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E
Andr60
Namio Intile
Giovanni p
Pietro Castellazzi
Laura Traverso
Nunzio Campanelli
Alberto Marcolli
Anto58
Cristina Flati
Roberto Di Lauro
Valerio Geraci
Marirosa
Selene Barblan
Randagia
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Cuore di mamma

e gli altri racconti


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ebook della Gara letteraria stagionale d'autunno 2023


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Ebook della Gara letteraria stagionale d'autunno 2023


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: "La madre musulmana insegna alla figlia...", di pngtree.com.


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


Nota: la classifica qui pubblicata fa riferimento al periodo in cui si è svolto questo concorso. Se dalla pubblicazione dell'ebook a oggi qualche iscritto al sito ha cancellato il proprio account, le graduatorie odierne potrebbero differire.

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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara letteraria saranno pubblicati in un ebook gratuito.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Andr60

(vincitore della Gara d'autunno, 2023)


Cuore di mamma


1.


— Mamma, grazie! Che bello, è proprio la bambola che volevo! Sei la mamma migliore del mondo!

Polly, felicissima, saltò al collo della madre e l'abbracciò forte. Daisy si sentiva un po' in colpa; si sa, quando un matrimonio finisce i bambini sono quelli che soffrono di più, anche se a volte non lo danno a vedere. Il matrimonio di Daisy con Frank era andato avanti, tra alti e bassi (soprattutto i secondi) per otto anni, poi Daisy non ce l'aveva più fatta e se n'era andata con la bambina, che in quel momento aveva solo tre anni. Ora ne aveva sette; erano stati quattro anni duri, ma Daisy era orgogliosa di poter dire "Ce l'ho fatta!", in barba a tutti quelli, a partire dai suoi genitori, che dicevano che se ne sarebbe tornata da Frank in ginocchio, chiedendo pietà.

Frank aveva la parlantina sciolta, e li aveva incantati subito; be', veramente, la prima a cadere nella sua rete ammaliatrice era stata lei...


Le trattative erano state estenuanti, ma alla fine papà Ahmed e il futuro sposo Malik erano arrivati a un accordo. Finalmente Jamila poteva pensare al suo corredo: sapeva già a chi rivolgersi, anche perché non è che ci fosse molta scelta. Gli unici sarti e venditori di tessuti rimasti in città, almeno nella zona vicino alla loro casa, erano quattro, e due avevano articoli pessimi. Gli altri o erano scappati, o erano morti sotto lo bombe che avevano distrutto anche i loro negozi. Khaled aveva sempre avuto abiti da sposa bellissimi, e Jamila ancora si ricordava quando, da bambina, si fermava incantata davanti alle sue vetrine a guardarli e a fantasticare del momento in cui ne avrebbe indossato uno. Ora il momento era arrivato e, pur tra le macerie e le bombe che avevano ucciso e mutilato tanti amici e parenti, lei si sentiva felice.


2.


Finalmente il controllo missione era arrivato; quel bellimbusto, un tizio di Langley, era come al solito in ritardo e Daisy sospettava che non sempre fosse a causa del suo lavoro. Il tizio trattava tutti dall'alto in basso, quasi come se il personale dell'Aviazione dovesse essere al suo servizio. Essere considerata alla stregua di una cameriera faceva andare Daisy su tutte le furie, lei che se ne era andata di casa proprio per questo. E comunque, una cameriera non guida un aereo da seimila miglia di distanza…

Il sistema di controllo doveva apparire complicatissimo, agli occhi di un profano: monitor, leve, pulsanti e led dappertutto. Ma Daisy ormai ci era abituata, e tutto ciò le sembrava normale routine. In fondo, si trattava sempre e soltanto di un video-game. Si ricordava ancora l'espressione di Tommy, quando l'aveva stracciato allo sparatutto del bar davanti alla scuola. Aveva quindici anni, e quel gioco (come si chiamava? Ah sì, Destroy the Terrorist) era il principale argomento di conversazione dei suoi compagni di classe. Solo dei maschi, naturalmente, ché le femmine parlavano di trucco, smalto per unghie e vestiti, argomenti che la annoiavano molto. Un giorno decise di provare quel gioco, tra la sorpresa e gli sfottò dei suoi compagni e degli avventori del bar. Dopo due partite di riscaldamento, Tommy la sfidò, tra le risatine dei compagni di classe. Sì, perché il ragazzo era considerato un vero fuoriclasse, imbattuto da un anno. Daisy, senza nemmeno impegnarsi troppo, lo sconfisse nettamente e il poveretto uscì dal bar a capo chino; per una settimana non si fece vedere per la vergogna. Quanto a Daisy, capì che era quella la sua vera vocazione.


3.


Dopo il diploma, le era sembrato naturale fare il corso da ufficiale della Marina, con l'obiettivo di diventare pilota di caccia; Top Gun era sempre stato il suo film preferito, ma a differenza delle sue compagne non avrebbe voluto sposare il protagonista, ma diventare come lui. La più grande delusione della sua vita la ebbe quando venne sottoposta a un esame approfondito della vista: le trovarono un difetto (astigmatismo, dissero) ma, soprattutto, le comunicarono che ciò significava lo stop alla sua carriera di pilota prima ancora di iniziarla. Le proposero un lavoro di ufficio in una delle basi e lei accettò, in fondo era un modo come un altro di servire il proprio Paese, anche se non era esattamente ciò che aveva in mente.


L'accordo prevedeva che la famiglia di Malik si facesse carico del banchetto di nozze e di assoldare i suonatori: Malik riuscì a convincere un cantante ben conosciuto della zona, Mohammed Rawani, dotato di una voce possente che Jamila ricordava di aver sentito al matrimonio di una sua amica, e di esserne rimasta incantata. La 'arada (cioè la parata di benvenuto degli sposi) sarebbe stata un successo.

E arrivò il gran giorno. Malik sarebbe rimasto di sasso, pensò Jamila maliziosamente: l'abito bianco che aveva scelto, insieme alla madre e alle sorelle, la faceva assomigliare a una di quelle principesse che aveva visto alla TV satellitare, quando funzionava. Anche papà Ahmed rimase impressionato e gli vennero le lacrime agli occhi, al pensiero di quanto era diventata bella quella figlia che (almeno così gli sembrava) aveva tenuto in braccio solo fino a poco tempo prima.

— Dovrebbe arrivare anche zio Samir, mi ha chiamato poco fa. — le disse, sapendo quanto Jamila gli era affezionata: il fratello di Ahmed infatti le aveva tagliato i capelli per la purificazione prima dell'aqiqah, offrendo poi una pecora in sacrificio ai partecipanti alla cerimonia di entrata della neonata nella Umma.


4.


Ma bando ai ricordi, si disse. Daisy ora era lì, davanti a quella console, per difendere il proprio Paese dai terroristi che odiavano i suoi valori, la Libertà e la Democrazia. Se Mister Langley diceva che bisognava bombardare la Siria, per lei andava bene così. Avrebbe fatto tutto il necessario per dare a Polly un futuro di sicurezza e di prosperità. I droni spia avevano individuato il bersaglio: si trattava di un'auto che procedeva lentamente, a causa del traffico, inusuale da quelle parti, vista la situazione di guerra. Fu dato l'ordine di attendere, in modo da non coinvolgere altri mezzi; improvvisamente l'auto, una Mercedes, si fermò davanti a un locale.


Samir scese all'auto, insieme a due guardie del corpo; la prudenza non era mai troppa, per uno che era da tempo nel mirino dei fondamentalisti. Samir infatti era un dirigente importante del governo di Assad, o almeno di quello che ne era rimasto, dopo l'aggressione dei traditori e degli stranieri spalleggiati dall'Arabia Saudita. Era già scampato a due auto-bomba, e la ragione avrebbe dovuto imporgli di rimanere nascosto per un po', ma come si fa? Si disse lui, la mia nipote e figlioccia si sposa e io mi acquatto come una donnetta? E che esempio darei ai miei uomini, come potrei chiedere loro di rischiare la vita? Mise in un angolo della mente queste considerazioni ed entrò nel salone.


5.


Daisy era impaziente: il bersaglio era entrato in un locale e ora non era più visibile, cosa diavolo stavano aspettando? Mister Langley stava parlando al cellulare con qualcuno, probabilmente il suo superiore. Daisy intercettò solo qualche parola: bersaglio confermato, conseguenze, alleati soddisfatti o qualcosa del genere.

— Abbiamo l'okay dall'alto, possiamo procedere. — disse l'uomo, finalmente.

Daisy verificò tutti i parametri e poi azionò le manopole; seimila miglia più a est, due missili a guida laser si sganciarono dal drone Reaper e puntarono sul salone delle feste nel quale si stava svolgendo la cerimonia di nozze di Jamila e Malik.


Najeeb odiava i matrimoni; tutta quella musica, i tamburi, il frastuono incessante, le donne che non smettevano un momento di parlare, le sue cuginette che volevano trascinarlo a tutti i costi nel vortice delle danze (Najeeb odiava anche ballare). Per fortuna sua madre si era distratta un attimo e lui era riuscito a sgattaiolare fuori, per avere un po' di tregua. All'improvviso un fischio acuto gli fece mettere le mani sulle orecchie, poi non capì più nulla. Non sapeva se era svenuto, o solo intontito; si trovò comunque distante dal punto in cui stava prima, anche se era difficile stabilirlo, visto che era scomparso l'intero condominio dove sorgeva il salone delle feste. Incredulo, Najeeb camminò tra rottami e residui di abiti svolazzanti; vide anche braccia, gambe e tronchi umani bruciati, ma il suo sguardo infantile non li riconobbe subito, rifiutandosi di adeguarsi alla realtà. L'unica cosa di cui era sicuro, pensò tra le lacrime, era che ora avrebbe desiderato ballare con qualcuno, ma la musica era finita.


6.


— Ottimo lavoro, tenente Miller. — le disse il Generale.

— Grazie, Signore, ma ho solo fatto il mio dovere. — si schermì Daisy, che era comunque soddisfatta dell'esito della missione. Mister Langley aveva riferito che era stato neutralizzato un esponente pericoloso del governo dello stato canaglia siriano, e che quindi la pace era sempre più vicina. Quanto ai danni collaterali, erano limitati a poche unità.

— Si aspetti una gratifica a fine mese, per l'eccellente lavoro svolto. — si congedò il Generale.

— Grazie, Signore.

Daisy arrivò a casa carica di doni per Polly: — Grazie, mamma! Quanti regali, festeggiamo qualcosa?

— No, diciamo che ho avuto una bella giornata.

— Wow, c'è anche la Barbie con il lanciamissili, che meraviglia! — la bambina era sempre più entusiasta.

Daisy si mise a preparare la cena e intanto accese la TV. Era sintonizzata su Fox News:

"…Fonti di Al Jazeera riferiscono di una strage, avvenuta ad Aleppo oggi pomeriggio. Sarebbero almeno settanta i morti, e centoquindici i feriti, il bilancio di un attentato avvenuto durante un matrimonio..."

"Queste bestie non risparmiano nemmeno i matrimoni, maledetti loro!", pensò Daisy, che odiava sempre di più i terroristi musulmani.

Stava servendo in tavola i cheeseburger, quando un commentatore parlò dei droni; corse ad alzare il volume del televisore:

"…È necessario a mio avviso, vista l'importanza che stanno assumendo nelle guerre del ventunesimo secolo, accogliere la proposta avanzata dalla Northrop Grumman e che si sta discutendo in questi giorni al Congresso, ossia il passaggio ai droni con guida automatica diretta da una IA. Solo così potremo avere una copertura continua h24 e con operatività costante e riproducibile...

Daisy smise di addentare il panino e rimase bloccata davanti allo schermo, poi si riprese e iniziò a pensare. A quanto pareva, la pacchia era finita, peccato! Quel lavoro le piaceva parecchio. Ma l'America è un grande Paese, si disse. Sicuramente, viste le sue qualità, le avrebbero dato un'altra occasione.


(fine)


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Namio Intile


La prima ora della notte


Giunse l'ora in cui il Signore lasciò il suo servo andar via, affinché seguisse la Sua parola.


Si accostò alla finestra poggiando la testa sulla tenda di lino candido: inspirò a lungo, e il profumo della lavanda le riportò indietro la mamma, mentre la sera invadeva la via, e s'allungavano, tra le palazzine spoglie, i colori del tramonto.

I bambini giocavano per strada, attardandosi: Luce a rincorrer Sandro, Lia e Livia, rapide a fuggir in bicicletta, i più grandi a tirar calci alla palla, a valle d'una porta immaginaria. Di quei figli, dei prospetti cogli intonaci malmessi, delle ringhiere invariabilmente rugginose, degli androni senza ascensori funzionanti, sapeva di ciascuno il nome, e delle loro famiglie la quotidiana fatica.

Tirò via la tenda, per aprire le imposte, e la sentì arrivare: la prima ora della notte.

Lanciò un grido abbasso, per chiamare a raccolta i fratelli, mentre le note malinconiche di Io che amo solo te si diffondevano nella casa. Suo padre la metteva sempre quando tornava dal lavoro, e si concedeva una doccia calda prima della cena.

Mi ricorda Elena, si scusava sempre.

Aveva soltanto ventidue anni Adele, ed era rimasta, dopo la morte della mamma, a far da madre ai suoi fratelli più piccoli, Enrico ed Elisa, e ad aiutare il papà.

Che lavorava tutto il santo giorno per permettere loro una vita dignitosa.

A un certo punto le domandò perché ancora non fossero rincasati.

Adele smorzò un sorriso e scrollò le spalle. — Aspettano te per essere recuperati.

Si guardò in giro, a passare in rivista gli oggetti della piccola sala.

Alcuni, lo ricordava, li aveva comprati assieme alla mamma, alla fiera del sabato a Monte San Giuliano.

Prese una pezza, mentre si domandava da dove potesse arrivare tanta polvere.

E pensò a quanto fosse strano, in quegli anni il non aver mai pensato di potersene separare: al contrario, a volte le pareva quasi di appartener lei a quella casa e a quanto si trovava dentro.

— Novità? — Chiese il papà.

E iniziò a darle una mano in cucina, mentre i piccoli si lavavano in bagno continuando le loro allegre chiassate.

— Il professor Maccagnano finalmente mi ha fatto una proposta: a dicembre si apre una finestra. Dovrei completare i due esami per la magistrale a Helsinki e rimanere là per il dottorato.

— Helsinki? Helsinki... È lontanissimo — rimuginò il papà, con un fil di voce, e al tempo stesso un sorriso fiero gli illuminava il volto.

— Ma hanno uno dei migliori dipartimenti di paleo antropologia d'Europa. Quando mi capiterà un'occasione del genere?

— E allora vai. Pensa al tuo futuro. Sei la prima della famiglia a essere arrivata alla laurea. La mamma sarebbe fiera di te. Noi ce la caveremo, non stare a preoccuparti.

— E come? Come ve la caverete? Chi baderà ai bambini, chi li prenderà da scuola, chi gli farà fare i compiti, chi preparerà loro da mangiare?

— In qualche modo ci arrangeremo. E poi c'è la signora Carla, lo sai, muore dalla voglia di poterli avere tutti per sé. Tu invece devi pensare solo a te stessa, e al tuo futuro.

— E poi all'inizio, non so là fino a che punto potrei essere indipendente. Non voglio pesarvi.

Abbassò lo sguardo, sconfortata. E lui le si avvicinò per zittirla.

L'abbracciò, la rincuorò, le sussurrò a un orecchio di non stare a preoccuparsi, le fece coraggio, la rassicurò dicendole che ce l'avrebbero fatta, e quel distacco, per quanto doloroso, lo avrebbe dovuto compiere, prima o poi.

Furono interrotti dai bambini, il loro ingresso in cucina simile a un'irruzione, lesti ad avvinghiarsi a loro in un soffocante abbraccio.

E la piccolina, afferrata la sorella per il collo, faceva la voce grossa per esser tirata su, e giù, e poi di nuovo su, e ancora.

— Sei la vita mia — le sussurrò Adele, con una lacrima calda a scivolarle dal viso.

Non li aveva solo visti, ma fatti crescere, erano loro la sua famiglia. Ma, tutto deve cambiare.

Gliel'aveva ripetuto anche Serena, la sua migliore amica e unica confidente, sino alla sera avanti.

Le aveva detto di doversi rassegnare a questo genere di cambiamento, perché le cose non potevano rimanere sempre eguali, e lei doveva farsi forza per crescere, e andar avanti da sola, colle sue sole forze, sulle proprie gambe.

— Adele, che aspetti? A tavola è pronto — la chiamava il papà, destandola dai suoi rimorsi.

E si disse che Serena aveva ragione.

Di quella vita, in fondo, lei s'era stancata. Ogni giorno a dover badare ai bambini, a svegliarli e preparare loro la colazione, ad accompagnarli a scuola. E poi correre all'università, e ancor più di fretta tornare, prima la metro e poi col bus, e far la spesa, rassettare casa, inventarsi la cena. Ogni santo dì dell'anno.

Senza mai un momento per sé.

Eccetto i pomeriggi dei fine settimana, in cui aveva trovato lavoro nella boutique della signora Elisa, per poter avere qualcosa da spendere in più per i libri, non certo per divertirsi colle amiche. Un'esistenza ingessata, a volte soffocante; ma ora, proprio adesso, mentre s'apprestava a lasciarla, non la trovava poi del tutto indesiderabile.

Provò a farsi forza e pensò alla vita di Serena: usciva quasi ogni sera lei, e viveva con leggerezza, gliela si poteva leggere in faccia la sua felicità.

Tutti hanno diritto alla felicità, non è così che si dice? Non è forse un mio diritto?

Ogni sera a domandarsi quando sarebbe mai iniziata la sua vita.

Quando avrò il tempo di frequentare un ragazzo, l'opportunità di svagarmi un po'; quando inizierò a pensare solo, e finalmente, a me stessa?

Ma si può pensare solo a sé stessi? E non bisognerebbe invece prendersi cura di tutto ciò che ci circonda?

A Helsinki, ne aveva la certezza, avrebbe potuto esplorare un altro modo di vivere. E approfondire quegli studi da cui si era sempre sentita attratta, fin da ragazzina: con la prospettiva di un dottorato di ricerca, e magari, in futuro, di una cattedra universitaria: ciò significava indipendenza economica, una casa tutta sua, di conseguenza prestigio sociale e quindi il rispetto.

Prima di quelle degli altri vengono le mie esigenze.

Oltre la soglia intravedeva la possibilità di pensare solo a sé, e le sere libere, le infinite probabilità: di conoscere qualcuno e di potersi costruire una vita propria, indipendente, piena, felice.

Ecco, devo inseguire la mia felicità, i miei sogni.

Era questo il punto dirimente? L'esser sciolta da ogni incombenza se non quella di pensare a sé sola?

E tuttavia, come faccio con papà, coi piccoli?

Quale sorte toccherebbe loro? La mia felicità potrebbe causare la loro infelicità, accrescere le loro difficoltà. Sono già orfani e papà a casa non c'è mai.

Sarebbero rimasti a Torre Angela?

I fratellini di certo, ma senza più il mio conforto, il mio aiuto.

C'era la signora Carla, è vero.

E papà, papà chissà quali salti mortali sarà costretto a fare; ma lui è forte, una roccia.

E lui l'aveva rassicurata più volte, nei giorni precedenti, le aveva ripetuto, sino alla nausea, di non preoccuparsi dei fratelli.

Le aveva detto che non era la responsabilità di una figlia quella, ma di un padre, e aveva ragione.

È la sua croce, non la mia.

Quante volte pure lei se l'era ripetuto, per farsi forza.

Dopo cena aveva messo a letto i bambini, come ogni sera non ne volevano sapere di staccarsi dalle sue braccia, soprattutto dal giorno in cui la mamma era fuggita via. Suo padre, era crollato sul divano, davanti allo schermo acceso. Lo svegliò.

Le diede un bacio sulla fronte e l'abbracciò. Pareva preoccupato, ma contento.

Ogni mattina si alzava alle quattro per arrivare puntuale in fabbrica alle sette.

Sgombrato il tavolo Adele iniziava a studiare. A notte fonda, quando si sentì troppo stanca per continuare, si fermò ad ascoltare la casa avvolta dal silenzio.

E per un attimo a rammemorarsi di quel giorno, di sua madre ancora viva: tutti e cinque usciti per una gita al mare, al promontorio di Sant'Arcadio. Lei col cappello della mamma, per far ridere i bambini, suo padre a portarli in acqua, sul materassino gonfiabile.

Tutti i loro visi, sorridenti e perfetti, li avrebbe portati per sempre nel cuore.

Non saremo mai più tutti insieme felici, ma ognuno per conto proprio.

Era questo il dazio da pagare alla propria indipendenza.

Si appoggiò colla testa alla tenda di lino, e di nuovo la lavanda le ricondusse la mamma vicino.

Quante volte aveva cercato di dimenticare, per non soffrire. Quante volte aveva tentato di nascondere il ricordo di lei, di celarlo agli occhi e alle orecchie.

Ma estirpare il ricordo di qualcuno non equivale forse a farlo morire un'altra volta?

Nel silenzio della notte, perduto tra il sibilo del vento e il latrare dei cani, affiorava, lontanissimo, un motivo suonato da una chitarra. Lo riconobbe.

L'aveva sentito quando aveva fatta la promessa a sua madre: di occuparsi della famiglia, dei bambini, del papà, il più a lungo possibile.

Rivide la mamma sul letto di morte, e si sentì soffocare.

All'ombra della sua vita sono cresciute le mie insicurezze. La tua è stata una vita banale, fatta di sacrifici banali, spentasi dopo una banale malattia. Non voglio questo per me! E con quale diritto mi hai chiesto di rimanere il più a lungo possibile? Per continuare con la mia vita l'inutilità della tua?

Si allontanò dalla tenda, dal suo ricordo, livida di furore.

Devo andar via! E fuggire, fuggire da questa esistenza asfissiante. A Helsinki troverò la vita.

E lei voleva vivere, intensamente, e vuole amare, fino a rimaner senza respiro.

Io, a differenza di mia madre, mi salverò.


Alla fine il giorno della partenza giunse, e si trovò in mezzo alla folla ondeggiante del Terminal B, come un naufrago in mezzo ai flutti.

Il papà le stringeva la mano e ostentava un sorriso dietro cui celava la fierezza per quella figlia capace di farsi valere nel mondo. I piccoli li aveva affidati alla signora Carla, per evitare scene strazianti di addio in pubblico, consumate, invece, nel privato di quattro mura. Ma, a modo loro, avevano saputo incoraggiare la sorella maggiore, come fossero loro gli adulti, e non dei pulcini senza ali.

