo, spaventato, volò via scampando alla morte violenta, ma io capii all'istante che avrei dovuto affrontare le conseguenze del mio gesto impulsivo.

Beu, la fionda ancora tesa, mi stava guardando e aveva già spostato la mira verso di me: — Cosa ti è saltato in mente, pezzo di merda!

Ero nei guai, non c'era dubbio, avevo disturbato Beu nel suo passatempo e non l'avrei passata liscia. Tanto valeva fingere di non essere spaventato, in fondo ero grande quasi quanto lui: — Cosa salta in mente a te! Ammazzare quei poveri uccellini... è proprio vero quello che dicono di te, sei uno stupido cattivo!

"Ecco, se volevo una sassata in testa ora non me l'avrebbe tolta nessuno", pensai, guardando la fionda sempre tesa verso di me. Invece la mano si abbassò, la fionda fu posata in terra e Beu, mentre io me ne stavo immobile aspettando cosa avrebbe fatto, si liberò della cintura con gli uccellini morti: — La fionda è per le bestie, io ti sistemo con le mani, e non cercare di scappare ché ti prendo.

A scappare non ci pensavo nemmeno: avevo la mia dignità, anche se me la facevo sotto, e poi a botte con altri ragazzi avevo già fatto altre volte. A dire il vero, si era trattato più che altro di un gioco; con quello invece si sarebbe fatto sul serio.

Senza fretta, Beu si arrampicò sino al sentiero dove l'aspettavo. Non l'avevo mai visto da vicino, sino allora me lo avevano solo indicato gli altri ragazzi mentre passava silenzioso vicino a dove stavamo giocando: "Stai alla larga, è Beu, quello è cattivo e picchia forte".

Ora Beu era lì, davanti a me, eravamo soli e lui mi sovrastava di almeno dieci centimetri. Mi colpì, oltre all'altezza, la sua magrezza, il viso dagli occhi sporgenti e lo sguardo sfuggente.

Pur non fissandomi direttamente, riusciva a dare l'impressione minacciosa di un animale selvatico pronto ad assalire chiunque. E, infatti, mi fu addosso senza proferire un'altra parola.

Avvinghiati, rotolammo giù dal fianco erboso della fascia per fermarci in quella sottostante. Il caso volle che al termine della ruzzolata io mi trovassi sopra di lui, e ne approfittai subito per afferrargli le braccia e cercare di immobilizzarlo. Ricordo che, pur nella concitazione del momento, rimasi stupito da quanto magre, ossute fossero quelle braccia: con la mano riuscivo quasi a stringerle per intero.

Lui cercava di liberarsi dal mio peso, ma già allora ero ben piazzato se non grassoccio e Beu si stancò subito; era tutto nervi, ma evidentemente in quel corpo scheletrico di muscoli ce n'erano pochi.

Io ero stupito, avevo vinto troppo facilmente: il temutissimo Beu era sdraiato sotto di me, e non cercava più di liberarsi. Non seppi resistere alla tentazione di fare il gradasso, in fondo lui mi aveva assalito e ora si era arreso.

Lo guardai negli occhi e gli dissi con fare minaccioso: — Non ti azzardare più ad ammazzare gli uccellini, loro stanno bene dove sono, tu sei cattivo.

Per la prima volta anche Beu mi guardò dritto negli occhi.

Avevo evitato una dura lezione fisica, ma rapido e tagliente come una rasoiata mi arrivò l'insegnamento. Beu, con una specie di sussurro mi rispose: — Tu non capisci, noi abbiamo fame.


(fine)



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Roberto Virdo'


Il prato della Primavera


Era una passeggiata di routine. La ISS1 aveva bisogno di una continua manutenzione, e i frequenti controlli dall'esterno facevano parte di un protocollo di sicurezza ormai testato nei tanti anni di attività. Gabry questo lo sapeva, ma ciò che veramente importava era trovarsi lì, in quell'istante, fluttuante per la prima volta in un angolo di orbita terrestre. Privilegio riservato a pochissimi, il cui fascino sembrava essere svanito da ormai lungo, lunghissimo tempo per un genere umano troppo spesso distratto e superficiale.

La parte da ispezionare era quella più estrema, il modulo di servizio. Considerata la posizione relativa della struttura in rapporto alla Terra, poteva al momento dirsi la propaggine abitata più lontana mai creata dal genere umano. Gabry sorrise pensando che la sigla MRM-2, identificativa di uno dei componenti principali da visionare, avrebbe drammaticamente privato il tutto di ogni enfasi. Una volta in posizione iniziò con scrupolo il suo compito, di fronte a un pianeta azzurro maestoso e bellissimo. I movimenti meccanici, ripetuti fino allo stremo durante le sessioni di addestramento, non impedivano il dolce fluttuare dei pensieri, anzi per certi versi lo incoraggiavano.

Era stata sin da giovanissima una persona "speciale", aggettivo questo non del tutto indicativo delle varie sfumature di un corollario divenuto suo di diritto. Si andava dal soffice e politically correct "sognatrice" a un intermedio, più rigido "stramba", per terminare con il classico, impietoso "sconnessa". Ma a lei bastava poco per ritrovare il sorriso, forse perché, a dispetto di ciò che sembrava, non era mai sola: dimorava perennemente nel suo animo una innata voglia di sapere, l'incontenibile capacità di meravigliarsi per ogni piccolo particolare, dai colori di un bruco ai riflessi marini, dalla consistenza di una nuvola al rumore del tuono. Farsi delle domande e conoscere, la curiosità più pura e nobile, vero elemento distintivo della specie umana, fonte inesauribile per l'immaginazione.

La giovane astronauta si voltò per un istante e vide la Luna, appena più vicina del solito, incredibilmente nitida e brillante. I pensieri continuavano nel loro lento ma incessante fluttuare che tanto ricordava il volo delle farfalle. Quello sbarco sul nostro satellite naturale le tornava così spesso in mente: un'impresa mastodontica concretizzata sulla sola base di previsioni. Erano stati effettuati precedenti sorvoli e invii di sonde automatiche, indubbiamente, ma l'incertezza restava comunque enorme. Il successo conseguito nascondeva in sé la quintessenza della forza immaginativa di cui l'Uomo, inconsapevolmente, è capace. Ciò la inorgogliva particolarmente, quasi fosse stata lei a compiere quel "piccolo passo".

Continuò nelle verifiche programmate. Mentre effettuava alcune rilevazioni allungò lo sguardo sulla parte visibile della ISS. Era così perfetta… bella come un coleottero, con la testa minuscola e il corpo possente. Chi non sarebbe rimasto incantato da quelle meravigliose ali dispiegate in cielo, inondate dalla luce solare diretta? Chissà cosa avrebbe pensato Sondre, il silenzioso e taciturno comandante norvegese. La Stazione un coleottero… lui l'avrebbe fulminata con quei taglienti occhi di ghiaccio.

Qualcosa la fece voltare. Sondre era lì a guardarla da un oblò e lei, in qualche modo, lo aveva percepito. Tante volte in passato si era trovata in situazioni simili, in bilico tra l'irrazionale e l'inspiegabile. Troppe per considerarle un frutto del caso. Nel tempo aveva preso corpo un'ipotesi, prima sfumata poi sempre più consolidata, sfociata infine in una vera e propria teoria che si aggiungeva alla lunga lista delle "strambe" costruzioni prodotte, a ritmo vertiginoso, dalla sua fervida immaginazione: il pensiero era una forma di energia, capace di interagire con l'ambiente per mezzo di particelle che, complice una colpevole reminiscenza di greco, chiamò nousioni2. Prova ne era che pochi istanti prima aveva letteralmente "sentito" la presenza di Sondre.

Il vento invisibile dei corpuscoli di pensiero si era fatto strada nello spazio per raggiungere con sorprendente, infallibile precisione il bersaglio. E in fondo la confortava pensare che quel vuoto interplanetario fosse in realtà un crogiolo di elementi: raggi gamma, infrarossi, neutrini… nousioni, tutto eccetto le onde sonore. Il regno incantato del silenzio.

Senza rendersene conto, Gabry rallentava le operazioni di verifica rapita, come sempre le succedeva, dal crescendo di emozioni. Il magnifico globo terracqueo, la scintillante sagoma dell'ISS e, come se tutto ciò non bastasse, lo spazio profondo incrociato casualmente durante una somersault3, l'avevano inondata con tutta la forza della loro bellezza impareggiabile. Le innumerevoli stelle, con i loro riflessi che spaziavano dal rosso al blu, la fecero restare immobile, prigioniera di un incantesimo. Un dominio che, pur manifestando con forza l'inimmaginabile potenza degli astri, giungeva attutito dall'incalcolabile distanza. Gabry identificò i principali richiamandone alla mente, in sequenza, i nomi propri. Avida di bellezza non si accontentò e scandagliò il buio punteggiato in cerca di quella piccola nuvola sfumata, tanto simile a una macchia di spray, che pochi sanno essere tra i rari oggetti esterni alla nostra Via Lattea visibile a occhio nudo: la Galassia di Andromeda.

Sospesa nel vuoto, cercò di discernere le sensazioni che turbinavano in cerchio nel suo animo. Tra queste ne avvertì una tutta particolare, non fastidiosa ma persistente, che sembrava quasi voler richiamare la sua attenzione. Si guardò dentro nei flash di memoria, scorrendoli rapidamente come farebbe un adolescente con le foto del suo smartphone, finché non si soffermò su un'immagine sfocata. Era certamente qualcosa di lontano nel tempo, eppure fortemente presente.

Con uno sforzo notevole di concentrazione le linee si fecero via via più nitide ed ecco, infine, apparire un prato verde con avvallamenti, buche, tratti sterrati e pozze d'acqua. Gabry riconobbe subito quello che sembrava provenire da un'altra vita, remoto almeno quanto la luce delle stelle. L'emozione fu tale che le sue labbra scandirono involontariamente parole ormai sepolte da secoli: — …il prato della Primavera!

La mente fece un salto notevole, tornando agli anni in cui lei, giovanissima, viveva in un modesto appartamento di periferia. I compiti, i giochi e le mille raccomandazioni di mamma e papà: non allontanarti per nessun motivo, mai! In fondo era una bimba tranquilla e disciplinata, ma la sua indole sognatrice tradiva già allora l'irrefrenabile voglia di esplorare e conoscere. Del resto, non fu colpa sua l'abitare in prossimità di quel prato, situato lungo la strada che la famiglia usualmente percorreva in auto uscendo o rientrando a casa. Gli abitanti della zona, in ragione del nome che portava il viale antistante, lo avevano chiamato il "prato della Primavera". Gabry lo osservava silenziosa dal finestrino posteriore, come spesso fanno i bambini, fantasticando di camminare su quell'erba che poteva vedere dalla strada situata appena qualche metro più in basso. Chissà quali meraviglie si celavano più lontano, dove la vista non poteva arrivare.

Fu così che un giorno, mentre in cortile giravano in tondo con le biciclette, la più temeraria delle sue amiche lanciò l'idea: — Perché non andiamo al prato?

Gabry, di getto, rispose no, sentendo in cuor suo che sarebbe stato un tradimento nei confronti dei genitori. Ma vedendo partire le altre non resistette e si accodò, giurando a sé stessa di dare solo uno sguardo e via, subito a casa. Il luogo era in realtà relativamente vicino, non più di un chilometro, eppure le sembrò di attraversare il mare. Arrivata sul posto, percorse gli ultimi metri sulla strada sterrata che saliva e di fronte le si aprì uno sterminato orizzonte.

Lasciò cadere la bici restando immobile a contemplare gli steli d'erba che si muovevano al vento, le dune di terra, le file di alberi giganteschi (così li ricordava) e lontana in fondo una casupola di lamiere, che per la sua giovane fantasia doveva certamente custodire chissà quali intriganti misteri. Tutto era nella realtà ancor più bello di quello che aveva immaginato, con il cielo grigio di fine autunno, le foglie che si agitavano a tratti e, nel profondo del suo animo, quel primo vero brivido che aveva un sapore dolce e amaro allo stesso tempo. Le sembrava di aver rubato qualcosa e per questo non meritare tanta bellezza, ma stranamente questa sembrava offrirsi a chi, con coraggio, la sapeva cogliere. L'appagamento era più grande del rammarico e ora, a distanza di una vita, eccola ancora lì, la stessa bambina con qualche anno in più, la stessa sensazione di non essere degna di tanta meraviglia.

