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Indice:
E
Regolamento delle Gare…
Daniele Missiroli
Angelo Ciola
Roberto Bonfanti
Namio Intile
Alessandro Mazzi
Marco Daniele
Selene Barblan
Gabriele Ludovici
Tiziana Emanuele
N.B. Panigale
L.Grisolia
Aurora Gallo
Draper
Fausto Scatoli
Laura Traverso
sezione 18
una produzione
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presenta


La contessa

e gli altri racconti


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ebook della Gara stagionale di Primavera 2019


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Ebook della Gara letteraria stagionale di Primavera 2019


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: Ritratto della contessa di Baviera-Grosberg. Alexander Roslin.


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di Braviautori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara saranno pubblicati in un  ebook gratuito e a ogni ciclo di stagioni pubblicheremo un'antologia annuale.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Daniele Missiroli

(vincitore della Gara di Primavera 2019)


La Contessa


— Ted Byron, signore — disse il poliziotto al tenente Corby.

— Ti farò causa per avermi trascinato qui con la forza — disse Ted.

— Sul mio tavolo c'è la tua licenza da ciarlatano — replicò il tenente a denti stretti.

— Mentalista, prego! — sottolineò Ted, togliendosi il cappotto.

— Devi aiutarmi, il capitano mi sta addosso.

Nel salotto damascato, oltre a loro due, c'erano tre uomini e una donna. La signora era seduta su un divano a tre posti insieme a un uomo. Gli altri occupavano due poltrone.

— Io sono il conte Collins — disse l'uomo di mezza età con l'elegante completo blu. — Sono il marito di Cecilia. Anzi, lo ero.

— Io mi chiamo Brian Sullivan e sono un amico di famiglia. Non so perché sia stato convocato.

— Io sono Arthur Zais, il medico personale della contessa — disse il terzo. — Dora, questa mattina, mi ha chiamato subito appena ha scoperto il corpo.

— Lei è la governante? — chiese Ted, rivolgendosi alla donna.

— Sì, signore — rispose lei, tirando su col naso. — La contessa aveva gli occhi sbarrati quando sono andata a svegliarla.

— Che cosa è successo ieri sera? — chiese Ted al tenente.

— I signori sono stati qui fino a tardi — rispose Corby. — Poi il marito si è ritirato.

— Camere separate? — chiese Ted al conte.

— Da diversi anni — rispose lui, sfilando una sigaretta da un pacchetto.

— Il signor Brian si è trattenuto per qualche altro minuto, poi è andato via — aggiunse il tenente.

— Brian, lei è molto giovane. Ventiquattro? Ventisei? — chiese Ted.

— Ho venticinque anni, ma questo che importanza ha?

— Lei era l'amante della contessa! — disse Ted, fissando il conte, che continuò a tentare di accendersi la sigaretta.

— Come si permette? — gridò Brian, inviperito.

— E le dirò di più: il marito lo sapeva.

— Come può fare simili affermazioni! — protestò il conte.

— Quando ho accusato Brian, lei non si è scomposto. Questo significa che era al corrente della relazione e che non le importava. Come è avvenuto il decesso?

— Infarto — disse il medico.

— L'infarto può anche essere provocato — disse il tenente. — La contessa aveva l'abitudine di prendere una tisana forte.

— Quando ho constatato il decesso di Cecilia, le ho fatto un prelievo, poiché non era ancora subentrato il rigor mortis. Ho mandato la fiala al Centro Analisi della polizia.

— Lei potrebbe averla sostituita — replicò il tenente.

— Sono al servizio di questa famiglia fin da quando c'era il vecchio Conte. Non farei mai una cosa simile. E poi, perché l'avrei fatto?

— Dammi altre informazioni, Corby.

— Il vecchio adottò la bambina quarant'anni fa, dopo la perdita della moglie. Disse che l'aveva fatto perché era veramente sua figlia.

— Che vita conduceva?

— Molto ritirata.

— Vita ritirata, ma nonostante tutto… Dora, lei quanti anni ha?

— Ne ho sessanta, perché questa domanda? Mi assunse il signor Conte quando avevo diciotto anni perché la moglie non stava bene.

— Togli Dora dai sospettati di omicidio, Corby.

— Perché? Lei poteva benissimo somministrare una tisana "rinforzata" alla contessa.

— Nessuna madre uccide la figlia.

A quelle parole, Dora scoppiò a piangere.

— Come fai a dirlo? — disse il tenente, allibito.

— La moglie è malata e il vecchio Conte ha in casa una ragazza di vent'anni. Lei resta incinta e lui riconosce la bambina: un classico.

— Si vergogni per aver osato gettare una simile ombra su Cecilia — disse il medico — e su questa donna che ha servito onorabilmente la famiglia per decenni.

Prima che Ted potesse replicare, arrivò un poliziotto che consegnò un documento al tenente.

— Forse non è stato un omicidio — disse lui, leggendo il foglio. — Il sangue non conteneva sostanze letali.

— Potremmo fare un'autopsia — disse Ted, osservando Arthur, seduto molto vicino a Dora.

— Non servirebbe a niente — disse il dottore — ma fate pure.

In quel mentre il cellulare del tenente squillò.

Dopo aver riattaccato, Corby disse: — Non immagini cosa mi hanno comunicato dall'obitorio.

— Il cadavere non c'è più?

— Mi farai ammattire: tu come fai a saperlo?

— Te lo spiego dopo. Hai notato che il dottore è molto protettivo nei confronti di Dora? Le tiene addirittura la mano.

— E allora? È un dottore.

— Nessuno si rivolge a una contessa chiamandola per nome: solo lui l'ha fatto. È il comportamento di un padre, direi! Anche lui andava a letto con Dora, e quando restò incinta, fu facile convincere il vecchio Conte che il padre era lui. In questo modo hanno assicurato un futuro alla bimba.

A quelle parole il dottore abbassò la testa.

— È tutto vero, ma ormai non ha più importanza. La nostra Cecilia ci ha lasciato — disse l'uomo, stringendo a sé la governante.

— Va bene, questo esclude dai sospettati anche il dottore — disse Corby. — Ora vuoi dirmi se è stato il marito oppure l'amante?

— Prima — disse Ted, indicando un quadro, — vorrei che il conte aprisse la cassaforte che sta là sotto.

— Come fa a saperlo? — disse l'uomo, avviandosi verso la parete indicata da Ted.

— Questo lo sapevo anch'io — disse il Tenente. — Si vede che il quadro è scostato dal muro.

— Il conte aprì la cassaforte, che si rivelò essere vuota.

— Come vede, non c'è niente. Non la usiamo più.

— Ora ti dirò chi è stato e dove puoi trovare la contessa — disse Ted al tenente, con un sorrisetto malizioso.

— Hai capito anche chi ha sottratto il corpo? Non posso crederci!

— Il colpevole è… il signor Brian! Perquisitelo e gli troverete un biglietto aereo o un biglietto ferroviario. Se pensava di partire in aereo, troverete la signora contessa all'aeroporto. Altrimenti, sarà alla stazione.

Il Tenente era sbalordito. Brian si alzò lentamente dalla poltrona su cui era seduto, poi fece un balzo improvviso verso l'uscita. Ted gli fece lo sgambetto e lui ruzzolò sul pavimento. La perquisizione rivelò un biglietto aereo per Bali. Il volo partiva dopo tre ore.

— Come hai fatto, malefico individuo — disse il tenente.

— Il marito afferma che la cassaforte è sempre stata vuota, ma tutti sanno che non è normale che in una casa signorile come questa non ci siano contanti o gioielli. Insieme all'amante della moglie organizza un piano per sbarazzarsi di lei. Non la vuole uccidere, solo spedirla fuori dalle scatole insieme al suo amante. Li riempie di soldi, dopo aver vuotato la cassaforte, e si assicura la complicità di Dora e del dottore. Loro devono testimoniare che la contessa è davvero deceduta. Nessun problema, dato che sono i genitori.

— Quindi… — balbettò Corby.

— Ti serve un furgone: sono colpevoli tutti e quattro.

Ted si rimise il cappotto e fece per allontanarsi, ma prima aggiunse, prendendo il tenente per un braccio e fissandolo negli occhi: — Domattina vengo a prendere la mia licenza da "ciarlatano", d'accordo?


(fine)



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Angelo Ciola


Già visto!


Gigi stava giocando in soggiorno con i nuovi soldatini computerizzati, ispirati alla battaglia di Waterloo. Impersonare Napoleone e modificare l'esito della battaglia era per Gigi una sfida elettrizzante. L'intelligenza artificiale dei soldatini avversari, gestita dal computer, era stata naturalmente abbassata, per permettergli di vincere la maggior parte delle partite. Il ragazzo, al comando delle truppe napoleoniche, aveva appena lanciato l'ultimo attacco e gli avversari stavano ritirandosi. Alcuni soldatini inglesi erano, in qualche modo, riusciti a fuggire dal campo di gioco virtuale, che occupava gran parte del soggiorno. In un ultimo tentativo di salvarsi si erano nascosti dietro al divano, al che Gigi diede immediatamente un ordine e subito un piccolo reparto francese si mise a inseguirli. Lo scontro fu immediato e in un attimo i nemici vennero catturati mentre alcuni soldatini morti rimasero a terra. Erano gli ultimi tentativi di resistenza e il ragazzo si stava godendo l'ormai imminente vittoria quando a disturbare gli eserciti in battaglia si apri la porta d'entrata.

— Ciao Gigi, hai studiato oggi? — disse il padre, entrando in casa, mentre si toglieva la mascherina protettiva dalla bocca per gettarla immediatamente nel bidone dei rifiuti contaminati.

— Sì, non ti preoccupare! — rispose il figlio — Finisco questa partita e poi vado subito a dormire; domani mi interrogano.

— Su quale argomento dovevi prepararti? — chiese il genitore.

— Stiamo studiando i viaggi di Cook. E, sai papà, sono rimasto colpito dalla stupidità degli abitanti dell'Isola di Pasqua. Per rivalità tra loro, le varie tribù costruirono gigantesche statue di pietra, utilizzando per il trasporto una enorme quantità di legname. In questo modo, in poche generazioni, abbatterono tutti gli alberi dell'isola. Senza alberi quell'isola, sperduta in mezzo all'oceano, si trasformò da un paradiso verde e rigoglioso in un arido deserto, dove non sopravvissero né coltivazioni, né animali. Alla fine divennero perfino cannibali, a quel punto era l'uomo l'unico cibo disponibile.

— Già, in effetti anch'io mi chiedo come si possa essere così ciechi da non accorgersi che stavano tagliando gli ultimi alberi. — rispose il papà mentre accendeva la TV tridimensionale per ascoltare l'ultimo notiziario.

Decisa la voce del giornalista televisivo irruppe nella stanza. — "Tra polemiche e opposizioni degli ambientalisti verrà messa in funzione domani 24 giugno 2056, la nuova centrale iperatomica. L'impianto, costruito utilizzando le acque del lago Vittoria, ultimo grande giacimento d'acqua dolce sul pianeta con ancora residue possibilità di utilizzo, potrà soddisfare le esigenze energetiche di gran parte della popolazione mondiale. Molti ritengono che, questo ulteriore danneggiamento irreversibile all'ambiente… "

— Spegni! — disse il papà a Gigi — Sono stufo di queste polemiche, non si può fermare il progresso e l'energia è necessaria, altro che storie; se diamo retta a questi pazzi sembra che la Terra debba finire domani!


