Attraverso i vuoti della memoria

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Namio Intile
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Attraverso i vuoti della memoria

Messaggio da leggere da Namio Intile »

leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.

Quella sera Carlo mi sussurrò a un orecchio che la vita è un cammino di coincidenze, ma senza dilungarsi oltre iniziò a divagare, sopra questo e sopra quello, come era solito fare.
Tra gli amici era il più amico, professore di matematiche nel nostro sgangherato liceo di paese, i cinquanta superati da un pezzo, capelli grigi e occhiaie perenni, da sempre appassionato di scrittura, che praticava come fosse un disturbo della personalità da assecondare. A pensarci bene forse qualcosa di più di un amico, una sorta di alter ego capace di assecondare le mie depressioni, gli umori fumantini; lui uomo razionale e prosaico, ciarliero e compagnone, io sentimentale e mutanghero, ligio al vizio del sognare e trasognare, tuttavia uniti: dalla comune bibliofilia, e dal vizio carbonaro della lettura, impegnati nella ricerca certosina delle velate ironie e dei nonsensi.
Quando mi capitava d’incrociare la linea dei suoi occhi, retta come una mensola, lo sguardo mi s’allungava, dal basso verso l’alto, a sostenere quelle imponderabili vastità o, come in quel momento, mentre s’accostava a una delle ante, a indugiare sulle luci del tramonto novembrino, lente a sfumare lungo i crinali a occidente dal vermiglio al viola al vermiglione, pronte ad avvolgere Montefosco in un tegumento purpureo, io non riuscivo a inseguirne lo sguardo, incline a inseguire le mie notturne rimuginazioni. E mi scappò di dire millecentosessantasei, e lui mi rispose un che distratto. Precisai che erano i metri cubi del Salone delle Feste in cui ci trovavamo.
Per gli Aranyo-Ruiz un tempo quella era stata una sorta di casa estiva, per fuggire al caldo di Catania d’estate. Nel portale d’ingresso, nella cuspide ornamentale, proprio sotto lo stemma coronato, campeggiava la data di fondazione: A.D. 1615. Che non voleva dire nulla. In fondo una data non è se non una convenzione, perché l’intera struttura poggiava sul reticolo d’una costruzione anteriore, del X secolo era probabile, della quale rimanevano sparse e non indifferenti tracce alla base dei muri portanti e in alcune architravi negli scantinati dove, venute meno chissà quante mani di successivo intonaco, s’era rivelata una epifania di caratteri cufici riconosciuti, da un esperto linguista maltese, come versetti del Corano. E chissà cosa si trovava, ancora sotto, nessuno avrebbe potuto dirlo, a meno di sventrare il palazzo.
E mi venne in mente quel passo di Howard Zinn, sulla rivolta collettiva come attività impraticabile nelle società ben strutturate. Motivo per cui ognuno reagisce individualmente al disagio, alle ingiustizie, alla sopraffazione, all’emarginazione, con soluzioni personali, con atti di rivolta individuali; mi sorrise, e poi dischiuse le imposte, ancorò le mani alla ringhiera, da un sottile velo di ruggine ocra colorata, e s'allungò sul balcone respirando a fondo: una volta, due, tre volte.
«Tu qui vivi come un signore feudale» mi rimproverò.
Ma io non ho mai sfruttato nessuno, non mi sono mai avvantaggiato del lavoro o delle ristrettezze di nessuno.
Lo vidi allungare lo sguardo in basso e fermare l’attenzione su un gruppo di persone che camminavano senza fretta.
Mi disse che ero lontano da ogni preoccupazione, che ero in pensione da una vita, che non avevo figli, con una moglie pronta a evitarmi ogni problema. «Sei libero di riflettere sepolto dai tuoi libri, ti puoi permettere di scrutare gli altri a distanza, come fossi uno spettatore del palcoscenico della vita, e loro il soggetto e l’oggetto di un tuo personalissimo esperimento teatrale.»
Alla fine mi chiedeva quanti ne avessi.
Era la domanda di rito, arrivati a un certo punto, sempre preceduta da indulgenti introduzioni, rivoltami per indurmi a quantificare una cifra e al tempo stesso ad allontanare quell’ombra: che non fosse proprio lui a custodirne il maggior numero.
Si concentrò allora su quel gruppo di adolescenti, ragazzi e ragazze, che avanzavano dalla Chiesa Madre lungo il corso. Mi fece notare i pantaloni neri, lacerati in più punti, le felpe logore sui gomiti, i lineamenti stravolti dai piercing su labbra nasi occhi gote, i tatuaggi che si indovinavano ovunque. E si domandò perché lo facessero.
«Quale molla li spinge non solo a non voler apparire belli, ma a far di tutto per sembrare brutti, logori, sporchi, laidi persino.»
La sua non era una domanda banale. La bruttezza ha dei confini? Esiste un limite al di là del quale sarebbe impossibile a chiunque sopportare oltre quel terribile assalto?
«Non hai risposto» mi risvegliò dalla trance.
«Se lo sapessi non potrei reputarmi un vero bibliofilo» mi limitai a rispondere.
Sapevo che era quella la vera domanda.
Lui aveva l’abitudine di riporre i propri volumi negli scaffali secondo un ordine prestabilito: dopo averli registrati, per autore editore data di stampa e di acquisto, annotava il complesso dei dati in un registro, dalla copertina di uno spesso cartoncino, dove erano precisate le coordinate, in modo non dissimile dai pezzi in una scacchiera, seguendo le quali era possibile rinvenire ogni volume. Ad esempio, accanto all’originale prima edizione di Sein und Zeit aveva inserito il codice g6d. Sarebbe stato possibile rintracciare il volume nel settimo riquadro del sesto livello in quarta posizione da sinistra. Trattava quei dati come se dovesse comporre un diagramma cartesiano, con numeri e quantità, descrizioni di cose, con tanto di date e indirizzi e prezzi; perché credeva, in questo modo, di discostarsi da un volgare accumulatore seriale di oggetti, quale invece sotto sotto pensava di essere. Non si era mai reso conto, con quella minuta attività, di procurare proprio l’effetto contrario: non di rendere unici e vivi quegli oggetti, ma di reificare quanto avrebbe voluto salvare dalla mercificazione. Così osservava la mia libreria con una smorfia di disapprovazione, o di disgusto, perché considerava quegli scaffali privi di ordine, di conseguenza privi di senso.