Una voce gracchiò nella cuffia: — Gabry, che succede? era Sondre, ora alquanto preoccupato di quella incomprensibile immobilità che sembrava aver colto la giovane astronauta.

Lei si scosse dal torpore: — Sondre è tutto OK. Scusa ma non avevo mai visto qualcosa di così meravigliosamente bello. — disse, considerando che la verità sarebbe stata l'unica risposta davvero credibile. Il Comandante rimase in silenzio. Razionale, testardo norvegese dagli occhi di ghiaccio. Non aveva gradito, questo era certo.

In realtà Gabry faticava a ritrovare la concentrazione. O forse, semplicemente, non lo voleva. Si sentiva felice e triste come allora, in quel momento davanti al prato, lo stesso indescrivibile mix di sensazioni, se non contrastanti, sicuramente diverse. E come allora, a un tempo felice di realizzare un sogno, e profondamente rattristata per non poterne condividere la straordinaria grandezza. Pensò che forse, quando ci troviamo di fronte a qualcosa di maestoso, la natura umana ci spinge a cercare una mano da stringere, un compagno di viaggio.

Le vennero in mente i più sfortunati, coloro che un destino infausto ha rinchiuso in vite di malattia e impedimenti. Come sarebbe stato bello, emozionante, importante! Poterli avere accanto in quell'attimo, tutti e di tutte le età, stretti per mano in una immensa catena umana, sospesi e finalmente liberi dal loro corpo martoriato, circondati soltanto dallo spazio infinito, che tanto deve somigliare all'amore di Dio, troppo grande per i nostri cuori tormentati.

E quando l'emozione stava per prendere il sopravvento le venne in soccorso un'immagine, sepolta fino allora chissà dove nei meandri della memoria: era il celebre Stephen Hawking che, con sorriso soddisfatto e quasi beffardo, galleggiava a mezz'aria durante una simulazione di assenza di gravità. Stephen, che non aveva permesso alla malattia di fiaccare lo spirito. Stephen, tra i giganti dell'umanità. Queste erano le istantanee che il burst4 mnemonico sul grande astrofisico aveva portato con sé. "Sei l'orgoglio di tutti noi." pensò Gabry, sforzandosi di concentrare un fascio di nousioni così potente da fargli arrivare un bacio lassù, dovunque egli fosse.

Gabry, Gabry? Che diavolo combini? C'è qualcosa che non va! Vengo a prenderti.

Lei staccò le comunicazioni. Cercava solo pace ormai, come quella sera tornando dal prato, il giorno dopo e poi ancora e ancora, per lunghi anni. Non raccontò ai suoi genitori cos'era accaduto, che aveva disubbidito, che era stata laggiù. E nessuno seppe mai di quel balordo che l'aveva attirata con un inganno nella casupola.

Il regno incantato del silenzio…

Sollevò la visiera.


(fine)







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MattyManf


Il Carillon di Absindaele


Poco più di una settimana era trascorsa dal giorno di Samhain, ma già sembrava lontano. Il soffio freddo dell'autunno spazzava lo Shamrockshire. Dan, seduto alla veranda della sala da tè di Absindaele, sorseggiava il suo infuso controllando impaziente il quadernetto pieno, per lo più, di scarabocchi. Vi era giunto quella mattina, ma il paesello, dimenticato alle spalle della foresta di Wormwood, lo aveva già terribilmente annoiato.

Dove la città finiva e prima che il bosco cominciasse si stendevano grandi prati di trifogli, ma Dan non era interessato al panorama. Teneva gli occhi fissi sulla grande torre in cima alla collina. Il Carillon suonò. Una melodia armoniosa, leggiadra, ma solenne, si riversò per le strade. Delicatamente dall'allegretto passava all'adagio e poi al grave, per poi, mutevole, risalire. Subito lo colpì la varietà di suoni che tra quelle note si mescolavano. Si diceva del Carillon, che più di cento campane lo componessero, ciascuna con un suono unico e impossibile da imitare. Non si sapeva né chi le avesse forgiate, né come e nemmeno quali mani le orchestrassero.

Del resto, quella meravigliosa musica veniva dal Cenobio di Absindaele e nessuno dal paese mai vi si recava. Era la dimora delle Dame del Cordoglio, un ordine occulto di damigelle dedite alla caccia alle streghe, ai Maligni e alla distruzione dei Patti Infernali. Altri cenobi erano a Vesperia e spesso nei loro pressi sorgevano cittadine che, collaborando con le Dame, prosperavano. Ma il Cenobio di Absindaele non era come gli altri: era una prigione. In gran segreto le nere carrozze vi giungevano dalle contee più lontane per dimenticare tra quelle mura gli empi condannati.

Dan, invece, non vedeva l'ora di recarvisi. Gli era toccato scrivere una lunga lettera alla Mater in persona con tanto di firma dell'editore per organizzare tutto e quando, appena due giorni prima, ricevette risposta, quasi stentò a crederci. Ottenne il privilegio raro di visitare il Cenobio, potendone poi uscire.

Cominciava a sospettare che si fossero dimenticate di lui, quando una carrozza scura e baroccamente decorata lo raggiunse. Ne discese una graziosa ragazza in vesti monacali. Dalla cintola le pendeva un gagliardetto con su ricamata una rosa irta di spine. Dan rimase stupito. Girava voce che le Dame di Absindaele fossero di aspetto disturbante; questa, invece, non gli sembrava diversa dalle altre che gli era capitato di incontrare. Si trattene dal chiedere in merito per metà del viaggio. Quando cedette la dama, arrossendo, spiegò di essere soltanto una novizia in visita e che, proprio a causa dell'aspetto peculiare delle sue protette, la Mater aveva preferito che una dama —normale— lo accogliesse. Dan, scosso, preferì non approfondire. Passò il resto del viaggio ammirando le distese di trifogli perdersi nelle grandi pianure a est.

Voltato l'ultimo tornante, la possente mole del Cenobio apparve. Seppure dittici di finestre appuntite vi si aprivano, le strutture, più che dormitori, sembravano bastioni di una fortezza. A coppie gli edifici erano uniti da un baluardo a formare, tutti assieme, un pentagono. Da dietro le mura, s'innalzava la torre del Carillon. Imponente, eppure leggero, non vi erano pavimenti a dividerlo. Lo si poteva costruire innalzando ai vertici di un pentagono colonne, ponendo tra ciascuna coppia un arco acuto e impilando cinque strutture identiche alla prima. Dal tetto appuntito di quell'immensa cassa armonica, pendevano le campane.

Dan ne fu rapito. Quasi rimase deluso quando, varcato il cancello, il soffitto glielo nascose. Udendo il clangore con cui la grata si richiuse dietro la carrozza, Dan raggelò. Il suono dell'ineluttabilità. Inorridendo, si chiese quanti, prima di lui, avessero provato il medesimo senso di sopraffazione.

Aveva stimato che il chiostro interno dovesse essere ampio, ma mai si sarebbe aspettato che contenesse addirittura un piccolo lago. Ancor più stupito fu nel vedere che il Carillon non poggiava sulla terra. Cinque possenti archi rampanti, emergendo dalle profondità del lago, ne reggevano la base a circa tre metri dal pelo dell'acqua. Dan aprì il quadernetto, ma non vi scrisse nulla: la meraviglia lo aveva incantato.

— Toglie il fiato, vero?

Avvolta in un manto nero, una donna gli porgeva la mano affusolata, ma Dan esitò. Quella testa era decisamente strana. I primi capelli, candidi e lunghissimi, ricadevano dalle tempie sulle spalle disegnando una mantellina e a ciascuna ciocca era legato un anello da cui chiavi luccicanti pendevano. In alto, sulla pelle glabra, era stata tatuata la graticola di un portone le cui punte, percorrendo la fronte, terminavano sulle sottilissime sopracciglia. Luminosi occhi dalle iridi verdi sporgevano dal viso magro e un sorriso tagliente le completava il volto.

— Voi, immagino, siete la Mater.

Dan, finalmente, le strinse la mano.

— Madama Artymesia, Dama del Cordoglio, Gran Sacerdotessa delle Coercetrix e Mater di Absindaele. Spero per voi, che siate Daniel Velz, altrimenti, non dovrei lasciarvi uscire mai più.

— Per fortuna che lo sono, allora!

La Mater, sorridendo, fece strada attraverso il porticato del chiostro.

Dan continuava a osservare le consorelle impegnate nella cura degli orticelli che lambivano le rive del lago. Tutte le coercetrix erano glabre e indossavano a mo' di pendente una chiave d'ottone. Sulla tonaca scura vestivano un'inquietante bavero nero che aderiva al collo e arrivava sino alle orecchie.

— Le discepole vi mettono a disagio? Sappiate che è voluto: aiuta a tenere docili i nostri ospiti.

Dan annuì annotando qualcosa sul libricino.

Era convinto che i loro sguardi indagatori avessero dissipato ogni languore, ma si sbagliava. Artymesia lo fece accomodare in un salotto riscaldato da un ampio camino. Il balcone affacciava sul lago. Durante il pranzo, per ciascuno dei severi dipinti appesi alle pareti la Mater raccontò un aneddoto. Ammirando la sala, Dan sussultò, scoprendo come quelli che aveva creduto manichini, fossero invece vere Dame a guardia degli ingressi. Le grosse alabarde che impugnavano lo intimorivano.

— Daniel, scrivete dunque quei molli librucoli stampati per il diletto del popolo?

— Non disprezzerete mica la carta stampata?

…Affatto! Ho voluto per il Cenobio una pressa a caratteri mobili. Ma non gradisco che quel dono del progresso sia usato per spettacolarizzare episodi truculenti.

— Disprezzate, dunque, questa novità che è la cronaca e indirettamente il suo autore.

— Cronaca… Signor Velz, scrivete racconti dell'orrore esagerando le gesta di noi Dame. Ci fate un po' più crudeli, inzuppate le pagine di sangue e mostruosità, poi lo vendete per un misero giuncato di rame.

— In vero, l'editore fissa il prezzo.

— Non di meno, i vostri scritti costano come una pinta di birra e hanno più o meno la medesima funzione sociale.

— Eppure, mi avete accolto con la promessa di incontrare un detenuto.

…E la manterrò. Ma mi piace conoscere i miei ospiti, prima di portarli nelle prigioni.

Artymesia lo stava mettendo alla prova o, semplicemente, si burlava di lui? Rimaneva seria e distaccata, ma le sue verdi iridi suggerivano un'eccitazione simile al divertimento. Dan sentì il bisogno di alzarsi.

Vista dal balcone la torre era incantevole. Dan notò che sul tetto si aprivano alcune ampie finestre. Che nascondesse un ambiente vivibile, per quanto inaccessibile?

— Per gli Dei, dai vertici del tetto pendono gabbie!

— Hanno una funzione decorativa. Non possono che dirsi obsolete per contenere prigionieri che, come i nostri, son capaci di compiere diabolici prodigi.

— Mi chiedo perché non uccidiate semplicemente le vostre prede.

— Magnanimità. Inoltre, quale spreco sarebbe! Come meglio conoscere i nostri nemici, se non studiandoli e conservandoli?

Dan preferì non indagare oltre.

— Veniamo a ciò che vi interessa davvero. Ditemi ciò che già sapete di Hostville.

Dan, sfogliato il suo libricino, lesse

Hostville, nel Krakenshire, nella notte di Samhain è stata teatro di attività diaboliche legate alla stregoneria. Nei giorni precedenti, un gruppo di satanassi ha occupato un casolare diroccato praticandovi i rituali necessari affinché il grande Sabba potesse corrompere i Sacri Spettri che ci visitano in quella santa notte. Cinque capre sono state sacrificate e con il loro sangue bollito sono stati nutriti i prigionieri umani in vista della loro futura immolazione.

…Siete molto documentato, vedo.

— Appena ho saputo della vicenda vi ho scritto la lettera che sapete e sono corso a Hostivlle.

— Sembra vi interessi più il sangue delle capre che le gesta delle mie consorelle.