(fine)



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Roberto Bonfanti


Sei pronto per il cambiamento?


Quando arrivo alla macchina noto che c'è qualcosa sotto il tergicristallo. Non è una multa, è un volantino pubblicitario. Lo prendo e sto per appallottolarlo e gettarlo nel cestino, ma una scritta azzurra attira la mia attenzione: "Sei pronto per il cambiamento?" Più sotto, un titoletto in nero: "Migliora la tua vita in pochi semplici passi"; c'è l'immagine di una mano aperta e del testo sovrapposto. Salgo in auto e lo appoggio sul sedile del passeggero, poi parto. Il primo semaforo che incontro è rosso, così raccolgo il volantino e lo leggo.

"Trova dentro di te le energie per cambiare la tua vita. Quante volte ti capita di sentirti insoddisfatto del tuo lavoro, delle tue relazioni sociali, del poco tempo che riesci a dedicare a te stesso? Spesso ritieni che tutto questo sia immutabile e ne dai la colpa a fattori esterni, ma è un atteggiamento sbagliato. La prima cosa da fare è accettare che solo tu sei l'artefice del tuo destino. Non c'è bisogno di mutare radicalmente stile e abitudini di vita, basta concentrarsi su azioni e gesti ripetitivi che presi nel loro complesso ti impediscono di realizzare completamente i tuoi desideri. Prova a cambiare la routine quotidiana e in breve tempo svilupperai la capacità di dedicarti alle cose veramente importanti. Il cambiamento non è un salto nel vuoto, il cambiamento è un lungo percorso fatto di piccoli passi".

Il clacson dell'auto che mi segue mi distoglie dalla lettura, alzo gli occhi e vedo che il semaforo è verde. Faccio un cenno di scusa con la mano e parto.


Sono un tipo abitudinario, seguo rituali precisi. La sera, prima di dormire, di solito leggo sempre un po', poi spengo la luce e mi giro sul fianco destro. Ma ultimamente il mio sonno è popolato di sogni bizzarri, talvolta di incubi. Forse è perché sbaglio posizione nel letto.

"Il cambiamento non è un salto nel vuoto, il cambiamento è un lungo percorso fatto di piccoli passi".

Stasera faccio uno di quei piccoli passi. Spengo la luce e mi giro sul fianco sinistro.

Ma il sonno tarda a venire, mi ritrovo lentamente a scivolare dentro una dimensione a metà strada fra la veglia e l'incoscienza. È come quando si sogna e sappiamo di sognare, ma non riusciamo a esserne del tutto convinti, per cui ci rimane il dubbio che quella sia la realtà.

Sono al buio, nel mio letto, coricato sul fianco sinistro, con le ginocchia leggermente piegate, non nella classica posizione fetale, ma in una che le assomiglia, solo un poco più distesa. I lievi rumori tipici di ogni abitazione sono amplificati dall'oscurità, ma mi sembra che stasera abbiano un tono e un'intensità diversi dal solito. Quel fruscio è, probabilmente, l'acqua che scorre in un tubo, ma assomiglia anche a un rumore di trascinamento, di qualcosa che viene spostata. Chi può essere a spostare qualcosa in casa mia, di notte, mentre sono a letto e dormo, o almeno dovrei? Può darsi che ci sia un intruso, che sia entrato forzando una finestra? E per fare cosa, rubare? Ma forse non è un ladro, magari è venuto per fare altro…

E se il cambiamento avvenisse tramite agenti che operano nell'oscurità, all'insaputa di tutti? Inizio a fantasticare su un'organizzazione segreta che ha mandato i propri uomini a modificare la disposizione dei mobili e delle suppellettili di casa mia. In maniera del tutto arbitraria questi agenti del cambiamento, silenziosi e vestiti di nero come guerrieri ninja, spostano di pochi centimetri il tavolo della cucina, il mobiletto in bagno e la libreria del soggiorno, prendono un oggetto e lo scambiano di posto con un altro. Un'inquietudine crescente mi induce a immaginare i possibili scenari derivanti da queste azioni: il telecomando non più a portata di mano accanto al divano, la bottiglia di birra nascosta dietro un cesto di lattuga in frigo e addio all'automatismo di una serata davanti alla TV. E questo sarà solo l'inizio, chissà quante altre vecchie abitudini sostituirò con delle nuove, credendo di farlo per libero arbitrio, per normale usura delle consuetudini, senza sapere che invece dipende tutto dalla volontà di qualcun altro, di qualcuno che, per giunta, si fa beffe di me, invitandomi a prendere in mano la mia esistenza con un volantino dalla grafica scadente. Domani non mi accorgerò di queste lievi modifiche, marginali, certo, ma il cambiamento avrà messo il primo seme e il germoglio che spunterà scatenerà un processo inarrestabile, un effetto domino su tutti gli eventi futuri della mia vita.

In preda all'ansia accendo la luce dell'abat-jour, mi alzo dal letto e faccio un giro del mio appartamento, esploro accuratamente ogni stanza. Non trovo nessun uomo col passamontagna, non ci sono segni evidenti di oggetti fuori posto. Forse ho dormito e sognato senza accorgermene, o forse stasera sono solo più paranoico del solito. Per sicurezza, prima di tornare a letto, prendo un rotolo di nastro adesivo di carta, strappo alcuni pezzetti e segno sul pavimento la posizione esatta delle zampe del tavolo della cucina. Scatto decine di fotografie con lo smartphone, immortalando ogni dettaglio della mia abitazione. Poi torno a distendermi e spengo la luce. Ma questa volta mi giro sul solito fianco destro.

Meglio essere prudenti, stanotte non mi sembra il momento giusto per dare inizio al cambiamento.


(fine)



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Namio Intile


Epiclesi


Domizia mia adorata. Non ho avuto modo di farti giungere mie notizie. Questa impresa che la Fortuna ci ha portato in dono mi allontana nuovamente da te e dalla piccola Giulia. In questo sperduto promontorio aggredito dal mare Oceano edifichiamo un avamposto che permetterà alla Gloria di Roma di penetrare anche in quest'isola verdissima bagnata da piogge copiose e solcata da bruni fiumi tranquilli. Ho abbandonato i tepori dell'accampamento e soprattutto il tuo affetto mai corrotto da sentimenti vili. So di averti promesso gli agii di Londinium o di Eburacum, ma l'ascia caledone spezzata nella battaglia del monte Graupio ancora non è del tutto doma. I nostri nemici si organizzano qui in Hibernia e tessono alleanze contro di noi. Si illudono. Non sanno quanto grande è l'esperienza, e vasto l'orizzonte di Roma. Dall'Etiopia all'Armenia, in Pannonia o in Mauretania, abbiamo combattuto bellicose tribù e piegato popoli che credevano di poter sfidare Roma.

Mi chiedo, la vittoria può essere stata ogni volta solo un caso della Fortuna dai molti nomi? O invece essa è merito unico della nostra Forza? Credo, in questo remoto angolo del mondo ai confini dello smisurato mare Oceano, che foriere di vittoria siano le nostre idee unite a quello spirito di civiltà e ordine che Roma incarna e fa risplendere, non dissimile dalla luce del Sol Invictus, che dona calore e vita al mondo. Eppure, Domizia mia adorata, questo calore non scalda il cuore e io sento la mancanza della tua presenza, delle nostre passeggiate all'imbrunire d'estate, circondati dalla pace dei campi fecondi di grano dorato e uva non ancora matura, lungo il placido e maestoso corso del Rhodanus. Qui l'estate è breve e l'inverno porta neve abbondante, la flotta solca con difficoltà le acque scure del mare Oceano. Eblana, poco distante, è poco più d'un villaggio di capanne solcate da strade di terra e guardato da palizzate di giovane larice. I celti la chiamano città, ma essi non hanno mai visto vere città, né conoscono gli agii della vita urbana, la dovizia dei giardini, gli ozi del foro, o i fruttuosi studi nelle biblioteche, né il sollievo delle terme. Essi sono duri, abituati al freddo, spigolosi di carattere, spinosi come piante del deserto, ma schietti e sinceri se ricambiati della stessa materia. D'istinto pronti a combattere e altrettanto pronti alla fuga dianzi alla resistenza d'un vero esercito, contro cui si frange invano la loro passione primitiva tutta slanci e priva di riflessione. Ma se trattati con dignità e con deferenza riconoscono la fedeltà e onorano gli impegni. Il tribuno Vitellio ha salvato la vita a un uomo in procinto d'annegare in un fiume poco distante dall'accampamento. Costui adesso lo segue ovunque ed è addirittura felice quando il tribuno pone la mano sul suo capo. Un comportamento simile a quello del nostro adorato Lentulo.

Mi chiedo a volte cosa vi sia oltre le acque tempestose del mare Oceano verso nord, se i viaggi di Pitea lo condussero realmente in un luogo dove il sole non sorge mai e il mare diventa di ghiaccio. Molte favole dei nostri nemici parlano di una terra misteriosa, immensa e lontanissima, a occasum solis, oltre il mare Oceano. Chissà se davvero esiste. Non siamo che farfalle, ogni giorno che passa la nostra vita si consuma. Festina lente mi ammoniva Cassio, conviene affrettarsi con misura, con temperanza agire e pensare. E tuttavia il tempo stringe e io mi trovo qui, simile a questo promontorio spazzato dalle onde del mare. O Zeus, ti invoco spesso nei miei pensieri, eppure guardando questo cielo così misterioso e lontano mi chiedo dove tu sia. Percepisco a volte l'esistenza d'una divinità che tutto avvolge. Non un Dio, ma un Essere che tutte le cose e gli esseri viventi abbraccia e gli uni agli altri ci tiene intrecciati, legati con un filo sacro che unisce e raccoglie insieme il mondo, dove nessun atomo è estraneo all'altro. E io, seppur per un fugace istante, mi sento parte di qualcosa di infinito. Ma è soltanto un attimo, un lieve battito d'ali che s'esaurisce nel nulla. O Apollo Coelispex, cosa ci riserva il futuro? Questo mondo così ben ordinato pare essere congegnato per scopi imperscrutabili. Da un Dio? Non è trascorsa una luna che vidi Dionigi d'Efeso inginocchiarsi dianzi a un simbolo sconosciuto. Domandai al tribuno Clodio, valido esegeta dei culti orientali, e mi disse che il pesce era ciò che adoravano i cristiani. Chiesi se fosse un culto egizio, terra degli adoratori di Anubi e Horus, Iside e Osiris, o magari dionisiaco. Ma egli rispose che non era l'animale oggetto d'adorazione e che le iniziali dell'Ichthus indicavano una persona: Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore. Clodio mi vide curioso e mi narrò la storia di un uomo originario della Galilea e morto crocifisso come figlio di Dio. Non di un dio, ma di Dio, l'unico e il solo per essi. Un solo creatore, una sola religione, un'unica verità, un unico principio alla base del tutto. E alla fine della vita il Gan, un luogo splendido dove far riposare l'anima. Tale sarebbe per gli adoratori del pesce lo scopo dell'agitarsi in vita. E se invece il nostro destino oltre questa vita fosse d'esser niente in nessun luogo? L'oriente ci indica una strada piena di speranza, credono in molti, ma io ho il presentimento che ci conduca verso un'era oscura e alla fine verso un risveglio ancor più amaro.