Ma il loro senso è quello della memoria.
Per me i libri sono memoria, e vivono nella mia memoria, così che non ha senso incasellarli, catalogarli, registrarli, ridurli a numeri, a quantità, a cose.
In fondo perché considero la memoria ciò che siamo, la nostra vera essenza.
«La mia famiglia li preserva e accresce da generazioni: a volte mi pare di esser venuto al mondo solo per continuare l’opera di chi mi ha preceduto.»
Tornato dentro si avvicinò all’humidor nel quale erano custoditi una dozzina di puros Cohiba Siglo VI.
Avrei voluto dirgli che la coltivazione del tabacco è stata la base delle economie del Nuovo Mondo, l’origine dello sfruttamento servile delle popolazioni prima native, poi bianche e di colore. Fumare un sigaro equivaleva, nel XVII secolo, a ridurre in schiavitù una persona.
Ma non dissi nulla, tagliate le estremità gliene offrii uno.
«Eh, proprio quello stavo aspettando» ammise contento, e posò il calice per dar fuoco, col lungo zolfanello, alla punta cilindrica, da cui si sprigionarono varie essenze di frutta esotica, vaniglia e cacao accompagnate da robuste sferzate di pepe. «Che meraviglia» mugolò soddisfatto.
La storia è la memoria degli stati, scrisse Henry Kissinger nel suo primo libro: Diplomazia della Restaurazione. La storia dell’Europa dal punto di vista delle élite. Cosa valgono milioni di morti di fronte alle scelte di pochi eletti?
«Per continuare l’opera, allora, ti manca un erede. Seppure neanche immagini quali rogne causino quegli adorabili pargoletti non appena sia cresciuto loro qualche pelo in viso.»
«Oh, ma l’erede non per forza deve possedere il medesimo sangue… lo spirito piuttosto» e subito me ne pentii, quasi avessi concesso una speranza a lui e alla sua vasta e irrequieta prole fin dall’inizio corrosa dalla malsana abitudine del chiamarmi zio. «Ma per l’assenza di figli» provai a glissare, «lo sai… non sono venuti e a nessuno dei due è venuto in mente di indagarne le cause.»
«Meglio! Siete liberi» omologò la sentenza.
«Solo in apparenza… La loro mancanza invece di aumentarla, questa libertà, l’ha ridotta: la relazione tra me ed Elena si è ossificata e ristretta all’essenziale.»
E la libertà, avevo la sensazione, ci aveva anche resi incapaci d’invecchiare, aveva inchiodato il tempo costringendoci a un interminabile presente in cui non esisteva più l’io o il tu, ma un indefinito noi in un tempo senza ieri e senza domani.
Ma anche questo non lo dissi e invece aggiunsi. «Se ci penso il nostro rapporto mi pare l’esatto contrario dell’amore, quello giovanile e passionale almeno; quell’amore capace invece d’accorciarlo il tempo e dilatarlo, e d’introdurre egoistici ingombri, con una voce a strepitare: tu, tu, tu, e un’altra a ribattere: io, io. io.»
«Però ho sempre avuto la netta sensazione che voi due foste felici.»
«La felicità non esiste, o se esiste è solo un momento, e noi invece viviamo tutta una vita. La felicità di oggi è l’illusione di domani. Perché ieri non tornerà mai più e il domani non esiste, seppure ne abbiamo già una indefinita nostalgia.»
«La nostalgia serve solo a farsi del male.»
«La nostalgia serve la consapevolezza.»
E la mia attenzione volò ancora altrove, su quella scrivania di mogano in quell’angolo in fondo a destra, perché mia madre aveva preferito non affidarsi a medici e ospedali, ma a una semplice levatrice: la quale certo non aveva ammazzato il primogenito come invece era accaduto nell’abbazia dei frati benedettini in cui è sistemato il nostro minuscolo ed efficientissimo nosocomio; dove, peraltro, menti geometriche allevate nella certezza dei numeri, educate all’avidità dei risultati, hanno ben creduto di cingere il chiostro antico, già solcato da un perimetro di colonne punteggiate da tessere dorate e vetri multicolore a reggere capitelli sferocubici, con splendidi infissi d’alluminio dorato.
Perché la si deve nascondere la bellezza, o confonderla con l’esatto opposto. Affinché la bruttezza trionfi, e con essa il male. A che serve poi lamentarsi della bruttezza di quei poveri e ignari ragazzi?
«Alle volte la tua malinconia mi sorprende» mi confessò, mentre una voluta di fumo si allontanava dalla bocca spalancata. «Il Bukkuram Sole d’Agosto si unisce splendidamente al Cohiba, avevi proprio ragione» fu la sua unica concessione alla mia memoria. «Tutta roba morta e sepolta, caro mio. La tua memoria non serve se non ad alimentare la tua nostalgia, e la nostalgia è la sorgente della tua malinconia. Per sbarazzarti di ogni sentimento negativo devi dimenticare ogni cosa.»
Pensava di aver ragione, con quella sua strafottente leggerezza, quella dorata volontà di oblio dietro cui si nascondeva il desiderio di uccidere gli altri nel modo più semplice e rapido: dimenticandoli. E gli rammentai invano che si muore ogni giorno nella morte di chi ci ricorda, perché la memoria non è solo singolare, ma anche plurale.
«La vita è un cammino di coincidenze, bisogna cogliere l’attimo» mi rispose la sua mente geometrica da professore di matematiche certezze.
«Se la vita è un cammino di coincidenze» lo incalzai «la storia allora è un percorso stratigrafico, e chi percepisce l’avvicendarsi dei vari livelli riesce a comprendere il Mondo. E il tuo attimo non servirà comprendere le coincidenze.»
«Mentre io nel mondo dei tuoi pensieri mi ci perdo sempre. Altro che comprensione... La tua progressione è caotica, ti sfugge l’elegante disegno logico delle matematiche.»