Quando il papà sciolse la mano di lei dal suo intreccio, Adele si avviò a larghi passi verso i controlli di sicurezza, sola.

Mostrata la carta di imbarco, posizionato sui rulli il bagaglio a mano, oltrepassò il metal detector.

È fatta, riuscì a pensare.

Quando si voltò, a salutare il papà per l'ultima volta, ne incrociò gli occhi: in lui non v'era odio, né risentimento, ma solo orgoglio e infinito amore.

E quest'amore fu lesto a riannodare i sensi di colpa.

Devo fuggire, devo fuggire, che ci sto a fare qui?

Il ritornello cominciò a martellarle la testa, per metter a tacere la colpa.

La mia vita è al di là di quel cancello d'imbarco. Devo solo oltrepassare la soglia. E poi, il biglietto già fatto, i bagagli imbarcati.

Quanti sacrifici, dietro quel biglietto, quanto studio la notte, quante corse.

Da un altoparlante correvano le note di Sergio Endrigo, cantate da una voce femminile.

Bastarono quelle vibrazioni per chiudere tutti i cieli, mentre, nella gigantesca sala, una marea di umanità indifferente iniziava a girarle intorno: si afferrò con tutte le sue forze alla maniglia del trolley, per non cadere.

Non lo sentiva più il desiderio di fuggire, di realizzarsi altrove: non vuole più tenere per sé la propria vita.

Si scoprì a rimontare la marea, per tornare indietro, a quegli occhi incapaci di abbandonarla e al mondo a cui appartengono.

E solo allora comprese di averla varcata da un pezzo quella soglia. Perché la prima ora della notte era quella già trascorsa.


(fine)


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Giovanni p


Mara


Mara mi passa il caffè, il locale è vuoto come sempre a quest'ora, tutti se ne sono tornati a casa.

— Sono tre giorni che nevica, ho le braccia distrutte. Perché il comune non manda la gente a spalare la neve?

Osservo la sua andatura zoppa, effettivamente ha le mani gonfie e scommetto che anche le sue caviglie sono messe male. Per una donna di un metro e sessanta che non arriverà a pesare cinquanta chili non deve essere il massimo spalare da sola un metro di neve che fa muro davanti al suo bar. La guardo mentre sbuffa, la sua coda è in disordine e lei odia avere i capelli in disordine, deve essere davvero stanca per non farci caso, per non fermarsi a rilegare la coda al minimo ciuffo che esce dalla sua posizione come fa di solito. Oppure è la mia presenza a lasciarla indifferente, come se fossi un cane o un soprammobile.

— Quelli del comune li mandano tutti in centro e sulla tangenziale.

Lei mi guarda torva, io cerco di non ridere.

— Le tasse le pago io su questo cucuzzolo come le pagano gli altri, anche di più se vuoi. Hai un idea di quanto mi costi di Tari questo buco?

Sorrido e annuisco, lei scuote la testa.

— Se vuoi ti posso dare un passaggio a casa.

Ha iniziato a pulire la macchinetta del caffè, non mi guarda nemmeno.

— Io sul tuo carro armato non ci salgo — poi lascia stare la macchina del caffè si volta verso di me e aggiunge — e poi non devi lavorare?

— Già.

— Bravo, già.

Butto giù il caffè e lascio i soldi sul bancone, la saluto e me ne vado, lei non mi considera, sta facendo il lavoro.

Fuori dal bar la tormenta mi aggredisce, la neve sembra sparata da dei cannoni, le cime degli abeti dondolano al vento e l'unica luce è il lampione fuori dal bar. Mi volto verso il mio Iveco lasciando che la neve si attacchi alla mia barba. D'un tratto un ricordo si accende nella mia testa, una storia che mio padre mi ha raccontato tanti anni fa quando ero ancora un bambino. La storia narrava di un uomo che deve accendere un fuoco per salvarsi la vita ed è ambientata nel Klondike.

Il nome "Klondike" mi è rimasto sempre impresso, come se fosse appeso su un muro che ho sempre di fronte, il bello è che non so nemmeno dove sia il Klondike. Accarezzandomi la barba mi torna in mente quell'uomo che lotta per non morire congelato. Nel racconto fa così freddo che il ghiaccio condensato sulla sua barba gli crea una maschera che gli impedisce di respirare correttamente, per fortuna qua non fa poi così freddo, ma il pensiero mi crea un disagio che cerco di dissimulare.

Il mio mostro dorme sotto la neve, la tormenta lo ha quasi sepolto. Sul vetro sono appoggiati circa dieci centimetri di neve candida, la tolgo spingendola via con le mani senza mettermi i guanti. Mentre il vetro riemerge penso a quanto mi siano sempre piaciuti il freddo e questa montagna.

Sentire il gelo sulla pelle e dentro ai polmoni mi fa assaporare la vita. Accendo il motore, guardo il contachilometri che segna seicentomila e mi sento fiero. Pochi giorni fa in centro ho visto dei ragazzi bestemmiare sulle loro Mercedes nuove di zecca, la batteria di quegli aggeggi non ha retto il freddo e le auto non sono ripartite lasciando così i ragazzi e le loro belle in minigonna a battere i denti davanti al ristorante dove per qualche centinaio di euro hanno assaggiato qualcosa. Il mio Iveco gli è passato davanti fiero, sbuffando fumo nero con ironica arroganza. Giro la chiave e do gas, il motore tossisce fino a schiarirsi.

In folle trema tutto, specchietti e plastiche interne, inserisco la prima e sento il motore brontolare cupo mentre tutto il resto ha smesso di tremare. Sento le ruote lottare con la neve che le ha bloccate, le catene sono al loro posto, quindi per la neve è tutta fatica sprecata. Stanotte il mio Iveco si arrampicherà per strade che nessun altro può percorrere, affrontando una salita e dei tornanti che fanno paura a molti nelle giornate d'estate.

Giro il volante largo come un mappamondo, il servosterzo non c'è quindi devo evitare di sterzare quando le ruote sono ferme. M'immetto sulla strada sapendo di non dover fare lo sforzo di badare a chi arriva da destra o sinistra, entrambe sono buie e nessuno osa mettersi in strada.

Le ruote appena entrano a contatto con la carreggiata accusano un leggero pattinamento, la neve qua è pressata e il vento ha indurito la superficie. Sono in strada, per fortuna i lampioni sono accesi anche se ne conto solo uno ogni cento metri.

Il motore ruggisce cupo mentre la salita inizia, per fortuna nella cabina fa caldo anche se devo tenere il finestrino aperto a causa dei fumi che arrivano dalle bocchette. L'odore del diesel non sarebbe nemmeno male, ma quando l'abitacolo diventa saturo la testa inizia a girarmi. Devo starci un'altra ora qua dentro, il tempo della consegna e poi si torna a casa. Il magazzino è dopo la collina e il mio mostro se la mangia un pazzo alla volta. I fari riescono a illuminare la strada a distanza di trenta metri e il rombo spaventa tutti i lupi, gli orsi e i cinghiali con potenziali tendenze suicide.

Qua i lampioni non ci sono più, i tornanti stanno per iniziare e dovrò fare affidamento solo sui fari. La cosa buona è che sono da solo, quindi posso invadere l'altra corsia senza problemi, le cose "non buone" sono troppe per essere elencate. Al primo tornate il camion si piega sulla destra, il carico è esagerato e si sente. Al secondo il motore iniziai a salire paurosamente di giri, ma per fortuna la temperatura dell'acqua rimane dov'è. Gli altri tornanti spariscono uno dietro l'altro.

Adesso il motore fa tremare tutto, inizia la salita più ripida, l'ultima della notte. Il cruscotto vibra e soffre mentre le ruote fanno a botte con la strada, come sempre devo scalare e cambiare per dare fiato o toglierlo al motore che gorgoglia. Quel pezzo di strada era il mio terrore nelle mie prima notti da principiante. Se il motore mi abbandonasse sarebbero stati guai, ci ho messo molto tempo a fidarmi, a non sudare freddo cercando di stare tranquillo.

Mentre la pendenza aumenta penso a Mara, alle sue spalle minute, alla sua coda che dondola mentre spazza per il bar. Sarebbe bello se mi considerasse, se accettasse di salirci sul mio camion puzzolente di diesel. L'ho sognata spesso ultimamente, a volte nuda altre vestita con l'uniforme del bar che mi sorride. Poi all'improvviso il buio. Il volto Mara sparisce mentre la strada diventa buia, il mio mostro ha tossito con una violenza mai sentita prima, ora sento solo il silenzio. Rimango fermo per qualche secondo poi strangolo il freno a mano. Il motore si è spento ed è tutta colpa mia.

Mi sono distratto e ho lasciato andare troppo la frizione, adesso sono fermo al buio con la salita ancora da fare. Riaccendo subito il quadro che per fortuna mi restituisce un po' di luce, accendo ma il mostro ora dorme stremato. Iniziò a sudare freddo, ripeto l'operazione tre volte ma niente. Mi prenderei a schiaffi da solo, che cazzo ho combinato...

La pendenza è quasi del quindici per cento e fa un freddo micidiale. Per fortuna il freno a mano tiene. Scendo e controllo che le ruote non arretrino, la neve e il vento mi vengono addosso come una folla, ma per fortuna vedo che le ruote rimaste dove si sono fermate. Sulla neve il segno delle ruote sembra quello di una belva feroce, spero che gli artigli tengano su quella pelle bianca.

Mi volto verso la salita illuminata dai fari, Il vento mi brucia la faccia, risalgo velocemente ma so benissimo che anche dentro l'abitacolo fra poco farà un freddo cane.

Salgo su, apro il cruscotto e tiro fuori il triangolo e il giubbotto catarifrangente, se mi faccio beccare senza addio patente. Mi sento un idiota mentre posiziono il triangolo dato che il vento lo tira giù anche se lo blocco con le basi. Riesco a sistemarlo, ma è inutile ai fini della sicurezza, la neve fra poco lo avrà sepolto. Inizia a farmi freddo ma non voglio pensarci, anche perché mi basta vedere il mio camion inclinato su questa maledetta salita per scordarmi di tutto il resto.

Risalgo e sento che l'aria nell'abitacolo è pulita, ma purtroppo anche gelida.

La tormenta non si calma il parabrezza si sta riempendo di neve e sento che la testa di gira. Provo a telefonare, al magazzino mi stanno aspettando, ma tanto so già che non c'è segnale e infatti il cellulare mi dà ragione. Il freddo inizia a farsi sentire, senza neanche accorgermene sto tremando.

Tutto intorno c'è solo il bosco, davanti la salite e dietro la discesa, ma poi un botto interrompe sia i pensieri che il tremore. Qualcosa di grosso ha colpito il tetto del camion, esco di nuovo ma non vedo nulla, la neve mi entra negli occhi.

Passo dal lato sinistro a quello destro del camion e vedo che il ramo di un albero si è rotto ed è finito sopra il tetto. Il ramo è grosso, probabilmente il botto è stato attutito dalla neve che sta creando una montagna bianca sul mio Iveco. Saranno almeno cinquecento euro di danni, ma nella situazione in cui mi trovo è niente. Con tutte le mie forze cerco di trascinare via il ramo che sarà lungo almeno tre metri, ma in questa situazione è un lavoraccio. Il ramo sembra murato quando improvvisamente vedo il camion pattinare all'indietro. Il ramo scende da solo e nel farlo mi fa cadere, per poco non mi rompo il braccio sinistro, per fortuna il camion scende per poco più di un metro. Il tremito mi aggredisce, ma non solo per il freddo, se il mio mostro decidesse di scivolare troverebbe presto un tornante e finirebbe fra gli abeti ribaltandosi.

Se finisse giù per uno di questi tornanti significherebbe doverlo ricomprare nuovo. Mi scappa pure da pisciare e sto tremando come una foglia sia per il freddo che la paura.

Guardo il mio Iveco messo di sbieco in strada, sembra un cadavere coperto di neve. Il triangolo è finito sotto le ruote, non perdo neppure tempo a cercarlo anche perché devo pisciare e trovare una soluzione. Le scarpe si stanno bagnando, il freddo non mi arriva più solo sulla faccia e le mani, ma adesso sale anche dai piedi. Neve e vento mi arrivano da ogni direzione, tuttavia sento che l'aria mi sta mancando.

Mi succede quando ho paura, in particolare quando la paura soverchia ogni altro sentimento utile a mantenere il controllo come la rabbia ad esempio. Dondolando mi avvicino al margine del bosco, qui c'è meno vento posso pisciare in pace e provare a riprendere fiato e calmarmi. Il buio è totale, sento solo le gocce di urina precipitare sulla neve. I miei occhi si perdono nel buio del bosco, la testa mi gira sempre di più e le gambe tremano. Penso a mio padre e alla storia che ha raccontato sul Klondike, quella storia ha due finali, uno di questi è tragico. Sto per svenire, inizio a fare respiri profondi sentendo la faccia bruciare.

Finisco di urinare ed esco per tornare sulla strada, ma inciampo. Affondo nel candore gelido, riesco persino a sudare freddo. Il respiro si fa pesante, il panico mi sta per prendere.

Addento un boccone di neve e per fortuna è una buona idea. Un dolore acuto parte dai miei denti trapanati di fresco, il dolore mi sveglia.

Mi tiro su e in ginocchio racimolo altra neve da inghiottire, i denti sembrano schiantare dal dolore. Mi alzo in piedi e arranco verso il camion. Arrivato mi stampo sullo sportello che riesco a malapena ad aprire, salgo sul sedile e lascio il freno a mano. Sento il camion indietreggiare, le mie braccia devono domare quella bestia senza servosterzo, ma il piano funziona prima che me ne accorga. Le ruote slittano nel verso giusto, la merce rumoreggia nel vano ma non ribalta.

Ho spostato il mostro nel senso contrario di marcia, adesso torno indietro. I freni non funzionano, ma c'è talmente tanta neve che riesco a viaggiare a passo d'uomo. Sono sfinito, ma la testa ora funziona. Sento il sangue scorrere e il petto gonfiarsi, i battiti martellano pesanti la mia gola e i miei timpani. Dopo poca strada caccio un urlo di gioia, le luci del bar di Mara sono accese. Lascio che il mostro entri nel piazzale, poi finalmente tiro il freno a mano e lo lascio slittare dove non dia fastidio. La porta si apre dopo molte manate date con cautela, ho le mani gelate e un urto troppo violento aprirebbe ferite bastarde. Mara mi vede corre verso la porta e dopo avermi tirato dentro dice:

— Solo un coglione come te lavorerebbe in una notte come questa!

Io annuisco, lei si avvia verso il bancone.

— Hanno chiuso pure il magazzino, scommetto che hai ancora quella patacca di telefono e te ne sei accorto quando sei arrivato lì. Il magazziniere ha chiamato qua per avvisarti, ma te avevi il cellulare staccato. — Mi dice lei mentre sculetta verso la macchina del caffè.

— Comunque sei una fava, io non sarei mai partita con una bufera del genere, anzi come vedi sono rimasta qua, non ho voglia di rimanere bloccata con questo tempo.

Mi siedo cercando di non tremare, ma sono sfinito e la testa ha ripreso a girarmi anche se adesso sento caldo. Mara continua a parlare, ma io non la sento, la vedo mentre prepara un caffè, doppio in tazza grande come piace a me. Il caffè mi rianima, ma vedo Mara che mi fissa preoccupata e dice:

— Ma sei completamente zuppo!

Annuisco con la tazzina incollata alla bocca.

— Pezzo di coglione! — sbraita dando un pugno sul bancone — Non mi dirai che ti è partita una catena?

Annuisco di nuovo.

— Te e quel cazzo di ferro vecchio! Con quello che lavori e guadagni almeno le catene ricomprale!

Poi si avvicina e mi toglie il giubbotto.

— Spogliati e vedi di non fare il timido, in queste condizioni non puoi stare. Ti asciughi e la notte la passi qua con me, contento?

Fisso i suoi occhi arcigni, ma bellissimi, annuisco di nuovo.


(fine)


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Pietro Castellazzi


End of the World, Route 66


Conobbi Jasmine ai tempi del college e durante una delle innumerevoli feste, me ne innamorai perdutamente. Bei tempi: eravamo giovani, spensierati e senza troppe responsabilità. La sposai, e dopo quasi dieci anni di matrimonio, la nostra relazione precipitò drasticamente. Infatti, da anni ormai, la mia consorte non perdeva occasione per scaricare le sue insensate frustrazioni su di me.

Una sera, dopo l'ennesima discussione, mia moglie ghignò a denti stretti: — Stammi bene a sentire Aaron, non crederai di uscire coi tuoi amici anche questa sera? — Poi, incalzò: — Sei uno scansafatiche e non ti permetto di trattarmi da serva!

Rimasi allibito, in fondo non ero certo il tipo di uomo che passava il tempo davanti alla TV o che non dava una mano per le faccende domestiche. Fu così, che non le diedi nemmeno la soddisfazione di una risposta, e senza degnarla di uno sguardo, presi la giacca, le chiavi dell'auto e uscii, sbattendo la porta. Non ne potevo più, ero saturo. Quella donna non era più la ragazza timida, dolce e aggraziata che conobbi, si era trasformata in una strega.

Accesi la mia fiammante Mustang, consapevole che questa volta, i sensi di colpa non mi avrebbero fatto cambiare idea.

Mi diressi verso Chicago, sulla U.S. Route 66 in cerca di una stazione di servizio. Dovevo fare rifornimento all'auto e, senza dubbio, avevo bisogno di bere qualcosa di forte. Dopo qualche miglio, scorsi il posto adatto e accostai.

— End of the world Route 66. — sorrisi pensando alla fantasia del gestore nella scelta del nome per la sua attività, decisamente originale, poi senza tergiversare, spinsi la porta ed entrai.

Il locale era piuttosto accogliente e, malgrado le mie aspettative non lo avrebbero certo previsto, colmo di gente. Della musica country rendeva gradevole l'atmosfera, anche se le persone all'apparenza, sembravano indaffarate in questioni personali. I clienti non sembravano del posto, e a dirla tutta, nonostante molti di loro sedevano allo stesso tavolo, avrei giurato che fossero perfetti sconosciuti. Sensazioni. Mi avvicinai al bancone per ordinare un whisky on the rocks. La cameriera forzò un sorriso e me lo servì in un batter d'occhio.

La musica cessò improvvisamente. Non mi era mai piaciuto il country. Colsi l'occasione per avvicinarmi a uno splendido jukebox, che mi invitò a selezionare qualcosa del mio genere. Pensai immediatamente al classico rock'n'roll degli ACDC, ma non appena intravidi Elvis, be', non potei far altro che optare per la famosa "Jailhouse Rock". Introdussi la moneta e il disco venne selezionato. Le note armoniose del Re del Rock si diffusero nel salone, tanto da trasformare l'ambiente lugubre, in una sala da ballo.

Mi voltai e incredulo stropicciai gli occhi nel vedere gli stessi individui persi nei loro affari, coinvolti in una ballata rock, sorridenti e fieri, come se si fossero svegliati da un letargo decennale.

Una bellissima ragazza, abbigliata come Daisy Duke di Hazard, mi prese per mano e mi trascinò in quella bolgia. Non avevo intenzione di tradire mia moglie: non certo per una qualche paranoia di tipo etico, non più almeno, non me ne fregava più nulla. Avevo semplicemente paura di essere scoperto.

Da settimane, ormai, il mio pensiero fisso era uno e uno soltanto, il divorzio, e non potevo permettermi scivoloni che potessero trascinarmi dalla parte del torto. Inoltre, una volta ottenuto il divorzio, avrei potuto fare ciò che volevo: era solo questione di aspettare un po' di tempo. Però, al diavolo, in quel locale tutti stavano ballando con tutti, senza dubbio avrei iniziato a ballare con quella ragazza, e in pochi minuti, in quella bolgia, mi sarei ritrovato come damigella un biker muscoloso e tatuato dalla barba chilometrica. Così mi lasciai andare.

Non sono mai stato capace di ballare ma poco importava, a quanto pare. In pochi istanti i passi di danza avevano lasciato il posto a brindisi virili, capaci di crepare i boccali, trenini conga sconclusionati, gente che semplicemente ondeggiava spalle e bacino, rigorosamente in piedi sui tavoli. In mezzo a tutto quel caos mi colpì un uomo, lo vidi solo per qualche frazione di secondo, tra una schiena e l'altra: "Ma quello è un pirata!" pensai, e quell'immagine mi strappò un sorriso. Avrà avuto una settantina d'anni, capelli lunghi e bianchi, una maglia a righe orizzontali e le dita delle mani coperte di anelli dorati. Personaggi singolari ce n'erano in quel bar, ma quel tizio li batteva tutti. Niente di che, continuai a ballare e di quando in quando, facevo in modo di approdare al bancone urlando: — Whiskey! — giusto per fare rifornimento.

Andò avanti così per circa mezz'ora, poi la musica finì e tutti tornarono a sedersi, ridendo e asciugandosi il sudore. Qualcuno si complimentava con qualcun altro per chissà quale motivo e io tornai al bancone.

— Una bottiglietta d'acqua, ghiacciata per favore.

— Qui nessuno beve acqua. — mi rispose una voce roca, di fianco a me. Era il pirata.

— Eh, immagino e anzi, sono d'accordo, — replicai ridendo — ma dopo quattro whiskey e tutto questo movimento un goccio ci sta, o no?

— No. — ribadì serio il pirata — Qui nessuno beve acqua. Vuoi qualcosa di fresco? Fagli un Hell on the Road, Dolores! — esclamò, rivolgendosi alla barista. E se ne andò.

Rimasi interdetto, ma compiaciuto e divertito e scolai tutto d'un fiato quella che doveva essere la specialità della casa. Una specie di succo di frutta, molto ma molto zuccherato. Buono ma leggero: — Fammene un altro, Dolores.

Mi sedetti su uno sgabello, con i gomiti appoggiati al bancone, a bere con calma. Devo confessare due cose: la prima, cercai per un po' la Daisy Duke che mi aveva introdotto alle danze, ma non la trovai più, come immaginavo. E per fortuna. Secondo, quella specie di succo dolciastro, specialità della casa, mi stava lentamente inebriando, ammetto di averlo sottovalutato. E con mio grande sgomento, mi resi conto che stava per iniziare la classica sbronza triste: erano ormai le 2.00 e, a momenti, sarei dovuto tornare nel mio inferno privato, con quella troia di mia moglie.

Guardavo fisso il bicchiere, quando sentii una voce roca e sottile: — Dammi il solito.