Dipende da noi, Domizia mia adorata, adattarsi a questo mondo? Tutto ciò che appare e viene alla presenza disvela il risplendente. Affronto dunque la vita con spirito sereno e considero ogni uomo, quale sia il suo stato, con giustizia e verità. Reputo il principale scopo di noi uomini quello di agire per il bene comune, di prendersi cura di tutto ciò che è. Accogliere ciò che scorre e perciò abbandonarsi alla Moira. Comune a noi sia non il solo genere umano, ma il mondo intero. E per seguire il massimo bene non dobbiamo cedere alle pulsioni, le quali ci conducono lontano, e neanche al nostro intelletto, di cui così tanto confidiamo.

Nell'osservare il mondo mi accorgo che siffatta idea di bene vive nel cuore di tutti gli esseri viventi. Guarda la cura dell'ape negli affollati alveari o le leste formiche, infaticabili lavoratrici, come si affannano per la casa di tutti. Cosa conta un singolo? E guarda i nostri animali. Non darebbe forse la vita, la gatta Asclepia per i suoi cuccioli o il fido Lentulo per la nostra Giulia, che adora come fosse figlia sua? E non difende forse il leone il proprio branco dalle iene e dai pericoli del deserto? E lo stesso comportamento non adotta forse il buon padre di famiglia nei confronti della città e della patria?

Siamo al mondo per reciproco aiuto. Come mani o piedi di un medesimo corpo, siamo tenuti a non nuocere e a non agire in contrasto o a reciproco detrimento. Che senso avrebbe per il singolo uomo preferire una mano all'altra? O curarsi di un piede e non dell'altro o di un dente a danno dell'altro?

Domizia mia adorata, abbraccia Giulia come se fossi là con lei. E per te ogni mio pensiero, il mio amore incrollabile e la mia benedizione, con l'augurio di essere presto con voi. E poni tu la mano sul capo di Lentulo, come fossi io a farlo.


(fine)



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Alessandro Mazzi


La foresta di Nightshade


Avrei dovuto dar retta ai consigli di quegli uomini. Ero troppo curioso e cocciuto per ascoltare il parere di quelle persone e a ripensarci ora quello fu un gravissimo errore, forse il più grave della mia vita.

Mi trasferii a Nightshade Hill all'incirca un anno fa e adorai fin da subito la mia nuova sistemazione: una stupenda capanna in legno, dotata di ogni tipo di comfort e distante dal frastuono delle grandi città. Da molti anni sognavo di stabilirmi in un luogo tranquillo, dove poter far pace con me stesso e ritrovare la serenità perduta tempo addietro. Appena la vidi capii che quel luogo avrebbe fatto al caso mio; l'enorme bosco situato a pochi metri dal capanno avrebbe fatto da cornice perfetta alle mie ore di meditazione. Fu proprio con quel bosco che non feci i conti.

Non appena mi sistemai nella mia nuova abitazione, ricevetti una visita inaspettata: un piccolo gruppo di anziani vissuti in quel paese da una vita intera, che oltre a un caloroso benvenuto, mi dispensarono anche alcuni avvertimenti in cui colsi una nota di sincera apprensione. In un primo momento non riuscii a comprendere il motivo di un così grande interesse per la mia incolumità; piano piano però le loro parole mi misero di fronte a realtà inquietanti. Rimasi colpito dal tono perentorio con cui mi vietarono categoricamente di avvicinarmi al bosco poco distante dalla mia abitazione. Fui messo al corrente delle leggende che da secoli si narravano riguardo la foresta di Nightshade, meglio nota come "la foresta delle illusioni". Ascoltai rapito per ore i loro racconti fantastici, e al termine di quella discussione quasi surreale, mosso dal banale istinto della curiosità presi una decisione: malgrado gli ammonimenti di quegli uomini dovevo spingermi tra quegli alberi infestati da secoli di storie e paure.

In un'afosa giornata d'agosto imboccai il vialetto fuori casa e in pochi passi mi gettai alle spalle le parole dette soltanto pochi giorni prima da quegli uomini anziani, e iniziai la mia escursione tra fronde e radici di magnifiche piante secolari, che trasudavano suggestioni antiche, e che mi diedero il loro benvenuto in quella foresta maledetta. Con me portai soltanto uno zaino con poche provviste e uno specchietto da viaggio, appartenuto alla mia defunta moglie e che consideravo il mio talismano; se le storie raccontatemi fossero state vere avrei certamente avuto bisogno di un portafortuna.

Dopo un paio d'ore di cammino cominciai a nutrire le prime serie preoccupazioni: nonostante avessi ormai percorso diversi chilometri in quell'intrico di vegetazione, il bosco sembrava presentarsi sempre allo stesso modo, con gli stessi alberi, le stesse pietre e gli stessi segni a terra sul percorso, quasi che la foresta mutasse a ogni mio passo, per rendersi sempre uguale e trascinarmi verso la disperazione. Ripensai alle parole di qualche giorno addietro pronunciate dai miei anziani ospiti: quel luogo era anche chiamato "la foresta che cambia". Vagabondando in quel luogo sempre uguale colsi il senso di quel nome.

Non passò molto tempo che iniziai a notare delle inquietanti presenze nascoste fra la vegetazione: degli occhi mi scrutarono con sguardi fugaci tra le fronde dei bassi cespugli. Mi dissi che doveva sicuramente trattarsi di animali selvatici, ma le storie che mi furono narrate giorni prima misero in dubbio anche quella certezza. Le mie sicurezze vacillarono nuovamente quando vidi apparire tra gli alberi le maestose corna di un grosso cervo: poteva trattarsi di uno dei tre guardiani della foresta di cui parlavano le antiche leggende. A lui si unì subito un lungo serpente, le cui squame brillarono di mille colori accecanti. Il viscido rettile strisciò tra i miei piedi per poi puntare in direzione del grosso cervo, che ancora mi fissava con sguardo inquisitorio.

Qualcosa nella mia mente mi spinse a seguire quella bizzarra coppia di animali, che sembrava condurmi in anfratti non ancora esplorati di quel bosco, per nulla intimoriti dalla mia presenza.

Mi condussero fino ad antiche mura di pietra, infestate da muschi e rampicanti. Timidi raggi solari filtrarono tra la fitta cortina di fogliame sopra la mia testa illuminando i resti di quello che un tempo fu il monastero del bosco. Riconobbi quel luogo all'istante; la descrizione fornitami dal gruppo di anziani corrispondeva perfettamente con le rovine davanti i miei occhi. Da quei ruderi apparì la conferma a tutte le suggestioni e misteri che si addensavano su quel luogo leggendario: la sacerdotessa del bosco, vestita nel suo abito bianco con il viso velato a nascondere due splendidi occhi celesti come il cielo d'estate. Insieme alla donna fece la sua comparsa una piccola volpe dal pelo fulvo e una lunga e fluente coda. Il cervo, il serpente e la volpe, i tre guardiani del bosco di Nightshade, come narravano da tempo immemore i vecchi abitanti del paese. I tre animali accerchiarono la donna e iniziarono a dissolversi lentamente, come spettri in una storia di fantasmi. La sacerdotessa iniziò la sua trasformazione e in un attimo mi si presentò sotto la sua forma più inquietante: grossa corna di cervo troneggiavano sul suo capo velato, mentre una lunga coda volpina fendeva l'aria con decisione. Spalancò la sua bocca e vidi due lunghe zanne di serpente sporgere dietro la trasparenza del suo velo bianco. Mi fissò non più con dolci occhi azzurri, bensì attraverso il rosso sguardo di un rettile pronto all'attacco. Le sue fauci si spalancarono a dismisura e nella mia mente udii il suo richiamo irresistibile, lo stesso che aveva attirato centinaia di esploratori che mai più avevano fatto ritorno. Riuscii a mantenere la calma, nonostante la tentazione di quella donna fosse fortissima: sarei diventato la sua preda o me la sarei cavata in qualche modo. Poi all'improvviso un nome sfiorò i miei pensieri: i vecchi non avevano forse chiamato quel luogo anche"la foresta delle illusioni"? Voltai le spalle all'essere che bramava la mia vita, ed estrassi dallo zaino lo specchio da viaggio di mia moglie. Sentii lo scalpiccio concitato dei passi furenti della donna dietro di me. Si avvicinò sempre di più e fu allora che sollevai lo specchio davanti a me; guardai la mia immagine riflessa e cercai di individuare alle mie spalle quell'inquietante creatura. Nulla. Soltanto un illusione che il mio specchio finì per svelare in poco meno di un attimo. Una realtà illusoria in fondo non poteva riflettere la propria immagine in nessun modo. Chiusi gli occhi e una fredda corrente mi gelò il sangue nelle vene, da testa a piedi. I miei nervi tesissimi si rilassarono e caddi addormentato. Mi risvegliai dopo un tempo imprecisato, davanti al sentiero che conduceva all'ingresso della foresta. Strinsi forte tra le mani il mio talismano, ogni illusione era svanita.

Quasi un anno è passato da quel giorno e oggi posso dire con certezza che le storie che da sempre si narrano a Nightshade Hill sono reali. Le leggende tramandate nei secoli prendono vita e si concretizzano tra intrecci di radici e alte fronde che schermano i raggi solari. Celata in un'illusione di verdi arbusti secolari, la grande sacerdotessa bianca attende i visitatori e li attira nella sua trappola di tentazioni. I tre guardiani della foresta, suoi messaggeri, accolgono i malcapitati e li guidano tra le fauci della donna a cui prestano eterno servizio. Non c'è via d'uscita per chi entra là dentro. Anche la salvezza non è altro che un illusione e lo stesso vale per me. Nella mia mente non sono mai uscito da quella foresta; il richiamo di quella donna è ancora troppo forte e sempre più irresistibile.


(fine)



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Marco Daniele


L'orrore perduto tra le sabbie


Il sole batteva implacabile sull'angolo più remoto e inospitale del Rub 'al-Khali.

Alieno. Se Sir Walter Payne avesse dovuto cercare un singolo termine per definire il paesaggio che la sua spedizione aveva dovuto attraversare negli ultimi tre giorni, avrebbe scelto sicuramente "alieno". Non c'era niente di questo mondo in quella sterminata distesa di sabbia che si protraeva fino all'orizzonte, un mare giallastro da cui era bandita qualsiasi traccia di vita vegetale, animale e umana.

Eccetto una.

Un occhio meno attento avrebbe potuto scambiarle per grandi rocce, erose dall'azione millenaria del vento, del sole e delle escursioni termiche — e chissà, forse anche della pioggia, ammesso che in quel deserto avesse piovuto qualche volta dall'alba dei tempi. Eppure Sir Walter Payne non aveva avuto dubbi, fin dal primo momento in cui le aveva avvistate in lontananza: quelle era le rovine che cercava. Le rovine della città di al-Ramal, già antica e abbandonata quando era fiorita l'altrettanto leggendaria Iram dei Pilastri, già vecchia e consunta quando le prime popolazioni semitiche di beduini avevano messo piede in Arabia, già decrepita e quasi dimenticata quando quelle stesse popolazioni si erano unite e lanciate alla conquista del mondo conosciuto.