— Assolutamente no! cinque Dame del Cordoglio giunsero alla vigilia del rituale guidate da Madama Renya di Pytidam, dama temeraria di cui ho sentito parlare, ma per la prima volta al comando. Impugnando armi consacrate, si sono eroicamente introdotte nel covo interrompendo il rituale. Nel cruento scontro, dicono i superstiti, più di un prodigio è stato compiuto. Pare che Renya, brandendo uno scudo santificato, protesse le sue da un'impotente colonna di fuoco congiurata dalla Signora del Sangue Ardente…

— Sara Canesworth.

— Come dite?

— Potreste chiamare la strega semplicemente col suo nome, no? Vede, lei spettacolarizza!

— Ma si faceva chiamare…

— Non vedo perché mai dovreste accontentarla!

— D'accordo: "S.C. è stata presa viva, a differenza di molti suoi seguaci. Tra questi, dai gioielli che indossava, è stato riconosciuto Lester Folt, suo amante e compagno di nefandezze. Pare che S.C. lo abbia accidentalmente carbonizzato! Il mattino seguente S.C. fu scortata ad Absindaele da cui, si spera, mai più uscirà." Sapete altro che potrei aggiungere?

— Soltanto, che Sara si era già macchiata di molti crimini, purtroppo. Peccato, sarebbe diventata un'abile ematomante, se soltanto non si fosse lasciata tentare da Folt. Che sia per quello che l'ha bruciato?

— Ad Hostville tutti li descrivono come una coppia affiatata.

— Avete perso tempo chiedendo queste frivolezze?

— Non ho potuto fare a meno di udirlo: sapete come sono i paeselli…

La Mater ritornò a guardare fuori e Dan la imitò.

— Ma… cosa diavolo è quella cosa?

Una corpulenta figura coperta di stracci bruni, con fare scimmiesco, era sbucata sul tetto della torre e aveva cominciato a scendere arrampicandosi tra le colonne.

— Gramnel è uscito, dev'essere già ora del tè!

Rispose la Dama con naturalezza. La musica del Carillon cominciò a permeare l'aria richiamando le novizie alle loro mansioni.

Nella torre, la creatura balzava tra le colonne, si tuffava, s'aggrappava alle grandi corde, batteva coi piedi su una campana per saltare su un'altra e così via. Quel corpo bizzarro danzava tra le campane con balzi degni di un acrobata circense. Dan era incredulo. Qualunque cosa Gramnel fosse, era lui a suonare il Carillon.

Tic. Poi un altro tic. Dan si girò verso l'interno della stanza. Due glabre dame avevano servito il tè e silenziose attendevano che la mater le congedasse.

— Mater, lasciate che ve lo dica. È davvero un peccato costringere delle fanciulle così dolci a deturparsi la testa.

— Non sono costrette, lo scelgono. Da novizie sono Dame come le altre, soltanto una volta intrapreso il cammino della Coercitrix viene loro chiesto quel sacrificio. È necessario: il sacro inchiostro non può spargersi se non su una pelle pura come solo l'esposizione quotidiana alle acque del Lago Absyn può garantire.

— Non mi paiono tutte tatuate.

— O la loro preparazione è incompleta, oppure ve li celano.

— Volete dire che, anche voi, avete altri tatuaggi? Ma, tagliate via solo il crine, oppure…

— Dan, se volete che mantenga la mia parola di farvi incontrare la signorina Caneworth, bevete il vostro tè e smettetela di sfidare la mia pazienza.

Dan assaporò la bevanda che gli veniva porta. Percepiva un retrogusto fresco e piacevole, pervaso da una nota di sambuco.

— Mater, devo dirvelo, questo infuso è sopraffino. Non credo di averne mai bevuti di migliori. Questa musica e questi sapori… Quasi mi sento stordito!

— Me ne compiaccio.

— Cosa c'è?

— Foglie di tè, un po' di menta e alcune foglioline dei nostri orticelli. Vedete? Le coltivano laggiù. Noi la chiamiamo Nebbia Argentea.

Dan avrebbe voluto approfondire l'argomento, ma una delle Dame si avvicinò alla Mater e sottovoce le sussurrò: Giungerà per sera.

La Mater congedò la ragazza e la visita cominciò.

Artymesia guidò Dan al pian terreno: i quartieri alti ospitavano i dormitori e visitarli sarebbe stato sconveniente. Gli mostrò invece la sala d'arme e le numerose cappelle dedicate agli Dei. A ogni porta, la Mater afferrava una delle chiavi che le pendevano dai capelli. Nelle catacombe gli mostrò le tombe delle più venerande eroine del suo ordine, narrandone le gesta. A lungo visitarono la fonderia dove venivano forgiati sia i caratteri per le presse, che le armi delle consorelle. Dan chiese se anche le campane del Carillon fossero state forgiate là e cosa le rendesse tanto uniche. Artymesia sorrise.

— Alcune sì, altre ci furono donate. Certo, sono state tutte benedette, ma non vi è nulla di speciale nella loro fattura. Il segreto è tutto nelle mani di Gramnel: soltanto lui sa far vibrare gli animi in quel modo.

Dan annuì, ma la sensazione che qualcosa gli venisse taciuto rimase.

La camera delle torture lo provò. Tutti i macchinari gli parvero terrificanti, ma il volto della Vergine di Ferro fu ciò che lo mise più a disagio. Non gli era stato mostrato che metà dell'arsenale, quando fu costretto, barcollando, a uscire. Se non gli avessero offerto un'altra tazza di tè per rifocillarlo, di sicuro sarebbe svenuto. Dan avrebbe voluto vedere le armi e gli scritti sottratti ai prigionieri, ma, dato che nemmeno alle novizie veniva permesso, non gli fu concesso.

La sala delle presse a caratteri mobili gli ridiede il buon umore. Tre novizie e un'iniziata avevano il compito di convertire in stampa i documenti scritti a mano che accompagnavano i prigionieri. Da lì procedettero alla biblioteca. Con grande sorpresa di Dan, su di uno scaffale in bella vista vi erano i "librucoli molli" di un certo Velz. Non tutte le consorelle li disprezzavano, dunque.

Ritornarono al chiostro che era ormai il tramonto. Dan, nonostante si sentisse frastornato e assonnato, voleva incontrare la strega. Troppo si era impegnato per arrivare fin là e aveva già così tanto rischiato, che per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato. Nella mente ripassava cauto tutto ciò che avrebbe dovuto chiedere e fare. Il primo passo sarebbe stato raggiungere la cella e, finalmente, vederla.

Il suo entusiasmo si spense quando Artymesia lo condusse al moletto del lago. Là erano ormeggiate alcune barche a remi la cui polena raffigurava una Dama con la mano protesa in avanti a reggere una campanella. In una di queste, una Dama, sistemata al posto del rematore, li attendeva con una lanterna.

— Mater, non voglio offendere la vostra ospitalità, ma credo che non vi sia tempo per un giro del lago.

— Dan, non preoccupatevi, ci sarà tempo per ogni cosa. Mantengo sempre la mia parola. Non vorrete mica andarvene senza aver visitato il Carillon?

Così dicendo, la donna distese un braccio verso la costruzione che troneggiava sul lago. Adesso, con il rosso del tramonto che filtrava tra i suoi vuoti, il Carillon assumeva un che di minaccioso. Anche l'idea di vedere Gramnel da vicino non allettava Dan particolarmente. Ma Artymesia aveva già deciso.

Nonostante la barca scivolasse placida sulla quieta superficie del lago, Dan cominciava ad avvertire un certo mal di mare, ma, non volendo perdere altro tempo, preferì non lamentarsi. Dalla riva non se ne era accorto, ma per qualche motivo delle grate chiudevano gli archi alla base della torre. Inoltre, per quanto le cercasse, non vedeva né una scala, né una corda, né nessun altro modo per salire dalla barca alla piattaforma sorretta dagli archi rampanti.

Quando vi furono sotto, la rematrice suonò la campanella di prua. Dan alzò il capo. Sullo sfondo di un cielo violaceo, svettava il Carillon. Da dove era adesso riusciva vedere, in alto, il complicato sistema di corde e pulegge da cui le campane, oscillando appena, penzolavano. Lassù, arrampicandosi tra l'architettura e le corde, un'ombra scendeva divenendo sempre più grande. Alla fine, afferrando con l'enorme mano una delle colonne e poggiando i piedi sul bordo degli architravi, Gramnel il gigante si mostrò. Nel buio cappuccio della cappa che lo avvolgeva, i suoi piccoli occhi luccicavano come stelle.

Dan sapeva che nelle vaste piane a est dello Shamrockshire vivevano i giganti, ma mai gli era capitato di incontrarne uno. Era alto più di tre metri e largo alle spalle più di due. Dal cappuccio sgusciava un viso dai lineamenti ciottolosi, con un gran naso aquilino e la larga mascella coperta di barba nera. Con voce cavernosa diede il benvenuto ai visitatori, poi gli rivolse un sorriso maligno. A un cenno di Artymesia, sfruttando la sua forza per tirare una grossa catena, fece sollevare la grata che riempiva l'arco di accesso al Carillon. Una piccola scaletta fu calata. Dan salì per primo, la Mater lo seguì. Gramnel, balzando sulla piattaforma, lasciò che la grata calasse dietro di loro. Uno strano senso di déjà vu pervase Dan. Essere rinchiuso in un recinto al centro del lago non era esattamente quello che si sarebbe aspettato.

— Daniel, mi sembrate confuso. Dovreste essere contento! Siete tra i pochissimi che hanno avuto il piacere di conoscere il mastro campanaro di Absindaele. — disse Artymesia.

Gramnel, piegandosi sulle ginocchia, porse la gigantesca mano a Dan che, stordito dalla mole del suo interlocutore, riuscì a malapena a poggiarvi la sua.

— Sta bene 'sto qua? — tentò di sussurrare il gigante.

— Temo non fosse abituato alle barche… né ai giganti… né all'assenzio.

— Assenzio? — chiese Dan sedendosi a terra.

— Sì, Dan, assenzio. Qui al Cenobio ne produciamo una varietà unica, capace sia di stordire che, in parte, di inibire certe soprannaturali capacità. Guardate la riva: come brillano le loro foglie! Non sembra proprio una Nebbia d'Argento?

La testa di Dan girava come un carosello. Cosa stava succedendo? Non era andato, fino a quel momento, tutto come aveva pianificato? Aveva visto il Cenobio… e il Carillon… avrebbe parlato con Sara. Ma quando?

— Mater, avevamo un patto… Ricordate? Non dovremmo…

— Non siate impaziente. Non volete vedere da vicino una delle meraviglie del Carillon? È un privilegio unico. Che ospite indegna sarei, a negarvelo? Gramnel, procedete.

Il testone incappucciato annuì.

Agile, il gigante s'arrampicò sulle colonne, salì su una grossa campana d'ottone e lasciando scorrere la corda tra le mani, scivolarono assieme verso il basso. A mezzo metro dalla piattaforma si fermò. Gramnel vi si infilò sotto e sganciò un meccanismo. La catena che usci dalla campana terminava nell'insolito batacchio adagiato al suolo. Al posto dell'asta, un morbido fagotto di stracci, tenuti stretti da otto spesse cinghie di cuoio, s'infilava in quella che, più che la testa di un battente, sembrava una pesante maschera sepolcrale. A Dan ricordò l'orribile volto della Vergine di Ferro. Sulla fronte c'era il buco di una serratura.

Dan, immobile, si sentì sopraffare da un tremendo presentimento. Fortunatamente, non era uno sciocco: aveva nascosto addosso, da qualche parte, un pugnale. Ma per quanto cercasse di afferrarlo, era troppo frastornato per riuscirci. Si udì un campanello. Gramnel sollevò la grata. Era il momento per fuggire, gettarsi nel lago e sparire. Ma quell'idea vorticava assieme ai suoi ricordi nel vuoto dell'assenzio. Dan, in ginocchio, fissava la testa d'ottone.

La Mater vi si accovacciò accanto, reggendo una ciocca di capelli. Tra le dita luccicava una chiave. La serratura scattò. Un gemito soffocato divenne un respiro ansimante, poi, quando Artymesia sfilò il casco, fumi verdi si diffusero e il volto smunto di una donna dagli occhi spalancati ne scivolò fuori. Dan urlò portandosi le mani al volto. Sara Canesworth, boccheggiante, si dimenava nella camicia di forza. Avvolgendosi attorno ai piedi, la catena la vincolava alla campana. La strega strabuzzò gli occhi per la sorpresa. Riconoscendolo gli sorrise.