La barista passò al mio vicino di sgabello un bicchiere lungo e sottile, una forma mai vista prima, e con la coda dell'occhio, vidi una cosa che mi sconvolse. Il cliente accanto a me, infilò in quella specie di tubo una lunga, lunghissima lingua, che riempì tutto il vetro, succhiando la bevanda al suo interno.

"Oh mio dio!" pensai, e rivolsi lo sguardo a quella cosa. Aveva un impermeabile beige e un cappello. Ma la sua faccia era, santi numi: la sua faccia era di un colore tra il grigio e il marroncino, squamata, la bocca un po' allungata e due occhi enormi.

Mi guardò: — Qui fanno la migliore tisana al melograno della contea. Certo, la qualità non giustifica un prezzo così alto ma cosa vuoi mai, tutto costa di più oggi… e meno male che con queste mani non posso guidare: vogliamo parlare dei prezzi del gasolio?

Sgranai gli occhi, e mi allontanai con uno scatto repentino, quasi facendo cadere lo sgabello. Cosa diavolo era quella cosa? Lui, quel mostro, mi seguì con lo sguardo per pochi istanti, poi abbassò gli occhi, per bere un altro sorso di quella bevanda. Indietreggiando, sempre con gli occhi sgranati, urtavo e venivo sbattuto dalle decine di persone, ammucchiate in quel locale. Qualcuno si lamentò, intimandomi di stare attento a dove mettevo i piedi. Non sapevo cosa fare, nessuno sembrava badare a quella mostruosità, che io invece continuavo a fissare, allontanandomi sempre più dal bancone. Mi voltai, deciso a scappare, o forse per lanciare l'allarme e indicare a qualcuno, chiunque, quella cosa seduta al bar. Ma quando alzai lo sguardo, mi ritrovai faccia a faccia con una donna, giovane e molto molto carina. Almeno fino a quando non scansò la ciocca di lunghi capelli biondi, che le copriva metà del viso, mostrando l'occhio sinistro. O meglio, ciò che avrebbe dovuto essere l'occhio sinistro: dalla cavità oculare, incorniciata da pelle cadente e sanguinante, emergevano vermi e larve. Urlai e corsi per guadagnare l'uscita, ma… non vi era alcuna porta. Mi guardai intorno: lungo la parete in mattoni rossi potevo intravedere solo insegne al neon, gagliardetti e raccolte di fotografie.

Bloccai la persona più vicina a me: — Scusi dov'è l'uscita?

L'uomo si voltò: nessuna lingua viscida e allungata, niente pelle sciolta e cadente. L'uomo appariva normale, certo un po' pallido, ma non vi era nulla di strano. Iniziò a indicare la sua bocca con l'indice, facendomi alcuni segni con la mano, senza proferire una parola.

— Non capisco, ho solo chiesto dov'è l'uscita? — domandai di nuovo, urlando per sovrastare il volume della musica che nel frattempo era ripartita a livelli assordanti.

Alzando gli occhi al cielo, con fare spazientito, l'uomo abbassò il colletto del maglione: OK, evidentemente voleva dirmi che non poteva parlare, d'altra parte come avrebbe potuto con quello squarcio profondo e sanguinante che gli attraversava il collo?

Ero terrorizzato, confuso, la paura si mescolava alla sbornia. L'alcool. La specialità della casa… Hell on the Street, on the Road, come diavolo si chiamava. Corsi verso il bancone e inveii contro la barista: — Che diavolo c'era dentro a quella roba, mi avete drogato?!

La donna mi guardò con sufficienza, la testa leggermente piegata e il chewing gum masticato senza ritegno: — Sì, è la prima cosa a cui si pensa, arrivati qui.

Mi voltai e inorridii… era quello che avevo soprannominato il pirata.

— Ancora niente, vero?

— Ma di che diavolo stai parlando?

— Vieni con me. — mi disse.

Sconvolto iniziai a seguire quell'uomo attraverso il salone affollato, poi salimmo una rampa di scale e ci appoggiammo a un parapetto. Davanti ai nostri occhi decine e decine di figure, maschili e femminili, alcune di quelle le avevo già viste nel corso della serata, prima che si trasformassero, almeno. Qualcuno aveva una fessura nel cranio che non avevo notato fino a qualche minuto prima, qualcuno aveva il volto massacrato e sanguinante, molti (la maggioranza) avevano ossa rotte, che emergevano dalla pelle o dai vestiti. Ma non solo: c'erano figure che di umano non avevano nulla, come quell'essere che incontrai al bancone, ma dalle diverse fisionomie. Un uomo vestito di pelle nera, portava al guinzaglio un altro uomo, magrissimo, glabro, nudo, con le palpebre e la bocca cucite. Una donna strisciava leccando il pavimento, un uomo seduto in un angolo, con lo sguardo fisso e allucinato, masticava frammenti di vetro, mentre il sangue colava dalla sua bocca. Era un'orgia di distruzione, perversione e orrore.

— Qui è dove accogliamo le anime auto distrutte, qui è dove la consunzione del corpo e dello spirito soggiornano per l'eternità. Anni spesi ad arrendersi all'angoscia, attraverso scappatoie e vie di fuga, rifiutando qualsiasi sforzo o tentativo di alzarsi in piedi. Morti fuori e morti dentro: prima si danza in preda all'ebbrezza, poi l'entusiasmo si spegne e si torna al buio che ci compete e, davanti al quale, abbiamo chinato il capo. Questo è il deserto dell'essere, questo è il rifugio di chi odia la moglie, questa è la consolazione di chi sfoga la frustrazione, iniettandosi eroina o premendo sull'acceleratore, questo è il Midian della società, questo è il nulla eterno.

— Voi siete pazzi, questa è solo una festa in maschera, dove servite di nascosto droghe e merda del genere, io voglio andarmene.

— E nessuno te lo impedisce. Quella è l'uscita. — disse il pirata, indicando una zona della parete, che credevo di aver controllato, senza trovare l'uscita.

Corsi via, più forte che potevo, salii sulla mia Mustang e partii diretto verso casa.

Ero decisamente ubriaco, ma volevo andarmene, in fretta e furia. L'orrore che avevo appena vissuto, era decisamente troppo, anche più di quella strega di mia moglie. Mentre mi avvicinavo all'isolato di casa, sentii numerose sirene, accompagnate dalle luci blu intermittenti di polizia e ambulanze. Stavano allontanando curiosi e vicini, mentre delimitavano una scena del crimine. Rimasi piuttosto perplesso e sbigottito. Il nostro quartiere era uno dei più tranquilli, e nel vicinato, non si erano mai verificati episodi significativi di criminalità.

Scesi dall'auto e mi avvicinai alla folla chiedendo spiegazioni, ma stranamente, nessuno sembrava vedermi né darmi ascolto. Poi, udii uno scambio di battute fra due persone poco distanti, che discutevano dell'accaduto. — Quella Jasmine sembrava una donna così educata e gentile, una donna per bene insomma.

— Già, e chi diavolo si sarebbe immaginato che potesse fare a pezzi il marito?

— Poveraccio, non si meritava certo una fine simile. Ammazzato e fatto a pezzi, cosa da non credere!

I due parlavano di me, ma nonostante mi avvicinai e cercai di strattonarli per attirare la loro attenzione, per loro ero invisibile. Non potevano né vedermi, né sentire le mie urla; non riuscivo ad accettare la verità, non volevo credere. Tentai un nuovo disperato tentativo, per attirare l'attenzione.

Urlai a squarciagola verso la folla circostante: — Ehi, che diavolo fate? Io sono qui, sono vivo, mi chiamo Aaron, Maledizione! — Piansi e iniziai a disperarmi.

In preda al panico, mi rimisi al volante e cominciai a guidare, a velocità sempre più elevata. Il buio mi impediva di orientarmi, non sapevo dove fossi, non c'erano svincoli, non c'erano edifici. Fino a quando, scorsi nuovamente l'insegna dell' "End of the World", il locale sulla Route 66. A quel punto, mi fermai e spensi la macchina. Il respiro pesante, intervallato dai singhiozzi, la testa tra le mani. Rassegnato, disperato, scesi dall'abitacolo e mi diressi verso l'unico edificio presente lungo quella buia strada di follia.

Il pirata fece un sorriso beffardo: — Bentornato, Aaron. Fai un Hell on the Road al nostro nuovo amico, Dolores. Anzi, faglielo doppio: tanto avrà tutto il tempo di gustarlo. Qualcosa come... l'eternità.


(fine)


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Laura Traverso


Tra scarpe e mutande


C'eravamo conosciuti in una chat di incontri tra le tante che spopolano sul web.

Era nata una simpatia e tra una battuta e l'altra eravamo diventati amici.

Dopo, qualcosa di più.

Ci piaceva indugiare e anche un po' amoreggiare, ovviamente da "remoto", con reciproci racconti un po' audaci circa i rapporti sentimentali trascorsi.

Tra una confidenza e l'altra ero venuta a sapere che aveva gusti sessuali strani.

Gli piacevano molto i piedi femminili. Faceva domande su quali scarpe indossavo, come erano i miei piedini aggiungendo che, nel fare l'amore, lui cominciava sempre dai piedi e poi saliva su, sempre più su…

Assicurava che avrei trovato il paradiso dato che, a sentir lui, nessun altro partner poteva eguagliarlo in quanto a bravura a letto.

Caspita, pensavo molto divertita, ma che fortuna ho avuto a incontrare un tale fenomeno. Davvero da terno al lotto, si fa per dire...

Il nostro appuntamento in chat era quotidiano e serale.

Ogni volta che ci incontravamo sul "nostro" sito, il suo saluto era di questo andazzo: — Di che colore sono oggi le tue mutandine? Naturalmente sarà un perizoma, vero? Adoro quel tipo di intimo che lascia tutto immaginare… con quella fettuccina che si insinua tra le natiche, lasciandole tutte scoperte. Che eccitazione! Peccato che tu non mi possa vedere, sono tutto per te.

Io mi divertivo tantissimo anche se, con l'andare del tempo, cominciavo un po' a stufarmi di quel giochetto assai ripetitivo e noioso.

Molte volte restavo delusa dal suo saluto particolare e sempre uguale, recitato ogni sera come un mantra.

Avrei preferito che mi chiedesse come stavo, come era andata la mia giornata e non di che colore fossero le mie mutande.

Senza contare, poi, che io detesto il perizoma, ma per stare al gioco non glielo dissi mai.

Ridevo tanto dentro di me descrivendogli le mie finte mutandine ultra sexy, tutte pizzi e trasparenze. Le mie vere sono invece comode culotte in puro cotone; un po' da educanda se vogliamo, ma tanto comode e igieniche. Lontane anni luce dalle fibre sintetiche e dai lustrini che normalmente attizzano tanto.

Ma sapevo anche, per esperienza vissuta, che nessuno si era mai bloccato dinnanzi alla mia scelta intima. Anzi, forse non la vedevano neppure, tanto era il desiderio di arrivare alla sostanza: ciò per dire che i suoi discorsi mi parevano cazzate.

Ci vuol altro per eccitarsi…


Il gioco ormai era avviato alla grande e si spingeva sempre più avanti.

Pertanto si sarebbe dovuto concretizzare pensando a quando e dove incontrarci per conoscerci dal vero, in presenza come si sul dire

Intanto ero sempre più annoiata da quel giochetto cretino dentro il quale, un po' tanto stupidamente, mi ero infilata. Fu per ciò che misi in atto un veloce reset che mi permise di fare l'utile operazione di ripristino mentale: ritornai a connettermi con me stessa facendo pure alcune considerazioni. Come potrebbe mai, una come me che va sul classico, star bene con uno che comincia a far l'amore dai piedi?


Fu a seguito del mio saggio ragionamento che quella sera, invece di rispondere al suo saluto-mutandiero, lo invitai cortesemente ad andarsene a spigolare.

Ci rimase male poverino, credeva di aver trovato la scarpa per il suo piede...

Rimproverai me stessa per la stoltezza con la quale avevo illuso un essere umano dai gusti sessuali non troppo nella norma. In fondo occorre avere rispetto per tutti, tra l'altro su di una preferenza da me non condivisa ma innocua: il tipo non faceva del male a nessuno e chissà che davvero non sarebbe stato, come affermava, un delirio dei sensi a cominciare dal basso.

Non lo saprò mai...


(fine)


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Nunzio Campanelli


Sono solo pietre


Con la punta del badile saggia la compattezza del terreno, toglie qualche sasso dalla superficie, poi con un gesto antico come il peccato inizia lentamente a scavare la fossa.

A poca distanza giace il cadavere di un giovane soldato, venuto a morire in quella valle desolata. Una vasta chiazza ha tinto di rosso la sua uniforme all'altezza del petto, i lineamenti contratti nello sforzo della morte denunciano al massimo una ventina d'anni.

Mentre sta appoggiando alcune pietre per formare un simbolo sul cumulo di terra, sente qualcosa muoversi alle sue spalle.

— Toglile!

Sulla destra inizia a materializzarsi una sagoma che imbraccia un fucile. Lo guarda in modo distaccato, come se la sua presenza non lo riguardasse.

— Hai sentito? Toglile!

— Sono solo pietre.

Il dito del soldato si avvicina pericolosamente al grilletto.

L'uomo non si muove.

Il viso del soldato sembra deformarsi nello sforzo di riuscire a trattenere la propria rabbia.

Ha conosciuto solo morte e desolazione. Rabbia e miseria. Fame e insulti. Il dito si contrae.

La deflagrazione rimbalza nella valle di colle in colle, lasciandosi dietro un silenzio improvviso.

— Valeva la pena morire per delle pietre?

Pensa il soldato mentre scava una fossa per seppellire l'uomo che ha appena ucciso. Solo allora sembra accorgersi della presenza delle altre sepolture, in successione una dopo l'altra in un infinito perpetuarsi di un destino ineluttabile. Quel meccanismo ora reclama la sua morte. Lo scatto metallico del percussore che introduce il proiettile in canna, e le parole sputate come veleno alle sue spalle non lo sorprendono. Guarda in faccia il suo prossimo carnefice intento a ripetere l'ordine.

— Rimettile a posto!

Le pietre, che intanto aveva raccolto senza nemmeno rendersene conto, gli scivolano a terra andando a confondersi con altre.

— Rimettile a posto!

La deflagrazione rimbalza nella valle di colle in colle, lasciandosi dietro un silenzio improvviso.


(fine)


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Alberto Marcolli


Gennaro "a scigna"


Comodi eh! Case pulite, cameriera, televisore, telefonini, pasti caldi...

Dovreste provare a vivere nel quartiere più pericoloso e malfamato della città. Uno stramaledetto buco, dimenticato dal padreterno, rovente d'estate e gelato d'inverno, e poi ne riparliamo.

Mammà mi chiama Austiniello, il padre io non l'ho mai visto. Mammà dice che sta in America a faticare per noi. Balle! La verità è che non sa nemmeno lei chi l'ha messa incinta, e ho detto tutto!

Mammà è di Napoli, ma io sono nato qui ad al nord, in una borgata di palazzoni scalcagnati, cassonetti strapieni e puzzolenti, abbandonati per mesi prima del loro ritiro, buche con brandelli d'asfalto intorno. Noi bambini siamo costretti a giocare in mezzo a catorci di macchine gibollate, subire violenze dai più grandi, e da genitori ubriaconi che sfogano su di noi le loro frustrazioni. Come cazzo credete che possiamo venir su?

O impariamo da subito a cavarcela da soli o crepiamo. Qui la regola è solo una: menare per non farsi menare. Oppure, se a uno mancano le cosiddette, meglio mettersi a leccare il culo al più stronzo del quartiere, che di solito è anche il più grosso e il più violento…

Se dopo aver fatto a botte per anni, uno pensa sia meglio farsi furbo, cosa gli resta da fare? Scegliere il più forte e ruffianarsi con lui, ammesso che uno vinca la concorrenza e lui decida di accettarlo.

Gennaro "a scigna" mi piaceva. Da ragazzino era un mago nello scavalcare cancelli, arrampicarsi sui muri e infilarsi nelle abitazioni per rubare, e poi aveva la faccia giusta, quella del delinquente fatto e finito! E per me un vero delinquente ha l'occhio truce e la cicatrice di una coltellata sulla guancia. È sempre incazzato e pronto a menar le mani.

E in più Gennaro ripeteva sempre quel "facimm ambress prim ca me girino e pal", che era il suo marchio di fabbrica.

"Vieni fuori che ti spacco il muso…" oppure "Se mi freghi rischi grosso…" e via così. Ma il suo capolavoro è come faceva scappare negri e zingari: "Fila! Facimm ambress prim ca me girino e pal, che se ti prendo ti ammazzo…"

Gennaro era proprio un bastardo. Vigliacco e razzista di merda, proprio il tipo giusto da scegliere come eroe.

Lui e l'Umberto, il suo compagno di merende, erano i mastini del quartiere. Chiodo, Levi's 501 e Kawasaki, non avevano rivali.

— Chi non è razzista alzi la mano, perdio. A chi non dà fastidio vedersi invasi da questi musi neri? Come campano? I più pecoroni si lasciano schiavizzare, e mi va anche bene, ma gli altri? Rubano, stuprano e sporcano!


Tra me e loro due c'erano almeno dieci anni di differenza e dovetti subirne di prove prima di essere accettato.

Non ero alle prime armi. I furtarelli in chiesa erano la mia specialità. Avevo un metodo semplicissimo, tramandato da generazioni di ladruncoli. Mi procuravo un bastoncino di una certa lunghezza. A una delle estremità ci appiccicavo del vischio, lo calavo nella cassetta delle offerte e le banconote venivano su che era un piacere. Anche nei supermercati mi ero organizzato da tempo, con dei tasconi nascosti all'interno di un vecchio impermeabile. Roba piccola, ma di valore. Ovviamente sapevo individuare e staccare gli adesivi magnetici che avrebbero fatto suonare l'allarme. Per gli scippi alle vecchiette, quel degenerato di Gennaro utilizzò un paio di baldracche del quartiere che accettarono di farsi scippare per finta. Per i furti con scasso negli appartamenti dei facurtusi fuori quartiere, fu lui in prima persona a insegnarmi il mestiere. Abile come lui non diventai ma alla fine entrai nella banda.


Gennaro era uno di poche parole, bestemmie perlopiù. L'Umberto, invece, era una testa fina. Aveva una spiegazione per tutto. A chi gli domandava perché era giusto rubare, lui aveva sempre la risposta pronta:

— Il nostro mondo di merda è diviso in due. Da una parte ci stanno i ricchi che rubano ai poveri!

— E quando i poveri sono rimasti in mutande? — chiedevo.

— Semplice! Comincia la guerra tra ricchi!

— Dall'altro lato, — proseguiva, — ci stano i poveri che rubano ai ricchi, se ci riescono, ma spesso preferiscono rubare ai poveri. Sono molti ed è più facile farli fessi.


L'Umberto sì che era un figo! Ti avvinceva mentre parlava. Amava completare i discorsi del Gennaro, aggiungendoci del suo. Cazzi tuoi se non hai le palle per scegliere da quale parte stare. Sai come finisce? Ti rubano a destra e a sinistra e ti becchi pedate nel culo dagli uni e dagli altri. Gran mostro di saggezza, l'Umberto.

Un peccato che dovesse campare in questo schifo di quartiere, altrimenti chissà. Io ci avrei visto un filosofo coi fiocchi.


Una sera, stufo della solita vita da ladro di polli, il Gennaro se ne uscì con una pensata delle sue.

— Qui ci dobbiamo trovare uno in gamba che ci faccia allargare gli affari. Sono stufo della solita roba da pezzenti!

— Già! E come lo troviamo uno che faccia al caso nostro? Appendiamo i manifesti in piazza? — disse l'Umberto.

— Ma va là! — lo rimbrottò Gennaro. — Ce l'ho io l'elemento giusto. Si chiama Rino!

— Rino? Ma sei matto? Avrà si e no sedici anni e sputa ancora latte quando parla.

— Umberto, parli troppo come al solito! Mica sono scemo. Se ti dico che va bene mi devi credere. Domani si va al solito posto, gli metto in mano la mia 38, e vedrai che sa sparare meglio di te.

— Rino, prendi questa 38 e fai vedere all'Umberto come sai sforacchiare quel bidone là in fondo. Facimm ambress prim ca me girino e pal.

— Stai attento, Umberto, adesso ti stupisco. — disse Rino, piazzando i sei colpi nel bersaglio.

Troppa bravura non piacque a quel bastardo del Gennaro e dovette subito dimostrare di essere lui il più bravo. Da buona carogna scelse un bidone più grosso e meno male che non fallì, altrimenti per il povero Rino finiva a botte.

— Per tirare a un bidone siete tutti bravi, ma freddare un cristiano? — osò dire l'Umberto a Gennaro.

— Cazzo ne sai?

— Niente. Tu invece?

— Basta! — tagliò corto Gennaro, — adesso voglio rapinare una gioielleria, puttana maiala!

Gennaro, zuccone com'era, certo non sapeva come fare, ma glielo spiegò il ricettatore del quartiere.

— Mannaggia a Bubbà! E dove lo facciamo il colpo? — disse l'Umberto, — Qui le gioiellerie sono tutte in centro! Io conosco Tradate e andrei là!

— Ok! Figlio 'e 'ntrocchia! — rispose Gennaro. — Si va in treno! La gioielleria la scelgo io!

Due giorni dopo la Prealpina riportava la notizia della rapina.

Scene da film quelle vissute nel pomeriggio di ieri in pieno centro.

Tre banditi hanno assaltato e rapinato la gioielleria di Corso Bernacchi, si legge nel rapporto della Polizia. Uno di loro ha finto di essere un cliente qualsiasi e ha bussato alla porta. Appena dall'interno hanno aperto, sono spuntati due complici. I dipendenti e un cliente vero sono stati immobilizzati con delle fascette di plastica ai polsi e chiusi in uno stanzino, mentre i ladri hanno svuotato la cassaforte che sembra fosse aperta. Poi la fuga, con orologi e gioielli per 800 mila euro.

Il giornale parlava di orologi e gioielli, ma loro cosa se ne facevano? Mica potevano comprarsi i vestiti con quelli. Insomma, il lavoro non li aveva soddisfatti, e Gennaro dovette riparlare con il ricettatore. Semplice disse lui, io vi ritiro la roba e vi dò il denaro. Brutta faccenda. Solo cinquantamila euro, mannaggia 'a miseria! Troppo poco per il rischio che avevano corso.

— La prossima sarà una banca, lì ci sono i contanti, non gli stramaledetti gioielli, e facciamo tutto per conto nostro… — disse Gennaro.