«La logica esiste. Solo non riesci a metterla a fuoco, ecco tutto, impegnato come sei a sezionare le mie parole. Di quando eravamo bambini rammento le estati, la luce accecante e l’aria incandescente di luglio, le giornate infinite trascorse nel baglio di Roccabruna, con la folla dei cugini: la mia memoria conserva quasi ogni momento di quelle estati… le passeggiate nei boschi della Miraglia, i bagni nudi all’Urio Quattrocchi, le gite sul litorale del Niceforo, e i giochi infiniti fin oltre il tramonto; mentre degli inverni è il nulla... della scuola, degli obblighi quotidiani, non ho che flash. È come se non li avessi mai vissuti, come se non esistessero: la memoria procede per pieni e per vuoti, per coaguli e assenze, per amnesie intercalate da sterminate pianure simili a fulgide e durature visioni. È uno strano congegno, capace di mascherare la nostra stessa vita, di stravolgerla e di mostrarcela non per quella che è, ma per come si è sedimentata, per come vogliamo appaia, attrezzata com’è a selezionare e archiviare i momenti gioiosi e obliterare la sofferenza o la noia; se ci rifletti, del dolore non abbiamo memoria diretta, un ricordo preciso, un'immagine nitida a cui attingere. Un’intelaiatura dai bordi confusi e la cognizione del dolore sopravvive in frammenti e visioni nebulose, quasi fantastiche. Io, ad esempio, ho un ricordo vivido degli innumerevoli momenti spensierati vissuti qui, al palazzo, o al baglio, con mio padre e mia madre, con gli zii, i nonni, i cugini, ma ho difficoltà a rammentare il contrario; però sono consapevole della sofferenza di quegli anni e di quanto il mio vivere lontano da Montefosco, la separazione tra i miei, l’abbandono dei luoghi familiari, il distacco dalla casa in cui sono nato, l'assenza di mio padre, dei tantissimi parenti da cui prima ero circondato, sia stata la diretta e imprescindibile conseguenza di quel dolore e...»
«Ma certo, con te un discorso lineare è impossibile» tagliò corto. «Sei almeno riuscito a leggere il manoscritto che ti avevo inviato?» Provò a divagare.
Mi avvicinai di nuovo al balcone, per provare a evitare la domanda e le sue conseguenze già immaginavo trasformate in disappunto.
«Avere buone e varie letture non implica la consequenziale capacità di scrivere» proposi, non per scoraggiare lo scrivere di lui, ma per ridimensionare il mio. «Prendi me: io scrivo, è vero, ed è una passione che a volte divora» gli rivelai. «Ma scrivere è una prigione, un perenne circondare il proprio cuore di filo spinato, un insoluto tentativo di riannodare il passato, di indagare il presente nelle macchie di Rorschach, di cercare il futuro nei fondi di caffè: scrivere mi costringe a non uscire da queste mura, mi impedisce di vivere. O forse è il pretesto per non farlo. Impiego il mio tempo nell’inventare racconti strampalati, incipit di romanzi mai terminati, novelle dai personaggi troppo cerebrali: rumino di continuo fantasie ossedenti composte da svolazzanti ghirigori; quindi pubblico i miei frigidi tormenti come se mi rivolgessi a un dio, solo per rammentargli le sue colpe. Zampetto sulla tastiera simile a una gallina claudicante, come dovessi trangugiare un farmaco amaro o sopportare una dolorosa penitenza. Vorrei indagare i miei ricordi, scrivere delle mie esperienze, ma mi ritrovo a narrare fantasie, sogni, invenzioni, come se unicamente dentro un’immagine onirica mi fosse possibile incontrare la verità, svelare l’autentico me stesso. La mia vita è il riflesso di un fantasma.»
Era una confessione, ma le rivelazioni non servono a chi è illuminato dalla fede.
«Insomma» disse spazientito.« Ti ho solo domandato un parere, non certo una sentenza inappellabile.» Non fece nulla per nascondere il fastidio, e prese ad andare su e giù per il salone con fare nervoso. «Come amico, e non come i mille autori della domenica ai quali regali il tuo tempo con tanta leggerezza. In fondo me lo devi» mi rimbrottò.
Mi sforzai di fingere di non aver compreso. «Hai evitato di creare personaggi singolari che alla lunga avrebbero rischiato di apparire inverosimili: scrivi invece solo di gente ordinaria: all’interno della loro costante, apparente, immutabile ordinarietà, della loro routine priva di scosse, essi provano a uscire dalla consuetudine unicamente quando possono agire celati da una maschera.
La maschera agisce a livello inconscio con Dario: egli vuole prevalere a tutti i costi, vive come se avesse sempre qualcosa da dimostrare: di essere un uomo originale, di aver talento da vendere, di essere uno straordinario amatore, ma anche un padre attento e un marito fedele. Eppure egli sa di non possedere alcuna di queste doti. Egli sa di essere una persona ordinaria, comune, priva di originalità e di talento. Ma a questa mancanza non si rassegna, così da finire divorato da una crescente frustrazione e da un senso di inadeguatezza. Da questa frizione, da un tale dislivello emotivo si sviluppa la sua angoscia, poi l’ansia, infine la depressione. La maschera è una sorta di punto di rugiada.»
«Punto di rugiada?»
«Me lo chiede proprio l’uomo di scienza?»
«Illuminami» concesse. «Sei tuttologo» aggiunse con sufficienza.
«Il punto di rugiada è, a parità di pressione atmosferica, la temperatura in cui si deve trovare l’aria per far condensare il vapor d’acqua in essa presente. Allo stesso modo il tuo Dario, a parità di circostanze, giunge al suo punto di rugiada al mutare della consapevolezza di sé. La consapevolezza come valore che, a parità degli altri, provoca il cambiamento. È un uomo scontento lui, perché la sua intelligenza lo porta a dubitare, a esser scettico, in primo luogo sul suo conto. Pertanto sa di dover indossare una maschera per mantenere vive le sue ambizioni e la stima che ha di sé. Ma nel momento in cui l’eccessiva consapevolezza eclissa la maschera costruita con fatica, ecco la rapida caduta di ciò che prima riusciva a star sospeso: ecco il suo punto di rugiada, e il vapore diventa acqua e precipita in terra. A differenza, se vuoi, della gente comune priva di talento e originalità ma anche di intelligenza... Beh, loro, suppongo, non abbiano necessità di maschere perché sono convinti di essere il sale della terra, di essere indispensabili e protagonisti unici delle loro vite come di quelle degli altri. Non li sfiora nemmeno il dubbio di esser solo dei cretini contenti.»