In preda al terrore Dan guardò in alto. Ogni battente un casco, ogni campana una prigione. Balzò indietro, cercando di fuggire, ma qualcosa di freddo e duro lo arrestò. Un volto lo fissava dal pesante scudo che una Dama dal crine bruno brandiva, impedendogli la fuga. Al suo fianco, c'era la Dama che lo aveva accompagnato in carrozza.

— Non provateci, vi ho disarmato da molto… — sussurrò Artymesia — …e, distrutto il Patto Infernale di Sara, anche i vostri poteri sono andati. Ormai è una pura formalità, ma… Renya, lo riconoscete?

La Dama, senza abbassare lo scudo, lo fissò.

— Sì, Mater. S'è vestito diversamente e ha tagliato la barba, ma è quel satanasso di Folt. Mi aveva fregato, con quel giochetto dei gioielli…

Gramnel piombò su Dan avvolgendolo in un robusto manto. L'uomo tentò di dimenarsi, ma era ormai troppo avvelenato per opporsi. Il cuore pompava impazzito.

— Come?! — fu l'unica cosa che riuscì a strillare.

— Ebbene, vi spetta… — disse la Mater — …la vostra lettera: è arrivata troppo presto. Che Velz fosse corso là era plausibile, ma come avrebbe fatto a informare il suo editore in tempo? Renya era già partita, ma non appena ho ricevuto la lettera, ho provveduto a riconvocarla. Ma, ci sarebbe voluto del tempo: come smascherarvi? Fortunatamente, la sua allieva… — così facendo indicò la novizia — …aveva deciso di rimanere. Valutava se divenire mia discepola. Così, ho pensato di mandarla da voi.

— Piccola sgualdrina! Sei stata tu a smascherarmi! — urlò Dan ansimando.

— No, purtroppo non era sicura. Vi ha visto a Samhain per la prima volta, non come Renya che vi ha braccato a lungo. Siete stato voi a tradirvi, Folt.

— Come? Non capisco…

Artymesia sorrise.

— Dopo pranzo, Folt. Non potevate saperlo… — disse la donna mentre Gramnel armeggiava con un casco simile a quello che avevano tolto da Sara. …ma anche se non ho mai incontrato Velz, gli ho scritto molto e lui mi ha sempre risposto. Il fatto è, signor Folt, che io adoro i suoi libri!

Folt spalancò gli occhi urlando e cercando di liberarsi, ma le cinghie gli stringevano ormai il corpo. Un forte odore d'assenzio scendeva dal casco che Gramnel gli stava chiudendo attorno alla testa. In preda allo stordimento, l'ultima cosa che vide fu il cancello tatuato della Mater scorrerle sul viso e coprirle lo sguardo. I suoi occhi verdi brillarono nella notte. Una serratura scattò, poi più nulla.

La barca attraccò al moletto e le Dame ammirarono il Carillon luccicare in un cielo di stelle. La sagoma di Gramnel vi si arrampicava. Una melodia romantica, ricca di toni sublimemente decadenti, vibrò nel plenilunio arricchita da un nuovo, irriproducibile suono.


(fine)



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Marcello Rizza


Le lacrime dei distratti


Il sole asciugava l'uva nei vigneti ed evidenziava il viola e la patina di muffa nobile della bacca del Norton Cinthiana. Era una tarda mattina d'ottobre, faceva decisamente troppo caldo per continuare la vendemmia, in Florida c'è umidità anche nelle campagne. I braccianti sudati caricavano i trattori di tinozze colme di uva, alcune donne cominciavano ad apparecchiare su una tovaglia a terra: ciambelle con sciroppo d'acero e succo di mela, salsicce e sangria. Una bracciante notò un'auto parcheggiare nella proprietà di Zeph, ne scese una donna che si diresse verso il retro della casa.

— Guarda chi si rivede! — distraendo gli altri che si voltarono.

— Ma quella è la figlia.

— Sì, è lei, non si vedeva da un pezzo.

Scese dall'auto e si predispose alla quiete, il CD che aveva ascoltato a basso volume, l'ultimo lavoro inciso da suo padre vent'anni prima, era bello ma già raccontava malinconia dal titolo "The River of Dolls" e a lei occorreva pace. Non l'aveva avvisato del suo arrivo. Aveva con sé la borsa della spesa e una piccola valigia, conteneva il necessario per quattro giorni. Lo trovò riparato dal sole sotto la pergola nel retro, in giardino. Dormiva sulla sedia a dondolo, teneva un libro poggiato sulle magre gambe scoperte, il portacenere sopra il tavolino era sconsolatamente pieno. Uno sciame di moscerini dell'uva silenziosi muoveva una danza disordinata vicino al cesto della frutta, pensò che fosse un ambiente d'abbandono. Buck arrivò scodinzolando felice: —Woof woof.

Gli strinse affettuosamente il muso: — Shhh! Non svegliare Papi! — sorrise e gli diede un bacio sulla fronte. Suo padre non si svegliò — bene! — entrò in casa dall'ingresso posteriore e anche là c'era un contenuto disordine: un po' di ragnatele agli angoli, tende ingiallite, libri e quaderni dappertutto. Lesse alcune pagine dei quaderni, pur non calcando più le scene il grande rocker continuava a scrivere canzoni. I testi erano sempre belli, erano poesie, le scriveva per Lilith e su Lilith. Forse in altre pagine aveva anche scritto una canzone su di lei. Probabilmente no. Mise in ordine la stanza, libri e quaderni al proprio posto. Entrò nella sua camera da letto e volse gli occhi all'orsacchiotto della sorella appoggiato sul letto vuoto. Cacciò in gola il pianto, risolse di non aprire subito quel cassetto appena socchiuso della memoria, sapeva che sarebbe giunto quel momento, era tornata a casa anche per quello.

Buck si strusciò addosso al suo padrone, si erse sulle zampe appoggiandosi alla sedia a dondolo e lo leccò col suo vezzo canino di baciare. Lui si svegliò e, ancora intontito, percepì una presenza e un profumo di cipolla caramellata, carne alla brace e rosmarino stufato nelle patate al forno. Capì e malinconicamente si sorprese: —Dove sono gli occhiali? Sarà in cucina? Cosa le dico?

Lei stava apparecchiando la tavola, sentì nelle reni il silenzio di suo padre e si voltò, si guardarono, lui con la schiena dritta ma le spalle che cadevano pesanti, lei con una espressione involontaria che s'accordava con le spalle del padre. Non parlarono per un istante, che certi istanti durano immensi ricordi. Non si abbracciarono, lei sorrise:

— Non mi fermo molto, sai, fra sei giorni ho il volo per Roma.

Zeph osservò la stanza in ordine, i quaderni, e gli scattò qualcosa: — Hai letto i quaderni?

Lei esitò un attimo di troppo a dirgli che no, non li aveva letti, le spalle scesero ancora più pesanti. Passarono una serata tranquilla, poche parole di circostanza, silenzi nascosti guardando il cielo stellato. Buck li tirava per i pantaloni e poi si rassegnava e si stendeva ai piedi di uno e dell'altra, di volta in volta.

Dormì poco e male, alle 06:30 suo padre ancora era a letto e lei già in cammino con a tracolla la chitarra, Buck scodinzolando la seguì. Le bastarono cinque minuti per raggiungere il fiume e sedersi a guardar scorrere l'acqua, a farsi violentare da ricordi e sensazioni. Era l'anniversario. Trent'anni erano trascorsi.

— Anche tu hai i tuoi ricordi Buck? Ricordi quando morì tua madre? Quando ti staccarono dai fratellini? — Buck dormicchiava incurante, lo accarezzò.

Rivide se stessa e Lilith piccoline, con il sogno di cantare un giorno sul palco insieme al loro idolo, loro padre. E poi quella bambola a cui lei e Lilith volevano fare il bagnetto: — Papà, dai! Andiamo al fiume!

Non aveva tempo, si mise le cuffie alle orecchie e riascoltò ancora gli arrangiamenti delle ultime canzoni, voleva far uscire il suo disco per dicembre. Quando Lilith cadde nel fiume Zeph non sentì le urla, aveva le cuffie, stava limando gli arrangiamenti, era distratto, non sentì, non arrivò a salvarla. Parlò con sua sorella, parlò alle increspature dell'acqua là dove la vide per l'ultima volta. Le raccontò del suo gatto Oliver e del suo nuovo fidanzato taciturno, che era riuscita a diventare cantante di successo, che l'avrebbe portata con sé sul palco a Roma per quel concerto. Prese la chitarra: — Dimmi cosa ne pensi Lilith, vorrei cominciare il concerto con questa. e iniziò a suonare alcuni accordi, poi a cantare. Finita la canzone Lilith e l'acqua non le risposero. Ancora non pianse.

Sentì un frusciare, si voltò, era suo padre: — Sapevo che ti avrei trovata qui. — e si sedette al suo fianco, assieme guardarono le increspature dell'acqua che brillavano del sole ormai sorto.

— È molto bella la canzone che stavi cantando, non la conoscevo, stai preparando un nuovo disco?

Lei non rispose.

— Ti scriverò una bella canzone, sai? Parlerà di te, di quanto sei bella.

Ecco, era arrivato il momento. Voleva perdonarsi e perdonarlo ma non sapeva se ci sarebbe riuscita. Pensò a una frase che aveva letto il giorno prima nei quaderni del padre: "Nel fiume si sperdono le lacrime dei distratti". Non avrebbe dovuto scriverla, complicava tutto.

— Sto andando via, papà, — lo decise nello stesso momento in cui glielo disse — sto andando via.

Lui restò sorpreso, ci stava provando: — Di già? Volevo… — e gli morì la frase sentendola ribadire che "Sì, andrò via".

Lei si alzò e tornò a casa a preparare le sue cose, Buck la seguì, Zeph restò solo a guardare le increspature dell'acqua. La raggiunse mentre lei stava caricando nel baule la piccola valigia, appena aperta, giusto lo spazzolino da denti e il pigiama. Lei volse lo sguardo lontano, un velo di malinconia negli occhi, la carne verso il fiume.

— Papà, quando ero piccola ho smesso di amarti, — poi lo guardò dritto, sorrise con dolcezza come a dirgli che non doveva preoccuparsi — ma ormai sembra proprio un romanzetto da quattro soldi, non trovi? Tipo l'unica figlia del grande rocker, del grande Zephyr Hale Dillard.

Lo abbracciò, provò a credere in quel gesto, lui triste e incurvato, le spalle cadenti: — Ti scriverò una canzone, promesso.

"Un'altra The River of Dolls…" pensò. Si sarebbe perdonata, l'avrebbe perdonato, non era ancora il momento. Salì in auto e partì. Guardò i vigneti pensando che quell'anno sarebbe venuto un buon vino e, finalmente, pianse.


(fine)



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Liliana Tuozzo


La bambina col vestito azzurro


Amal indossa un vestito azzurro, Jameela sorride: — Sei bellissima.

— Mamma quando partiamo?

— Stanotte.

Quando scende la sera il buio avvolge in una morsa quel campo improvvisato, dove molti attendono d'imbarcarsi. Jameela ha lo sguardo rapito, oltre il mare, e riesce a intravedere uno spiraglio lontano; è verso quella luce che dà speranza che ha deciso di andare. Suo marito è morto a causa di una guerra crudele, non ci potrà mai essere un futuro per lei e la bambina in quella terra che pure sente sua.

Ha venduto la sua casa, non le resta altro che partire con la figlia Amal, per costruire altrove una nuova vita. Quei viaggi sono costosi e nessuno ti assicura che andrà tutto bene, ma almeno tentare è meglio che rimanere lì a lasciarsi morire. Gli scafisti hanno radunato tutti in un angolo di spiaggia, poco lontano dal mare. Quella è l'ultima notte che passerà nella sua terra. Ha paura, ma deve essere forte. Resta sveglia, insonne, su un povero giaciglio, fatto di vecchie coperte, accarezzando la bambina accanto a sé. Cerca di proteggerla dal freddo della notte con il calore del suo corpo.