Adesso che erano più vicini, i sette membri della spedizione britannica potevano ammirare le vestigia di al-Ramal, quei testardi superstiti che non si erano piegati completamente ai colpi dell'inesorabile scorrere del tempo e resistevano consumati, indeboliti, sbrecciati, parzialmente frantumati, ma resistevano. Quello che un tempo doveva essere l'arco d'ingresso nella città si ergeva ancora in piedi con fierezza, nonostante buona parte della cinta muraria circostante fosse sparita o ridotta a un mucchio di macerie informi. E spingendo lo sguardo oltre si vedevano resti di case, di botteghe, di magazzini, di templi dove la popolazione idolatra venerava un migliaio di divinità dai nomi ormai dimenticati, millenni prima dell'avvento dell'Islam.

Sir Walter Payne sentiva il cuore battergli a mille nel petto, a quella vista. Fece per smontare dal suo dromedario, ma la guida della spedizione, un beduino avvolto nei tradizionali panni bianchi della sua gente di nome Faizan, biascicò qualcosa nella propria lingua natale. Nonostante fossero parole incomprensibili, il capo della spedizione percepì distintamente una sfumatura di avvertimento, se non addirittura di terrore.

— Che ha detto? — domandò dunque al suo secondo, James O'Connor.

— Le solite puttanate a cui credono questi beduini a malapena civilizzati! — O'Connor era uno scozzese alto e grosso, rubicondo, senza peli sulla lingua ma nel contempo con la classica spocchia del britannico che guarda tutto il resto del mondo dall'alto in basso. — Dice che questa città è maledetta, che se ci entreremo non ne usciremo, bla bla bla… cose di questo tipo…

Sir Payne conosceva bene la facilità con cui gli autoctoni bollavano come "maledetto" questo o quel sito, solo perché posto in una zona remota o edificato da un'altra civiltà. In trent'anni di viaggi per il globo terracqueo aveva avuto modo di sperimentare la cosa con gli Shona dello Zimbabwe, con gli indigeni micronesiani, con gli Indios dell'Amazzonia, con i pastori nomadi dell'Asia centrale. Anche stavolta liquidò le parole della guida come sciocche superstizioni e smontò dal dromedario.

Faizan fu subito pronto a raggiungerlo. Lo afferrò per un braccio e pur di fermare colui che ai suoi occhi appariva un folle incosciente, si sforzò persino di tirar fuori qualche parola in inglese: — No, signore! Lì male! Lì esseri malvagi! Non andare! Rovine maledette!

Il beduino era pienamente convinto di quello che diceva, Walter glielo lesse negli occhi quando si voltò fugacemente verso di lui. Fece per dirgli di lasciarlo andare, ma O'Connor era già addosso all'arabo e con violenza lo strattonò, finché non lasciò la presa su Sir Payne.

— Idiota di un beduino! — gli vomitò addosso. — Tu resta qui, se hai paura!

Il tono di voce cambiò completamente quando si rivolse con cordialità al comandante della spedizione: — Possiamo andare, signore.


Dimorava lì da tempo immemore, un essere così antico da aver dimenticato persino il proprio nome e quelli con cui lo avevano chiamato di volta in volta gli uomini. Eppure ricordava ancora, in maniera confusa e nebulosa a volte, incredibilmente nitida in altre, il tempo lontano in cui era si spostava da una città brulicante all'altra, abbattendosi come un falco sulla popolazione ignara e divorandola in un istante. Al-Ramal era stata l'ultima da lui distrutta e quando aveva finito non era rimasto più nessun insediamento nell'arco di chilometri, solo sabbia e ruderi.

Nell'epoca in cui aveva distrutto al-Ramal, l'essere era un orrore di proporzioni immani. Al suo passaggio il Sole si oscurava e la tenebra calava sul mondo, il sangue delle creature su cui si proiettava la sua ombra gelava istantaneamente nelle vene. Poi, nel corso dei secoli e dei millenni, si era consumato, si era ristretto, si era fatto sempre più piccolo. Non trovando null'altro da mangiare per saziare il suo pantagruelico appetito, si era stabilito nell'ultimo insediamento distrutto e aveva assunto un tenore di vita quasi completamente sedentario. A volte passava interi secoli immerso in uno stato intermedio tra il sonno e la veglia, un torpore in cui era cosciente della propria esistenza ma era come se non avesse più un corpo. Le immense ali si erano rinsecchite, impedendogli per sempre di spiccare ancora il volo. Aveva perso molta della sua originaria grandezza, ma restava comunque un'entità fisicamente imponente, che avrebbe fatto impallidire qualsiasi uomo.

Gli uomini, già… ogni tanto qualcuno capitava ancora in quelle rovine e l'essere era pronto a ghermirlo. Come pasto non era paragonabile alle scorpacciate dei tempi antichi e non riusciva mai a estinguere la fame perenne che gli stringeva le viscere, ma era meglio di niente.

Quel giorno, mentre se ne stava rannicchiato nel salone di quello che un tempo doveva essere stato il palazzo di un re o di un principe, l'essere percepì l'odore di sei uomini. La fame tornò improvvisamente a farsi sentire come un crampo doloroso e tuttavia piacevole, perché era la prima volta nell'arco di decenni che l'entità oscura provava qualcosa.

Con una rapidità inusuale per un essere di tale stazza, la massa oscura sorretta da miriadi di zampe scivolò senza fare rumore sul pavimento sbrecciato dell'antico palazzo e da lì fuori, nelle vie polverose che non sentivano più la risata di un bambino o il richiamo di un venditore ambulante da prima che la più antica civiltà nota all'uomo del XIX secolo vedesse la luce in Mesopotamia o in Egitto. L'intricato reticolo di strade e stradine di al-Ramal sarebbe apparso un labirinto a chiunque vi avesse messo piede per la prima volta, ma la creatura per sua fortuna conosceva quella città a menadito. Conosceva ogni singola pietra, ogni singolo muro, ogni singola costruzione ancora in piedi e sapeva come muoversi sfruttando il riparo che ognuna di esse poteva offrirgli.

Non gli fu difficile aggirare il gruppetto di intrusi per piombare alle loro spalle. Man mano che si avvicinava, sentiva la loro presenza farsi sempre più consistente, il loro odore sempre più forte. Adesso poteva sentire distintamente il battito dei loro sei cuori… sei cuori che presto avrebbero smesso di battere. Dischiuse lentamente il doppio becco coriaceo che celava un'orrenda cavità orale ricoperta da innumerevoli file di denti seghettati, preparandosi a scattare non appena si fosse avvicinato a sufficienza.

Superò l'ennesimo angolo di una vecchia torre parzialmente sbriciolata e… scattò, puntando all'ultimo della fila.


James O'Connor si accasciò contro il muro, ansimante dopo la lunga corsa in cui sperava di aver seminato il suo inseguitore.

Era accaduto all'improvviso, inaspettato come il proiettile di un tiratore nascosto tra le fratte. Stavano percorrendo quella che aveva l'aria di essere la via maestra di al-Ramal quando Fred Graham si era messo a urlare dal fondo della fila, un attimo prima di scomparire schiacciato da una massa nera, l'animale più orrendo che James avesse visto. Ammesso che fosse davvero un animale, e l'esploratore ferito ne dubitava ogni secondo di più. Di sicuro era la cosa più terrificante che avesse mai visto e paradossalmente non avrebbe saputo descriverne con precisione l'aspetto o la forma: se ci ripensava, gli appariva ora come un porcospino con decine e decine di zampe da insetto, ora come un serpente coperto da lunghi e ispidi peli, con un becco tozzo e pesante simile a quello di certi molluschi cefalopodi. Qualsiasi cosa fosse, era molto, molto più grande di un porcospino o di un serpente o di un polpo, abbastanza grande da schiacciare senza problemi un uomo adulto.

Quella vista degna dei peggiori incubi partoriti da Füssli non aveva minimamente intaccato la flemma scozzese di James O'Connor, che lesto aveva tirato fuori una pistola e aperto il fuoco sulla bestia. E così avevano fatto anche Hopkins, Clark, Willis e Sir Payne, fidando nel fatto che quattro rivoltelle avrebbero dato il benservito a qualsiasi aggressore. Ma non era servito a nulla: le pallottole erano rimbalzate sulla misteriosa creatura e Willis aveva presto seguito Graham come seconda porzione.

Vedere un uomo orrendamente dilaniato da quel becco e da quelle zampe era stato troppo per James. A quel punto tutto il suo coraggio, tutto il suo ardore erano venuti meno. Pensando solo a salvarsi la vita, si era voltato dall'altra parte e aveva iniziato a correre, senza mai fermarsi. Non sapeva in quale direzione si trovasse il portale d'accesso sotto cui erano passati per entrare nella città, ma una cosa era certa: doveva mettere fra sé e il mostro quanta più strada possibile. E doveva sperare che Clark, Hopkins e Sir Payne lo rallentassero abbastanza. Magari si sarebbe saziato e non avrebbe proseguito la caccia.

James non sapeva nemmeno quanto avesse corso, quando decise di fermarsi. Sapeva solo che non poteva più andare avanti, che il suo corpo meritava una piccola sosta, altrimenti sarebbe morto comunque di spossatezza.

Dopo qualche secondo, reggendosi contro il muro, si tirò su e si guardò attorno. Nessuna traccia del mostro, almeno fin dove poteva spingere il proprio sguardo. E non si sentivano nemmeno rumori di passi o versi bestiali, solo il soffio del vento che soffiava e si infilava nelle brecce aperte nei mattoni, nelle pietre di al-Ramal.

Un pensiero rincuorante gli fece strada nella sua testa. Sono vivo! Sono vivo! Sono…

La sabbia sotto di lui si aprì e decine di zampe artigliate lo afferrano e penetrarono le sue carni, mentre il becco del divoratore di al-Ramal si spalancava per accogliere l'ultimo dei sei pasti di quella giornata.


Il sole batteva implacabile sull'angolo più remoto e inospitale del Rub 'al-Khali.

Faizan si voltò un'ultima volta verso le rovine di al-Ramal, chiedendosi se le urla che sentiva in quel momento fossero di Sir Walter Payne o di James O'Connor. Non gli sarebbe dispiaciuto sapere che lo spocchioso scozzese era stato ucciso per ultimo, dopo aver provato fino in fondo l'orrore che derivava dalla consapevolezza di essere soltanto un misero pasto di un orrore vecchio di millenni.