«Non credi invece che solo loro possano essere felici?»
«La felicità, ti ripeto, è il sentimento di un tempo immobile che in realtà non esiste, senza la risacca dei nostri ieri a sommergerci, i boschi oscuri dei nostri domani a minacciarci: solo il presente senza ieri e senza domani. No, non è una condizione umana. Però al sentire comune riesce comodo far credere e illudersi della felicità: la quale si ritiene possa essere, non solo duratura, ma anche a portata di mano e, di più, che dipenda unicamente dal nostro corretto operato nel mondo il poterla afferrare e mantenere.»
E posai lo sguardo su di lui e il suo calice di nuovo colmo di passito, mentre fuori un’oscurità colorata, dell’arancio artificiale dei vapori di iodio, si era sostituita alle ardenti fiammate del tramonto.
«E cosa mi dici di sua sorella Dalia?» Provò a estorcermi ancora.
«Devo dire, al principio i due mi sono parsi dai caratteri identici, poco distinguibili l’uno dall’altra. Ma nel proseguo della lettura Dalia si è rivelata una sorta di alter ego di Dario: o meglio, l’altra faccia della medesima medaglia. Priva come il fratello di talenti e capacità peculiari, ma dotata al suo pari di una grande intelligenza, pare pervenire piuttosto in fretta, forse già da adolescente, alla consapevolezza che per sopravvivere non può far conto sulle sue doti, ma unicamente sulla capacità di comprendere il mondo. Perciò sceglie una carriera universitaria e poi lavorativa alla sua portata e tra i tanti pretendenti, nonostante non sia una gran bellezza, il partito migliore sia dal punto di vista caratteriale che economico. E queste scelte alla lunga fai capire quanto si siano rivelate provvidenziali, in quanto hanno messo al riparo dai marosi della vita non solo lei, ma anche la sua famiglia, fratello compreso. Il quale invece non solo aspira alla migliore occupazione possibile, ma insieme al miglior partito possibile, senza avere le doti per ottenere sia l’uno quanto l’altro. E rimane così vittima della sua finzione, schiavo della maschera indossata per alimentare la propria autostima e il proprio ego: non tanto l’idea che egli ha di sé, quanto l’immagine di sé obbligato a metter in mostra. E quando, dopo innumerevoli sforzi, riesce a entrare nelle grazie della ricca famiglia Caher D’Anvers e a trovare un impiego al loro diretto servizio entra in quel mondo e finisce per considerarlo suo di diritto fino al punto di invaghirsi della figlia minore: Irene. Da quel momento inizia a nutrirsi della loro agiatezza, a specchiarsi nelle loro presunzioni, sente il dovere di adeguarsi alle loro sembianze, di cucirsele sulla pelle come una seconda anagrafe, più veritiera di quella reale. Con il risultato di alimentare la propria angoscia e inadeguatezza e di finire col vivere in un luogo di finzioni capaci di mortificare ogni suo slancio o tentativo di mostrarsi all’altezza.»
«Quando ho tirato fuori i due personaggi non ho pensato a una virgola di quanto hai detto: ma in modo incredibile mi pare che tu possa avere ragione.»
Sorrideva, compiaciuto. «Perché ragioni in modo lineare. Per fortuna il tuo inconscio quando scrivi riesce a mostrare quanto può nascondersi dietro la geometria. E tuttavia il romanzo manca d’equilibrio, di ordine. Quando ti dico centonovantasei metri a cosa pensi?»
«A un campo di calcio? Perché gli manca l’equilibrio?»
«Centonovantasei metri quadri per sei metri di altezza e una volta a padiglione affrescata con un trionfo di Apollo: io sono sono nato proprio sotto la geometria dell’Olimpo» ricominciai a divagare.
Un tenue chiarore filtrava dalle quattro coppie di portefinestre disposte in fila lungo il balcone e si diffondeva dal basso verso l’alto sulle pareti fino alla volta affrescata: dove un Olimpo di dei malandati, immersi in un cielo plumbeo biancheggiato da cirri e nembi vorticosi, ancora dominava il mondo. Al centro della scena un fastoso lampadario di vetro di Murano, dai fiori rosa e malva, dondolava sul piancito di maioliche colorate realizzate a mano, come il prezioso broccato di seta tessuto a motivi floreali, impreziosito d’ori e argenti, drappeggiava le pareti quasi galleggiando sopra l'ampia zoccolatura, quasi una boiserie, di larice o noce laccata di verde e oro.
«Non vuoi proprio dirmelo?»
«Presto non rimarranno che sale polverose e vuote e un muto ricordo, che prima o poi svanirà. Saremo solo ricordi, e poi neanche quelli.»
«Ho capito. Dato che il tema non sono riuscito a inquadrarlo consapevolmente…»
«Ecco, ci sei arrivato da solo. Comunque, i miei libri so già a chi lasciarli.»
Di scatto, senza che potessi fare molto per impedirlo, mi avvolse in un abbraccio fraterno.
E capii che non era quello il momento giusto per deluderlo.
«Però...»
«Però che cosa» sbottò stizzito.
«In fondo ogni maschera non è altro che una narrazione diversa di se stessi. Indossiamo maschere anche per proteggerci dall’Oblio, che del Nulla è il presentimento.»
«Dal nulla al Nulla.»
«Che vuoi dire?»
«Che con te è inutile ogni tentativo di impostare una linea.»
E aveva ragione.
Forse perché la linearità non esiste e tutti i modi possibili finiscono nel Nulla, in memoriae inanibus.
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Jacopo Serafinelli
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Messaggio da leggere da Jacopo Serafinelli »