L'alba è appena spuntata. Amal dorme ancora, avvolta in uno scialle, la prende in braccio. Nella sacca che sistema sopra una spalla ci sono solo poche cose, il necessario, e una foto del suo sposo che non potrà più proteggerla. A passi lenti si avvia verso l'imbarcazione insieme a tanti disperati che come lei portano dietro solo pochi stracci e i sogni di una vita.

Nella semioscurità l'acqua sembra petrolio. Le voci sommesse di chi attende sembrano spettri che si agitano intorno, nessuno osa parlare a voce alta.

Salgono su un barcone gremito di persone, nello spazio esiguo tutti si ammassano l'uno contro l'altro. Le stelle appaiono tremule, come luci disordinate segnano il cammino nel buio. Amal apre gli occhi.

— Mamma, ho freddo.

— Stringiti a me.

La notte fa spavento, gli occhi della gente mandano messaggi sconosciuti: sono enormi, spalancati sull'ignoto e parlano di timore e di speranza.

Amal guarda la massa scura dell'acqua e le appare immensa. Curiosa allunga la mano per toccarla, sembra un'enorme bocca umida e fredda, subito si ritrae, accucciandosi sul petto della madre.

Qualcuno recita una preghiera. Gli occhi di Jameela si riempiono di lacrime, per fortuna la bambina nell'oscurità non riesce a vederli.

Un vento dapprima dolce comincia a inasprirsi, la barca finisce per ondeggiare. Qualcuno sospira, c'è chi trema, i cuori battono tutti più velocemente.

Amal trema. Alcuni uomini gridano, litigando tra loro; il terrore del pericolo li ha resi rabbiosi. La bambina stretta al collo di sua madre sussurra:

— Mamma non lasciarmi, prometti.

— Amal, non ti lascerò mai.

La barca ondeggia paurosamente, è stipata di gente fino all'inverosimile. La bambina si accorge che la bocca umida che prima aveva toccato la sta ingoiando, scivola, poi non vede più nulla.

Quando apre gli occhi, si accorge che è avvolta in una coperta e c'è tanta gente intorno, ma sua madre non c'è. Si alza in piedi lasciando scivolare la coperta dal suo vestito azzurro. Non piange. Sua madre le ha insegnato che bisogna affrontare le avversità. Sente dentro una rabbia dolorosa e cerca sua madre gridando, chiamandola per nome.

— Jameela, dove sei? Perché mi hai mentito? Avevi detto che saresti stata sempre con me…

Passa in rassegna le persone accampate attorno a lei, incurante dei volontari che la chiamano per aiutarla.

La cerca a lungo, poi la vede che smarrita si guarda intorno, anche lei la sta cercando; felice si catapulta tra le sue braccia.

— Sei qui! Dovevi esserci… me l'avevi promesso.

L'abbraccio è caldo e tenero, sono insieme, ma il loro viaggio è appena cominciato.


(fine)



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Anna Gri


La metrica del dolore


Letizia era una bambina, un virgulto seminato da un destino un po' distratto.

2014. Fabrizio e Sara si erano scontrati sulle automobili del luna park, tra luci psichedeliche e i bassi della techno che rimbombavano nei diaframmi delle casse toraciche e nelle loro gole secche assetate di poesia.

Ragazzi difettati senza pezzi di ricambio, ingredienti del caos di un connubio di disgrazie. I due giovani scappati di casa, si erano ubriacati alla fonte di un dolce e lieve sentimento. Afferrandosi l'un l'altro con le dita intrecciate, si erano incamminati ingannati dalla speranza di un futuro differente dal passato. Prima ancora di cogliere appieno il significato della parola amore, si erano intrappolati nella tela di una trama o nella trama di una tela, dipinta egregiamente da un artista assai dotato di macabro genio. Colpevoli e complici di un sentimento travolgente si erano uniti in una perfetta sintonia d'intenti. Fabrizio proteggeva Sara con tanta volontà e poco successo, Sara lo sosteneva manifestando comprensione alle sue debolezze.

Appena diciottenni, grazie a una scelta posta al centro tra obbligata e intelligente, avevano bussato all'uscio della nonna di Fabrizio, che sinceramente lieta e allo stesso tempo commossa li aveva fatti entrare: tutti e tre.

Sara aveva smesso di fumare e di nuotare nella birra e nel contempo Fabrizio si era messo a lavorare.

2015. Il trenta di settembre la cicogna aveva portato un candido fagotto, che agitava le minuscole manine e che rubava a tutti quanti quel poco che avevano a disposizione. Letizia recava con se la beltà del proprio nome, donandola a coloro che ormai le appartenevano, totalmente disarmati dal suo incanto. La bimba era il cuore pulsante di una famiglia improvvisata, che nutriva dolcemente con i suoi sorrisi grandi e innocenti. Concepita forse per troppa leggerezza, la piccina sbatteva i suoi occhioni sulle facce dei presenti, come onde impazzite di acqua fresca che si infrangevano trascinando via con sé la sabbia cupa delle menti.

La mattina la mamma la svegliava avvolgendo il suo corpicino nel bozzolo di un tenero abbraccio. Il papà di consuetudine entrava nella sua stanza in punta di piedi quasi senza sfiorare il pavimento, per posarle un lieve bacio sulla fronte, poi usciva dalla casa con il chiaro del sole che sorgeva nel livido del cielo violaceo.

Quei due ragazzi ribelli che si cercavano bramanti un anno prima si erano improvvisamente vestiti di un immagine convenzionale e le macchie che portavano negli animi le avevano dissolte.

2016. Il trenta di settembre Letizia aveva compiuto il primo anno e simultaneamente il primo passo. Sara e la nonna si sostenevano a vicenda a crescere e invecchiare. Fabrizio portava a casa il pane ed era divenuto senza sforzo un uomo capace di amare e di proteggere i suoi cari. I trascorsi sconsiderati dei ragazzi non erano che ricordi sbiaditi e insignificanti, ombre del passato prive di valore. La strada intrapresa aveva imboccato la giusta direzione e correva veloce e senza rischio di deragliamento. Letizia era identica alla madre: occhi azzurri come il cielo che guardavano curiosi e vivaci i colori del giardino, soggetti a nuove sfumature giorno dopo giorno.

2017. Il trenta di settembre Letizia aveva compiuto due anni. La festa della vita si ripeteva trasformando le note di tristezza in gioia e la piccolina correva scalza attraverso le piaghe del tempo. I suoi occhietti color del mare brillavano come stelle dentro quelli della nonna, che giocava con lei senza tener conto del passare degli anni, ignara e indifferente di fronte alle leggi di madre natura. Letizia deliziava l'udito dell'anziana signora con frasi composte dall'arrangiamento di qualche parola, la sua vocina risuonava allegramente attraverso le stanze di quella umile dimora, conferendo a esse un aspetto regale.

2018. Il trenta di settembre Letizia aveva compiuto tre anni. Le foglie del giardino danzavano leggiadre nella brezza, prima di capitolare al suolo a formare un tappeto sulla tomba riempita delle sacre spoglie della nonna.

Fabrizio e Sara sopportavano gli stenti dei macigni della povertà, grazie alla leggerezza che Letizia dispensava. La bimba era la gioia spensierata che fungeva da coperta, seppur troppo corta, agli ostacoli della quotidianità. Nonostante la nonna avesse lasciato loro la propria casa, il pane non bastava a pascere il futuro di Letizia; e Sara decise di adeguarsi a lavorare in cambio di un po' di denaro. Entrò in scena Maia: era una vecchia conoscenza di Sara, una brava ragazza con il piccolo vizio di rubare oggetti. Data la situazione che imponeva l'esigenza, barattando un tetto e un accenno di sostentamento, Maia si prestava ad accudire Letizia quando la mamma era assente. Fabrizio non approvava a prescindere la presenza di Maia, ma grazie a una decisione posta al centro tra obbligata e intelligente non vi aveva manifestato alcuna opposizione. Le scelte responsabili non bastavano a pagare la retta dell'asilo. Maia giocava volentieri con la bimba e provava sollievo ai sensi di colpa in sua compagnia. Lasciava fuori dall'uscio i cattivi esempi. La gratitudine verso la fiducia riposta in lei era sincera. Senza rendersene conto Maia era coinvolta in un processo di abbandono delle abitudini tossiche.

2019. Il trenta di settembre Letizia aveva compiuto quattro anni. La mamma quella mattina l'aveva agghindata con un abitino bianco e aveva posto una coroncina di margherite tra le ciocche dei suoi capelli biondi. Letizia si vantava esternando la sua gioia infantile che provava nell'immaginarsi principessa. La mamma e il papà nei giorni precedenti erano stati immersi nel turbinio dei preparativi per organizzare la festa di compleanno. La piccina in preda all'entusiasmo non stava più nella pelle e non vedeva l'ora che arrivasse quel momento, per calarsi nei panni di reginetta della festa.

Maia era andata a prenderla all'asilo con un palloncino rosso. Sara quel giorno era rimasta a casa a ultimare gli allestimenti per accogliere gli amichetti della figlia. La tavola era imbandita di leccornie variopinte, i festoni colorati e cangianti erano disposti con cura e da una parte all'altra della stanza, correva sospesa a un filo una serie di lettere di cartone rosse, riportante la scritta —Buon compleanno—.

Maia teneva la piccola mano della bimba riposta nella sua, allo stesso tempo reggeva il capo del filo del palloncino per evitare che volasse via. Letizia inciampava a destra e a manca per non distogliere gli occhi dal palloncino rosso a forma di cuore, così Maia per attraversare la strada decise di prenderla in braccio. Ma quel trenta di settembre anche Maia inciampava di continuo. Assorta totalmente nei propri pensieri che la rapivano senza darle tregua e affannavano il suo respiro con un prepotente senso di colpevolezza. Letizia gioiva innocente e Maia fingeva di assecondarla con tutte le sue forze. La ragazza aveva smesso di sottrarre oggetti, ma aveva commesso un atto assai peggiore: aveva rubato amore questa volta.

Il furto commesso andava ben oltre allo sconsiderato, in quanto la vittima di esso si era vista portar via il suo uomo, avvezzo a batterla e umiliarla a ogni occasione che si presentava. La donna aveva perso sia il bene che il male della propria esistenza in un istante e accecata da un odio malato non aveva perso tempo per presentare il conto. Dall'altra parte della strada la ripudiata sudicia di lacrime, tremava di rabbia nel puntare una pistola verso Maia. Ebbe l'occasione di sparare un solo colpo prima di essere bloccata a faccia a terra sulla strada. Il palloncino volò in cielo e il sorriso di Letizia si spense, mentre una macchia color porpora si diffondeva nel candore del suo abitino. Il cuoricino rosso era ormai sparito dietro la coltre di nuvole pannose, portando con se l'ultimo innocente respiro di Letizia.

Letizia era una bambina: un virgulto calpestato da un destino un po' distratto.


(fine)



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Angelo Ciola


L'untore


Era giorno di mercato nell'antica città e io mi aggiravo curioso fra i vari venditori. Ormai il mio lavoro era concluso e, nonostante la prudenza imponesse una rapida partenza, volevo vedere il famoso mercato; il più grande tra tutti quelli che si svolgevano nelle terre orientali. Tra le grida dei venditori e il vociferare dei passanti, mercanzie di ogni tipo erano esposte sulle bancarelle che invadevano la strada, rendendo difficile il passaggio. Nel caldo opprimente i sapori delle spezie si mescolavano agli odori della gente. Ma non si sentiva nell'aria quel senso di allegria che sempre accompagna un mercato. La gente era preoccupata e funesti mormorii giravano tra i banchi. La peste, si diceva, era arrivata in città. Dovevo sbrigarmi, quando cominciano a girare queste voci per uno straniero non è piacevole trovarsi in mezzo alla folla. Dovevo uscire dalla città prima della chiusura delle porte, non era sicuro rimanere qui un'altra giornata, ma mi meritavo almeno un piccolo regalo e quel coltello, dal manico d'avorio finemente intarsiato, sembrava perfetto. Non appena lo presi in mano il venditore se ne accorse.

— Un bellissimo coltello, signore. Opera del migliore artigiano della città. Un vero affare solo 10 scudi ed è tuo.

— È fatto bene ma non vale quel prezzo, se vuoi te ne posso dare 5. — risposi.

Avevamo appena cominciato la delicata fase del mercanteggiare che un piccolo drappello di guardie armate sbucò da una stradina secondaria, accompagnate dall'oste che mi aveva ospitato nella sua taverna.