(fine)



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Selene Barblan


Notte rossa


Era una notte rossa; la bambina, nella sua tana di coperte, guardava attraverso le palpebre serrate la luce della torcia e vedeva rosso. Era un gioco tutto suo, che amava fare quando aveva la possibilità di chiudersi fuori dal mondo; in viaggio, per far scorrere più rapidamente le ore, nelle miriadi di bolle della vasca da bagno, sdraiata nell'erba scaldata da un sole o, come in quell'occasione, a letto, finalmente sola e libera dal peso delle aspettative altrui. Pian piano stava riuscendo a rilassarsi e a entrare nel suo stato più intimo e profondo; rosso e ombre, luce e oscurità si amalgamavano a formare figure e movimenti fantastici. Una forma cominciava a prevalere sulle altre, di un nero così intenso da sembrare tridimensionale, si espandeva e si ritirava, come un respiro abissale. Una voce emerse da quella profondità, si insinuò tra le immagini e parlò alla bambina. Di lei, della sua vera natura. Di altre realtà e verità troppo a lungo nascoste. Con dolcezza l'ombra avvolse la bambina, la strinse e cullò fino a farla assopire, poi la portò con sé nel regno dove l'oppressione e l'angoscia non avrebbero più potuto toccarla e le sue visioni fantastiche l'avrebbero accompagnata per sempre. Sul letto, sotto le coperte, solo la torcia la cui luce tremola, singhiozzò, poi si spense e spense i ricordi della bambina in coloro che ancora dimoravano nella falsa realtà.


(fine)



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Gabriele Ludovici


Anatomia di un primo piano


Pè continuava a fare su e giù nell'ampio salone. In altre circostanze si sarebbe divertito un mondo a udire l'eco dei propri passi; un suono inedito, poiché fino al giorno prima quello stanzone era stipato di vecchi mobili, ampi divani e un lungo tavolo. La connotazione "gigante" che solo una casa abitata da tre rami della stessa famiglia può assumere.

Le ante delle finestre, spalancate sul golfo, sembravano accompagnare gentilmente fuori uno degli ultimi inquilini invisibili della casa, ovvero l'odore di fumo. Pè se ne accorse e chiuse gli occhi; sapeva isolarsi dal mondo, proiettando nella propria mente ciò che gli aggradava. Si concentrò su quell'odore e per qualche secondo rivide i tre uomini della famiglia fumare la pipa del dopocena: boccate lente e assopite dal vino, un rito al quale Pè si sarebbe unito di lì a qualche anno.

— Ancora così stai? — lo folgorò la madre. — Sicuro di aver preso tutto?

Pè fece una rapida panoramica delle poche cose che possedeva e annuì. La donna, uscendo per un attimo dall'isteria della modalità - trasloco, gli carezzò la testa.

— Ti abituerai presto alla nuova casa. In città avremo tutti più spazio, sai? Tu e tuo fratello avrete una stanza tutta vostra.

Il bambino la fissò con feroce e sarcastica perplessità. Nei suoi occhi apparvero delle corse in spiaggia, uno scoglio e una piccola canna da pesca.

— Il mare, be'… potrai rivederlo quest'estate.

Pè serrò le palpebre e si allontanò da quel sepolcro senza mobili.


Città, periferia del centro storico. Un primo piano, separato dalla strada da pochi metri. Là sotto ci stava un negozio in cui, come recitava il cartone appeso al vetro, "S'impagliano sedie". A Pè, sceso dal camioncino di zio Nuto, sembrò assurdo poter scorgere la finestra di casa nuova alzando di pochi centimetri il mento.

— Levati, sei in mezzo alla strada! — gli gridò un signore a bordo di una bici.

Pè sudò freddo. Non riusciva a scorgere gli sbocchi di quella stretta strada, si sentiva imbottigliato. Il passaggio dei rari veicoli a motore sollevava dei polveroni che rendevano l'aria torbida per interi minuti. In quelle nuvole, il piccolo intravedeva le sagome dei passanti che si fermavano a chiacchierare con coloro che si affacciavano dalle case. Specie dai primi piani.

Funzionava così? Sarebbe diventato anche lui una sentinella appostata alla finestra, col compito di scandire il flusso della via? Niente a che vedere con casa vecchia, dove il suo sguardo veniva assorbito dall'azzurro, dalla salsedine, dalle barche.

— E sali!

L'invito della mamma fu l'ultimatum.


La palazzina, di tre piani, era malandata. Pè venne accolto da un odore di tabacco ben diverso da quello che conosceva; era stantio, mitigato parzialmente da una leggera brezza di sugo e un soffio di aceto passato sulle scale. Il buio avvolgeva il pianerottolo, una cupezza ancestrale di mura rassegnate all'assenza di luce.

Pè inspirò forte, udì la voce di Mino, il fratello, già all'interno della casa. Varcò l'ingresso e si ritrovò in uno stretto corridoio dalle pareti bianco sporco. La loro stanza si trovava sulla destra; era piccola e illuminata da una fragile lampadina, un ragno elettrico che scendeva dal soffitto. Il fratello era seduto a gambe incrociate sulla rete del letto. Si guardarono senza parlare finché Mino fece spallucce e si alzò per raggiungere il resto del parentado che stava sacramentando appresso ai bagagli.


Il trasloco occupò una giornata sana e solo a lavori conclusi Pè si decise a fare capolino dalla stanza. I grandi erano scesi in strada, stavano improvvisando un brindisi sul cofano del camioncino di zio Nuto. Il nonno, già brillo, offriva bicchieri di casereccio ad alcuni coetanei che si aggiravano per impicciarsi degli affari dei nuovi arrivati.

Pè poggiò i gomiti sul davanzale della cucina, sporcandosi di bianco. Sembrava sfarinarsi tutto, là dentro. Erano le sette di sera e per la prima volta in vita sua non avrebbe visto il tramonto, schermato dai palazzi.

Le prime lacrime di Pè vennero battezzate da una pallonata in faccia, accompagnata dal grido — Mazzolaaa! — La sfera, un satellite di stracci e nastro adesivo, si fermò sul pavimento della cucina. In basso, sotto la finestra, Dino e altri tre bambini lo stavano fissando con aria impaziente.

— Pè, vuoi calarti con una fune o pensi di usare le scale?

Tutti risero, ma era goliardia e un invito a unirsi a loro. Il bambino raccolse il "pallone", attraversò il corridoio, scese gli scalini di corsa — protetto dal dio delle ossa del collo — e si ritrovò nel viale.

— Altafiniii! — gridò calciando la sfera verso il fratello e gli altri ragazzini. Il palleggio riprese rapido sotto lo sguardo delle sentinelle dei primi piani. I loro rimbrotti per il caos divennero cori d'incitamento, i panni stesi garrirono come bandiere colorate, i lampioni acquisirono la potenza dei riflettori. Per quel momento, nella mente di Pè il golfo rilucente si dissolse; il primo passo verso l'accettazione di quella nuova situazione.


(fine)



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Tiziana Emanuele


Fuga per la Vittoria


Inverno 1981, BMW bordeaux, io, mio fratello, Massimiliano e Augusto, rispettivamente di età 12, 6, 8 e 35.

Io ero una bambina che si fidava dell'amico di papà, marito della migliore amica di mia madre che mi facevano chiamare ZIO Augusto.

Mio fratello era un bambino, che si fidava dell'amico di papà e giocava con Massimiliano figlio dell'amico di papà e della migliore amica di mia madre. Massimiliano era il figlio della migliore amica di mia madre e dell'amico di papà.

Augusto non era mio zio e tanto meno amico di papà, di certo era il marito della migliore amica di mia madre e padre di Massimiliano (forse).


Inverno 1981, BMW bordeaux, l'adulto decide di portarci al cinema, non un cartone animato ma "Fuga per la vittoria": un bellissimo film dove trionfa la giustizia, dove perdono i cattivi e ovviamente vincono i buoni. Mio padre era in prigione, ignaro di quello che accadeva fuori, così come io ero ignara di quello che stava per accadere dentro.

Finito il film, ci fermammo in un parcheggio davanti l'ospedale Forlanini, l'adulto aveva un appuntamento con qualcuno.

Mio fratello e Massimiliano giocavano nei sedili posteriori, io ero a fianco dell'adulto. In un attimo velocissimo mi sono trovata la sua mano dentro la maglietta, mi stava accarezzando l'accenno di seno che potevo avere a 12 anni.

Mi sono sentita morire. Che succede? Perché?

I giorni successivi sono stati terribili, ma l'inferno per me era appena iniziato: Racconto tutto alla migliore amica della moglie dell'adulto, mia madre.

Non mi crede, sminuisce, anzi dice che ho esagerato e che ho inventato tutto. Dirà che ho inventato tutto, anche quando decido di raccontare a mio padre questo, e quello che mi aveva confidato mio fratello, ovvero l'averla vista con un altro adulto, bassoccio e ignorante, più giovane di lei sul "lettone".

Dirà che ho inventato tutto anche quando, venti anni dopo quell'episodio tenta di riallacciare la storia con il bassoccio sempre più ignorante che nel frattempo si è sposato e ha figli bassocci e ignoranti.

Oggi ho quasi 50 anni, non sono adulta, sono grande; i miei figli non stanno diventando adulti, stanno diventando grandi; il mio compagno ha 60 anni, è grande; il mio cane oggi ha 15 anni, è un cane grande; i miei nonni erano grandi, i miei amici sono grandi, mio padre che mi ha lasciato da pochi giorni è stato un grande padre, un grande nonno, un grande uomo.

Mia madre, la sua migliore amica, il finto zio, non sono diventati mai grandi, sono rimasti talmente piccoli e, senza gambe, non possono più camminare, si trascinano come vermi. Anche la mia Vittoria è stata la fuga.


(fine)



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N.B. Panigale


La torre della lussuria


Si ergeva nel deserto. Marmo bianco, con delle rifiniture rosse, si univa al caldo splendore della sabbia che la cingeva. La desolazione dell'ambiente accoglieva David Keller che, sovrastato dal sole, si apprestava a entrare nella torre. Si ritrovò circondato da uno stile d'arredamento fortemente in antitesi con l'asetticità dell'esterno: carta da parati di colore vermiglio con striature dorate che formavano figure simmetriche, tappeti dei tessuti più pregiati e dalla grande varietà di colori e maschere che, insieme ai quadri, erano disposte disordinatamente sulle pareti. Le cromature di ogni elemento confluivano tra loro suscitando un forte richiamo al rosso passione.

— Posso aiutarla? — chiese da dietro il bancone, che occupava il centro della larga base circolare della torre, un uomo nascosto da una maschera bianca. David si avvicinò con andatura determinata ma insicura.

— Questa è la prima volta che…— iniziò a voce bassa in modo che gli altri presenti nella sala non sentissero e, di conseguenza, non giudicassero.

— Ma certo — interruppe il commesso mascherato capendo l'imbarazzo del cliente. — Non deve far altro che salire le scale qui dietro —, disse indicando la scalinata alle sue spalle che percorreva il perimetro della torre, — e quando avrà raggiunto il piano che più l'aggrada potrà usare i distributori di fiale per convertire un importo di banconote in fiale di ormoni. La tassa di… soggiorno è di €45.

David ringraziò e pagò la tassa di soggiorno. Salì la prima rampa di scale e approdò nel primo piano. Ogni piano mostrava un tema diverso. Sul lato esterno vi erano diverse porte, talvolta distanziate da una lunga vetrata da cui si poteva osservare il tema in alcune delle stanze. Il primo tema proposto doveva essere l'ambientazione asiatica: pavimentazione in legno, manifesti e pergamene con ideogrammi cinesi e fior di loto i cui petali rosei risplendevano nella luce soffusa delle lanterne. David trascinò il suo sguardo indagatore prima sul contesto, poi sulle prostitute orientali semi svestite che ondeggiavano le loro curve, e infine sui clienti entusiasti. Osservò con attenzione, poi passò oltre.