— Ho detto che faremo da soli, ma progetteremo il colpo come dio comanda, — continuò Gennaro, — ho studiato il piano con — Gigi mano lesta — che di queste cose se ne intende. In cambio, ha preteso il dieci per cento del bottino. Mannaggia a pucchiacca!

— Per il giorno del colpo Gigi ha suggerito il prossimo giovedì, data di inizio mese, perché la sera prima arrivano i portavalori con il rifornimento di denaro contante, necessario a pagare le pensioni. Si sa, i pensionati vogliono vedere il colore dei soldi, e non sanno che farsene di un anonimo foglietto con il saldo del conto corrente.

— Useremo un migliaio dei miseri cinquantamila per procurarci tre parrucche e una barba finta, più un vestito da donna per il nostro Rino. Per me, visto che il Covid ci è tornato per le palle, basterà una mascherina e la parrucca. Barba e parrucca anche per Umberto.

— Questa volta cambiamo città, — decise Gennaro, — Saronno va benissimo.

— Ho già controllato con "Gigi mano lesta" che la direttrice anticipa l'arrivo al mattino di un buon quarto d'ora, avremo dunque tutto il tempo per costringerla a farci entrare. Subito dopo giunge il capo cassiere con le chiavi della cassaforte e metà della combinazione. La seconda parte la conosce la direttrice. Aperto il forziere colmo di mazzette da centomila, legheremo con le fascette cassiere e direttrice, e li chiuderemo nei cessi. Ci riempiremo le borse e ce la svigneremo. Le cassette di sicurezza non ci interessano, non vogliamo altri gioielli per farceli poi fregare in cambio di pochi spiccioli. Mannaggia 'a culonna!

— Austiniello, rimasto fuori, appenderà sulla porta un cartello con la scritta: OGGI LA FILIALE APRE ALLE NOVE, e se la batterà a gambe levate. Probabile che la cosa solleverà un certo subbuglio e dovremo agire lesti, prima che mi girino…

I primi a stupirsi per il cartello saranno i due impiegati arrivati nel frattempo, ma tranquilli, i bancari davanti alla prospettiva di potersi fiondare al bar di fronte non si faranno troppe domande. Una mezz'oretta di intervallo extra non guasta mai.

I pensionati, invece, faranno capannello davanti alla porta, voleranno parole grosse, qualcuno griderà allo scandalo ma cosa potranno fare? Sospetti quel cartello non ne potrà suscitare. Molti, invece, inizieranno a maledire le banche, ma prima di telefonare alla Polizia passerà almeno un'ora, e noi ce ne saremo già andati da un pezzo, con le borse piene, passando dalla porta sul retro, dove ci aspetterà Umberto a motore acceso.

— È un buon piano, Gennaro, — disse l'Umberto, — e per me si può fare. Tu avrai la tua Beretta, ma anch'io ne voglio una seconda. Metti che, mentre vi aspetto in macchina, un cretino si mette a trovar da ridire perché sto lì con il motore acceso, devo pur avere un'arma per fargli capire che si deve togliere dai coglioni.

— Allora ne voglio una anch'io, — disse il Rino. — Devo tenere a bada cassiere e direttrice mentre tu riempi le borse. Secondo me, nei cessi li chiudiamo non appena saremo pronti a svignarcela. Meglio non correre rischi prima, perché non sappiamo se nei cessi c'è un sistema per dare l'allarme, non ti pare?

— Macchina, pistole, parrucche e vestiti, — ci disse — Gigi mano lesta — , — ve le devo procurare io. Troppo imprudente farlo voi! Mai seminare tracce, capito?

— Tenghe capite! — rispose Gennaro, — Ma facimm ambress prim ca me girino e pal. Il colpo lo facciamo giovedì prossimo.

— La velocità si paga. Me devi sgancià sùbbito cinquemila! Capito?

— Tenghe capite! Mannaggia a pucchiacca! — rispose Gennaro.

— Gigi mano lesta — fu di parola con la consegna del materiale e la mattina di mercoledì Gennaro ci riunì per le ultime istruzioni:

— A letto presto questa sera. Vi voglio svegli e pimpanti per domani mattina. Ognuno andrà per suo conto alla banca. Orologio alla mano tutti lì per le otto. Io e Rino davanti all'ingresso. Austiniello poco lontano con il cartello da attaccare, appena entra il cassiere. Tu Umberto sistemi la macchina in posizione strategica nel posteggio riservato ai clienti, e fai finta di preparare delle carte. Adesso andate, facimm ambress prim ca me girino e pal.

La fortuna dei principianti ci aiutò ancora una volta. Tempo venti minuti ed eravamo già lontani con quattrocentomila euro nel borsone.

La riuscita del colpo e tutto quel denaro, mai visto prima, diede alla testa al Gennaro. Convinto di essere diventato un padreterno, cominciò a comportarsi da bastardo più ancora di quanto già lo fosse. Pretendeva di farsi chiamare "il boss" e minacciava di sparare in bocca a chi non lo faceva. Era spesso ubriaco e fatto di cocaina.

Se incrociava un nero sulla sua strada erano urlate e minacce di sparargli alle gambe.

Gli zingari scappavano appena lo vedevano. Nel quartiere la sua parola doveva essere legge, e finì con attirare le attenzioni della Polizia, che fino a quel momento aveva chiuso un occhio. Aveva troppi soldi per le mani e la faccenda insospettiva.

Umberto assisteva alla metamorfosi di questo gradasso e si preoccupava sempre più delle sue spavalderie.

Umberto non voleva rischiare di finire in galera perché Gennaro era uscito di senno.

Ancora un ultimo colpo e cambierò città, mi disse. Me ne voglio andare il più lontano possibile da questo posto maledetto e da questa gente disgraziata e rabbiosa. Questa volta, però, l'affare lo voglio organizzare da me.

L'idea che gli frullava in testa era quella di una rapina in una villa di Tradate. Lui se la intendeva da tempo con Marisol, la domestica e, chissà con quali promesse, l'aveva convinta a lasciare l'allarme disinserito e una finestra aperta.

Solamente anni dopo venni a conoscenza dei suoi veri propositi. Al momento lui ci garantì soltanto che i rischi erano minimi e, da informazioni ricevute da un amico, abitante nella stessa strada della villa, i due anziani proprietari custodivano in casa molto denaro contante.

Gennaro aveva già finito i soldi e non vedeva l'ora di riempirsi nuovamente le tasche. Io e Rino ci fidavamo molto più di Umberto, e fummo d'accordo. Il piano prevedeva che Umberto, Gennaro e io saremmo entrati, mentre Rino avrebbe sorvegliato dall'esterno.

Entrare nella villa alle due di notte fu un gioco da ragazzi.

Umberto guidava la spedizione. Rovistammo nei cassetti del salotto senza risultato. Dentro un vaso in cucina trovammo appena un migliaio di euro. L'ultima possibilità era la presenza di una cassaforte, forse nascosta dietro a un quadro, e in effetti ce n'erano molti un po' dappertutto. Umberto iniziò da quelli in salotto, ma senza risultato, come pure in corridoio. Gennaro era furioso e lo divenne ancora di più quando trovò in un angolino il quadro giusto, scoprendo che la cassaforte era aperta e vuota. Imprecando in silenzio fece cenno a Umberto di avvicinarsi.

— Maledizione, — bisbigliò Umberto, — qualche figlio di puttana ci ha preceduto! Meglio svignarcela!

Naturalmente non disse che la cassaforte l'aveva già svuotata Marisol, d'accordo con lui. Ma quell'idiota del Gennaro volle cercare ancora. Scese nel seminterrato, seguito da Umberto, ed entrò nella camera sbagliata, quella della domestica. Marisol, quando la porta si aprì, accese la luce, e trovandosi davanti uno scalmanato, cacciò un urlo.

Spaventato a morte, mi avvicinai anch'io per capire cosa cavolo fosse successo, in tempo per sentire Gennaro strillare:

— Cazzo. Ma è una negra! Mi ha visto in faccia, la dobbiamo far fuori questa negra di merda! — abbaiò, premendogli una mano sulla bocca.

Gli occhi agghiacciati della povera ragazza, vagavano da uno all'altro implorando aiuto.

— Sparagli, Umberto! — ordinò, vedendo che stringeva il revolver, estratto appena si era accesa la luce.

— Tu sei pazzo! — rispose lui. — Leghiamola e andiamocene.

— Cazzo! Umberto, con cosa ragioni, col culo? Ci denuncerà! La dobbiamo far fuori, ora! — insistette, digrignando i denti.

— Lo sparo sveglierà tutti, — rispose Umberto, — non ci hai pensato?

Nemmeno Gennaro se la sentiva di sparare, ma gli venne la voglia matta di approfittare della situazione, saltandole addosso per violentarla. Marisol combatteva furiosamente e allora decise: se non si poteva soddisfare l'avrebbe strozzata con le sue mani. Fu in quel momento che Umberto capì che questo stronzo di Gennaro bisognava fermarlo a ogni costo.

Prese la mira con l'intenzione di ferirlo a una spalla, ma la pallottola lo colpì alla testa e Gennaro stramazzò all'istante. Umberto reagì d'istinto.

— Piantiamo tutto e diamocela a gambe!

In strada trovammo Rino preoccupatissimo dallo sparo.

— Il colpo è fallito e Gennaro è morto. — gli disse Umberto, — Scappiamo prima che succeda il casino.


La Polizia non riuscì mai a chiarire come si erano svolti i fatti.

Marisol disse che un bruto era entrato in camera sua mentre dormiva e aveva tentato di strozzarla. Subito dopo, un secondo uomo gli aveva sparato uccidendolo. Della cassaforte aperta e svuotata, nulla sapeva.

La Polizia concluse che erano stati i ladri ad aprirla e fuggire con il denaro in essa contenuto, quasi un milione di euro. Ulteriori indagini non portarono a nulla. Impronte di gente estranea non ne furono trovate. Del mancato allarme e della finestra aperta, non avendo prove, conclusero per una dimenticanza dei proprietari.

Oggi Umberto fa il pizzaiolo a La Paz con Marisol, ma non si è dimenticato dei suoi compagni. Ogni tanto ci manda qualche bolivar che la stessa banca della rapina ci cambia in euro, riprendendosi a suon di commissioni i pochi denari lasciateci da Gennaro.

Rino si è dedicato con successo al tiro a segno, diventando campione nazionale, e forse parteciperà alle prossime olimpiadi.

Io ho incontrato don Luigi. Gli ho confessato le mie malefatte e lui mi ha detto che a quindici anni non si è veramente colpevoli. L'unica possibilità per meritarmi il perdono era cambiare completamente vita.

Ci sto provando. Ma non è semplice...


(fine)


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Anto58


Suicidio sull'Orient Espress


Il Simplon-Orient Express partì alle diciannove e trenta da Parigi, stazione Gare de l'Est, in orario come tutte le sere, diretto a Istanbul, stazione Sirkeci, passando per Belgrado e percorrendo in tutto oltre tremila chilometri.

All'epoca, nel 1921, era il mezzo più veloce e più sicuro per raggiungere Istanbul, ma soprattutto più comodo ed elegante; le carrozze con i divani di velluto azzurro che di notte diventavano letti morbidi e confortevoli, le boiserie alle pareti, i lunghi corridoi sempre illuminati e "le restaurant", il famoso vagone in cui gode dell'ottima cucina e della buona compagnia di diplomatici, banchieri, ufficiali, accompagnati dalle loro signore.

Era la seconda volta che salivo sul quel treno per raggiungere Istanbul, d'altra parte era mio dovere andare a trovare mia sorella almeno una volta all'anno. Non che mi piacesse la città, anzi, la trovavo piuttosto rumorosa, piena di gente strana, disordinata; ma quella stupida di Annie s'era invaghita di un farmacista per via di quella sua acqua di lavanda che esportava in tutta Europa. E sono già cinque anni che lei abita nella zona Sultanhamet, in quella città dai mille colori e profumi di spezie; troppo per me, non potrei certamente vivere lì per più di qualche giorno.

Mi assicurai subito che i fattorini avessero preso in carico i bauli e le cappelliere, ordinai un tè e mi ritirai nella mia calda cabina, eravamo in gennaio e nevicava da tre giorni.

All'indomani, alle 8 del mattino, nei pressi della stazione di Sion, raggiunsi il vagone restaurant per la colazione ed è stata quella la prima volta che li vidi. Era una coppia elegante, dall'osservazione degli abiti decisi fossero inglesi, probabilmente saliti alla stazione di Londra. Lei con un cappotto verde scuro ammorbidito da un collo di pelliccia grigia che le sfiorava dolcemente il viso incorniciato da un cappello di feltro dello stesso colore. Lui con cappotto e cappello scuri, una sciarpa bianca appoggiata sul bavero.

Curiosamente, una volta seduti al loro tavolo, non si tolsero cappotto e cappello, come se ne fossero dimenticati.

Si accomodarono proprio di fronte a me, ordinarono tè e torta alle mele, sentivo il profumo della cannella mentre terminavo di mangiare i miei biscotti all'anice. Non parlavano tra loro ma ogni tanto alzavano lo sguardo, gli occhi si incontravano per poi abbassarsi lentamente sulla tazza di tè. Considerai che non guardavano mai il finestrino, gli altri viaggiatori non facevano altro per scambiarsi notizie e previsioni sul tempo e sulla neve che ancora cadeva leggera senza far rumore. Forse sono stanchi, pensai, avranno riposato male, del resto anch'io non avevo chiuso occhio con quel continuo sobbalzare del treno; nonostante il costoso biglietto che avevo prenotato (rimuginai) dormire in quel treno non era abbastanza confortevole.

Lei aveva capelli e occhi scuri in un viso bianco e affilato, la bocca era atteggiata in una piega amara che le dava un'aria mesta e impassibile, al pari di una statua di cera. Risultava fine, elegante, ma nello stesso tempo dimessa, come preoccupata, assorta; le ciglia nere velavano d'ombra il suo profilo, mi stava proprio dirimpetto e potevo osservarla comodamente. Lui stava di lato, a tesa bassa, aveva l'aria di un avvocato o forse un professore, un funzionario, chissà.

Finita la colazione, lei si alzò e lui la seguì nel corridoio, forse andavano a cambiarsi, li avrei rivisti sicuramente riapparire dopo, speravo che si unissero alle chiacchiere dei passeggeri nei salottini riscaldati del vagone dove gli uomini erano intenti a fumare e a leggere il quotidiano e le donne a fare conoscenza con le compagne di viaggio.

Ma per tutta la giornata non li rividi più, neanche all'ora di pranzo. Soltanto alle diciannove, mentre il treno lentamente lasciava Verona, li vidi sedersi al loro tavolo e cenare silenziosamente. Come al mattino, ogni tanto alzavano lo sguardo cercando gli occhi dell'altro e poi nulla, neanche una parola. Apparivano assorti, pensierosi, non si accorgevano di ciò che li circondava, né di ciò che mangiavano distrattamente. Il vocio dei viaggiatori, il suono sommesso del pianoforte che in un angolo accompagnava dolcemente la cena, il borbottare del treno che procedeva lentamente nella neve, le luci delle poche case fuori che trapassavano il buio dei finestrini come dei lampi lontani e fugaci, tutto era loro indifferente.

Finita la cena, lei si alzò e lui la seguì nel corridoio. Ero già d'accordo con una coppia diretta a Szedegin per passare la serata giocando a carte, ed ero sicura che avrei visto la coppia sedersi nella sala dove ci si intratteneva al suono dei Notturni di Chopin, ma niente, nonostante stetti a sbirciare, tra una carta e l'altra, la porta di vetro del vagone, non li vidi per tutta la sera. Rimasero nella loro cabina per tutta la sera fino alla colazione del giorno dopo, ore otto in punto, quando raggiungemmo la stazione di Zagabria.

La mattina era gelida, i finestrini appannati e lattiginosi, l'aroma del tè bollente ci avvolgeva tutti come in una bolla umida e vaporosa. E proprio tra il profumo e il delicato fumeggiare del tè, scorsi lei entrare, la vidi con il cappellino verde e il collo di pelliccia che si accomodava al tavolo, seguita da lui. Sembravano non accorgersi di tutto quello che li circondava, il mondo iniziava e finiva tra i loro sguardi tristi. Non potevo fare a meno di osservarli e domandarmi a cosa pensassero così intensamente, e soprattutto chi fossero, possibile che non si rivolgessero mai la parola!

"Ma prima di arrivare a Belgrado saprò chi sono e dove vanno… avrò da raccontare a mia sorella, ammesso che scendano a Belgrado" ripetevo tra me e me.

La mattinata passò velocemente tra lettura del giornale e la conversazione con gli altri viaggiatori, la neve non cadeva più, si era solidificata ai margini delle strade e delle rotaie, stava diventando grigia, aveva perso il suo candore, come un fiore sfiorito. Sarei arrivata il giorno dopo nel pomeriggio a Belgrado, già vedevo mia sorella e il suo insignificante marito attendermi alla stazione per proseguire poi verso Istanbul. "Sarà una settimana noiosa" mi ripetevo "non vedrò l'ora di rimettermi in viaggio per il ritorno a casa". Per fortuna il Simplon manteneva le sue promesse: in fatto di velocità, di cibo e di servizio si manteneva all'altezza del prezzo del biglietto, se non fosse stato per quel letto malfermo, avrei detto che, tutto sommato, era stato un buon viaggio. Poi la mia mente andava al pensiero che avrei dovuto per una settimana mangiare kumpir e bere shalep e conversare con mio cognato! Povera sorella, cosa le è saltato in mente di sposarsi con quel turco, faceva una vita così intensa e piacevole a Parigi!

Per tutta la mattina conversai piacevolmente con delle signore che provenivano da Atene, non vidi la coppia per tutto il tempo.

"Forse saranno nel salottino riservato " pensai.

Alle ore dodici, mentre ci accingevamo a pranzare, passata la stazione di Vinkovci, improvvisamente sentimmo due spari provenire dal corridoio centrale. Ma erano veramente spari di arma da fuoco? Impossibile nel Simplon, proverranno da fuori… ma che succede? Il treno rallenta… si ferma… sarà un guasto alla locomotiva… forse la neve ha causato qualche problema tecnico…

I passeggeri si assembrarono nei salottini chiedendo spiegazioni, con ansia e preoccupazione ci guardavamo cercando risposte rassicuranti.

Il capotreno, i camerieri, gli inservienti, correvano a destra e a manca per rassicurare tutti e per raccapezzarsi su quanto fosse accaduto: "Signori, niente di grave, il macchinista è sceso per verificare, tutto a posto, tra poco si riparte".

Ma il treno non ripartì. Soltanto verso le tre, in quell'ora in cui la luce del pomeriggio già inizia a declinare lentamente e diventa giallastra, salì a bordo un ufficiale croato che ci intimò di non muoverci, di non rientrare nelle cabine e di non transitare nel corridoio. Eravamo tutti raggruppati nel salotto, stretti come per rassicurarci a vicenda, infreddoliti perché il riscaldamento era spento, increduli e leggermente irritati, in fondo non si era ancora compreso cosa fosse accaduto.

Non mancava nessuno? Non sembrava, il capotreno ci contò e fece una sorta di appello. Ma qualcuno non rispose… dov'era la coppia silenziosa? Non potevo credere che non avessero sentito nulla e fossero rimasti chiusi nell'ostinata solitudine della loro cabina.


Quando provai a ricordare al capotreno che i passeggeri che mancavano erano quei due signori che di solito sedeva davanti al mio tavolo, lui mi guardò negli occhi e rispose gravemente: "Sì, lo so, sono nella loro cabina, ma sono morti, lui ha colpito prima lei e poi si è tolto la vita, non c'è più nulla da fare, aspettiamo il medico legale, mi dispiace signori dell'inconveniente, ma dobbiamo rimanere fermi in attesa e vi prego di non muovervi da dove siete. La Compagnia è desolata!"

Già, bella seccatura, pensai istintivamente, dovevo assolutamente inviare un telegramma a mia sorella!

Improvvisamente e colpevolmente mi vennero in mente i due che giacevano inanimi nei lettini della cabina mentre tutti noi pensavamo ai ritardi e agli "inconvenienti".

Qualche ora dopo ci diedero il permesso di rientrare nelle nostre cabine raccomandandoci di non uscirne fino a quando il treno non fosse ripartito per Belgrado. Quando finalmente arrivai, la stazione era tappezzata di giornali con titoloni che annunciavano la notizia del giorno: il suicidio sul treno di un uomo e una donna, non ancora identificati; non si sapeva ancora nulla, neanche se ne conoscevano i nomi perché i biglietti del treno erano stati acquistati da individui inesistenti. Le autorità avrebbero fatto indagini, sopralluoghi, inchieste, non si conosceva neanche la nazionalità della coppia.


Non si è saputo più nulla di loro, pian piano l'eco della vicenda si è affievolito, ciascuno, una volta sceso dal treno, è tornato a occuparsi delle proprie faccende. Ma io, dopo tanti anni, non sono ancora riuscita a dimenticarli, e talvolta, quando sono intenta a fare qualcosa, mi vengono in mente quei due volti silenziosi, chiusi in solitudine anche se circondati da tanta gente. Ma chi erano? Dove andavano, perché avevano deciso di morire così, insieme, e così giovani, su quel treno? Forse avrei potuto parlare con lei, da donna a donna? Spesso si confidano più cose a estranei che a parenti e amici. Forse avrei potuto fare qualcosa?

Ma poi mi dico che in fondo non mi importa chi fossero veramente, solo semplicemente due persone indissolubilmente legate per l'eternità.

Per tutto il soggiorno ad Istanbul ma anche per tutta la mia vita, non ho mai smesso di pensare a loro, alla loro misterioso comportamento e alla loro breve esistenza. Quei silenzi, quegli sguardi che ho scorto nei loro volti nei giorni in cui avemmo l'effimera sorte di incontrarci, mi hanno raccontato più di ogni parola, mi hanno fatto entrare in sintonia con loro, io, spettatrice di quell'intime angoscia, di quella muta disperazione.

Erano soltanto un uomo e una donna, passeggeri di quel lussuoso treno di tanti anni fa partito dalla Gare de l'Est, alle diciannove e trenta di una sera di gennaio, la neve era ancora candida e soffice.


(fine)


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Cristina Flati


L'Eterno


Qualcosa accadeva durante le uscite notturne del mio coinquilino Walter.

Lui era un normale inquilino, anzi, un tempo lo consideravo mio amico. Frequentavamo lo stesso gruppo di studi e con questo ci ritrovavamo spesso per vedere un film o mangiare thailandese.

Tutto era nella norma, fino a quando Walter cominciò a svegliarsi la mattina turbato, pensieroso. Pensai che si trattasse solo di incubi, forse legati al periodo di esami in cui ci trovavamo.