— Eccolo! È la! — gridò l'oste indicandomi — È lui quello che cercate. È lui l'untore!

Di fronte ad affermazioni di questo tipo e, soprattutto, a diversi soldati armati dall'aspetto minaccioso, non ho creduto opportuno mettermi a discutere e pertanto ho intascato il coltello e cominciato a correre nella direzione opposta. In un attimo si creò il caos. Le guardie, con le spade in pugno, si misero a correre cercando di raggiungermi, il venditore cominciò a gridare e le persone, spostandosi, finirono con lo spintonarsi tra di loro. Davanti a me una bancarella piena di fiaschi di uno squallido liquore, proposto come il miglior vino della città, mi bloccava la fuga. Quel vino era imbevibile, ma mi sentii in colpa quando, spingendo una gamba della bancarella, feci cadere tutte quelle bottiglie sulla strada. Nella confusione notai un piccolo vicolo, che si inoltrava in mezzo alle case, e lo infilai. Un brivido mi percorse la schiena; portava a una piazzetta senza nessuna uscita.

— Entra qui, veloce! — sussurrò una voce proveniente da un portoncino che si era aperto alle mie spalle.

Diffido dei consigli degli sconosciuti ma, in questo caso, decisi che non avevo valide alternative. Entrai velocemente e subito dopo la ragazza, che mi aveva chiamato, sbarrò il portone.

— Svelto, seguimi.la ragazza salì delle vecchie scale di legno e, dopo aver percorso un breve corridoio, entrò in una squallida stanza dove un bimbo, adagiato in una culla, stava piangendo. Senza dire una parola, spostò la pesante culla sotto la quale, nascosta da un logoro tappeto, c'era una botola.

— Nasconditi, qui non ti troveranno!mi disse.

Obbedii senza obiezioni e alzai la pesante botola. Celava una piccola intercapedine nel pavimento, dove a fatica riuscii a rimanere sdraiato. Col cuore in gola sentii la ragazza che ricopriva il tutto, mentre il neonato sembrava essersi finalmente quietato. Con il pavimento a pochi centimetri dal mio viso respiravo a malapena. Nel buio totale in cui ero immerso, sperai di non essermi infilato in una trappola. Mi ritrovai immerso in un mare di sudore, mentre i minuti sembravano non passare mai. Poi un trambusto sulle scale mi terrorizzò. Sentii la porta aprirsi e una voce imperiosa che gridava.

— Dov'è lo straniero? Puttana, l'hai nascosto qui?

— Quale straniero… qui non c'è nessuno. — rispose con voce tranquilla la ragazza.

Sentivo i passi di numerosi uomini che frugavano nella stanza.

— Non può essere che qui… Ti conosciamo, sei la solita puttana dal cuore d'oro. Dai Ester, dimmi dov'è andato e magari nei prossimi giorni vengo a trovarti. Lo sai che posso essere generoso.

— E allora se sei generoso dovresti ricordarti di tutte le volte che hai voluto divertirti gratis, tu e i tuoi amici. — rispose la ragazza, della quale era oramai chiaro quale fosse la professione.

In quel momento anche il neonato ricominciò a farsi sentire. Tra le sue grida e i movimenti delle varie persone che camminavano sopra di me non riuscii più a seguire i discorsi che si intrattenevano nella stanza. Poi una strana umidità si riversò sul mio viso. Il bimbo, oltre a gridare, si era sicuramente messo a espletare altre attività fisiologiche che naturalmente si riversavano sul pavimento. Con la sete che mi ritrovavo avrei potuto bere di tutto, eccetto quel schifoso liquido in cui avevo l'impressione di affogare. Dopo un po' la quiete ritornò nella stanza ma dovetti aspettare ancora parecchio, prima che la botola si aprisse.

— Come stai? — disse la ragazza, appena aperta la botola.

Naturalmente non mi sentii di lamentarmi del trattamento ricevuto, l'alternativa era di gran lunga peggiore, e con fatica mi alzai, cercando di mantenere un aspetto dignitoso.

— Non so come ringraziarti. — dissi — Senza di te ora chissà cosa mi avrebbero fatto. Ma perché hai rischiato tanto per uno sconosciuto?

— So come sono fatti questi imbecilli! A loro importa solo trovare un colpevole. L'untore, gridavano, ma la peste non ha bisogno di nessuno per uccidere. La peste è arrivata e ora hanno paura. Meglio di uno straniero chi può essere il responsabile. Oggi tu… ieri mio padre e domani ci sarà qualcun altro.

Una lacrima scendeva da quel viso e solo allora ne notai la straordinaria bellezza, offuscata da un velo di tristezza. Era molto giovane la ragazza ma della vita aveva probabilmente già assaporato tutta l'amarezza che può riservare.

— Devo andare adesso. Tra poco chiuderanno le porte.

— Non puoi passare dalle porte straniero, di sicuro ti stanno aspettando, ti catturerebbero e, se non ti linciano subito, vedrai che nelle nostre prigioni riusciranno a farti confessare qualunque cosa. La giustizia da noi è sempre molto efficiente. Ti impiccheranno e il nostro sovrano avrà mostrato al popolo che sta facendo il possibile per combattere l'epidemia.

— Ma in qualche modo devo lasciare la città, altrimenti prima o poi mi troveranno. — risposi.

— Una soluzione credo che ci sia, ma dovrai aspettare questa notte, adesso ti potrebbero vedere, intanto puoi rimanere qui. Naturalmente la mia compagnia ha il suo costo. — disse avvicinandosi con aria maliziosa.

— Anche se hai un profumo alquanto discutibile. — concluse annusando la puzza di urina che emanavo.


Cercavamo di fare meno rumore possibile, anche il più modesto poteva essere udito in una città in cui nessuno usciva la notte. Il coprifuoco scattava dopo le 21 e chiunque fosse stato sorpreso, senza un valido lasciapassare, avrebbe di certo trascorso le notti successive nelle carceri cittadine. Il ragazzo che mi guidava conosceva bene come muoversi e, da un nascondiglio all'altro, ben poco del tragitto percorso era visibile dalla strada. Quando arrivammo a un portoncino lo aprì con delle vecchie chiavi. Appena entrati richiuse immediatamente e, rimanendo al buio, proseguimmo per un lungo corridoio. Solo verso la fine del corridoio il ragazzo accese una candela e mi squadrò con aria più tranquilla.

— Adesso siamo al sicuro, le guardie non conoscono questo posto. Qui sotto passa il canale della fognatura, non sarà gradevole ma una piccola passeggiata e sei fuori città.

Era il fratellino di Ester che viveva di piccoli furti e contrabbando, per questo conosceva tutti i nascondigli possibili.

— Ora, se vuoi darmi quanto pattuito, ti mostro da dove passare. — disse, allungando la mano.

— Già, anche tua sorella mi è costata parecchio, ma a questo punto, se voglio uscire di qui, non ho altra scelta. Ecco i tuoi soldi, ragazzo.

In un attimo il denaro venne nascosto tra i vestiti, dopo di che il giovanotto cominciò a spostare dei grossi sassi lungo un muro, dando luce a una piccola apertura, che permetteva il passaggio a carponi di una persona.

— Ecco, entra qua, poi vai sempre verso destra e segui il corso dell'acqua e quando non potrai più camminare… nuota. Vedrai che dopo un po' sbucherai fuori dalle mura.

— Grazie, — dissi abbracciandolo — non so come avrei fatto senza il vostro aiuto.

— Buon viaggio, straniero. Vai che poi io chiudo il passaggio.

Riuscì a passare con difficoltà ma, quando fui dall'altra parte, mi ritrovai immerso fino alle ginocchia in un mare di merda. Di natura non sono molto schizzinoso ma quello non era certo il mio ideale di passeggiata. Fortunatamente ero riuscito a tenere all'asciutto la candela e almeno si riusciva a intravedere qualcosa. Era spiacevole camminare in mezzo a quella cloaca, e dava un certo ribrezzo vedere dei topi dalle dimensioni di un gatto sfiorarti correndo lungo i muri, ma quello che era insopportabile era la terribile puzza che dovevo respirare. Ero sicuro di non riuscire più a resistere quando il canale cominciò a diventare leggermente più visibile. Poco alla volta la debole luce della notte si infiltrò nella fognatura, l'uscita doveva essere vicina. Ma amara fu la sorpresa di trovare una spessa inferriata frapposta tra il canale e l'esterno. La situazione era, oltre che imbarazzante, disperata. Sembrava impossibile uscire da quel buco. Ma notai che anche i topi più grossi riuscivano in qualche maniera a passare dall'altra parte, nonostante la griglia dell'inferriata fosse troppo stretta anche per loro. Ecco dove avrei dovuto fare la nuotatina… probabilmente i ferri sbarravano solo la parte esterna della cloaca. Non c'era altro da fare, feci un grosso respiro e mi buttai in quel liquido nauseabondo.


Il mio socio era seduto vicino al fuoco, avvolto nel suo grande mantello nero e con l'immancabile scacchiera davanti. Quando mi avvicinai, tutto bagnato, i due cavalli, attaccati a un albero vicino, cominciarono a scalpitare, mentre lui continuava tranquillamente a giocare da solo con quei strani pezzi di legno. Mi accostai al fuoco, cercando di scaldarmi il più possibile.

— Puzzi! — mi disse senza nemmeno alzare lo sguardo.

— Lo so! — risposi sedendomi — Puzzeresti anche tu se avessi dovuto nuotare nella merda. È una fortuna che sono riuscito a uscirne.

— Hai fatto tutto bene, ma non dovevi perdere tempo al mercato. Se ti avessero preso avrei dovuto cercarmi qualcun altro.

— Già, ma me la sono cavata anche questa volta… e adesso, cosa devo fare?

— Veio è a 20 miglia verso sud, se parti domani mattina puoi essere in città prima di notte. La peste li non è ancora arrivata. Ma prima datti una ripulita, altrimenti non ti faranno mai entrare. — disse alzandosi e dirigendosi verso il suo elegante cavallo nero.

— Va bene, come sempre. — risposi — Ma, dimmi, morirà anche la donna? E suo fratello?

— Il ragazzo lo hai abbracciato e con la puttana ti sei divertito; non hanno scampo. Con loro hai fatto un buon lavoro. — disse montando a cavallo.

— E quel maledetto bimbo, anche lui?

— Buonanotte, amico. — mi gridò mentre si allontanava lentamente.

Misi qualche altro ramo sul fuoco e preparai un rozzo giaciglio. Mi attendeva un'altra notte lunga e piena di scrupoli, ma almeno il calore mi avrebbe riscaldato. Le mie poche cose erano sul cavallo rimasto, ma non pensai di cambiarmi, ero troppo stanco. Controllai le tasche ma naturalmente il mio bel coltello non c'era più; chissà dove lo avevo perso. Sperando di asciugarmi, mi adagiai vicino al fuoco. Avvolto in quelle luride coperte, pensai alla mia difficile situazione. Avere come socio la morte non era piacevole, ma a suo tempo non mi aveva lasciato alternative; era l'unico modo per uscire dalla sua maledetta lista. Feci fatica ad addormentarmi, mi dispiaceva per Ester. Mi chiedevo cosa sarebbe accaduto a quel piccolo essere, se per caso fosse sopravvissuto. Continuavo a pensare ai tanti innocenti che avevo condannato, portando la peste in questa città e in tante altre prima. Quando riuscii finalmente a chiudere gli occhi il sonno non durò a lungo. Un forte temporale si era scatenato. La fitta pioggia aveva spento il fuoco e giacevo immerso nel fango. Non avevo nulla per ripararmi, di sicuro si prospettava una brutta polmonite. Mi augurai di riuscire in qualche modo a sopravvivere, difficilmente il mio socio mi avrebbe proposto una nuova proroga.


(fine)



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Carol Bi


Il borgo delle Spose


Catina se ne stava poggiata con le spalle contro il muro ammuffito. Il portico cominciava a raccogliere il primo sole del mattino. Con un sospiro rilassò le spalle e si perse a osservare un piccolo ragnetto affaccendato.

Dondolò sulla vecchia sedia come una ragazzina e assaporò il calore che cominciava a scaldarle i piedi. Sollevò leggermente la veste scoprendo le ginocchia grinzose e allungò le gambe in modo che il tepore arrivasse fino agli arti superiori.