Superò allo stesso modo altri tre piani, rispettivamente a tema africano, nordico e medievale. Tutti scartati con poco interesse. Si soffermò, invece, nel quinto piano e si sporse verso una vetrata: neon fluorescenti sulle pareti placcate d'oro, donne e uomini che sfoggiavano linee luminose lungo i bordi dei pochi vestiti che indossavano. Capì che doveva trattarsi del tema cyberpunk quando notò che certi arti, che si dimenavano al ritmo della musica, erano robotici. Qualcosa lo attirò. Si avvicinò a uno dei distributori posizionati accanto ogni porta e inserì distrattamente la prima banconota che gli capitò sottomano. Schiacciò il pulsante "uomo". Di risposta il distributore sputò una fiala che precipitò su di un piccolo vassoio. David la raccolse e analizzò il contenuto, un composto di testosterone che aumentava il desiderio, migliorava le prestazioni e amplificava l'appagamento. Era possibile comperare altro ormone sessuale o altri ormoni indicati per ogni specifica funzione ma a David non interessava. Mise da parte la fiala e strappò dal distributore la ricevuta con il codice a barre che gli avrebbe permesso di aprire la porta.

Appena entrato venne prontamente accolto da due prostitute che lo seguirono verso un lungo divano. Si distese e cominciò a scrutare circospetto le altre persone. Le due ragazze parvero offese dalla sua distrazione e si proposero di prendergli il cappotto, David rifiutò di toglierselo. Era concentrato su una coppia: lei aveva una vistosa scollatura e le gambe carnose in mostra, con le fredde dita metalliche sfiorava la schiena del suo robusto cliente. Sedevano sugli sgabelli del bar, David decise di agire. Con una vigorosa spallata colpì l'uomo facendogli versare il drink sul pavimento.

— Oh! Scusi…

— Maledizione! Stai attento — esclamò l'uomo asciugandosi la camicia. — Vieni, cara. Andiamo in un posto più tranquillo — disse rivolgendosi alla ragazza. David notò che stava reprimendo una risata. L'uomo le passò un braccio dietro la schiena e la condusse fuori. Ottimo, pensò David, era proprio quello che sperava accadesse. Aspettò qualche secondo per poi dirigersi verso l'uscita ma venne intercettato da una ragazza che saltellava sulle gambe bioniche invitandolo a ballare. David tentò di ritrarsi ma la ragazza lo afferrò dai due lembi del cappotto aperto e, scuotendolo, fece cadere ciò che stava cautamente nascondendo. Una rivoltella dal caricatore a tamburo rimbalzò sul pavimento producendo un tonfo metallico. La ragazza rimase interdetta, insieme a tutti quelli che avevano visto l'arma. David, con uno scatto, la raccolse e si precipitò fuori. — Non si possono portare armi qui dentro! — strillò la ragazza mentre David richiudeva la porta alle sue spalle. La sua copertura era saltata. Presto sarebbero arrivate le guardie, perciò doveva sbrigarsi. Fortunatamente riuscì a vedere lo scorcio dietro una porta mentre veniva chiusa: era la coppia di prima. A passo svelto procedette, il suo stivale urtò con la boccetta di testosterone che, probabilmente, l'uomo aveva trangugiato prima di appartarsi. Esalò un respiro profondo, con un calcio sfondò la porta e irruppe.

L'uomo, noto con il nome di Kill Joe, stava su di lei con la camicia sbottonata. La prostituta aveva i vestiti completamente strappati e si dimenava sofferente sotto di lui, con gli avambracci di metallo tentava di allontanare invano il suo aggressore. Kill Joe aveva una fama per la sua aggressività, non a caso pendeva una taglia sulla sua testa; il testosterone gli aveva conferito una forza bruta e una veemenza tale da non sentire la porta sfondarsi alle sue spalle. Continuava a strozzare la prostituta con una mano e a tenerle fermi i polsi con l'altra mentre David, ai piedi del letto, prendeva la mira sulla nuca del criminale.

Esplose un colpo. Il vigore di Kill Joe si perse insieme alla sua vitalità. Si accasciò sulla ragazza inondandole la carne nuda con il suo sangue. Lei si scalciò di dosso il cadavere e si ridistese ansimante. Tentò di controllare i suoi brevi e isterici respiri per ringraziare il suo salvatore ma egli era già scomparso quando sollevò il capo.

David si allontanò con la piastrina di Kill Joe che avrebbe mostrato come prova dell'uccisione quando avrebbe riscosso la taglia. Non ci si annoiava di certo a essere un cacciatore di taglie, pensò mentre si lasciava alle spalle le stravaganze della Luxury Tower.


(fine)



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L.Grisolia


Il dubbio


Mi svegliai con una fredda brezza che mi penetrava le ossa. Lentamente cominciai ad aprire gli occhi. Mi resi subito conto di non essere nel luogo in cui mi ero addormentato la sera prima, anche perché non ero nel mio comodo letto ma in un fottutissimo bosco. Uno strano odore mi inebriava le narici, notai infatti del fumo provenire da dietro un albero.

Mi avvicinai. C'era un uomo, se cosi lo si può chiamare, alto non più di un metro e sessanta, capelli biondi, sporchi, legati in un codino e pelle chiara ma scurita dalla terra e dal sudiciume. L'odore proveniva dalla lunga pipa che questa sottospecie di gnomo stava allegramente fumando. Si voltò e disse: "eilà buongiorno… allora andiamo?".

Rimasi qualche secondo immobile, a fissarlo con una faccia sconvolta per poi sussurrare: "d… dove?" "a casa mia" rispose sorridendo. In quel momento ripresi improvvisamente coscienza di ciò che mi stava succedendo e rivolsi tutte le mie ansie al piccolo uomo "cosa? Aspetta oh ma dove sono? Come sono arrivato qui? E tu chi diavolo sei?"

Lui sorrise nuovamente e rispose "benvenuto nell'Alto Bosco io mi chiamo Si e ne sono il custode, riguardo a come sei arrivato qui non lo so proprio ma da casa mia ti sarà sicuramente più facile ritrovare la strada".

Valutai per qualche secondo la proposta di Si ed effettivamente quella di seguirlo sembrava l'opzione migliore, così ci incamminammo. Fino ad allora la mia attenzione era stata completamente catturata dalle strane fattezze di Si e non mi ero minimamente accorto della stravaganza degli alberi e della vegetazione che mi circondavano. Ogni pianta o albero presente nel bosco, infatti, era come contorto su sé stesso come se fosse stato preda di un dolore lancinante "Mai visto un bosco del genere… qui le piante sono davvero strane" dissi con la voce che ancora mi tremava.

Si sospirò "si… ogni tanto succedono cose strane da queste parti…" disse abbassando lo sguardo con un fare quasi colpevole. "c… cose strane?" il mio battito cardiaco stava aumentando, Si fece un lungo tiro carico di frustrazione dalla sua pipa "due volte all'anno in questa foresta si manifesta un essere terrificante e il mio compito è quello di proteggere il bosco… Vedi, quest'essere è fatto di puro terrore e le rare volte che è riuscito a entrare nell'Alto Bosco gli ha provocato così tanta sofferenza che persino le piante e gli alberi hanno cercato di mettersi in salvo, è questa la ragione delle loro forme contorte". Il cuore mi cominciò a battere all'impazzata, Si era chiaramente un pazzo, una persona deviata portata alla follia dalla solitudine del bosco. Avrei voluto scappare ma era troppo tardi senza rendermene conto eravamo arrivati alla casa di Sì. Non facemmo in tempo a entrare che Si mi afferrò per un braccio scaraventandomi per terra, poi afferrò una pala… lo vidi solo caricare il colpo poi svenni privo di sensi.

Mi svegliai legato su una tavola, ero stordito e non riuscivo a mettere a fuoco, riuscivo a intravedere Si che armeggiava con delle boccette di vetro. Appena si accorse del mio risveglio si avvicinò "eilà" borbottò con tono serio, tentai di gridare qualcosa ma mi accorsi di essere imbavagliato, "vedi, a me dispiace, ma si dà il caso che l'essere di cui ti parlavo sia tu… o meglio ora si trova dentro di te…è quindi mio dovere ucciderti… mi spiace…"

Il terrore mi pervase, "lo sapevo cazzo! È matto, matto da legare" pensai in preda alla paura più atroce. Si indossò dei guanti e prese una boccetta contenente un liquido di colore verde, ne versò una goccia sul mio braccio destro, pochi secondi e fui avvolto da un dolore insostenibile, come se qualcosa stesse torturando separatamente ogni millimetro del mio corpo. I sensi cominciarono ad affievolirsi, fu in quel momento che me ne resi conto… stavo morendo… e tra tutto ciò a cui avrei potuto pensare durante i miei ultimi secondi di vita mi sorse un unico, ultimo dubbio… come stavo morendo? Come l'ennesima vittima di un assassino psicopatico? O come l'ennesimo ottimo lavoro di Sì, il custode dell'Alto Bosco?


(fine)



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Aurora Gallo


Ritorno


Sono tornato dalla guerra, eppure è come se non l'avessi mai lasciata. Come se fossi semplicemente passato da un conflitto all'altro. Spesso si dice che i civili non possono immaginare, perché non li hanno vissuti direttamente, gli orrori del fronte; ma io penso che ancora meno possano immaginare le difficoltà che deve vivere chi torna da quel fronte.

A volte ho l'impressione che gli altri diano per scontato l'esistenza di un qualche interruttore dentro di noi. Un interruttore che si può accendere e spegnere come se niente fosse, senza influenzare i nostri stati d'animo successivi. Vai in guerra e tac! Accendi quell'interruttore e diventi una specie di John Rambo. Torni dalla guerra e tac! L'interruttore si spegne e tutto dovrebbe tornare come prima. Non è così.


La guerra ti cambia. In meglio e in peggio.


Innanzitutto, molto banalmente, ti fa maturare una nuova considerazione della vita. E scusate se è poco! Hai visto morire davanti a te decine e centinaia di uomini. Amici. Nemici. Compagni d'armi. Guerriglieri. Donne. Bambini. Vecchi. Brave persone. Pezzi di merda. Immacolati innocenti. Poco importa: li hai visti morire. Hai visto cosa significa esalare l'ultimo respiro dilaniati da un'esplosione o crivellati di colpi o in altri modi così poco piacevoli da farti capire che stai solo partecipando a un macello. E che in quel macello la prossima carcassa da macellare potrebbe essere la tua.

Hai potuto toccare con mano l'aspetto più orrendo e inquietante della morte: la sua democraticità. Perché alla morte frega poco se sei un adulto con una famiglia, un vecchio alla fine dei suoi giorni, una donna incinta, un bambino che ha ancora tutta la vita davanti, una vita fatta di speranze, di sogni e di desideri. Gliene frega poco se da grande vuoi fare il dottore o se vuoi andartene in pace nel tuo letto, circondato dall'affetto dei familiari e degli amici. La morte non guarda in faccia nessuno. Se vuole colpirti lo fa e di modi ne ha a bizzeffe: mine, proiettili, missili, bombe, fottuti kamikaze. È subdola e pericolosa, può piombarti addosso in qualsiasi momento. E non so se sia peggio quando ti porta via all'improvviso, senza lasciarti rivolgere un ultimo pensiero alle persone che ami, o se invece se la prende comoda, condannandoti a soffrire un'ultima volta prima di lasciare questa valle di lacrime.