Ma a sessione finita, ogni mattina leggevo nei suoi occhi lo stesso perturbamento che lo rendeva nervoso alle mie domande.

C'era qualcosa che non andava; qualcosa che accadeva di notte, quando le luci si spegnevano e io mi ritiravo nella mia stanza.

Una sera di fine autunno, lo salutai dopo cena e andai in camera; dopodiché finsi di addormentarmi. Con gli occhi puntati sulla sveglia e attento a non fiatare, aspettai.

All'una e sedici, la maniglia della camera in fondo al corridoio cigolò, passi leggeri raggiunsero il portone per poi dissolversi per la tromba delle scale.

Mi infilai scarpe e impermeabile e seguii il mio coinquilino, accorto a tenere una debita distanza.

Non era ancora inverno, ma il vento gelido spirava per la città. Mi pentii di non essere rimasto sotto il piumone.

Walter, avvolto nel suo cappotto nero, avanzava per i vicoli bui con la faccia riparata nel colletto. Le mani erano conserte e ben strette sul petto.

Le vie erano vuote e i pochi lampioni laterali mi permettevano di farmi un'idea su quale zona stessimo perlustrando.

La sagoma di Walter, longilinea e dai capelli scompigliati, si muoveva con destrezza tra salite, discese e sviamenti con una maestria tale tipica solo di chi era abituato a fare quel tipo di tragitto.

Dopo venti minuti, Walter svoltò a destra lungo un corridoio di vecchie case, attraversò la strada e si fermò di fronte a un locale abbandonato.

L'unica fonte di luce era quella esterna di una casa. Mi ci accostai e spiai il mio amico sostare davanti al portone di un ristorante in rovina. L'insegna era quasi del tutto staccata dai chiodi, ma il nome era ancora leggibile: L'Eterno. Avevo sentito che il locale aveva quasi cent'anni e che raggiunse il boom di clienti nel primo dopo guerra. Chiuse negli anni '90 per questioni fiscali. Queste almeno erano le voci.

Ma che diamine ci faceva Walter lì davanti in piena notte?

Bussò tre volte, la porta sgangherata si aprì, una luce calda provenne dall'interno e il mio amico entrò. Un brivido mi percorse la schiena.

Con coraggio mi avvicinai. Sbirciai dalla vetrina: non c'era anima viva all'interno. Aguzzai lo sguardo con il naso spiaccicato sul vetro. Il locale era a tutti gli effetti abbandonato, ma l'interno…

Trasalii davanti a una delle sale più belle che avessi mai visto. Tavoli dai bordi dorati perfettamente apparecchiati occupavano il pavimento a scacchiera; bicchieri di cristallo senza un grano di polvere riflettevano la fioca luce di fuori sulle pareti drappeggiate di velluto rosso.

Avevo visto locali aperti conciati molto peggio. Non mi seppi trattenere e bussai anche io tre volte. La porta si riaprì e un tepore mi avvolse. Al mio fianco c'era un uomo anziano dai guanti setati che si offrì di prendermi l'impermeabile. Ascoltai il sottofondo di musica jazz e il vociare che proveniva dal salone principale.

Lo stesso uomo mi fece accomodare nell'interno che avevo curiosato poco prima. In fondo, c'era un rialzo, dove un uomo si esibiva con il sax; sotto di lui, decine di persone intente a ridere e ballare, alternando tirate di sigaretta a brindisi gioiosi. Le donne indossavano lunghi abiti svolazzanti; avevano labbra rosso fuoco e capelli alla maschiaccio; gli uomini erano vestiti di nero, con cappelli in feltro e papillon.

Era come se il tempo si fosse fermato… a quei famosi anni '20.

— Dan? Che ci fai qui?

Walter era dietro di me. Sorridente come non lo vedevo da tempo.

— Mi spieghi che diamine succede? — urlai per sovrastare la musica.

Lui finì di bere dal bicchiere che impugnava e alzò le spalle: — Non lo vedi con i tuoi occhi, amico? Non ne ho idea. So solo che qui dentro è come se fosse sempre una perenne festa!

Miriadi di domande mi balenavano in testa e mi sfuggiva la risposta logica.

La sala pullulava di ricchi aristocratici che si godevano una cena che chissà da quanto tempo stavano consumando.

— Ora che lo sai, rimani qui con me? — chiese, sostituendo il calice vuoto con un altro pieno. Lo guardai perplesso.

— Sì, insomma, ci ho pensato, Dan, io non ci torno fuori. Da questa sera io rimarrò qui, circondato da donne eleganti, uomini colti, musica jazz! Questa è la vita dei miei sogni, non quella che vivo di giorno. Non puoi capire che strazio ogni volta che lascio questo posto per tornare in tempo prima che suoni la sveglia.

La rabbia mi ribolliva dalle budella.

— Cosa… non puoi, Walter, sei impazzito? Qualsiasi cosa sia questo, non è reale, non è corretto! Io e te apparteniamo al mondo di fuori, quello concreto. Ricordi, le lezioni di fisica, i pranzi con gli amici, le partite a calcetto… quella è vita!

Presi il calice dalle sue mani e lo poggiai sul primo tavolo che avevo sotto mano, dove una coppia mangiava lumache e beveva champagne.

Il mio coinquilino serrò le labbra e gonfiò il petto, come chi è pronto a lasciare una manata su una guancia da un momento all'altro.

Ma Walter non mi picchiò. Si voltò alla sua sinistra, accennando a due uomini che ci raggiunsero a passo deciso.

— Se tu non vuoi rimanere, sta bene… — , si limitò a dire, mentre i due si voltarono verso di me, afferrandomi per le braccia, — …ma non ti permetterò di rubarmi la felicità. Addio, Dan.

Fu un attimo. Mi ritrovai al freddo, davanti a un anonimo palazzo dal portone verde e l'insegna cadente. Tornai a casa, stordito e infreddolito. Passai davanti alla sua camera da letto. Il ragazzo che soleva dormirci non sarebbe più tornato e mi toccava capire cosa inventarmi.


(fine)


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Roberto Di Lauro


Approdo sulla Luna - ultimo viaggio


A. D. 2589.

Dopo la Grande Guerra del XXV secolo, che aveva ridotto a un cumulo di macerie radioattive le principali città delle Americhe e dell'Eurasia, nello stesso secolo, come se non fosse bastato, un intenso sciame fatto di meteoriti di media-piccola grandezza aveva colpito il pianeta Terra portando con sé un minerale sconosciuto. Il bombardamento meteorico, durato qualche mese, sebbene avesse quasi distrutto la rimanente civiltà terrestre, aveva contribuito a ridurre in vaste aree la radioattività ancora presente sul pianeta. L'unica area del globo scampata agli eventi del XXV secolo era stata la Nuova Zelanda, ma nonostante fosse sembrata un arcipelago felice lontano da tutto c'era molta frenesia tra i sopravvissuti; tutti volevano lasciare il pianeta.


Una coppia di amici di origini napoletane vive nell'isola sud, a Invercargill. Antonio, ingegnere aerospaziale e Giuseppe pilota di aerei civili e militari, entrambi convertitosi in piloti di navicelle per lo spazio, lavorano presso il centro di volo aerospaziale sito a Bluff (nell'isola sud), e hanno il compito di organizzare i viaggi dalla Terra verso la stazione spaziale Lunare per i sopravvissuti.

— Peppino, quando hai un attimo di tempo controllami lo stato della radioattività nella troposfera sopra le Americhe.

— Perché, cosa succede?

— Ho notato un'espansione delle nuvole radioattive, sembra si stiano dirigendo verso il polo Sud. Qui la gente è in preda al panico. Dobbiamo fare presto!

— Il segnale è disturbato, non ho capito l'ultima frase.

Antonio leggermente spazientito, causa accumulo stress lavorativo, ripete a voce più alta — ammafà ambress'!

— Antonio non ti preoccupare, ho capito!


Intanto tra i civili le scene di panico non mancano. I punti di ritrovo presso la stazione spaziale terrestre di Auckland, per l'imbarco verso la Luna, sono presi d'assalto. L'esercito vigila e spesso interviene con la forza. Nonostante sia passato del tempo dai tragici eventi la popolazione della Nuova Zelanda vive come può. Nell'isola nord (quella più calda), quelle che un tempo erano le ville dei ricchi del pianeta sono diventate case per il popolo. Gli ampi giardini, pieni di specie arboree tra le più varie, sono stati riconvertiti a zone agricole, seppur minime. Gli alberghi della costa, un tempo meta di turisti, ora sono la base per i pescatori, con il pescato diventata la prima fonte di sostentamento alimentare. Gli allevamenti animali, nonostante una diminuzione del numero, contribuiscono con quel che possono.

— Antonio, per stasera porto altre 500 anime sulla Luna. Per domani dobbiamo essere presenti ad Auckland per il briefing con la base. Ci sarà anche il Generale. — dice Giuseppe mentre si trova nello spogliatoio per la preparazione del viaggio.

— Ok. Ci vediamo domani.


L'indomani, presso la base militare si svolge il briefing con tutti gli ufficiali, i tecnici e i piloti civili e militari impegnati nell'operazione di salvataggio dei sopravvissuti. Prende la parola il Generale Franz: — a 30 giorni da oggi dovremo evacuare i superstiti. Nonostante l'aiuto del minerale sconosciuto caduto sul nostro pianeta con la pioggia di meteoriti, nuvole radioattive permangono sul pianeta e si spostano tra i continenti. La qualità dell'aria si sta deteriorando. Non ci sono più condizioni di vita adeguate. Preparate tutto il necessario, aumentate i turni di volo e andiamocene via di qui!

I due amici, prese le consegne, s'imbarcano su un volo di linea verso la loro città nell'isola sud. Un intenso lavoro li attende, ancor più snervante, alle prese con il nervosismo e la paura della gente. Leggendo le consegne Antonio nota nella lista delle partenze per la stazione spaziale Lunare i nominativi di alcuni familiari e amici degli alti ufficiali tra i primi posti, mentre tra le ultime liste in partenza ci sono alcuni suoi amici e parenti. Durante il volo, seduti da soli in un angolo dell'aereo, con nessuno nelle vicinanze, dialogano tra loro.

— Peppino, ma sono io che non capisco o questi ufficiali e famigliole hanno fretta di andare via?!

— Non ne sono sorpreso. Qui l'aria diventa sempre più irrespirabile, più velenosa. L'effetto benefico del minerale sembra svanito. La radioattività è stata più forte; possiamo solo andare via.

— E a me di eseguire gli ordini con queste liste di fuga, mettendo per primi i soliti noti, non mi va proprio. — dice seccato Antonio.

— E che vorresti fare? — replica Giuseppe, guardando l'amico con occhi quasi impauriti.

— Ormai la nostra civiltà è alla fine. Si salverà solo qualche milione di abitanti. Molti sono già sulla Luna. La maggior parte della gente la porteremo noi, ma mi chiedo: ma chi porteremo in salvo? Quella stessa specie di persone che ci hanno portato all'estinzione? E nelle liste d'imbarco mi ritrovo per primi proprio loro?

— Non sarei così preoccupato. I piloti siamo noi, partiremo tutti. Nessuno sarò abbandonato. — dice Giuseppe.

— Lo spero proprio. La popolazione che stiamo portando sulla stazione spaziale Lunare sono lavoratori, artigiani, gente che sa fare. Immagina cosa accadrebbe se un parente di qualche artigiano od operaio venisse lasciato a morire sul pianeta per incuria dei militari. Non si conterebbero i casi di rivolte sulla stazione Lunare, e lì non possiamo permetterci atti vandalici, per non parlare di altro. — conclude Antonio con aria rattristata.

— Altro? Se con quella parola intendi che si possa arrivare ai sabotaggi sul lavoro, nei trasporti, alla conservazione dei cibi, saremo fritti tutti. — dice Giuseppe interpretando a modo suo l'ultima parte del discorso dell'amico.

— Vedo che arrivi subito al dunque, con interpretazioni ardite e sconvolgenti, ma mi sembri anche poco convinto, e ritornando a noi, sei d'accordo o no che dobbiamo pensare prima a noi e poi a loro? — chiede con una certa impazienza Antonio.

— Io direi di intensificare i turni di volo, carichiamo tutti e scappiamo da qui.

Si avvicina una hostess di colore. Ricorda a tutti di allacciare le cinture. L'aereo sta per atterrare.

Usciti dall'aeroporto, si dirigono verso la zona parcheggio. Giuseppe ricorda ad Antonio i nuovi turni di volo, previsti per il giorno seguente dal centro di volo spaziale di Bluff e soprattutto gli ricorda di non fare scherzi.

Il giorno fissato, all'ora concordata, dal centro di volo spaziale di Bluff vengono allestite alcune navicelle per lo spazio. La navicella di Antonio è in ritardo sulla tabella di marcia. Sembra non abbia carburante a sufficienza nei serbatoi. Viene allertato il personale della base e anche il comando militare. Giuseppe guarda tutta la scena dalla cabina di pilotaggio della sua navicella, e pensa tra sé cosa possa essere successo e quanta responsabilità possa avere il suo amico Antonio. Intanto, vengono fatti i controlli sui serbatoi e sembra tutto regolare. Ci si trasferisce nella cabina di pilotaggio e i tecnici notano che l'indicatore del carburante ha delle anomalie, non funziona bene. La navicella di Antonio viene fermata e i passeggeri fatti scendere. Va rivisto tutto l'impianto elettrico. Antonio si ritira nel suo alloggio, mentre Giuseppe e altri piloti decollano con i loro 500 passeggeri per navicella con destinazione la stazione spaziale Lunare.

Il giorno seguente si ripete la stessa scena prima della partenza. La navicella affidata ad Antonio ha problemi a decollare. Questa volta non è l'impianto elettrico, ma bensì quello idraulico. Tutti i passeggeri sono pregati di scendere, mentre tutte le altre navicelle della base partono per la Luna con i loro 500 passeggeri. Antonio si ritira nella zona ristoro del centro di volo, e mentre prova a rilassarsi, sul maxischermo s'intravedono le immagini di una navicella esplosa in volo. Era partita dalla stazione spaziale terrestre di Auckland. Tutti i passeggeri e l'equipaggio muoiono nell'incidente.

In quell'istante entra nella zona ristoro Giuseppe, non ancora partito perché ha il turno pomeridiano. È visibilmente provato e con gli occhi lucidi. Non riesce a credere al disastro, e non ha nemmeno la forza di dire qualcosa, tanto è grande il dolore per la perdita dei suoi amici piloti e dei civili, ma anche per l'atroce dubbio che quell'incidente possa essere il risultato del sabotaggio del suo amico Antonio o di suoi complici. Lo guarda da lontano, non si avvicina ed evita lo sguardo diretto. Si dirige verso il lato opposto al maxi schermo, cercando un po' di pace.

Sul viso di Antonio non si scorge la minima espressione di dolore; è completamente apatico, con lo sguardo perso nel vuoto a contemplare quell'aria velenosa che un po' alla volta sta inquinando quel che rimane della natura del pianeta. Una cameriera della base gli si avvicina, lo vede immobile, con il viso un po' pallido, e credendo stia male lo tocca sulla spalla per vedere se reagisce in qualche modo, ma ciò che ottiene è solo uno sguardo incattivito con l'invito ad andare via. Dopo qualche istante Antonio si alza e si dirige verso l'uscita della base. I controlli della navicella sono ancora in corso, per cui ci vorrà ancora del tempo. Mentre rientra vede attraverso una vetrata il suo amico Giuseppe. Gli si avvicina, lo saluta e si siede vicino a lui.

— Tutto bene? Gli dice come se nulla fosse accaduto.

— Non hai visto niente sul maxischermo? Guardavi altro?

— Ho visto, e mi dispiace molto per i piloti e i civili.

— Ti devo credere?

— Dov'è il problema? Cosa c'è che non va?

— Non so, i tuoi ragionamenti dell'altro giorno non mi sono piaciuti. Rimandano a un atteggiamento che va contro logica.

— Senti l'altro giorno sulle mie considerazioni hai tirato fuori la parola sabotaggio. Hai interpretato in un certo modo le mie domande, le mie idee, ma non posso essere responsabile di una tua cattiva interpretazione di una mia idea. Per cui non guardarmi come se io fossi il mostro della stazione spaziale terrestre. Tieni presente che tra i piloti ce ne sono tanti a cui farebbe piacere sabotare qualche navicella o creare altri danni a quelli che ci comandano, giusto per ricordare loro che in questa situazione emergenziale siamo tutti uguali. Niente caste!

— Bene. Recepito il messaggio. E ora? La tua navicella è ancora ferma?

— La stanno riparando. Questione di qualche ora.

— E tu non ne sai niente, giusto? Dice Giuseppe facendo uno sguardo innocente.

— Cosa vuoi ti dica, l'impianto idraulico è saltato. Che ne so io!


Sulla stazione spaziale Lunare cresce la tensione.

I sopravvissuti si organizzano come possono, ma le scene di isterismo sono sempre più frequenti. Di tutti quei sopravvissuti solo poche decine hanno la preparazione tecnica per spostarsi con le navicelle come fossero piloti di aerei di linea, mentre tutti gli altri sono gente semplice, persone a cui sembra di essere parcheggiati lì sulla Luna senza grosse prospettive, se non per rimandare la data della loro fine. Tra di loro gli appartenenti alle caste religiose e militari si organizzano, per ricreare in piccolo ciò che rappresentavano sulla Terra.

Gli alloggi seguono questa logica. I migliori posti per il ristoro per i graduati e altolocati, mentre alloggi più scadenti per tutti gli altri.

I rifornimenti dei viveri vengono stoccati in aree dedicate e controllate rigorosamente dai militari.


Intanto, al centro di volo spaziale di Bluff dopo un po' di tentativi, anche Antonio, finalmente, riesce a partire per la stazione spaziale Lunare con i suoi 500 sopravvissuti. Gli si accoda Giuseppe partito per il suo turno di volo. Antonio arrivato a destinazione, finite le operazioni di sbarco e sistemata nell'hangar la sua navicella, si dirige nella saletta "Fior di Venere" della stazione spaziale Lunare. Poco dopo lo raggiunge Giuseppe.

— Finalmente mi posso riposare un po'. — esclama Antonio.

— E con oggi abbiamo portato un bel po' di gente. Riposiamoci per questa notte che domani ritorniamo sul pianeta e si ricomincia. — gli replica Giuseppe.

Mentre i due amici parlano tra loro, entra nella saletta il Generale Franz. I due si alzano per salutarlo.

— Generale la vedo stanco e provato, vuole un po' di acqua? — si premura Giuseppe.

— No grazie. Sono rientrato ora da Auckland, con un nostro mezzo militare. Dopo l'incidente alla navicella abbiamo avuto problemi con la popolazione locale. Sono inferociti. Ancora non abbiamo capito cosa diavolo sia successo. C'è anche qualcuno che parla di "sabotaggio". Voi avete sentito qualcosa in giro?

I due amici ammutoliscono all'istante. Pur senza uno sguardo d'intesa, che in quel momento davanti al Generale avrebbe potuto dare qualche sospetto, entrambi all'unisono confermano di non sapere niente di sabotaggi alle navicelle. Il Generale li guarda come farebbe un padre con i suoi figli, annuisce a quelle risposte pur vaghe, si siede su una poltrona, e chiede di essere lasciato solo per riposare.

Antonio e Giuseppe si appartano in un angolo della saletta, abbastanza distante da poter parlare senza essere sentiti e fuori dal raggio d'azione di una telecamera capace di leggere il movimento delle labbra.

Per cui, in piena sicurezza, Giuseppe confida ad Antonio: — Questa sera, quando sono atterrato ho visto scene che non mi sono piaciute. I precedenti atterraggi li ho fatti all'esterno del perimetro della stazione spaziale Lunare, ma questa volta mi hanno fatto atterrare più vicino agli hangar della base, e da lì ho visto, in un locale poco distante, quella fiumana di gente in fila come bestie. Una volta entrato nel locale, ho visto da vicino persone chiedere spiegazioni o semplicemente di passare avanti per esigenze personali non differibili, ma venivano respinti in malo modo. Non immaginavo quel trattamento. C'è modo e modo di accogliere le persone. Mi è parso di vedere scene di quei film del XX secolo dove la gente era sotto la dittatura di qualche pazzo criminale.

— Quando le risorse scarseggiano, e il tempo che si ha da vivere si restringe la gente tira fuori il peggio di sé. Non mi meraviglio più di niente ormai. — lo interrompe Antonio.

Giuseppe continua il suo discorso: — Se siamo gli ultimi sopravvissuti del genere umano potremmo anche provare a eliminare tutti i privilegi di un tempo e trattarci da persone alla pari, non come padroni e animali. Avevi ragione quando ti sei chiesto "ma chi porteremo in salvo?".

Antonio con lo sguardo perso nel buio cosmico annuisce, dimostrando di essere d'accordo con il discorso del suo amico-collega, e ben sapendo che quelli potrebbero essere gli ultimi giorni della loro vita, si reca verso un mobiletto in legno di ciliegio con intagli orientali da cui estrae due bicchieri e vi versa dell'ottimo vino rosso. Il brindisi dei due amici è che possa essere di buon augurio per il loro proseguimento sulla stazione spaziale Lunare.


(fine)


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Valerio Geraci


La fotografia


— Da questa parte.

Seguimmo Dustin in silenzio, nella direzione che ci indicava. Di notte, la scuola era un luogo decisamente meno familiare e accogliente rispetto al giorno: il buio ci circondava e dalle aule vuote provenivano rumori indecifrabili e sinistri, che si confondevano con gli scricchiolii sopra le nostre teste e con il richiamo dei gufi e dei grilli nel cortile. Orfana delle centinaia di studenti che gridano e schiamazzano durante il giorno nei corridoi, la scuola sembrava molto più grande del solito, e questo non faceva che accrescere la nostra inquietudine: sembrava che qualsiasi pericolo potesse essere in agguato dietro ogni angolo. Tuttavia, l'unico essere vivente del quale probabilmente bisognava aver timore era George, il custode.

— Dustin, ho paura.

— Fate silenzio.

Dustin camminava alla testa del gruppo, rannicchiato e guardingo, il rumore dei suoi passi amplificato dal silenzio. Lo seguivamo io, Cody e Nancy, la più spaventata di tutti.

— Non ci volevo venire qui, Philip. — mi bisbigliò nell'orecchio Nancy.

— Sta' tranquilla. Fra poco saremo fuori.

— Non sarebbe stato meglio venirci domani mattina?— chiese Cody, che chiudeva la fila.