Una delle galline sbatté vigorosamente le ali alzando una nuvola di polvere dal cortile. Catina si alzò e andò in cucina premendo una mano sul fianco dolorante, lavò velocemente la tazza della colazione e si preparò per i lavori mattutini, primo fra tutti annaffiare le piantine di insalata e pomodoro.

Prese il cappello di paglia dall'attaccapanni in legno e fece un gesto che era divenuto la sua routine quotidiana: allungò una mano e carezzò con dolcezza la giacca appesa vicino al suo grembiule. Se ne stava lì silenziosa da circa vent'anni, ancora con le macchie di vino e fango. Avvicinò il viso e inspirò profondamente quel profumo che per chiunque avrebbe odorato di muffa e marcio, ma che a lei ricordava semplicemente il suo Armando. Si asciugò alla svelta le lacrime, inforcò gli zoccoli e uscì di corsa dirigendosi verso la fontana.

Di là dalla strada un gran fracasso rompeva la pace mattutina. Rita, nervosa e insofferente, armeggiava in cucina alla ricerca di un tegame.

Ernesto si sarebbe svegliato di lì a poco e se non avesse trovato la colazione pronta avrebbe passato un brutto quarto d'ora. Il tegame saltò fuori proprio nell'istante in cui Ernesto si stava alzando. Prese un pezzo di lardo dalla mensola e lo mise nella padella. Lo sfrigolio del grasso che cuoceva a fuoco vivo la rasserenò per un attimo. Era esausta, aveva cucito quasi tutta la notte braghe e camicie; le più malandate le aveva tagliate a pezzi e convertite in toppe per quelle più in buono stato.

Si lasciò cadere sulla sedia, sconfitta. Guardò di là dalla stradina, verso la casa di Catina e pensò a quanto fosse fortunata a non avere preso più marito.

Anche Teresa era sveglia, aveva appena aperto gli occhi. Destata dall'insistente abbaiare di Ugo si voltò ancora assonnata verso la finestra. Scorse Luigi vicino alla pompa intento a lavare qualche strano arnese. Il primo sole del mattino si posava sulle sue spalle forti disegnando con precisione muscoli e nervi, un corpo forgiato negli anni dal duro lavoro nei campi e dal sole impietoso. Luigi si voltò verso la finestra e, incontrando lo sguardo della moglie, le sorrise e fece uno strano cenno con il capo. Teresa non capì subito, poi avvampò come una giovinetta quando si accorse che la spalline della sottoveste era scesa lasciandole scoperto metà seno sinistro.

Un lontano pianto di neonato la ridestò dal suo imbarazzo ma la tristezza la assalì violentemente. Erano anni che desiderava un figlio, ma il buon Dio aveva deciso che ancora non era il suo momento. Si strinse con le braccia le ginocchia e, raggomitolata, si chiuse in un pianto silenzioso.

Ludovica, sveglia ormai da ore, cercava di zittire il piccolo Carlo. Guardò con apatia quel minuto fagottino paonazzo e pianse silenziosamente insieme a lui. Una lacrima cadde sulla piccola boccuccia aperta.

Dalla camera in fondo qualcuno si stava alzando, probabilmente mamma Carmela. Posò il bimbo sulla culla, incurante del suo pianto, afferrò velocemente il grembiule fiorito posato sulla sedia, ai piedi del letto, e se lo legò con maestria alla vita. Doveva farsi trovare in cucina prima che sua suocera scendesse; non era proprio dell'umore giusto per sopportare i suoi insulti.

All'improvviso, dalla camera in fondo, tuonò come un boato: — Buona a nulla! Non sei nemmeno capace di accudire tuo figlio?

Ludovica portò istintivamente le mani agli orecchi e, scuotendo la testa, soffocò un grido liberatorio.

Anna dormiva tranquilla sul suo guanciale che sapeva di bergamotto e gelsomino. Vicino a lei Augusto la stringeva forte. Lui si svegliò per primo. Sapeva che Pierino aveva già munto le vacche, ma all'acqua e al fieno ci doveva pensare lui. Si sollevò piano per non svegliare la moglie, indossò silenziosamente i calzoni e, per qualche secondo, rimase incantato a osservare il pancione rotondo di Anna. Uscì dalla camera con gli scarponi in mano facendo scricchiolare le assi in legno del pavimento.

Anna era sveglia da un po', fingeva di dormire, ma in realtà ripeteva a se stessa quanto fosse perfetta la sua vita: aveva un marito premuroso, un figlio in arrivo, la dispensa sempre piena e una grande casa luminosa e pulita.

Renata spalancò la porta della bottega per fare entrare un po' di luce e calore. Prese la scopa di saggina dal retro e iniziò a spazzare con foga spingendo nuvole di polvere direttamente sulla stradina. Poi ripose la scopa e si sistemò il fazzoletto annodandolo dietro la nuca e bloccandolo ai lati con due forcine.

Sapeva che di lì a poco sarebbe entrata Rita. Quella donna non le piaceva, ma non poteva fare a meno di compatirla. Tutti sapevano che razza di mascalzone si fosse messa nel letto: Ernesto era un uomo cattivo, lo era sempre stato fin da bambino e Rita lo sapeva bene, ma la vedovanza le stava stretta e pur di avere un uomo accanto si era presa Ernesto.

Prese i ferri da maglia, stava preparando una copertina per il piccolo di Anna e Augusto. La levatrice le aveva confermato che non doveva mancare molto ormai e che al cambio della luna avrebbe partorito. Le aveva anche confidato che, in un momento di preoccupazione, Anna le aveva esternato la speranza che il piccolo somigliasse alla madre. La levatrice aveva proseguito il suo racconto svelando a Renata che, probabilmente, il figlio non era di Augusto ma di Luigi.

Anna era una donna buona ma molto ingenua e, quando Luigi l'aveva incontrata per caso nella vigna, era scoppiato in un pianto disperato e, singhiozzando, le aveva rivelato che temeva che non sarebbe mai potuto diventare padre. Erano anni che lui e Teresa provavano a concepire, ma nulla.

Anna si era lasciata impietosire ed era bastata una sua istintiva carezza per far sentire l'uomo autorizzato a spingerla contro il carro e ad abusare di lei. Spesso a Renata saliva la rabbia, soprattutto quando la domenica, a messa, vedeva Luigi sorridere e tenere la mano della moglie. Ma chi era lei per spifferare quel terribile segreto? Ciò che accadeva all'interno del borgo delle Spose doveva rimanere all'interno del borgo delle Spose.

Renata sfilò qualche punto, poi si rimise a sferruzzare. Sperava che oggi non venisse Ludovica. La tristezza che aveva negli occhi quella donna le lasciava un senso di malessere per tutta la giornata.

Stava ancora pensando ai suoi occhi tristi quando la tenda a frange si spostò. Una lama di luce entrò sbattendo dritta contro il registratore di cassa mettendo in risalto la polvere sui tasti. Riconobbe la borsa di paglia di Teresa mentre una figura minuta ma formosa faceva il suo ingresso nella piccola bottega di paese.

Teresa salutò educatamente, poi si spostò frettolosamente verso lo scafale dei formaggi. Non aveva potuto fare a meno di notare il lavoro a maglia di Renata, sapeva che lo stava facendo per il piccolo di Anna e Augusto, o forse avrebbe fatto meglio a dire Luigi. Sapeva tutto, la levatrice chiacchierona glielo aveva detto, ma lei amava Luigi, era un uomo buono ed era sicura che anche lui l'amasse. La colpa era sua se aveva compiuto un gesto tanto deplorevole, se lei fosse stata capace di dargli un figlio lui non avrebbe mai approfittato di Anna. Tante volte avrebbe voluto parlare con lei ma, all'ultimo aveva sempre cambiato idea e le era molto grata per aver mantenuto il segreto.

Anche Catina fece il suo ingresso. Renata la osservò e le sorrise. Il suo sguardo si spostò verso i piedi che indossavano ancora gli zoccoli di legno.

Catina stava per giustificarsi quando la tenda a frange venne quasi strappata via. Ludovica entrò sconvolta, tremante e in lacrime.

— Renata… ti prego, Renata, Catina aiutatemi, vi scongiuro!

Catina e Renata si precipitarono verso di lei che sembrava dover crollare da un momento all'altro. La sorressero per le braccia e le carezzarono la testa.

— Teresa! Va nel cortile, prendi un bicchiere d'acqua dalla pompa.

Teresa era rimasta impietrita a fissare la grande macchia di sangue sul grembiule di Ludovica.

— Teresa! Muoviti! — Renata non sopportava chi non si rendeva utile.

Ludovica iniziò a singhiozzare e a balbettare parole e frasi inconsulte: — Non volevo… giuro che non volevo. È stato un incidente. Non volevo! Ve lo giuro. È morta, c'era tanto sangue. È morta. L'ho uccisa io… non volevo.

Teresa arrivò con il bicchiere d'acqua. Catina lo afferrò.

— Bevi cara, calmati.

Ludovica bevve avidamente rischiando di soffocarsi, poi si voltò velocemente, si mise a carponi e vomitò anche l'anima.

Renata prontamente le tenne la fronte con una mano.

Dopo qualche minuto si calmò.

— Mamma Carmela è morta. — singhiozzò e tirò su con il naso — L'ho spinta in cucina… mi stava insultando come sempre e io non c'ho visto più, le ho dato una spinta… giuro che non volevo, è stato un incidente.

Catina e Renata si scambiarono uno sguardo complice, sapevano esattamente cosa fare; non era la prima volta che dovevano rimediare a una disgrazia.

Fecero rialzare Ludovica e chiesero a Teresa di seguirle. Renata cercò le chiavi della bottega nel tascone del grembiule. Chiuse la porta e i suoi segreti all'interno.

Le quattro donne si diressero verso la casa di mamma Carmela, seguite dalle loro ombre. Catina camminava con una mano sul fianco, il dolore era diventato quasi insopportabile. Renata le porse un braccio perché potesse sorreggersi. Accanto a loro Teresa posava una mano sulla spalla di Ludovica che trascinava i piedi lasciando dei solchi sulla strada di polvere. Nessuna di loro avrebbe più parlato lungo la via.

Era chiaro ciò che avrebbero fatto e oggi l'avrebbero capito anche le due giovani donne.

Quello che accadeva nel borgo delle Spose doveva rimanere nel borgo delle Spose.


(fine)



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Letylety


Adorazione


Il sole a ferragosto raggiunge lo zenit, immaginava l'uomo camminando pigramente lungo la banchina del porto. Tanti posti vuoti nei parcheggi acquatici, famiglie e variopinte compagnie di amici erano salpate di buon'ora per la giornata che rappresentava la festa dell'estate.

Nella sua testa molti ricordi affioravano come cartoline screpolate, dove il tempo della gioventù se n'era andato impercettibile. Era un pensiero ricorrente e la ricerca di quel cambio di passo, dal vociare esibito della giovinezza allo sciabordio silenzioso della maturità, non trovava mai risposta. Cos'era successo? Dov'era avvenuto il punto di svolta? E quanto era stato repentino per non essersene nemmeno accorto?

Quel sole abbagliante delle cinque della sera non gli metteva paura, anzi era una compagnia piacevole della sua solitudine. Aveva in sé il colore indefinito della speranza che crea un ordine naturale alle cose e il battito sincopato di un rimpianto impalpabile.

L'utopia è la miglior medicina nelle giornate estreme, pensava l'uomo.

Mentre il mondo celebrava la sua festa pagana, c'era chi si ritrovava completamente solo, con il carico del tempo. L'animo era leggero perché il caldo gli dava sempre un senso di festa. La pace interiore lo accompagnava durante quella passeggiata, dove le poche barche rimaste, ballavano placidamente la loro siesta e il vento tra gli alberi fischiava una musica antica.

Entrò in un bar e ordinò un caffè e un bicchiere d'acqua. Bevve tutto di un fiato, incocciando prima il caldo dalla tazzina e subito dopo il freddo del vetro. Pagò e uscì sulla strada bollente.

Fu lì che la vide.

Aveva I capelli color cenere e la pelle delicata. Il corpo snello e gli occhi azzurro-grigi lo bloccarono improvvisamente, che se si fosse trovato nella metro di una grande città, avrebbe creato problemi di assembramento, tanto improvviso fu il suo arresto.