Nel peggiore dei casi, poi, sei tu soldato quello che toglie la vita. Sei tu il dito, la mano, il braccio, il corpo, la mente, il cuore, l'anima dietro quel proiettile. E pensare che stai combattendo il Male non serve a nulla, anzi! Il Male è il fondamentalismo, è l'ideologia; ma chi porta avanti quell'ideologia, chi combatte per quell'ideologia, chi ne fa il proprio credo, la propria fede, il proprio mondo (spesso senza neppure esserne convinto fino in fondo, o solo perché costretto) non è altro che un uomo. Un uomo come te, che ama, odia, soffre, gode. Che ha un padre, una madre, dei fratelli, delle sorelle, magari anche una moglie, dei figli, delle figlie, dei nipoti. Un uomo che, direbbe un famoso poeta, ha occhi, mani, membra e passioni come noi, che si nutre dello stesso nostro cibo ed è ferito dalle nostre stesse armi, soggetto alle nostre stesse malattie e guarito dagli stessi rimedi, riscaldato dallo stesso sole e raffreddato dallo stesso inverno che riscalda e raffredda noi. E tu premi quel grilletto, ti pianti di fronte a lui e distruggi quella vita. Puoi ripeterti fino allo sfinimento, fino alla nausea che hai tutto il diritto di farlo, che in guerra funziona così, che combatti per la libertà contro l'oscurantismo dei fanatici, che si tratta di uccidere o di essere ucciso… puoi dirti tutto quello che vuoi, e magari hai ragione, ma di fatto stai stroncando una vita.

C'è un paradosso nell'omicidio (perché di questo si tratta, omicidio bell'e buono). Se togli la vita a un tuo simile, e non sei uno psicopatico o un serial killer, finisci per renderti conto di quanto la vita stessa sia preziosa, irripetibile, importante e irrinunciabile: la tua, quella dei tuoi cari, quella dei tuoi amici, persino quella della gente che odi.

Nel mio plotone c'era un ufficiale che era diventato addirittura vegano perché, dopo tutti quegli anni trascorsi in Jugoslavia, testimone degli orrori delle pulizie etniche, non riusciva a non provare un disgusto per l'idea stessa di mangiare un animale morto, ucciso semplicemente per il suo sostentamento. Non credo che seguirò mai il suo drastico esempio, ma se prima scalciavo lontano da me i cani e i gatti randagi che mi si avvicinavano per strada, da quando sono tornato a casa non sono capace di essere così duro e di tanto in tanto lascio sotto il portico una ciotola d'acqua e del cibo per gli animali di passaggio.


Non so come definirmi. Un eroe non di certo. Sopravvissuto mi sembra già un termine più adatto, se non fosse che alle volte mi sembra troppo pomposo. Un semplice uomo, allora?

Mio figlio Paolo non ha dubbi: ai suoi occhi sono un assassino, un bersaglio di odio e di livore. Non mi odia davvero, un padre queste sfumature le coglie, ma odia ciò che rappresento. E in fondo non riesco a dargli torto.

Non è venuto nemmeno all'aeroporto militare, il giorno in cui sono rientrato dall'Iraq. C'erano tutti, quella mattina. Mia moglie Greta, sempre sorridente, sempre luminosa, con un paio di piccole rughe in più ma la bellezza intatta. La mia piccola Anna, che aveva solo due anni quando partii per il Medio Oriente e adesso fa già le elementari. Mia sorella Lia e mio cognato Giosuè, la coppia più affiatata e innamorata che abbia mai conosciuto. Mio nipote Michele, che alla vista di suo zio in uniforme non ha potuto fare a meno di mimare un infantile e tenero saluto militare. C'erano Giuseppe e Carmine, compagni di scuola, di vita e di bevute. Ma non c'era Paolo.

L'ho potuto vedere soltanto quella sera, dopo molte ore, quando è rincasato. Ci siamo scambiati uno sguardo, un saluto freddo, nulla di più. Ormai è un uomo, l'anno prossimo andrà all'università e mi sono perso fin troppi anni della sua adolescenza, eppure una parte di me avrebbe voluto sopra ogni altra cosa vederlo tornare bambino, sgambettare nella mia direzione urlando — Papà! Papà! — e guardandomi come se fossi il suo eroe, prima di stritolarmi nel suo abbraccio.

La mattina dopo, a colazione, ha tirato fuori l'argomento tanto temuto.

— Come ci si sente ad aver fatto parte, nel tuo piccolo, del neo-imperialismo occidentale?

Mia moglie l'ha fulminato con uno sguardo, ma lui ha continuato, imperterrito: — Parlano di esportare la democrazia, ma sappiamo benissimo come stanno le cose. Lo sappiamo e stiamo zitti. Gli americani vanno in Iraq e in Afghanistan per i loro interessi e noi italiani siamo pronti ad assecondarli. Siamo i cagnolini degli americani…

— Paolo!

— È la verità, mà! Che diritto abbiamo di andare dagli altri a dir loro come comportarsi, come trattare le donne, come governarsi? È la solita spocchia occidentale, il nuovo fardello dell'uomo bianco…

— Non parleresti così se ci vivessi tu in quei paesi e fossi io a portare il burqa!

— Non sto dicendo che sia giusto trattare le donne in quel modo, mà! Però andando lì a imporre le nostre usanze non risolviamo niente…

— Quindi stai dicendo che tuo padre combatte per una causa sbagliata?

— Perché, esistono cause giuste? In guerra si uccide, qualunque sia la motivazione! I soldati sono tutti degli assassini…

Potrei intervenire, ma non lo faccio. Sospiro. Consumo in silenzio ciò che rimane della mia colazione e poi esco, per una passeggiata.


Dopo tutti questi anni, nulla sembra cambiato nella mia città. Ci sono nuovi negozi e bar, quelli vecchi non ci sono più, ma quella è solo l'epidermide di un mondo che ha continuato a vivere tutti questi anni nel mio ricordo e che ora ritrovo.

Un uomo mi ferma per strada. Porta a spasso il cane, un bel pastore tedesco. Non lo riconosco sulle prime. Lui lo nota dal modo indeciso con cui lo saluto.

— Non ti ricordi? — esclama — Sono Gino…

— Gino! — esclamo.

Solo a quel punto riconosco uno degli avventori del bar solito che frequentavo prima di partire.

— Sono tornato dall'Iraq — continuo.

— Lo so, Carmine non parlava d'altro nei giorni scorsi! Come ti senti?

Me lo domanda come se fosse un domanda come tante altre. Ma non posso biasimarlo, come può immaginare ciò che ho visto e ciò che provo?

Come mi sento?

Non esiste domanda più difficile a cui dare risposta. Ci penso su qualche secondo, poi abbozzo un sorriso.

— Bene. Ora sono a casa.


(fine)



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Draper


Addio in La minore


— Sa, commissario, dicono che nemmeno l'inferno abbia la furia di una donna tradita. Credo sia stata questa la ragione della disgrazia, se quel che ho saputo è vero. Io dal canto mio le assicuro che è successo tutto molto in fretta, appena dopo mangiato. Il Castellini, Fabio cioè, finito di pranzare aveva quest'abitudine di mettersi al pianoforte. Adorava improvvisare, a volte componeva persino a braccio, mentre suonava, tranne quando si rinchiudeva nello studiolo a creare e poi usciva per chiedere alla moglie, a Lia, di dare lei un titolo ai pezzi nuovi. Una cosa che facevano spesso.

— Maresca, li conosceva da tanto i Castellini?

— L'ho incontrati che poteva essere il Ventiquattro, quindi sì, da più di vent'anni.

— Comunque, diceva, domenica pomeriggio era lì a pranzo con loro e.

— E a un certo punto ho visto Fabio che usciva dallo stanzino. In mano fogli non ne aveva, teneva solo una faccia da morto. Bianco che era un cencio.

— E poi?

— È successo che la signora gli ha detto 'guarda che so tutto', mentre lui suonava Grieg.

— Sapeva che cosa?

— La tradiva. Lia aveva scoperto una lettera dove c'erano scritte vita, morte e miracoli di questa tresca del marito, diceva. L'alterco è iniziato in quel preciso momento, ma lei non ha gridato, commissario, non sembrava nemmeno arrabbiata. Se n'è rimasta seduta sul divano, a braccia conserte come una monaca, senza versare una lacrima. Sa, quando ci rifletto, penso che se non ci fossi stato io, Fabio poteva già morire seduto a quel piano.

— Il Castellini ha reagito?

— Non era tipo da reagire, e sinceramente m'è parso che si vergognava. Non l'avevo mai visto combinato così, nemmeno al funerale del fratello. Il litigio comunque è degenerato qualche minuto più tardi, una cosa riguardo al profumo da uomo che c'era sulla busta del messaggio, e lui s'è messo a piangere. Secondo me Lia aveva capito pure troppo.

— Profumo?

— Il profumo di un altro, da maschio. Fabio di profumi non ne usava, perciò.

— Ah. Ho capito.

— Ecco.

— Maresca, lei però nel rapporto dichiara che la signora ha pronunziato minacce di morte nei confronti del coniuge, quindi mi conferma che c'era premeditazione o no?

— Questo non glielo so dire, ma di sicuro c'è stata due anni fa.

— Non capisco, ispettore. Si spieghi.

— Commissario, le dice niente il nome Luigi Recanati?

— Come no. È schedato al casellario. Luigi Recanati detto "Spartachino", durante la guerra comandava la Brigata Boldrini, mi ricordo. Stavano accampati fuori Zocca.

— Ecco. Prima che gli americani entrassero a Modena, i Castellini erano in quella banda di comunisti. Lia è sempre stata una rossa, Fabio invece no, lui era badogliano.

— Ma che c'entra questo con l'omicidio?

— Che lei s'è pentita di non averlo ucciso prima. Dovevo obbedire e basta, gli ha detto, portarti dove m'hanno ordinato, fare quello che andava fatto. Aveva ragione Luigi, te sei solo un serpente. Bisognava ammazzarti che potevamo, e invece t'ho risparmiato.

— Così quadrano tante cose. Mi pare evidente sia stato un delitto passionale, forse addirittura politico? E allora che vogliamo fare, Marè, vuole seguirlo lei questo caso?

— Signore, con il dovuto rispetto, credo che rifiuterò. La verità è che a parte la testimonianza io oggi sono venuto qui a rassegnare le dimissioni. Ormai ho capito che lo stomaco per questa città l'ho perso, commissà. Bologna non è più roba mia.


(fine)



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Fausto Scatoli


La strada


La nebbia, leggera ma ininterrotta, copriva la strada e la campagna intorno. Era lievemente sollevata da terra e il nostro alito, che si condensava a ogni respiro, ne pareva un'estensione. Sembravamo due fuggiaschi, sebbene non ci fosse niente da cui scappare. Camminavamo da una mezz'ora, forse, e ancora non avevamo capito cosa stesse succedendo.