… è vero, la linearità non esiste… viene sempre interrotta da trasversalità e il nostro sguardo puntato in lontananza dove pensiamo sia diretta la linearità ne rimane turbato e deluso!
Inappuntabile il racconto e ricco di spunti riflessivi.
Trovo magnifico quell'aggettivo dato al vizio… vizio "carbonaro" della lettura
Jacopo
Andr60
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Messaggio da leggere da Andr60 »

Un racconto ricco di spunti, come sempre. Il tema principale però è quello delle maschere, indossate a seconda delle convenienze, delle norme sociali. La differenza tra l'epoca di Pirandello e la nostra è che le maschere si sono moltiplicate, sono diventate anche virtuali (basti pensare ai social, nei quali ogni partecipante si mette in vetrina). Ma l'aspetto più nuovo delle maschere del XXI secolo è che il Potere stesso si nasconde e si attaglia perfettamente alle proprie vittime, tramite la profilazione dei messaggi. Tutto questo per far sparire il punto di rugiada, ovvero il momento (come superbamente esemplificato dall'Autore) nel quale il soggetto acquisisce consapevolezza, di sé e del mondo che lo circonda.
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Andr60
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Messaggio da leggere da Andr60 »

Un racconto ricco di spunti, come sempre. Il tema principale però è quello delle maschere, indossate a seconda delle convenienze, delle norme sociali. La differenza tra l'epoca di Pirandello e la nostra è che le maschere si sono moltiplicate, sono diventate anche virtuali (basti pensare ai social, nei quali ogni partecipante si mette in vetrina). Ma l'aspetto più nuovo delle maschere del XXI secolo è che il Potere stesso si nasconde e si attaglia perfettamente alle proprie vittime, tramite la profilazione dei messaggi. Tutto questo per far sparire il punto di rugiada, ovvero il momento (come superbamente esemplificato dall'Autore) nel quale il soggetto acquisisce consapevolezza, di sé e del mondo che lo circonda.
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Yakamoz
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Messaggio da leggere da Yakamoz »