— Siamo arrivati — Dustin si girò verso di noi per assicurarsi che ci fossimo tutti, dopodiché aprì la porta dell'aula di Fotografia.

Una volta entrati, Dustin si diresse con passo sicuro verso la cattedra e aprì il primo cassetto. Frugò per qualche secondo al suo interno, poi si raddrizzò, e un sorriso gli illuminò il volto. Teneva in mano una fotografia.

— Ve l'avevo detto. Venite a vedere.

Ci avvicinammo tutti alla cattedra, trattenendo il respiro.

— Cody, fa' luce — intimò Dustin all'amico. Questi infilò la mano nella tasca del gilet e ne estrasse una piccola torcia portatile, che emise un flebile raggio di luce, quanto bastava per illuminare la fotografia e svelarne i dettagli.

Restammo tutti senza fiato e per qualche istante rimanemmo a guardarci l'un l'altro, a bocca aperta. Poi rivolsi lo sguardo a Dustin, che aveva ancora stampata in faccia l'espressione entusiasta di poco fa.

— Dicevi la verità.

Guardai di nuovo la fotografia, per esaminarla meglio, nel tentativo di trovare un segno rivelatore di manipolazione, oppure qualche dettaglio che non avevo notato a una prima occhiata, ma non ne trovai.

La fotografia era esattamente come l'aveva descritta Dustin e lo scetticismo iniziale venne sostituito da uno sgradevole turbamento. La foto di classe che avevamo scattato quella mattina appariva del tutto normale a un occhio ignaro: eppure non c'era traccia dei nostri dodici anni nella folta barba di Dustin, o nella calvizie di Cody, o nei seni prosperosi di Nancy: nella foto, sembrava avessimo tutti almeno dieci anni di più.

— Com'è possibile?

Dustin mi rivolse uno sguardo serio: — Non lo so davvero. Andiamo via adesso  sussurrò.

Ripose la fotografia nel cassetto e lo spinse nuovamente all'interno della cattedra, facendo attenzione a non fare troppo rumore. Uscimmo dall'aula in silenzio, immersi nei nostri pensieri: ci sarebbe stato tempo per discutere della faccenda una volta fuori, al sicuro. Strisciammo lungo le pareti e ripercorremmo il corridoio a ritroso, fino a trovarci al portone d'ingresso. Prima di uscire gettai un'ultima occhiata al corridoio, dopodiché ci ritrovammo nel cortile, dove ci attendevano la notte e la luce delle stelle.


— Dustin, penso che dovremmo dirlo a qualcuno — suggerì Cody, non appena fummo abbastanza lontani dall'ingresso della scuola da non destare sospetti. — Tutto ciò non ha senso.

— Lo so, è incredibile vero? — esclamò Dustin, girandosi di scatto con gli occhi spalancati e le mani a tenersi la testa sotto i lunghi capelli neri. — Ma non ditelo a nessuno per il momento, nemmeno ai vostri genitori. Rischieremmo la sospensione anche solo per esserci intrufolati a scuola di notte.

— Cosa hai in mente? — chiesi. — Intendi scoprire come possa esistere una fotografia che ci ritrae… — esitai — nel futuro?

— Dobbiamo scoprire di più su quella macchina fotografica. E dobbiamo parlarne col signor Newman. È l'unico oltre a noi ad aver visto la fotografia, sicuramente sa qualcosa.

Il signor Newman era l'insegnante di fotografia nonché colui che, quella mattina, aveva scattato la foto, per archiviarla nell'annuario scolastico. Era arrivato quell'anno nella nostra scuola, dopo aver insegnato fotografia in ambienti accademici e professionali in diverse zone del Paese e aver lavorato come fotografo ambientalista per molti anni. Era la sua prima esperienza in una scuola, e ai ragazzi dava l'impressione di un uomo riservato ma perbene.

Immersi nei nostri pensieri, eravamo arrivati davanti a casa di Cody. Lo salutammo, con la promessa di organizzarci l'indomani sul da farsi. Poi fu Dustin a congedarci di fronte all'ingresso della sua villetta.

— Mi raccomando: acqua in bocca, per il momento — ci ricordò, portandosi l'indice alla bocca. Dopodiché sparì dietro la porta a vetri.

Rimasi da solo con Nancy, e la accompagnai a casa.

— Cosa ne pensi? — mi chiese.

— Non lo so davvero… sembra tutto così assurdo. Ci dev'essere una sorta di… non so, anomalia spazio-temporale o qualcosa del genere. Come ha suggerito Dustin, il professor Newman deve sapere qualcosa, perciò dobbiamo parlarne con lui.

— Non sono sicura che sia una buona idea: se ci rimproverasse per essere entrati a scuola di notte, o anche solo per avere guardato nelle sue cose?

— È un rischio che dobbiamo correre, Nancy. Se vogliamo scoprire la verità, non abbiamo altra scelta.


La campanella che annunciava la fine delle lezioni suonò in perfetto orario quel giovedì, alle 14 in punto. I miei pensieri erano focalizzati sulla fotografia, e l'attesa della fine delle lezioni mi era parsa interminabile. Raccolsi in fretta le mie cose dal banco e mi diressi spedito verso il cortile: era lì che ci eravamo dati appuntamento con gli altri, per poi dirigerci insieme verso lo studio del professor Newman.

Incontrai Cody nel corridoio.

— Sono piuttosto agitato — mi rivelò — Non voglio che i miei genitori vengano a sapere che gironzolo per la scuola di notte.

Ero nervoso anch'io: non avevo idea di come avremmo affrontato l'argomento con il professor Newman, così non gli risposi. Speravo che ci avrebbe pensato Dustin, come al solito; in fondo l'idea era sua.

Raggiungemmo il cortile, sollevando il cappuccio delle felpe: tirava vento quel giorno, e l'aria era autunnale. Impiegammo qualche secondo per scovare Dustin e Nancy, seminascosti sotto un salice, in un angolo.

Ci guardammo per qualche secondo in silenzio, poi Dustin si fece coraggio. — Ho visto il professor Newman entrare nel suo studio poco fa, dopo la fine delle lezioni. È il momento di andare. — E così dicendo fece dietrofront e si incamminò di nuovo verso l'ingresso della scuola, e poi dritto verso il primo piano, corridoio di destra, stanza 52, dove si trovava lo studio del professor Newman. Lo seguimmo, non senza una certa esitazione.

La porta dello studio era socchiusa, e dall'interno si udiva un rumore di passi.

— C'è una speranza, ti dico — la voce del professore era poco più che un sussurro, ma riuscimmo a distinguere ugualmente le parole attraverso la fessura nella porta.

Il professore camminava su e giù mentre parlava; era nervoso. C'era qualcun altro nella stanza.

— Dobbiamo accertarcene prima di poter fare supposizioni e prendere qualsiasi decisione sul da farsi— disse lo sconosciuto.

— Ma non capisci, Frank? Questo significa che avevo ragione! Quei ragazzi… — non terminò la frase.

Lo sconosciuto si alzò dalla poltrona sulla quale era seduto e si avvicinò al professor Newman, posandogli affettuosamente una mano sulla spalla. — Arthur — disse, guardandolo negli occhi, — per il momento, è meglio non parlarne con nessuno.

Così dicendo si congedò, e noi ci allontanammo dalla porta mentre l'uomo usciva, attenti a non catturare la sua attenzione. Era un individuo alto, sulla sessantina, con una bombetta a coprirgli i capelli grigi e una giacca a quadri bianca e rossa. Lo seguimmo con lo sguardo mentre si dirigeva verso l'uscita della scuola perso nei suoi pensieri, senza degnarci di un'occhiata.

Mi voltai verso Dustin. — Entriamo? — gli chiesi con lo sguardo. Dustin parve cogliere la mia domanda e fece un cenno verso gli altri. Lo seguimmo mentre bussava alla porta del professor Newman.

— Avanti. La voce del professore era assente, come se giungesse da lontano.

Per primo entrò Dustin, seguito da me, Nancy e Cody a chiudere la fila. Dustin si voltò verso quest'ultimo, facendogli cenno di chiudere la porta. Il professor Newman alzò lo sguardo e quasi trasalì nel vederci.

Ragazzi disse, alzandosi e sorridendo impacciato cosa posso fare per voi?

— Abbiamo visto la foto, professore — esordì Dustin, arrivando subito al dunque. — Vogliamo una spiegazione.

La reazione del professore non lasciva adito a dubbi: spalancò gli occhi e distolse brevemente lo sguardo, massaggiandosi quel che restava dei radi capelli grigi sulla testa.

— Quale foto?. Fu un tentativo necessario a prendere tempo, ma Dustin era determinato a scoprire la verità.

— La foto che ci ha scattato ieri per l'annuario, professore. Quella in cui siamo… diversi.

— Non ho mostrato a nessuno quella foto, ed è rimasta qui nel mio cassetto personale da quando l'ho scattata, come avete fatto a vederla?

— Non è importante, adesso. Penso che una spiegazione sia ciò di cui tutti noi abbiamo bisogno.

Il professor Newman fissò Dustin, e quando parlò lo fece in modo fermo e risoluto.

— Andatevene, o chiamerò la preside e informerò i vostri genitori che siete entrati nel mio studio senza permesso, rovistando fra le mie cose.

Ci fu un attimo di silenzio. Persino Dustin aveva paura, e il dubbio che forse sarebbe stato meglio andarsene e lasciar perdere la questione ci assalì. Fu Nancy a farsi avanti.

— Professore, sappiamo di aver sbagliato ma non era nostra intenzione creare problemi. Ora però abbiamo paura. Questa notte non ho chiuso occhio, professore. Sembra essere tutto così strano, vorremmo solo che ci dicesse la verità. La prego.

Il professor Newman guardò Nancy, dopodiché il suo sguardo tornò su Dustin, che non aveva smesso di fissarlo mentre la sua amica parlava.

Si voltò, guardando fuori dalla finestra. Ci fu qualche momento di silenzio, reso ancor più esasperante dalla tensione che attanagliava ciascuno di noi. Le parole che uscirono dalla bocca del professor Newman quando tornò a guardarci si abbatterono come una spada sulla tensione nella stanza, riducendola a brandelli.

— Vi dirò quello che so.


Il professor Newman estrasse dalla tasca una chiave, con la quale aprì un cassetto della libreria dietro alla cattedra. Prese una cartellina rivestita di pelle nera e si voltò verso di noi.

— Guardate qui — disse. Ci radunammo di fianco a lui, in cerchio; non avremmo potuto essere più incuriositi.

Il professore ci mostrò una fotografia all'apparenza del tutto normale: rappresentava il cortile di un palazzo piuttosto grande, ma chiaramente abbandonato alle piaghe del tempo. L'erba alta soffocava le aiuole, e piccole crepe cominciavano a emergere vicino alle finestre rotte dell'edificio.

— Questa è la prima foto che ho scattato con quella macchina — disse, lanciando una breve occhiata all'apparecchio appoggiato sopra a una mensola. — È una foto degli studenti della mia classe di Fotografia all'Istituto Nazionale, dove insegnavo.

Guardai Cody per un momento, che ricambiò il mio sguardo confuso: nella foto non c'era nessuno.

— Un attimo — Dustin prese la parola. — Sta dicendo che ha scattato una foto a delle persone, ma nella foto quelle persone non ci sono?

— Non solo questo. Tutto era diverso, anche l'ambiente circostante: vi assicuro, ragazzi, che l'Istituto Nazionale di Fotografia è uno dei più bei palazzi della città, e il giardino è sempre curatissimo e in ordine. I miei studenti erano qui — indicò un punto più o meno al centro del giardino, vicino a una grande fontana. — All'inizio ero scioccato, proprio come dovete esserlo voi. Perciò ho voluto approfondire la questione. Posò sul tavolo la foto in modo da mostrarci la successiva. Riconobbi subito il soggetto: era il palazzo del Municipio della città, uno degli edifici più importanti e maestosi di tutta la regione; nella foto era ridotto a un cumulo di macerie. I rampicanti abbracciavano la base dell'edificio, quel che rimaneva della facciata era ricoperto di graffiti e il portone d'ingresso era divelto. Eravamo sbigottiti nel vedere il Municipio in quello stato, e nessuno disse niente.

Il professore posò sul tavolo anche questa foto e ne prese una terza.

— Questa è la piazza del mercato. Era un sabato mattina, c'era molta gente per strada. Ancora una volta, la foto rappresentava un paesaggio desolante, cosparso di rovine di palazzi e vegetazione incontrollata, anche se qualcosa catturò la mia attenzione.

— Qui c'è qualcuno— dissi, indicando un punto vicino all'angolo della fotografia.

— Come dicevo, c'erano diverse persone davanti all'obiettivo, almeno una dozzina, forse più. Ricordo alcune coppie, un gruppo di amici, qualche anziano seduto al tavolo del bar, e una mamma con un bambino che giocava. — Il professore fece una pausa, e indicò l'uomo che avevo notato poco prima. — Il bambino era qui.

— Quindi — chiese Nancy d'un tratto — quel bambino che era alla piazza quel giorno, nella foto è un uomo adulto, com'è successo a noi? Allora perché non è successo lo stesso alle altre persone, professore?

Il professor Newman ripose le foto nella cartellina e ci guardò a uno a uno.

— Ho una teoria, e credo di non sbagliare.

Si mise a sedere, prendendo fiato di fronte a quattro paia di occhi che lo fissavano impazienti.

— L'uomo che era con me poco fa, è una delle persone di cui mi fido di più al mondo; lavora per il governo. Lui è l'unico a sapere di questa storia, e insieme abbiamo elaborato una teoria. Ora, voi avete visto la foto, per cui non c'è motivo di tenervi all'oscuro, ma dovete promettermi di mantenere il segreto. Fece una pausa, attendendo un nostro cenno di assenso. Quando lo ottenne, continuò. — Crediamo che quella macchina abbia, in qualche modo, il potere di rappresentare il futuro. E ritengo che, a giudicare dalle foto che ho scattato, il futuro non sarà esattamente come vorremmo che fosse. Lo avete visto anche voi, sembra che non molto rimarrà in piedi e che, in qualche modo, l'umanità e la civiltà verranno essenzialmente spazzate via. Ma quel bambino è stato un'illuminazione. Vedete, i miei allievi all'Istituto Nazionale erano persone adulte, avevano tutti trenta o quarant'anni almeno. Quel giorno, in piazza, c'erano coppie e persone anziane, e quell'unico bambino. Io penso, ragazzi — sospirò, la voce rotta dal peso delle sue parole, — che la maggior parte di noi non ce la farà. Forse a causa di una guerra, di una pandemia, del cambiamento climatico o per Dio sa quale motivo, ma se non siamo presenti nelle foto, allora probabilmente non ci saremo. Ma quel bambino è presente; nella foto che abbiamo fatto per l'annuario, siete tutti voi presenti. Qualcosa deve pur significare: ecco, io penso che voi, così come il bambino nella foto, sopravvivrete, e pertanto l'umanità non è ancora condannata. Forse, c'è ancora una speranza. Io penso che voi ragazzi, voi avete la possibilità di cambiare le cose, di ricominciare e di salvare l'umanità dal futuro che l'aspetta e a cui la mia generazione, e la generazione dei miei padri e dei padri dei miei padri l'ha condannata. Voi potete ancora salvarci: voi siete il futuro.


(fine)


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Marirosa


Lo spirito dell'acqua


Da quando tempo ormai, aveva 30 anni? Una vita, forse due e ne sarebbero passate ancora altre. Si sistemò la marsina, fu un gesto istintivo, una vecchia abitudine, perché in realtà nessuno l'avrebbe visto. Nessuno poteva vederlo. Lui ora apparteneva al mondo delle leggende, più o meno. Un po' come babbo natale o la befana. Ma il suo caso era diverso. Lui un tempo era esistito, esistito nel mondo vero, con tutte le sue problematiche. Aveva amato, aveva vissuto, fino a quando non era sparito. Com'era successo ormai non aveva importanza. Ma qualche volta ci pensava ancora, perché da qualche parte, in fondo al suo cuore era rimasta la speranza di tornare. Scacciò quegli stupidi pensieri, e si apprestò a uscire. Cosa avrebbe fatto, ancora non lo sapeva, infondo non aveva mai molto da fare, c'erano spiriti e leggende più impegnate di lui. Lui era solo lo spirito dell'acqua. Lo era diventato tanti anni prima, salvando qualcuno che stava per annegare. Ormai aveva dimenticato chi avesse salvato, ma ricordava il fatto, come ricordava di non essere morto, non nel senso vero del termine, almeno. No, lui per fortuna, sempre che fosse una fortuna quella, aveva continuato a vivere, mutando forma.

Gli spiriti come lui andavano e venivano, a seconda dei tempi e delle situazioni. Qualche volta tornavano nel mondo, altre volte morivano, perché nessuno più credeva in loro, e lasciavano il posto vuoto per un po'. Era accaduto allo spirito dell'acqua prima di lui e forse sarebbe capitato anche a lui. Ma per ora, per quanto sempre meno persone immaginavano la sua esistenza, lui ancora non era sparito. Chissà perché?


Era al lago con alcuni suoi amici. Non voleva essere lì. Le mancava l'aria e si sentiva persa. Odiava l'acqua e la temeva. Era così da quando era bambina. Giocando con i cugini, in un momento in cui gli adulti erano distratti, aveva rischiato di affogare, e da allora si teneva ben alla larga da tutto ciò che era più profondo di una pozzanghera. E i suoi amici lo sapevano, sapevano che l'acqua la faceva stare male, eppure l'avevano costretta ad andare lì. Aveva provato a rifiutare, a spiegare per l'ennesima volta perché non poteva andare lì, ma non c'era stato nulla da fare.

— Mica devi bagnarti per forza?

Aveva provato a spiegargli che anche vedere l'acqua la sgomentava, che la sua era più di una semplice paura. Cosa sarebbe successo se fosse finita in acqua per sbaglio?

— E dai, mica sei una bambina! — Le avevano detto ridacchiando. No, lei non era una bambina ma loro, non volevano capire. Sicuramente avrebbe dovuto lasciarli perdere, ma bene o male erano gli unici amici che aveva. Così, ora si trovava in un posto che non le piaceva, seduta da sola, mentre gli altri si divertivano in acqua.


Alla fine aveva pensato di andare al lago. Era il posto dove tutto era cominciato, ma era anche un posto tranquillo, dove si sentiva in pace. Le sue speranze di tranquillità e pace però, andarono subito in frantumi. Al lago c'erano dei ragazzi. La musica che ascoltavano, era un rumore perforante che gli faceva dolere le orecchie. Non si sarebbe mai abituato. Dov'erano i violini? Il suono celestiale dell'arpa? Perfino il Valzer, gli sembrava una musica sublime, in confronto. Doveva andarsene di lì, nessuno avrebbe avuto bisogno di lui, e lui non aveva bisogno di quello. Ma non si risolse. Una ragazza attrasse la sua attenzione. Sembrava triste e sola. Se ne stava sulla riva, ben lontana dall'acqua. Le altre ragazze indossavano succinti costumi, lei no. Perché? Per quello che lo riguardava gli sembrava più consono il vestiario della ragazza, pantaloni e maglietta, che quello delle altre, ma in quei due secoli di vita, ne aveva viste troppe per sorprendersi di qualcosa ormai. Ma quando si sarebbe arrestata la caduta della morale?

La ragazza aveva degli strani aggeggi nelle orecchie, e lui aveva imparato che servivano per la musica. Perché gli usava? Non le piaceva quello che stavano ascoltando i suoi amici, da quelle strane scatolette piatte?


I suoi amici la chiamarono. Se ne accorse dai gesti che facevano per attirare la sua attenzione. A malincuore mise via le cuffie. Preferiva la musica classica, alla trap ma se lo avesse detto, l'avrebbero presa in giro anche per quello. Non capiva quello che le dicevano. Si avvicinò di qualche passo, restando il più possibile lontano dall'acqua. I suoi amici erano tutti in acqua. Se le volevano parlare perché non si avvicinavano loro? Poi uno di loro si spostò un poco verso la riva, ma c'era un poco di vento e lui stava parlando a voce troppo bassa. Si avvicinò ancora in fondo lui era quasi uscito dall'acqua.

Allora cosa c'è di così importante da avermi fatto arrivare fin qui?

Unisciti a noi! — Fu la risposta. Gli avrebbe mandati al diavolo, volentieri. Ma successe tutto in fretta. Un altro amico si era avvicinato e prima che lei potesse accorgersene era finita in acqua. Lei annaspava, mentre la corrente faceva come voleva. I suoi amici ridevano. Sarebbe morta. In quel tratto il lago era abbastanza profondo, gli altri ridevano. La corrente era troppo forte per lei, e la paura le impediva di ragionare. Il tessuto dei pantaloni stava facendosi pesante.

Poi qualcosa l'afferrò. Una voce gentile le disse di non preoccuparsi. Stava morendo? Sicuramente sì.

Ma non morì. Venne portata a riva. La voce gentile era ancora vicino a lei, ma lei non vedeva nessuno. I suoi amici le si avvicinarono. Stavano ancora ridendo.

Tutto bene? — la canzonarono.

— No che non sto bene! Sono quasi morta!

Esagerata! — Poi il gruppetto si girò verso il lago ridendo.

— L'acqua è cattiva... — disse la ragazza.

— No. L'acqua non è cattiva, può essere pericolosa, ma mai cattiva. Io posso esserlo. — Disse la voce gentile, che a un tratto sembrava arrabbiata.


Lui aveva assistito a tutta la scena. Aveva ascoltato i discorsi degli altri ragazzi, e aveva sentito che volevano fare uno scherzo all'amica paurosa. Inizialmente aveva pensato di farsi gli affari suoi, ma quando aveva capito la natura dello scherzo e le conseguenze che avrebbe potuto avere, si era buttato in acqua senza pensarci.

Ora pensava che sarebbe stato lui a divertirsi. La ragazza tremava e sembrava ancora più triste e angosciata di prima. E lui non lo sopportava. Scatenò il lago. Le correnti aumentarono a dismisura e i ragazzi non riuscirono a fronteggiarle. Sarebbero morti, tutti. Ma non era questo il suo obbiettivo. Il lago si calmò d'improvviso. I ragazzi spaventati corsero fuori dall'acqua, presero le loro cose e scapparono via chi in motorino, chi in macchina.

Lei era scocciata.

Sei stato tu? — chiese rivolta all'uomo che non vedeva.

— Sì. Quei mascalzoni meritavano una punizione.

— Hai uno strano modo di parlare... e comunque mi è sembrato esagerato

— Vi prego di perdonarmi, ma il linguaggio moderno, non lo comprendo. E comunque no, non ho esagerato. Sapevo bene quel che facevo

— Sarebbero potuti morire.