All'inizio, Franz e io ci eravamo guardati ridendo, poi perplessi, poi spaventati. Ma ormai non ci guardavamo più. Tenevamo gli occhi fissi sulla strada, senza parlare, sperando in una deviazione, un punto d'arrivo, l'incontro con un'anima qualsiasi.

Niente. Non c'era niente. Non una persona, niente case, niente luci, né vicine né lontane. Solo campagna, ovunque. Terra smossa alternata a coltivazioni, con qualche albero isolato che esaltava la monotonia del paesaggio anziché spezzarla.

E la nebbia.

La strada non aveva svincoli, solo qualche ansa leggera che assecondava la natura del terreno. Sembrava non finisse mai. A un certo punto ho pensato che neanche avesse un inizio, che servisse solo a spaccare in due nebbia e campi. C'era qualcosa di stonato, fuori luogo, che mi disturbava, ma non riuscivo a capire cosa.

Tirava una fredda brezza autunnale, c'era aria di pioggia.

Oltre a ciò, i nostri orologi si erano fermati.

Tutti e due.

Segnavano entrambi un'ora di metà mattina, per quello che può valere ciò che ti dice un orologio fermo. Il cielo non aiutava a capire; in quella zuppa di nebbia e nubi era impossibile distinguere dove finisse l'una e cominciassero le altre.

Eppure quel giorno eravamo partiti da casa nostra, in paese, con un sole smagliante. E la voglia di una giornata in motocicletta. Liberi e soli, ognuno con la propria fedele compagna a due ruote, amavamo quel modo di perdere tempo, di non avere meta, obbedendo solo all'impulso di fermarci quando volevamo, di andare se volevamo andare.

Meno di un'ora dopo, in aperta campagna, l'improvviso banco di nebbia ci aveva costretto a rallentare. Cinque minuti ad andatura da bicicletta, poi le moto si erano spente.

Insieme.

Non c'era stato verso di farle ripartire.

Ci grattavamo la testa e ci chiedevamo quante possibilità ci fossero che succedesse una cosa del genere. Alla fine ci eravamo rassegnati a lasciarle lì, sul bordo della strada, e a cercare un meccanico. O un telefono, visto che i cellulari non avevano campo. È stato quando abbiamo controllato gli orologi per vedere se avremmo trovato officine aperte che ci siamo accorti che erano fermi anche quelli.

Ci fu un attimo di smarrimento. Andammo avanti in silenzio. Conoscevamo la zona. Sapevamo che doveva esserci un borgo industriale (capannoni, poche case e i servizi essenziali) ma a questo punto avremmo dovuto incontrarlo.

— L'abbiamo passato — aveva detto Franz.

— No, è più avanti, subito dopo una curva — avevo risposto.

— Quale curva?

Già, quale curva? La strada che ricordavamo ne era un susseguirsi continuo, questa tirava dritto al nulla. Ecco cosa stonava. È stato allora che è arrivato il panico. Un panico tranquillo, comunque. Un byker non si mette a frignare come un ragazzino. Però torna indietro alla svelta, dalla sua moto che non tradisce.

Neanche l'ombra, delle moto.

Questo sì che ci aveva steso.


Seduti sul ciglio della strada, immobili come tutto il resto intorno a noi, come gli orologi, come i cellulari. Ecco come ci eravamo trovati. C'era solo il freddo, la nebbia e quel silenzio che premeva sui timpani.

Non saprò mai dire quanto tempo trascorremmo così. Ogni tanto uno di noi si alzava, solo per rendersi conto che nessun passo aveva senso, in nessuna direzione.

Poi, finalmente, qualcosa cambiò. Una luce. Davanti a noi apparve prima un bagliore fioco, stemperato dalla nebbia. Poi una macchia più grande che divorava la foschia, fino a diventare luce profonda.

Sì, profonda.

A ripensarci adesso, di sicuro Franz e io non dovevamo avere un'espressione intelligente. A bocca aperta non riuscivamo a parlare, e quanto a muoverci… beh, s'era capito che era inutile. Scappare? E dove?

La luce avanzava e cancellava tutto: strada, alberi, campagna. Forse era lei che si era mangiata le moto, e adesso avrebbe inghiottito anche noi. "Va bene, basta che ritrovo la mia due ruote" ricordo che pensai prima di venire invaso dal chiarore.

Già. Invaso.

Che strana sensazione, come essere violato nell'intimo e, al contempo, violare qualcosa di superiore. Prima di perdere conoscenza.


Mi svegliai per il fastidio agli occhi. Franz era accanto a me. Anche lui si premeva le dita sulle palpebre.

Il sole. C'era di nuovo il sole.

E la nostra strada di campagna piena di curve con le moto a un centinaio di metri da noi. Controllammo le tute, ci toccammo la faccia, ci esaminammo a vicenda. Sembrava tutto a posto.

Le nostre amiche partirono al primo colpo, gli orologi segnavano mezzogiorno e le lancette dei secondi si muovevano come di norma. I cellulari erano sempre senza campo.

Percorremmo un tratto di strada respirando un'aria normale, registrando con sollievo il consueto squallore dei depositi industriali del borgo che avevamo cercato inutilmente. Respirando e basta. Ci fermammo in un'osteria, più per parlare che per mangiare, ma mangiammo di gusto e parlammo poco.

— Che cazzo è successo, Franz?

— Abbiamo visto la luce — rise.

La cosa buffa era che non riuscivamo a dire più di tanto. Non come avremmo dovuto o come avremmo voluto. Provavamo entrambi uno strano ritegno, e la sensazione di vivere più lenti, a venti centimetri da terra come quella nebbia del cavolo.

— Non andare a dirlo in giro.

— Non ci penso nemmeno.

A dire cosa, poi? Che avevamo trovato nebbia? E allora? Che ci eravamo persi? A mezzora da casa? Non siamo tipi che si mettono a spiegare l'inspiegabile, a fare la figura dei toccati.


Eppure, sulla via del ritorno ci prese una strana malinconia. Avremmo trovato ancora quella strada, quella nebbia, quella luce? No. Nessuno di noi due lo credeva. Qualcosa, fra il naso e la gola, somigliava alla nostalgia, a un'occasione persa.

Ci rendemmo conto, col tempo, che il mistero ci aveva cambiati. In maniera indefinibile, ma lo aveva fatto. Qualcosa era entrato in noi e qualcosa di noi era stato preso, risucchiato. Questo, sentivamo. Perché eravamo due che avevano camminato in quella nebbia, che avevano visto quella luce.

Gli altri non lo sapevano, ma noi sì.

Noi e le nostre moto.


(fine)



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Laura Traverso


Il Perdono


La guarda, la sfiora, è fredda e immobile. Una cupa disperazione le attanaglia il cuore, non sa darsi pace, lei non c'è più. Non poteva certo immaginare che se ne andasse prima, lei che era la più giovane. Ma la vita fa simili sgambetti, quando meno te lo aspetti colpisce duramente. Osserva quel volto pallido, esangue, solcato dalla sofferenza, e viene sommersa dai ricordi, anche tanto dolorosi.


— Amelia, smettila di lamentarti, tu sei la più grande quindi la colpa è solo tua se tua sorella piange e fa i capricci. Tu la devi comprendere e basta. Devi essere giudiziosa e non ti devi lamentare. Hai capito? Come te lo devo dire? Devo alzare le mani? Forse così ti sarebbe più chiaro!.

— Ma mamma, io non le ho fatto niente, è lei che mi picchia e che mi tira i capelli. Ho cercato di dirle che non deve fare così ma, non mi ha ascoltato; si è messa a strillare come se la torturassero.

— Insomma, basta! Non voglio più sentirti. Non mi seccare più. E ricorda sempre che tu sei la più grande, e la colpa è tua se le succede qualcosa.

Amelia aveva sofferto tanto da bambina, si era sentita messa da parte dopo la nascita di Clara, che era coccolata da tutti. Lei, invece, aveva dovuto crescere di colpo, come se, improvvisamente, a sette anni ci si potesse considerare grandi.

E lei, Clara, forse inconsapevole del male che procurava alla sorella, ne approfittava con tirannie di ogni genere. Intanto la responsabilità di qualunque cosa ricadeva sempre, e pesantemente, su Amelia.

— Vieni un po' in casa — disse la mamma affacciata alla finestra che dava sul cortile.

— Perché mamma, cosa ho fatto? Stavo giocando con i miei amichetti.

— Ti faccio vedere io cosa hai fatto. Avanti, rientra e subito.

Amelia rientrò. La madre la assalì violentemente prendendola a schiaffi e a spintoni. Secondo lei aveva trascurato la sorella che stava piangendo.

A un certo punto, a partire dall'infanzia, la sua esistenza fu caratterizzata da simili episodi. A forza di subire ingiustizie, Amelia provava risentimento nei confronti, soprattutto, dei genitori.

Provava una sorta di odio per loro, e ciò le procurava dei forti sensi di colpa. Sapeva che era male, che non si dovevano provare sentimenti avversi per la propria madre e il proprio padre.

Così, in quella lotta con se stessa, nel tentativo di mettere a tacere il rancore, ne usciva esausta: stava male, si sentiva una cattiva figlia. Non fu facile per lei affrontare la vita con quel fardello da portarsi appresso.

Passarono gli anni, i genitori morirono. Lei e Clara divennero adulte e impararono anche a volersi bene. Amelia, però, non riuscì mai a togliersi dal cuore la sofferenza per le ingiustizie subite. Non riusciva a perdonare sua madre e suo padre.


Copiose lacrime le scendono sul volto. Osserva straziata sua sorella adagiata su quel letto di morte. Non ha potuto amarla incondizionatamente, le è stato negato. Era anche lei una bambina…

Vuole comunque chiederle perdono. Si avvicina al suo viso e sottovoce le parla: "Scusami, ti prego, per tutte le volte che il mio cuore non è stato puro nei tuoi confronti. Loro no, loro mi hanno fatto troppo male e non riesco a perdonarli. Chissà? Forse sono cattiva".

A quel punto, sopraffatta da una forte emozione, deve allontanarsi. Sta male, sente venir meno le forze, è sul punto di svenire. Due forti braccia la sostengono, è Alberto, suo marito, che come sempre è pronto ad aiutarla.

Lo guarda con amore e pensa che la vita toglie ma anche dona: si sente accolta e amata. E in quel momento, inaspettatamente e finalmente, avverte con sollievo che quel macigno che porta dentro di sé si sta sgretolando.

Ricorda sua madre e suo padre, e sente intimamente che è arrivato il momento di perdonare. "Forse", pensa. "non si saranno resi conto. Forse, non avranno potuto fare altrimenti. Forse, l'amore per Clara li avrà resi ciechi. Siamo esseri umani molto fallaci. Si sbaglia, e loro sì, hanno sbagliato, ma adesso basta…".

Un sentimento di pace trova spazio nella sua mente. Sente l'onda del perdono alzarsi impetuosa dentro la sua anima. Considera che riuscire a perdonare è un dono. L'odio avvelena soprattutto chi lo porta nel cuore.


(fine)



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