Questo "racconto" è una sorta di divagazioni su vari argomenti, tra cui la vita, la morte, la memoria, la bellezza, la scrittura e la felicità. Ma statico da un punto di vista narrativo: perché nel racconto non succede nulla di niente. È come guardarsi allo specchio per rintracciare quello che non si è visto, oppure si è visto, o si vuole vedere meglio, o non si vuole vedere affatto. A tratti sembra più un monologo, piuttosto che un vero dialogo tra un io narrante, senza nome, e Carlo, ligio e razionale prof, di matematica di Liceo. Come una contrapposizione tra quello che in noi risiede di razionale e altro di più "sentimentale e mutanghero, ligio al vizio del sognare e trasognare", dice l'autore stesso. A volte anche forzatamente ampolloso nel cercare di discernere temi/problematiche/questioni già ampiamente discusse/vivisezionate da altri, malgrado restino alla fine sempre questioni irrisolte, poco risolte o irrisolvibili, se non, cercando di essere poco cervellotici, facili nella loro risoluzione. Porto esempi dal testo:

"La sua non era una domanda banale. La bruttezza ha dei confini? Esiste un limite al di là del quale sarebbe impossibile a chiunque sopportare oltre quel terribile assalto?"

Qua la risposta, e non se ne voglia a male l'autore, potrebbe essere anche semplice: la bellezza, seppure minuta che quasi esiste in ogni cosa, si annulla con la distruzione/deturpamento completi della cosa stessa. Prendi un'opera d'arte, tipo una scultura, un quadro, ma per essere più moderni anche una bella automobile, e martella fino all'inverosimile: che resterà poi di quello che era all'inizio?