Ora lo sanno anche loro. Non gli avrei mai uccisi. Ho solo giocato loro lo stesso scherzo che hanno giocato a voi.

Chi sei? — era pazza. Doveva essere impazzita. Sicuramente mentre era in acqua doveva aver battuto la testa, e adesso stava parlando da sola.

Sono lo spirito dell'acqua.

Chi sei?

— Siete libera di non credermi. Piuttosto ditemi perché vi spaventa tanto l'acqua.

Lei gli rispose. E in breve tempo, si ritrovarono entrambi a parlare del loro passato. Lei gli spiegò come mai non si era mai ripresa dallo shock vissuto tanti anni prima, lui le raccontò la sua esistenza e cosa significasse essere una leggenda.

Lei non poteva vederlo, ma riusciva ad aprirsi a lui come non aveva mai fatto con nessuno. Lui, sentiva che lei era speciale, e qualcosa mai davvero provato prima, gli stava crescendo nel petto, insieme a una speranza che non aveva nome.

Continuavano a parlare incuranti dello scorrere del tempo. Il pomeriggio si fece sera, la sera divenne notte e loro stavano ancora parlando.

Lei si sentiva strana, e anche se ormai credeva di essere impazzita, le piaceva quella strana follia. Con lui si sentiva se stessa e libera finalmente, e non avrebbe mai pensato che un giorno si sarebbe sentita così. Non voleva che il tempo passasse, sarebbe voluta stare lì in eterno. Qualsiasi cosa fosse quella che stava vivendo non voleva rinunciarci per nulla al mondo. Lui le aveva detto che aveva bisogno di trovare qualcuno che credesse in lui, lei voleva credergli, con tutta se stessa. Ma sarebbe bastato per non farlo sparire? E sarebbe servito per tenerlo accanto a sé, come amico almeno? Anche se in petto le si agitavano mille emozioni, che sospettava essere ben diverse dalla sola amicizia.

Lui era in pace con sé stesso. Per la prima volta, in quei due secoli, non gli pesava la sua forma. Ne era quasi lieto. Lei era una ragazza bellissima e giovane, e di sicuro non avrebbe mai trovato attraente un uomo come egli. Nel suo vecchio mondo andava bene, seguiva la moda e il gentil sesso non aveva mai mostrato spregio della sua compagnia, ma quel mondo era morto, con tutte le sue usanze. Eppure una parte di lui avrebbe voluto tornare a essere reale. C'era qualcosa che aveva messo radici nel suo cuore, senza che lui potesse impedirlo e questo qualcosa era legato, indissolubilmente, allo sguardo della ragazza.

Venne l'alba e loro ancora parlavano. Lei aveva lo sguardo al lago. Per tutto quel tempo aveva preferito guardare l'acqua, per quanto le facesse paura, pur di avere un contatto con qualcosa di visibile e reale. Poi lui si mise di parlare, e lei d'istinto su voltò verso di lui. Le mancò il fiato. Un uomo, con i capelli scuri e gli occhi verdi le stava accanto. Indossava abiti antichi, aveva le basette e i baffi. Ed era bello. Il cuore le martellava nel petto. Cosa era accaduto? Era tornato lui? Se ne era andata lei? Era impazzita, o forse era... in coma? Succedevano cose strane alla gente in coma, lo aveva letto, da qualche parte. Ma in quel momento era troppo felice e non voleva pensarci. Gli toccò il volto.

Mi vedete? — chiese lui stupito dal gesto. Lei annuì.

— Sei bello, anche se sembri uscito da un romanzo! — Chi o cosa gli aveva dato il coraggio di dire quella frase, non lo avrebbe saputo dire. Lui sorrise. L'attimo dopo si chinò a baciarla. Era tornato nel mondo reale, quasi non ci credeva, non era più lo spirito dell'acqua. Era un sogno? Ma quel bacio era reale, lo sentiva. Lo sentivano entrambi. Quello che sarebbe successo poi, lo avrebbero affrontato insieme, in un modo o nell'altro.


(fine)


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Selene Barblan


Aria


— Proprio come un pesce rosso.

— Eh?

— Le bolle, l'acqua ferma, sempre la stessa, solo una conchiglia a dare l'illusione di libertà.

— Di che stai parlando?

— Mi sento così.

— Da quando?

— Da quando. Da quando… non saprei.

— E io non so che dirti.

— Non devi dire nulla.

— Certo. Come no.


Sono tornata a casa, come in una bolla, come immersa nell'acqua, fluttuante sulla mia auto. La serata tra amiche, l'alcol, le luci dei fari davanti a me, un'aggressione dei sensi, vorrei tanto un po' di pace.


— Ti diverte?


— No, dico, ti sembra divertente?

— Cosa ti fa pensare che io sia divertita?

— Me lo fa pensare quel tuo sorriso storto, quel sorriso che ti attraversa la faccia, come un'autostrada.

— Ti piaceva il mio modo di sorridere, dicevi che, pur silenzioso, sprigionava una sinfonia.

— Già

— Tutto qui?

— Che vuoi che ti dica?

— La verità.

— Non dico bugie.


Guidare per le strade, buie, movimentate, con la consapevolezza di non essere pienamente in me. Il pensiero dì rientrare fa venire voglia di fuggire.

Fuggire dalla verità. Certo, non dici bugie, non dici verità. Lasci fare a me, che riempio i buchi e creo universi paralleli.


— Io vado a letto.


— Pensi di raggiungermi?

— Forse resto qui.

— Sul divano?

— Sì.

— Come preferisci.


Il soffitto è uno spazio pieno, più lo guardo e più mi assorbe. Mi rendo finalmente conto che desidero ciò che non voglio. E mi alzo, i piedi si trascinano sul parquet, mi infilo in un brivido di lenzuola.

Cerco con le mani e con i piedi, lo trovo e tutte le mie certezze si dileguano.


(fine)


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Randagia


Lacci rossi


I primi scarponi, di cuoio con i lacci rossi. Lo zaino è gonfio: dentro c'è solo il piumino, che fa volume senza pesare. Tutti i viveri e l'abbigliamento che veramente serve sono negli zaini di mamma e papà. Corri, inseguendo le farfalle, incuriosita da genziane e anemoni, fin quando il verde dei prati sfuma nel bruno della terra: solo terra, pietre e salita, tanta salita. A due tornanti dalla fine, un signore senza un braccio, ma con un enorme sorriso, ti regala una caramella e ti dice — Vai vai, che su ci son le giostre!

Le giostre non ci sono. Le avranno già smontate? Ma come avranno fatto a portarle via? Tua madre seduta sullo scalino della cappella di vetta, con i fogli di prosciutto sulle gambe, cerca di dare risposta alle tue domande e alla tua fame. Rifocillata, trotterelli su quella cima grande, arida e disseminata di buchi. Sarà così la luna? Tutti guardano il panorama, tu guardi tutto, e tutti. Chissà perché di tante gite fatte da bambina, quella è l'unica che ricordi bene. Forse per la storia delle giostre.


Cresci. Le discoteche. I ragazzi. Addio Montagna.


Cresci ancora. No, no, mica invecchi. Saluti il tacco dodici, riprendi gli scarponi, di goretex con i lacci rossi. Le passeggiate in collina diventano presto salite in montagna: la fatica è tanta, ma l'ambiente attorno ti ripaga sempre, o quasi. Ti lasci conquistare dai ghiacciai e con i ramponi d'epoca rubati a papà, di alluminio con i lacci rossi, conquisti i tuoi primi quattromila. E su tutto, torna la voglia di salire al Thabor, a vedere se le giostre nel frattempo le hanno messe. Parti da Bardonecchia, verso Nevache, Valle Stretta. L'abbondante colazione al Rifugio dei Re Magi ti dà l'energia giusta per la salita, su una mulattiera ben larga, fino alla Maison des Chamois. Una chitarra fa sentire le sue note, accompagnate da voci di bambini. È una colonia estiva, non di camosci: gente allegra, il ciel l'aiuta. Vada per il cielo, ma se il sole non desse una mano, forse non suderesti così tanto. Sì, sì, la fatica premia, ormai lo sai. Il percorso si addentra in una valle verdeggiante per poi trasformarsi in roccette e terra brunastra. Eccolo, quell'ambiente lunare che ricordavi! Sali, un tornante dopo l'altro, a zig-zag. Qualcuno sta già tornando indietro. Qualcuno ti supera, con la bici in spalla. Eccola, la chiesetta! Non c'è nessuno seduto sull'uscio a prepararti un panino: tua madre questi dislivelli mica li fa più. E allora un morso alla barretta energetica, che tanto va di moda ma ti lascia rimpiangere il panino, e prosegui su quell'altopiano sempre più lunare. La vera cima è poco dopo, dove lo sguardo spazia a destra e sinistra, gonfiando il cuore con uno splendido panorama. Una croce modesta ma significativa resiste ai venti da qualche decennio. Nel suo basamento è nascosto il diario di vetta su cui lasci un piccolo segno del tuo passaggio.


Le giostre? Le trovi in discesa, buttandoti come una bambina sui nastri di neve che a inizio stagione sono ancora lì. E corri, e scivoli, cadi e ti rialzi. E sorridi, di quel sorriso che ti rimane stampato in volto, anche quando sei ormai tornata a casa. Fino alla prossima gita.


(fine)


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Athosg


Va' dove ti porta il cuore


Avevano parcheggiato la macchina nello spiazzo del cimitero, appena in tempo per lasciar esplodere quel desiderio infoiato tenuto a freno con tanta fatica. I vestiti volarono via sparpagliandosi nell'abitacolo, mentre le mani scivolavano affamate sui loro corpi.

Si fermarono un attimo e lui le disse di andare dietro.

Scesero mezzi nudi nel freddo novembrino e risalirono nella parte posteriore dell'auto. Presero la posizione preferita e Luana cominciò a salire e scendere a ritmo forsennato. Attraverso i vetri appannati, occhi malati lampeggiavano nel buio, richiamati da un sordido passaparola.

Nel silenzio ovattato d'autunno i gemiti salirono fin oltre le cime degli alberi, nella luce accecante dell'orgasmo.

Stremati, abbracciati senza forze e senza respiro, si aggrapparono come schiavi incatenati alla loro lussuria. Rimasero una decina di minuti straniti, lontani dal mondo reale. Soli, anche gli occhi malati si erano allontanati, sino a sparire nella bruma.

Quando Rocco tornò a casa, erano le undici di sera. Come scusa, mentre indossava l'impermeabile per uscire, aveva inventato sui due piedi un incontro con alcuni colleghi di lavoro.

Entrò in casa quatto quatto cercando di non far rumore. Si diresse verso la stanza da letto tentoni, rischiarando l'ambiente con la fioca luce del cellulare. Lucia dormiva, con l'abat-jour accesa che dava un alone sinistro alla stanza.

Rocco si spogliò, si mise il pigiama, spense la luce e si cacciò sotto le coperte, cercando di fare il minimo rumore possibile. Lei si mosse leggermente, allungandogli un piede sulla gamba. Era una buona cosa, pensò Rocco, stava dormendo oppure era in un profondo dormiveglia. Si stese e rilassò i muscoli. Quasi ansimava ancora, dopo quel fantastico incontro con Luana. Cercò di addormentarsi ma non ci riuscì. Sentiva un dolore sordo ai genitali, un ritmico picchiare, batteva come un tamburo dal ritmo sincopato. Decise di alzarsi e andare in bagno a vedere cosa fosse accaduto.

Accese la luce e chiuse delicatamente la porta. Si calò pigiama e mutande e subito notò la punta del pene ingrossata. Era rosso-violacea, gonfia come un palloncino da luna park, un poco lacerata sulla parte sinistra. Gli doleva. Molto probabilmente il dente scheggiato di Luana aveva procurato quel danno. Si mise sul bidet a far scorrere dell'acqua fredda.

TUM, TUM, TUM sentiva tutto lì, tra cappella, cuore e cervello. Le tre C pensò sorridendo sornione.

Cercò una pomata nello scaffale. Ne trovò di tutti i tipi e per tutti i problemi. Per i brufoli, per le emorroidi, per i dolori articolari, insomma pomate per ogni tipo di dolore ma nessuna di queste lo convinceva. In fondo allo scomparto, rovistando frettolosamente, trovò un tubetto mezzo vuoto. Era la crema per i piedi tanto utilizzata l'estate appena passata. Ne spremette un po' e subito uscì una sostanza bianca e inodore, morbida e fresca. La spalmò sulla parte lesa. Provò subito una sensazione di benessere. Trasse un sospiro e chiuse il comparto, proprio mentre la porta del bagno si apriva.

Lucia se lo trovò davanti, con il membro ancora in mano e una faccia sonnolenta. Guardò il marito e anche più in basso.

La punta era ancora gonfia, e faceva capolino dai boxer di Rocco, per l'occasione frettolosamente indossati al contrario. Lei aveva il volto disteso, con quel sorriso gioioso che negli ultimi tempi si era smorzato agli angoli della bocca. Poi divenne seria.

— Qualcosa è andato storto Rocco? Mi sembri un ornitologo — gli chiese

Rocco si rivestì frettolosamente, un po' confuso. Il dolore sembrava passato.

— Niente, cosa c'è Madame Ironia? Non si bussa alla porta?

— Fammi vedere bene, cosa ti è successo? Ti sei messo la pomata dei piedi sul pisello.

— Niente Lucia, mi bruciava, penso sia la cistite. Ho messo la pomata per avere un po' di sollievo.

Rocco, immobilizzato nel ruolo, cominciava a sentire il dolore riacutizzarsi, trovandosi in estremo imbarazzo. Sapeva che la moglie avrebbe voluto controllare.

TUM TUM TUM

— Fai vedere. — Sembrava un feldmaresciallo delle SS. Attendeva dinanzi a lui, con calma e sicurezza. Rocco dovette cedere e si calò tutto di nuovo, mettendo il membro in bella mostra.

La moglie lo prese in mano con due dita, lo voltò a destra e sinistra e gli sfiorò il glande. Rocco ebbe un sussulto, il dolore divenne veramente forte.

TUM TUM TUM

— Oh Rocco, l'alzabandiera si fa al mattino, non ti ricordi? Me lo dicevi sempre nelle tue avventure in caserma. O volevi cantare Morning Glory degli Oasis? Adesso chiamo Liam Gallagher e mi faccio spiegare bene tutta la faccenda. — Lucia in questo era imbattibile, pensò Rocco. Dove c'era una piaga, lei ci metteva il piede.

La guardò, chiedendo un minimo di disperata comprensione.

— Alzabandiera? Mi si è impigliato nella lampo, un cavolo d'incidente.

Ormai la tattica era quella dell'utilizzo del fioretto, doveva cercare di tenerle testa con un misto d'ironia e indignazione. Lucia ne prese atto, sapeva come i bambini insistono nella bugia, anche quando l'evidenza dei fatti è lampante. Lasciò stare e ritornò a letto.

Anche Rocco la seguì tra le coperte. La cinse alla vita, con il viso sulla sua spalla. La pomata aveva prodotto un effetto lenitivo e il silenzio notturno lo aiutò ad addormentarsi.

Da qualche mese tra Rocco e Lucia le cose non funzionavano bene. Lui usciva spesso la sera, e a lei capitava di chiamarlo durante il giorno e trovare il cellulare spento. Lucia ne era insospettita e un paio di volte lo aveva aspettato davanti all'azienda in cui lui lavorava. Un giorno lo vide uscire con una donna. A braccetto, con un'amabile conversazione in corso. Lui parlava e muoveva le mani ad ampi gesti, mentre lei guardava dritto sulla strada. Sembrava stringersi a lui, ma di questo Lucia non ne era certa. Li vide entrare in un bar e bere un aperitivo. Guardandoli attraverso le ampie vetrate, sembrava una normale coppia di colleghi o di amici, niente che potesse far pensare a qualcosa di più intimo.

La sera gli aveva chiesto com'era andata la giornata di lavoro. Lui le aveva risposto alzando le spalle annoiato, le solite cose, inclusa una chiacchierata con Luana, la sua giovane collega, disse. Lucia aveva creduto a metà, perché Rocco non fece il minimo accenno all'aperitivo.

Si era sentita molto triste, questi sospetti stavano cominciando a insinuarsi in maniera quotidiana nel loro rapporto. Intuiva che il suo Rocco, l'uomo sposato quattro anni prima, stava cambiando e lei cominciava a non aver più voglia di rincorrerlo.


— Pronto, cara come stai?

— Carla, che piacere sentirti. Abbastanza bene, e tu? Matrimonio in vista?

Era una compagna dei tempi delle medie e del liceo, e da quei tempi erano sempre rimaste amiche. Un rapporto resistente ai cambi di direzione e all'usura del tempo. Carla era separata e viveva una felice vita da single.

— Sto bene. Per il resto tutto normale. Perché non prendi un giorno di ferie domani e andiamo al lago? Ci dovrebbe essere un sole splendente.

Lucia ci pensò dieci secondi, e alla fine accettò.

Avvisò in ufficio e non disse nulla a Rocco.

Il giorno dopo partirono di buon mattino con direzione alto lago. La giornata era limpida con un sole caldo. Cominciarono a passeggiare e a confidarsi. Carla stava attraversando un bel periodo di libertà, anche se le ripeteva che era stanca di stare sola e avrebbe voluto conoscere qualcuno con cui organizzare un viaggio. Lucia era sempre stata la più tranquilla delle due. Si era sposata e, anche se non lo aveva mai ammesso esplicitamente, avrebbe voluto avere un bambino. Un desiderio intimo per completare una coppia innamorata dove però il maschio era esuberante.

Si sedettero in un ristorantino sul lago. Ordinarono il piatto per eccellenza, il risotto con pesce persico e una bottiglia di bianco locale. Mangiarono con appetito quel cibo sostanzioso e bevettero di gusto.

Scherzavano e ridevano come due compagne di tante battaglie, che si ritrovavano adulte con le proprie esperienze alle spalle.

Lucia a fine pasto sembrava giù di corda.

— Carla, forse ho preso la ciucca storta e mi sento un po' triste.

— Cosa c'è che non va?

Lucia si asciugò gli occhi, guardando il tavolo e muovendo nervosamente le briciole di pane sulla tovaglia.

— Non so, non ne sono sicura, ma ho paura che Rocco stia uscendo con un'altra donna.

— È un dubbio o sai qualcosa di più?

Lucia non aveva voglia di raccontargli quanto successo in bagno alcuni giorni prima.

— So che esce con una sua collega, una certa Luana. Li ho visti andare in un bar a bere un aperitivo. Non so se gatta ci cova, però sta cominciano ad assentarsi da casa troppe volte. Una sera il calcetto, un'altra una riunione di lavoro oppure gli amici che a sentire lui lo cercano sempre. Mi sento molto sola.

Cominciò a singhiozzare. Il cameriere si stava avvicinando al tavolo, vide la scena e si allontanò.

— Lucia, non so cosa dirti. Sono sempre situazioni in cui non si riesce a dare un consiglio. Però... idea! Lo pedino io per qualche giorno. Ti va?

Lucia guardò Carla che le sorrideva e anche il suo viso s'illuminò.

— Dai, di te mi fido. Vedi se scopri qualcosa. Mi sento una stupida, ma devo avere qualche certezza su di lui, altrimenti vivo sempre nel dubbio, e ciò non mi fa bene.

Le due amiche chiamarono il cameriere per chiudere il pasto con un caffè e una grappa. Cominciarono a ridere, per l'assurdità della scelta. Carla non aveva nulla da perdere, pensò Lucia, lo faceva veramente con il cuore, di questo era sicura. E sapeva che le avrebbe raccontato la verità, qualunque potesse essere.

Ritornarono verso casa a ritmo lento, e Lucia sentiva una sorta di vento dietro di sé che la spingeva.

Tre giorni dopo Carla la chiamò.

— Cara, ho scoperto alcune cose.

— Spara.

L'amica si era segnata tutto su un taccuino, perché aveva preso sul serio il suo compito di detective.

— Allora, la ragazza si chiama Luana come mi hai detto. Ha circa trentasette anni ed è separata. Sono riuscita a saperlo perché è la cugina di un mio amico.

— Ah, ho capito.

— Per quanto riguarda Rocco, in questi tre giorni è uscito con lei due volte a pranzo e due sere si sono bevuti l'aperitivo. Lucia, preferisco essere sincera con te. Ho visto i due baciarsi sulla sua auto. Poi si sono spostati al cimitero. A quel punto me ne sono andata.

— Sull'auto di chi, di Rocco o di Luana? — chiese nervosa Lucia.

— Di Rocco.

— Testa di cazzo. Rocco è una gran figlio di puttana. Allora la macchia sul sedile non è di gelato come mi ha detto. Ma quando mai mangi il gelato? Gli ho chiesto. Faceva caldo, mi ha risposto. A novembre? Brutta testa di cazzo. Sono stanco, mi dice, devo riposare il cervello. Sì, sì, ecco dove gli è finito il cervello, nella minchia del celoduristaaaaaaa!

— Ahahah, sei simpatica!

Lucia aveva il fiato grosso.

— Grazie Carla, sei una vera amica.

— Anche tu sei un'amica e sono felice di poterti aiutare.

Lucia aveva ripreso a urlare e Carla teneva il telefono distante dall'orecchio. Capiva quanto l'amica fosse follemente arrabbiata, ma lei quelle cose doveva dirgliele, non poteva tacere.


Salutatesi, prese il diario dal cassetto e cominciò a scrivere. Era una Moleskine nera acquistata appena tornata dal viaggio di nozze. Aveva cominciato a prendere appunti in cui parlava del suo amore per Rocco, dei giorni felici trascorsi insieme. Con il tempo era diventato il suo luogo segreto, dove riversare le gioie e le tante paure di quei giorni. Andò a rileggere gli scritti degli ultimi mesi e rimase basita. Quello che pensava si trattasse di un problema sorto negli ultimi giorni, scoprì essere un'angoscia compagna da tanto tempo, anestetizzata nel tran tran di tutti i giorni. In alcune righe lesse che avrebbe voluto lasciarlo subito, ma era insicura. Non avevano problemi economici e una soluzione si sarebbe trovata. E non aveva paura di rimanere sola. Si riteneva, in quegli scritti buttati di getto, una donna indipendente, sapeva come un po' di solitudine le avrebbe permesso di pensare a sé stessa, in quella fase della vita. E non aveva nemmeno sentimenti di rivalsa verso i due. Li aveva pesati per i loro comportamenti, e ormai era quasi indifferente al pensiero. Però non gli piacevano gli addii, le smobilitazioni, le chiusure improvvise. Forse avrebbe potuto sopportare ancora un po', facendo finta di niente o, al massimo, lanciargli qualche battutina, instillargli qualche piccolo dubbio. Anche se sapeva benissimo che erano tutti palliativi a una storia declinante verso i titoli di coda. Mentre leggeva, pensò a quando erano a letto e al solo pensiero di sentirsi sfiorare avvertì una sensazione di fastidio. No, farò così. No, farò il contrario. Mille pensieri aveva nella testa. Scrisse a chiare lettere "è finita" quando suonò il campanello.