Anche la ragazza lo guardò e sorrise. A occhio e croce aveva la metà dei suoi anni e il doppio della conoscenza del mondo.

Si avvicinò con sicurezza, con la testa vuota e nessun pensiero svolazzante se non l'ammirazione per una bellezza così perfetta. Le parlò brevemente. La ragazza tacque.

Rientrarono nel bar. L'uomo ordinò il solito caffè con un bicchiere d'acqua mentre la ragazza preferì una spremuta d'arancia. Rimasero in piedi lì, al bancone, nel bar senza clienti con il cameriere indaffarato a pulire i tavoli vuoti.

Terminata la consumazione uscirono camminando lentamente tra i marciapiedi deserti. Le mani si sfiorarono appena e loro subito sorrisero a quel leggero contatto.

Alla fine del viale arrivarono davanti a una porta che dava sulla strada. Era una tipica casa di mare, con le persiane azzurre, il muro intonacato di bianco e il tetto piano. L'uomo prese le chiavi poi spinse la porta e fece entrare la ragazza.

La stanza era tinta d'azzurro con piccole venature bianche al delimitare del soffitto. Sobria come la cella di un monaco: un tavolo di legno, una sedia e un piccolo letto ricoperto da lenzuola bianche la riempivano appena.

Unico oggetto fuori posto era un vecchio stereo messo in un angolo, collegato a un'unica cassa; e un disco, un vecchio quarantacinque giri senza copertina. Il locale era arioso e aperto al mondo e la notte avrebbe sicuramente riecheggiato dell'infrangersi delle onde, tanto era la vicinanza al mare.

La ragazza si pose al centro della stanza. Indossava un vestito sbracciato di lino bianco, con un leggero arricciamento intorno alla vita. Ai piedi aveva delle infradito color terra che si mimetizzavano con il pavimento, a eccezione delle unghie laccate di bianco.

L'uomo si avvicinò e le chiese di rimanere scalza; anche lui fece lo stesso.

Appoggiò i piedi sul pavimento caldo. Il sole entrava dalla finestrella e illuminava i suoi capelli.

L'uomo le rivolse uno sguardo attento, poi andò verso il giradischi.

Una musica ipnotica riempì la stanza.


Io ballo a piedi nudi

Per un giro

Qualche strana musica mi attira


Le liriche di Patti Smith fluttuavano leggere nella stanza.

Lui s'inginocchiò e cominciò ad accarezzarle i piedi. Vi avvicinò il viso e li sfiorò con le labbra, passando le dita sulle caviglie. Lei lo guardava incuriosita tenendo le braccia dritte lungo il corpo. Poco alla volta l'uomo cominciò a risalire lungo le gambe. Non le scoprì, continuando ad abbracciarla fino alla vita. Le sue mani cercavano un appoggio sicuro, come un cieco che tasta il terreno. O come un naufrago della vita.

Arrivato alle spalle la cinse da dietro, sfiorandole il collo. Le mosse i capelli con il viso, tenendola per le braccia. Con le tempie si appoggiò alla nuca mentre la ragazza emetteva lunghi sospiri. Inspirò a lungo quell'odore di salsedine, stordente come un profumo d'oriente.

Si spostò e si piazzò davanti. Testa contro testa la strinse forte. E ridiscese verso il basso. All'altezza dei seni si fermò, poi le baciò lo sterno, un bacio lunghissimo, puro, devoto.


Sto danzando a piedi nudi

Roteando

Una strana musica mi attira


Ritmi lenti e sincopati avvolgevano i due corpi.

Ridiscese lungo i fianchi immacolati di quel vestito di lino con il sole che scendeva. Giù giù lungo le gambe nude fino ai piedi color della terra. Li strinse a sé, emettendo un lungo sospiro.

La ragazza mosse le braccia. Era la prima volta da quando era entrata in quella stanza. Le sue lunghe mani sottili gli sfiorarono i capelli lentamente. Poi li accarezzò con più forza, lo prese per la base del capo e lo portò più in alto, dove ardevano violenti gli umori di quell'estate solitaria.

Ansimava.

L'uomo in ginocchio la guardò con gli occhi umidi e trasognati. Come un condannato arrivato all'ultimo respiro, come un monaco cenobita nella lode del mattino, giunse le mani in segno di supplica e le disse che non voleva profanare quel corpo che gli era offerto. Avrebbe voluto continuare all'infinito quella sua personale adorazione.


(fine)



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ElianaF


I nuovi amici di Clara


Per fortuna stava meglio. Si passò le mani tra i capelli, sistemò il cuscino e riprese a guardare le luci che, provenendo dalla strada, balenavano per la stanza come in un caleidoscopio. Si chiese come avesse fatto a essere così ingenua, si era fidata e quello era il risultato: se l'era meritato! Ma anche questa volta ne era uscita indenne.

Tutto era iniziato a gennaio, quando uscendo di casa aveva salutato i nuovi inquilini che avevano preso in affitto l'appartamento al quinto piano. I nuovi arrivati erano una coppia di pensionati, lei magra, timida, con gli occhiali, lui con i capelli tinti di castano chiaro, dalla camminata zoppicante. Si erano presentati con i nomi di battesimo, Luigi e Maria, erano venuti ad abitare a Milano da un paese della Basilicata, non ricordava il nome, per seguire i figli che avevano trovato lavoro in città. Erano più o meno coetanei di Clara, anche lei era in pensione, ma preferiva continuare a dare una mano in ufficio, stare a casa non le piaceva.

Clara era divorziata, senza figli, frequentava pochi amici, forse il suo carattere riservato non aveva contribuito a creare rapporti duraturi, ma stava bene da sola. Nel tempo libero leggeva, andava al cinema o a fare acquisti, passava l'estate al mare.

Viveva in modo sobrio, ma i risparmi di decenni di lavoro le permettevano una vita agiata, era proprietaria dell'appartamento in cui abitava e di una villetta a schiera sul lago. L'unica parente era una sorella che si era sposata con un tedesco conosciuto in vacanza a Rimini e si era trasferita da quasi quarant'anni in Germania.

Una sera aveva sentito suonare alla porta: era la nuova inquilina che le chiedeva consigli per una parrucchiera in zona, doveva tingere e tagliare i capelli e non si fidava ad andare a caso. Clara la fece accomodare, scusandosi per il disordine, Maria entrò timidamente, si guardò attorno e lodò l'ampio salone e la vista che si ammirava dall'ultimo piano. Clara le offrì il caffè e chiacchierò volentieri, sorpresa dalla facilità con cui riusciva a comunicare con Maria.

Dopo qualche giorno, sentì il campanello ed era nuovamente la vicina, venuta a farle vedere la nuova acconciatura: per ringraziarla del consiglio aveva portato dei biscotti fatti in casa. Clara era da tanto che non riceveva un regalo, quasi si commosse.

Maria le raccontò di essere una brava cuoca, le piaceva cucinare però negli ultimi tempi sbagliava le dosi, prima la famiglia era numerosa e adesso cucinando per due persone, avanzava sempre qualcosa. Da un formale lei erano passate al tu. La settimana successiva, all'ora di cena, Clara sentì dei passi furtivi sul pianerottolo, guardò attraverso lo spioncino e vide Maria. Senza aprire la porta le domandò con voce spaventata cosa volesse a quell'ora e sentì la vicina rispondere velocemente: — Hai già cenato? Ti ho portato una cosa che ho fatto io, l'ho appena tirata fuori dal forno.

Quando Clara aprì la porta, Maria le porse un piatto coperto che emanava un invitante profumo di ragù: era una porzione di lasagne, il piatto era molto caldo, Clara lo andò a posare in cucina e quando tornò in ingresso Maria se n'era già andata.

La stessa scena si ripeté diverse volte a ora di cena, Clara era sorpresa di sé stessa, stava cominciando ad abituarsi alla compagnia, alle chiacchiere inconsistenti, alle visite a sorpresa. Fece spallucce: Si vede che sto invecchiando. — concluse.

Un sabato, Maria le chiese se poteva accompagnarla al supermercato, visto che Luigi era impegnato: Clara era libera come al solito e nelle settimane successive seguirono altre uscite. La nuova amica sembrava impreparata ad affrontare la vita, non aveva la patente, ogni novità la rendeva titubante e preoccupata. Clara cominciò a dispensare consigli, le mostrò come usare la carta di credito e il bancomat, suggerendole di rivolgersi alla filiale della sua banca.

Una sera le girava la testa e si era sdraiata sul divano: aveva faticato a raggiungere la porta quando il campanello aveva suonato. Oltre la porta c'era Maria con una porzione di arrosto.

— Come sei pallida, cos'hai?

— Non mi reggo in piedi, sarà l'influenza. Scusa ma l'odore di cibo mi dà fastidio, entra pure in casa, io vado a sdraiarmi.

— Non preoccuparti, vado a mettere il piatto in frigorifero, quando ti senti meglio lo mangi.

Clara non ricordava di essersi addormentata, ma quando si era svegliata sul divano in piena notte, aveva visto Maria seduta su una sedia che la osservava: Ti sei fermata, che cara, non dovevi… — Aveva bevuto la tazza che Maria le porgeva e si era fatta accompagnare a letto.

Con alti e bassi la debolezza non era più andata via, Clara si sentiva insicura e si era affidata alla coppia per le attività di ogni giorno, all'inizio si faceva accompagnare al lavoro da Luigi, ma poi aveva rinunciato e stava in casa, accudita in tutto e per tutto da questi amici così premurosi.

Non si ricordava quando aveva cominciato a farsi strada il dubbio: forse aveva sentito accennare a qualcosa di sospetto, oppure era stato un brusco cambio di tono o di argomento. Qualcosa non tornava: dormiva moltissimo, non ricordava di aver visto un medico. Non trovava più il cellulare, lo chiese a Maria: Suonava, hai cercato di rispondere e hai rovesciato il bicchiere, l'ho preso io, eccolo. il telefono non funzionava, era fuori uso a causa dell'acqua.

Nelle poche ore di veglia l'ansia la assaliva, doveva parlare con sua sorella. Un giorno, non sapeva più da quanto fosse a letto, provò ad alzarsi ma le gambe non l'avevano sorretta, Luigi era subito intervenuto a rimetterla sdraiata.

Clara aveva paura, era in balia della coppia, doveva far qualcosa.

Dopo numerosi tentativi andati a vuoto era riuscita ad arrivare fino al telefono fisso e fare il numero della sorella: una voce femminile aveva risposto subito, lei si era messa a piangere e aveva chiesto aiuto.

Il giorno dopo era arrivata Rachele, una giovane infermiera, accompagnata da un medico che l'aveva visitata a fondo. Maria e Luigi erano scomparsi, gli incubi erano diminuiti, erano più lunghi i periodi di veglia. L'infermiera le aveva detto che probabilmente era stata intossicata, il suo malessere così improvviso e persistente era sospetto.

Rachele le aveva promesso che l'avrebbe accompagnata alla polizia non appena avesse ripreso le forze. Intanto per curarsi aveva bisogno di medicine costose: Clara aveva dato a Rachele il bancomat per andare in farmacia.

Per fortuna adesso stava meglio. Si guardò intorno, leggere era troppo stancante, avrebbe acceso la televisione. Era sola, l'infermiera era uscita da poco. Strano che sua sorella non l'avesse più richiamata per sapere come stava… vide sul tavolino vicino alla porta un cellulare, doveva averlo dimenticato Rachele. Con molta fatica si mise in piedi e appoggiandosi al tavolo e alla libreria arrivò fino al telefono.

Lo prese e digitò il numero della sorella: sentì la voce di suo cognato Markus, che parlava un italiano stentato.

— Clara, da quanto tempo! Tu non rispondere al telefono, noi preoccupati, come stai?

— Sto migliorando, grazie per avermi mandato l'infermiera.

— Infermiera? Noi mandato? Tu malata? Cosa stai dicendo?

Clara rimase impietrita, nel frattempo il cellulare aveva vibrato, era arrivato un messaggio WhatsApp.

Mentre sentiva suo cognato ripetere "Clara, Clara, rispondi…" guardò lo schermo: "vuotato il conto?" diceva il messaggio. Arrivava da Mami che aveva la faccia sorridente e senza occhiali di Maria.


(fine)



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