"Per me i libri sono memoria, e vivono nella mia memoria, così che non ha senso incasellarli, catalogarli, registrarli, ridurli a numeri, a quantità, a cose. In fondo perché considero la memoria ciò che siamo, la nostra vera essenza."

Tutte le cose raccontate per iscritto e di un certo valore sono "testimonianza, cultura e sapere". E la considerazione che fa il tuo personaggio senza nome è una consapevolezza acquisita da tempi remotissimi, già dai babilonesi con la loro scrittura cuneiforme: che senso ha questa riflessione in un contesto di libri da biblioteca e non di liste della spesa o istruzioni su come montare un mobile dell'Ikea?

"La felicità non esiste, o se esiste è solo un momento, e noi invece viviamo tutta una vita. La felicità di oggi è l'illusione di domani. Perché ieri non tornerà mai più e il domani non esiste, seppure ne abbiamo già una indefinita nostalgia."

Echi di Sant'Agostino e un po' di Leopardi in questo passaggio; ma va merito all'autore l'originalità di specificare il ruolo della memoria nel determinare la nostra percezione della felicità. Ed è cosa condivisibile: che io condivido. Anche se la memoria, essendo una realtà/verità costruita a posteriori, potrebbe falsare la nostra idea di felicità.

"La felicità, ti ripeto, è il sentimento di un tempo immobile che in realtà non esiste, senza la risacca dei nostri ieri a sommergerci, i boschi oscuri dei nostri domani a minacciarci: solo il presente senza ieri e senza domani. No, non è una condizione umana."

Questo concetto non è risolvibile. Dire che non esiste la felicità perché legata a qualcosa che non esiste: il tempo immobile. Bel paradosso sì. Ma se esiste il termine "felicità", qualcosa esisterà pure di essa, no? Forse il "voler essere felici" più che la felicità, credo che l'autore intenda questo.

"Il punto di rugiada è, a parità di pressione atmosferica, la temperatura in cui si deve trovare l'aria per far condensare il vapor d'acqua in essa presente… Ma nel momento in cui l'eccessiva consapevolezza eclissa la maschera costruita con fatica, ecco la rapida caduta di ciò che prima riusciva a star sospeso: ecco il suo punto di rugiada, e il vapore diventa acqua e precipita in terra."

Uno/nessuno/centomila: finzione di noi stessi o di come ci vedono gli altri, ma espressi con intelligenza e animo poetico.

"Forse perché la linearità non esiste e tutti i modi possibili finiscono nel Nulla, in memoriae inanibus", chiosa al tuo racconto.

Quod nullum est, nullum producit effectum, direbbe un giurista.

Ma Antonio Giordano dice che nulla finisce per sempre… esiste una speranza!

Ci sarebbe ancora da dire su questo tuo scritto, ma mi fermo qui.

Sì, linguaggio ricco, forbito, eloquente. Moraleggiante però nel suo voler spiegare cose che non sempre si possono spiegare. Resta un po' di tristezza e malinconia dopo averlo letto. Come guardare un enorme platano con le foglie ingiallite sotto un sole opaco di un cielo grigio d'autunno.

Voto 4/5

Perché non è un racconto con una trama narrativa definita, ma un'analisi "filosofica su molti temi", scritta mirabilmente, da apprezzare per la profondità, emozione, di molte riflessioni (a volte un po' troppo spiegate) e altrettanti spunti che offre. Ma io come lettore voglio spazio per immaginare, mistero, crearmi delle aspettative, avere qualcosa di mio nel testo, e questo spazio è abbastanza precluso qui.
Non posso incensare un racconto solo perché è scritto bene, ma valutarlo anche per quello che mi suscita dentro.