Era Rocco, tutto pimpante e allegro al rientro dal lavoro.

— Lucia, cara, mi ha chiamato Pasquale. Andiamo al cinema domani sera? — esordì abbracciandola.

Stava arrivando il weekend, e lei non se ne era nemmeno accorta.

— Non lo so, mi fa male la pancia.

Lui non disse nulla, aveva già perso la baldanza iniziale. Andò verso il frigorifero e prese una birra.

— Da quando bevi la birra prima di cena?

— Boh, ho sete.

— Come il gelato.

— Che gelato?


Mentre i dubbi laceravano l'anima, il dolore alla pancia aumentava. Si chiese se era la lettura del diario a provocargli qualche tensione interiore che si somatizzava nel ventre. Si sdraiò un poco sul divano e chiuse gli occhi. — Lucia, stai bene? — Rocco si era avvicinato, sfiorandole la fronte gelida.

— Mi fa male la pancia. Non ho mai provato un dolore simile. Chiama l'ambulanza, sto male.

— Aspetta ancora un po', magari ti passa.

— No, sto male — urlò Lucia.

Rocco prese il telefono e compose il numero dell'ospedale.

Dopo venti minuti arrivò l'ambulanza. Scesero un dottore e due barellieri. Fu visitata e subito il medico decise di portarla all'ospedale. Ripartirono a sirene spiegate.

Rocco chiuse la casa e prese l'auto. La clinica distava circa una decina di minuti e lui si diresse a buona velocità. Prese il telefono e chiamò i genitori di Lucia.

Appena giunti in ospedale, Lucia fu subito intubata e portata in laboratorio per un esame. Ci fu un gran trambusto, perché gli accertamenti avevano svelato una peritonite urgente da operare. L'equipe medica si mosse all'unisono, lei fu trasportata in camera operatoria, dove cominciarono l'intervento.

Fu un'operazione relativamente semplice nella tecnica, mentre rivestiva di un'importanza vitale la velocità e l'immediatezza dell'intervento.

Erano accorsi all'ospedale anche i suoi genitori. Rocco baciò mamma Franca e strinse la mano a papà Alfredo: — Rocco, sono spaventatissima. Fortuna ti trovavi in casa — gli disse la donna in tono agitato.

— Non si preoccupi Franca. I dottori sono stati bravi e l'hanno operata in fretta.

Riuscirono a parlare con il primario che l'aveva operata, il quale confermò loro la perfetta riuscita dell'intervento.

Chiesero a un'infermiera se potevano vederla, ma ricevettero un diniego. Lucia era in terapia intensiva per il post-operatorio.

— Vi porto a casa — disse ai suoceri.

— Grazie Rocco, sei molto caro. Lucia è una donna fortunata ad avere un marito come te — disse la madre.

Rocco arrossì vistosamente uscendo dall'ospedale.

Li riportò a casa promettendo di informarli sul decorso. Li avrebbe portati a visitare la figlia non appena le condizioni di salute lo avrebbero permesso.


Erano le nove di sera. Poteva tornare a casa per una doccia veloce e poi andare all'appuntamento con Luana.

L'appartamento gli sembrò vuoto appena vi fu entrato, ma quasi non ci fece caso. Pensò agli indumenti da portare all'ospedale il giorno dopo, doveva cercare le camicie da notte e la biancheria intima. Sistemerò tutto dopo, pensò.

Arrivò al punto di ritrovo in perfetto orario. La ragazza era già lì ad aspettarlo. Salì in macchina e il profumo eccitò subito Rocco. La baciò e le passò una mano tra le cosce.

— Mi sono dimenticata di… — sussurrò Luana.

— Di… — fece eco Rocco, con la vista annebbiata e il piede pesante sull'acceleratore.

— Di mettere le mutandine.

Rocco non ci vedeva più, le alzò la gonna e appurò che non aveva nulla indosso. Il sangue picchiava sulle tempie. E finalmente arrivò al parcheggio. Uscirono dalla macchina e rientrarono sui sedili posteriori. Cominciarono ad armeggiare con gli inutili orpelli della vita quotidiana. Entrambi avrebbero voluto vivere sempre nudi, uno dentro l'altro. Luana salì cavalcioni su Rocco, nella posizione in cui poteva lasciarsi andare e urlare tutto il suo piacere.

— Perché mi hai chiamato così tardi? — gemette.

— Ah… amore… Lucia è finita all'ospedale.

Ormai era dentro profondo.

Luana gemeva di piacere ma appena udì le parole di Rocco si fermò improvvisamente. Lo guardò con gli occhi pieni di stupore, gli prese il viso tra le mani.

— Lucia in ospedale? Che cosa ha avuto?

La voce era diventata dura, fredda, una copia sbiadita dei sussurri di pochi secondi prima.

— Ha avuto una peritonite, è già stata operata. Ora si trova in rianimazione, i dottori ci hanno rassicurato. Il problema dovrebbe essere superato.

Luana si divincolò mettendosi di fianco. Cominciò a rivestirsi silenziosamente. Scese dalla macchina e risalì sul sedile anteriore.

— Cos'hai amore?

— Mi fai pena. Tua moglie è ricoverata, ha rischiato la vita e tu subito dopo hai avuto il coraggio di venire da me. Non hai avuto rispetto e neanche un briciolo di cuore.

— Ma amore, volevo vederti.

— Non era il caso, avremmo avuto tutto il tempo.

Rocco si mise le mani tra i capelli, sfiduciato e stanco: — Portami a casa.

Accese la macchina e ritornò a trenta all'ora verso l'incrocio di riferimento. Luana non disse più nulla, aprì la portiera e scese senza salutare. Rocco rimase una decina di minuti con il motore acceso, intralciando il traffico serale. Non si era ancora sistemato la camicia nei pantaloni e non trovava più la cravatta. Con un profondo sospiro ritrovò la forza per tornare verso casa. Doveva preparare la borsa da portare alla moglie.

Il giorno dopo Lucia fu ricoverata in corsia, ancora intubata ma fuori pericolo.

La stanza aveva solo due letti ed era abbastanza grande e arieggiata. L'altro posto era occupato da una ragazza con una gamba e un braccio ingessati.

Era debolissima, riconobbe a malapena i suoi genitori e Rocco, che le portò un bellissimo mazzo di fiori. Arrivò anche Carla, a trovare l'amica e confidente.

Il marito la salutò con una certa freddezza. Lucia cercò di parlare con tutti ma aveva ancora dei dolori e si sentiva stanca, viveva in un continuo dormiveglia.


Rocco nei giorni successivi tentò di riconciliarsi con Luana. La ragazza era rimasta molto scossa dagli avvenimenti dell'ultima sera, e si era chiusa a riccio. Gli aveva solo detto che doveva ripensare al loro rapporto, perché era molto confusa. Lui continuava a cercarla e appena usciva dalle visite ospedaliere si costruiva mille occasioni per incontrarla a vis a vis. Ma non ci riusciva e si sentiva sempre più depresso. Era ancora in grado di reggere la parte con la moglie, i suoceri, le amiche e i dottori ma dentro di lui qualcosa si era rotto e la stanchezza affiorava già alle prime ore mattutine.

Passarono alcuni giorni e la salute di Lucia era in chiaro miglioramento. Rocco veniva a trovarla un'ora nell'intervallo di lavoro e un'ora la sera. Ogni giorno le portava dei fiori freschi.

— Lucia, non vedo l'ora che torni a casa. Mi manchi, la casa è fredda e vuota senza di te — le disse. Lei lo guardò con gli occhi socchiusi, sentiva la sua voce banale giungere da lontano.

— Qui non mi fanno stare più dell'orario consentito. Ci vediamo domani. Ti amo. — Le baciò la mano e se andò via frettolosamente.

Lucia con il passare dei giorni riprendeva le forze. Intratteneva lunghi discorsi con la sua compagna di stanza e spesso si udivano ridere. Poco alla volta si sentiva rinascere e la grande paura era quasi passata. Fiorenza, una robusta infermiera del turno di notte, rimaneva con lei a parlare nella penombra della stanza, fino a quando Lucia non si addormentava serena.

Le aveva raccontato che non si era mai sposata e si sentiva libera. Una notte le disse: — Che bella persona è tuo marito. E com'è galante, un uomo d'altri tempi. Ogni giorno ti porta dei magnifici mazzi di fiori. Si vede che è molto innamorato.

— Sì. — Le rispose Lucia controvoglia.

— Gli dico sempre di restare anche oltre l'orario delle visite, perché non c'è nessun problema, nessuno avrebbe da ridire. Il lavoro, ho un mucchio di pratiche da sbrigare, mi risponde, e scappa via. Deve proprio avere un impiego importante. Si capisce lontano un miglio che è una persona intelligente.

— Sì, poi ti spiego — rispose Lucia con gli occhi umidi e con un senso di nausea crescente.


La degenza proseguiva bene e i medici le avevano comunicato che nel volgere di due o tre giorni le avrebbero tolto tutti i tubi che le impedivano anche i movimenti più semplici.

Alla una del pomeriggio arrivò puntuale Rocco. Le mise sulle gambe un bellissimo mazzo di rose rosse e la baciò su una guancia.

— Amore.

Lucia lo guardò incuriosita. Sbatté le palpebre un po' assonnate.

— Come va a casa? — gli chiese.

— Come vuoi che vada. Aspetto di rivederti tesoro. È un po' sottosopra, come quando ero single. Mi vedrai arrivare sempre più trafelato, immagino, perché voglio sistemare ogni cosa e farti trovare tutto come nuovo.

Si avvicinò e la baciò.

Lucia accettò quel bacio come l'istantanea di un addio, poi lo prese per la cravatta e lo tirò a sé. Lui rimase sorpreso dalla forza di quella mossa. Gli parlò all'orecchio, lasciando la presa lentamente. Rocco si alzò, riprese il mazzo di fiori, e uscì velocemente dalla stanza.

Ora era serena, stesa in quel letto d'ospedale che di lì a qualche giorno avrebbe finalmente lasciato. Lo aveva mandato via dicendogli ciò che aveva in testa da qualche mese. Forse non tutto il male viene per nuocere, pensò Lucia, che cominciava anche a progettare il futuro. Avrebbe voluto fare qualche viaggio una volta ristabilitasi completamente, e anche sistemare l'arredamento della casa. E recuperare alcune amicizie. Gli ultimi mesi erano corsi via anonimi e silenziosi, e ora aveva una gran voglia di recuperare il tempo perduto.

Quando, poco dopo, entrò Fiorenza con una tazza di the, le due donne si scambiarono un sorriso d'intesa e si abbracciarono.

— Gliel'hai detto? — le chiese. — L'ho visto uscire di corsa, tutto stranito e con il mazzo di fiori che sbatteva sulla gamba.

— Sì, cara. È stato un po' difficile, ma mi sono tolta un peso.

— Tesoro, non vedo l'ora che tu esca dall'ospedale. Vedrai che il ritorno alla vita sarà fantastico.


Passarono un paio di giorni tranquilli. Le furono tolte le flebo e cominciò a prendere degli integratori per recuperare l'appetito. I muscoli delle gambe si erano afflosciati durante la degenza, e quando camminava nella corsia del suo reparto, dopo qualche passo si sentiva stanca.

La terza mattina si alzò di buonumore. Fece colazione con la compagna di stanza e quando entrò Fiorenza le chiese:

— Ciao Fio, è possibile andare nel reparto maternità? Mi piacerebbe tanto vedere i nuovi nati. Le statistiche dicono che sono sempre meno in questa società disillusa.

— Ma certo — le rispose l'infermiera — prendi l'ascensore e vai al secondo piano. Chiedi e sicuramente ti faranno accedere.

Lucia si alzò e uscì dalla stanza. Salì sull'ascensore e uscì al secondo piano come le aveva indicato Fiorenza. Entrò in reparto e chiese a un'infermiera se era possibile avere accesso alla nursery. Certamente, le rispose la ragazza, mentre le faceva strada. Superata una porta, si ritrovò in un corridoio più stretto e, separati da un vetro, vide una decina di culle occupate.

In quella stanza c'erano tutti i popoli del mondo, neonati bianchi, di colore, un paio di bimbe con una piccola fessura negli occhi disegnata perfettamente. Lucia pensò che se fosse stata una pittrice, si sarebbe messa a dipingere ciò che in quel momento stava vedendo. L'avrebbe intitolato Mistero e se con gli occhi bendati avesse toccato i capelli di tutti quei neonati, avrebbe capito la loro provenienza e, forse, anche il loro destino. Si sentì depurata da tutte le tristezze recenti, rinata e con il respiro regolare. Al cospetto della naturalezza di quelle piccole vite, le tornò alla mente l'innocenza perduta. Augurò a quegli esserini indifesi di trovare nel cammino una stella polare, una sorta di guida libera, consapevole, priva di qualsiasi condizionamento esterno, per cercare il proprio posto nel mondo.

Un tocco leggero la distolse dai suoi pensieri.

— Fiò, sono bellissimi! — disse.

— Non passa giorno che non venga a vederli.

Lucia la guardò in preda a un'emozione profonda.

— E se ne adottassimo uno?

Un lungo bacio, con le lingue a sfiorarsi, sancì la loro complicità.


(fine)


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Amalia Brunora


L'agguato


La serratura scattò e la porta iniziò a spalancarsi. A tastoni cercò l'interruttore e lo pigiò: tre palpiti e poi il bagliore della luce artificiale squarciò il buio di quella stanza.

"Finalmente", disse lei tra sé.

Lei però non sapeva che lui si trovava lì. Nascosto nell'angusto ripostiglio. Era ossessionato da quella ragazza fin dalla prima volta in cui l'aveva vista e negli ultimi giorni non aveva fatto altro che seguirla, per cercare di conoscere con precisioni tutti i suoi abituali spostamenti, finché non avesse trovato il modo di congiungere le orbite delle loro strade. E ora c'era riuscito. Lì, in quello spazio di pochi metri quadrati. Solo loro due, nello stesso luogo e momento. Ma lei questo non lo sapeva. Nessuno lo sapeva e nessuno l'avrebbe sentita urlare quella notte. E per sincerarsi dell'assenza di falle, velocemente richiamò alla mente ogni punto di quel piano perverso.

Marta, intanto, si avvicinò al primo cassetto di metallo e cercò di aprirlo. Chiuso. "Strano!" pensò. Provò con quello successivo: chiuso anche quello. Sbuffò seccata e con irritazione colpì col dorso della mano i piccoli cassetti usati per riporre i cambi d'abito, uno dopo l'altro, in modo che se ce ne fosse stato uno aperto si sarebbe mosso per contraccolpo. Arrivò fino in fondo alla stanza, all'ultimo, quello attiguo al ripostiglio delle scope. Quando rimbalzò indietro, sentì come un brivido, nulla più. Vi poggiò dentro la borsa sportiva aprendone la zip e per un attimo si guardò attorno. Le finestre polverose con le inferriate arrugginite si affacciavano su una notte senza luna e l'unico suono appena percepibile in quel silenzio inquietante era il ronzio del neon che a stento la illuminava dal soffitto, lasciando il resto nell'oscurità. Quella squallida palestra abbandonata, per lei che non poteva permettersi le rette di una scuola di ballo, era l'unico posto in cui poteva affinare la sua tecnica di ballerina. Dopo che una lieve increspatura amareggiata le solcò il viso, iniziò a spogliarsi per indossare tuta e scarpette da ballerina. A mani incrociate afferrò lungo l'orlo la maglietta leggera a maniche corte, sollevandola lungo la bianca schiena per raccoglierla fra le braccia tese in alto — allora il cuore di lui, che con un occhio la osservava da un piccolo foro dall'anta della porta alle sue spalle, prese a battere con violenza — e quando ne cavò fuori la testa, un lampeggiare di lunghi capelli color del rame ricadde su quella valle immacolata. Scalzò poi via le scarpe da ginnastica, slacciò i jeans e con rapidi movimenti li fece scivolare lungo le gambe. Restando in reggiseno e mutandine, rivelando così il morbido profilo dei seni, le gambe slanciate e le curve sottili e aggraziate della vita e dei fianchi.

Lui a quel punto, sempre osservandola, non sapeva più bene cosa pensare e da predatore era adesso in preda dei suoi istinti più carnali, e per ogni centimetro che quella maglietta e quei jeans avevano scoperto quel corpo, più aveva sentito il sudore imperlargli la fronte, e più la sua mente era penetrata con cattiveria nei tetri abissi della depravazione. Quasi come se il suo sguardo avesse potuto tramutarsi in mani fameliche e affondare le proprie unghie peccaminose nella sua pelle liscia e delicata. Ed era per lui difficile non perdere il controllo e cedere per davvero alla tentazione di quelle immagini che nella sua follia già possedevano quelle membra. In una lascivia fatta di capelli, pelle, carne, unghie, labbra, ansimi e sudore, mentre mille diavoli dalle lingue di serpente e la testa di maiale danzavano intorno al fuoco della libidine. Ma ecco che di improvviso il cellulare dell'uomo squillò — si era dimenticato di spegnerlo.

Marta ebbe come un sussulto, poi si paralizzò, voltò la testa sul lato sinistro, guardò di sbieco la porta del ripostiglio, e voltandosi disse: "Esci da lì, stupido!"

"Merda", fece lui stizzito.

Sentì la porta spalancarsi e la sagoma di lui avanzare da quel buco polveroso e appena emerse alla luce, lo baciò teneramente. Ancora una volta lo sguardo di lui percorse il suo corpo, meravigliandosi di come, nonostante fossero passati anni, gli fremesse dentro lo stesso desiderio di sempre. Ora erano soli. Insieme e finalmente soli. Sorrise maledettamente compiaciuto quando il bacio di lei divenne più osceno, perché, a parte qualche dettaglio, il suo piano era andato come doveva e quella notte nessuno l'avrebbe sentita urlare.


(fine)


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Macrelli Piero


Non sono arrabbiata, sono delusa


— Non sono arrabbiata, sono delusa.

Proprio così aveva detto. Lo aveva detto con voce misurata e impostata come se questa frase l'avesse tenuta pronta da tempo. Pronta per essere usata al momento giusto e questo era il momento giusto. La cosa mi aveva sbilanciato. Io m'immaginavo una scenata isterica con urla e pianti e accuse di ogni tipo. Invece con questa frase mi aveva spiazzato. Mi aveva offerto il sacrificio della regina per poi mettermi sotto scacco con un pedone e io avevo beccato. Voleva che mi sentissi una merda facendo la superiore e ci stava riuscendo benissimo. Ma la colpa era mia: le avevo offerto la mossa su un piatto d'argento e lei ne aveva approfittato.

Ecco, era almeno un quarto d'ora che me ne stavo in piedi in mezzo alla stanza, ora spostando il peso su un piede, ora spostandolo sull'altro. Mettevo continuamente le mani in tasca e poi le toglievo e mi sarei pure messo a leggere le istruzioni della caldaia che erano lì attaccate sul fianco del mobile sopra al frigorifero, pur di smarcarmi da quella situazione.

Il tempo sembrava essersi fermato e io avevo provato a rimetterlo in moto con un "Dai, non essere arrabbiata".

Potevo stare zitto e invece me ne sono uscito con questa frase del cazzo e lei subito ha risposto così: "Non sono arrabbiata, sono delusa".

Adesso stavamo lì in silenzio, uno davanti all'altra a guardarci e nessuno sapeva cosa fare, nessuno diceva niente. Cioè io aspettavo che finisse di raccogliere le sue cose e se ne andasse, che chiudesse dietro di sé quella porta del cazzo del mio mini appartamento, che era lì a due metri anche se a me sembrava lontana chilometri.

Aveva quasi finito, ma se ne stava lì ferma davanti a me e anch'io ero fermo. Cercavo di evitare il suo sguardo accusatorio e mi guardavo in giro. Guardavo le tende fiorate che aveva messo alla finestra e mi chiedevo se le avrebbe poi tirate giù quelle tende del cazzo, che mica gliel'avevo detto io di metterle, che andava bene anche senza, com'era prima.

E poi guardai le tisane sulla mensola, anche quelle, accidenti a lei che mi si era infilata in casa con destrezza senza che me ne accorgessi. Ma come ho fatto ad arrivare a darle le chiavi, che se n'è pure andata a farsene una copia, senza dire niente. E ha cominciato a fare avanti indietro, anche quando non c'ero ed è stato così che una volta ho trovato quelle tende sulla finestra e le tisane sulla mensola. Tisane di finocchio e anice stellato che quando era sera mi diceva "Ci facciamo una tisana?".

Mi ero preso un appartamento per stare solo, per fumarmi le canne con gli amici e ridere come degli scemi guardando Frankenstein Junior e Hollywood Party e ora mi ero ridotto a farmi le tisane di finocchio. Gli amici non venivano più perché adesso c'era lei che sbuffava quando fumavamo o ridevamo e che correva subito con il mocio quando si ribaltava una birra. Ci credo che gli amici non venivano più. Per quello sono scoppiato e le ho detto che doveva andare via, che avevo preso casa per provare ad abitare da solo e che così invece non ero più solo.

Devo averle detto anche altre cose che adesso non ricordo, ma la sostanza era quella.

E poi mi sono messo a pensare com'era bello l'anno prima, quando ero da solo in questo residence completamente vuoto, in inverno, sul lungomare di Viserbella, dove anche gli alberghi a fianco erano vuoti e anche le case nelle vie dietro, erano tutte vuote. Non passava nessuno e c'era la nebbia, non si vedevano né la spiaggia né il mare distante poche decine di metri. Non si vedeva e non si sentiva, che anche se ci fosse stata burrasca, le scogliere parallele alla spiaggia avrebbero smorzato ogni rumore. Io stavo lì alla finestra a guardare e c'era solo questa cabina telefonica sul marciapiede del lungomare, illuminata, l'unica cosa illuminata lì attorno che era tutto buio e con la nebbia; se ne stava lì solitaria come me e aveva i vetri tutti sporchi che non si vedeva dentro e mi facevo mille storie a guardarla per ore in silenzio, dietro la finestra, e a volte mi chiedevo cosa avrei fatto se avesse cominciato a squillare il telefono, sarei sceso a rispondere?


(fine)

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