Tante belle cose, Namio Intile

Antonio
Namio Intile
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Ciao, Antonio. Bell'intervento, complimenti. È un racconto un po' sui generis, non lo nascondo, dove alle sequenze narrative ho preferito quelle riflessive. E naturalmente il racconto è sbilanciato in questo senso. Tuttavia una storia c'è, l'incontro tra i due amici che si confrontano sulle loro posizioni, e anche un tema, la memoria, o le sue maschere. Ma non voglio fare qui la sinossi.
Non so se la risposta sia semplice alla domanda perché alcune persone si rifugino nella bruttezza e la preferiscano alla bellezza. Credo, temo, vi siano indotte, un modo per tenerle ai margini e dentro il gregge al tempo stesso, che risponde forse all'esigenza di creare un mondo altro, basso, inferiore, che non possa unirsi all'altro e confondersi con esso. Da una parte ciò che è buono e bello, e dall'altra ciò che è brutto, e quindi cattivo, malvagio, nell'apparenza prima che nei fatti.
Nella dichiarazione d'indipendenza americana si trova quell'accenno alla felicità, alla sua ricerca, equiparata a libertà e uguaglianza " che tutti gli uomini sono creati liberi e uguali..." È quella la fonte della felicità moderna, tutta anglosassone, non certo europea, in cui la felicità è stata sempre altra cosa. Ma è la visione anglosassone oggi quella prevalente, quella che cattura la fantasia e indirizza le energie. È una ricerca, il voler essere felici, come dici tu, la conquista della felicità: un percorso più che un fine. L'etimo ha a che fare con la fecondità, la fruttuosità, la ricchezza, anche se nel mondo classico equivaleva a un sentimento ancora diverso e forse più duraturo. La citazione nella dichiarazione d'indipendenza aveva una ragione: un effetto di stimolo sulla maggioranza di indecisi a prendere parte attiva al grande progetto nazionale americano che prevedeva lo sganciamento dall'impero britannico. Tuttavia, nella Costituzione uscita dal Congresso Continentale alla felicità, accanto a libertà e uguaglianza venne sostituita la parola proprietà. E quindi la felicità non è in costituzione, come molti ritengono, ma al suo posto, non a caso, è stata messa la proprietà, la felicità duratura delle élite.
Lo sguardo dei protagonisti del racconto è distaccato, disilluso, malinconico. Aleggia una sorta di nostalgia per un mondo che non c'è più e forse non c'è mai stato né mai ci sarà. Immagino che l'impressione a pelle possa essere quella dell'intento moraleggiante, se non fosse che ai miei protagonisti l'umanità non interessa. Anzi, fa loro un po' ribrezzo, la tengono a distanza, la considerano con disprezzo. Forse non sono moralisti, ma il loro esatto contrario: nichilisti.
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Namio Intile
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Messaggio da leggere da Namio Intile »

Andr60 ha scritto: 19/04/2024, 9:35 Un racconto ricco di spunti, come sempre. Il tema principale però è quello delle maschere, indossate a seconda delle convenienze, delle norme sociali. La differenza tra l'epoca di Pirandello e la nostra è che le maschere si sono moltiplicate, sono diventate anche virtuali (basti pensare ai social, nei quali ogni partecipante si mette in vetrina). Ma l'aspetto più nuovo delle maschere del XXI secolo è che il Potere stesso si nasconde e si attaglia perfettamente alle proprie vittime, tramite la profilazione dei messaggi. Tutto questo per far sparire il punto di rugiada, ovvero il momento (come superbamente esemplificato dall'Autore) nel quale il soggetto acquisisce consapevolezza, di sé e del mondo che lo circonda.
Voto 5
Ciao, Andr. Grazie per l'intervento. Con gli spunti ci provo sempre, come te del resto. Il potere è ormai così pervasivo da essere evidente ovunque e in qualunque momento, almeno a me, anche quando si nasconde e non mi pare neanche che ci provi più di tanto. Sulla Terra siamo sempre di più, una vera ordalia di cavallette, e mi chiedo se non sia inevitabile che i molti siano governati dai pochissimi, e che pochissimi abbiano sempre di più a scapito dei moltissimi. Alle volte mi vorrei arrendere, vorrei solo alzare bandiera bianca, caro il mio Andr, e accettare la sconfitta. Avete vinto voi, fate di me quel che volete. Credo che, prima o poi, berrò la mia cicuta.
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Re: Attraverso i vuoti della memoria

Messaggio da leggere da Yakamoz »

Sarò brevissimo,

sei letterario pure quando non sarebbe necessario. Da ammirare!

"Come guardare un maestoso platano con le foglie ingiallite sotto un sole opaco di un cielo grigio d'autunno."

Voleva essere un'allegoria/metafora, spero che si sia capito, di una visione moralistica (o nichilista come sottolinei meglio tu) di un declino inesorabile di un ordine di valori diretto verso la propria rovina. E credo, a mio parere, che questa immagine sia la più giusta che si possa associare al tuo racconto. Ma resta la speranza, dopo l'inverno, di una nuova primavera: che io, e noi tutti, possiamo solo sperare che ci sia, ma anche no.

Sempre un grande piacere leggerti, Namio

Cari saluti,

Antonio
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Messaggio da leggere da Giampiero »

Ti lascio un commento come forse piace a te: è la solita scrittura dedicata a un racconto in cui non succede un bel nulla. Il lettore dovrebbe farsi del male per arrivare fino alle fine di questo canovaccio. Non credere sia una rivalsa verso il tuo commento. Io non sono così: di fronte a una buona narrativa mi tolgo il cappello, ma in questo caso mi accorgo che neanche volendo sarei riuscito ad arrivare alla fine di questo tuo, "ennesimo", capolavoro. Alla prossima.
La paura è un cavallo con le ali: una volta lanciato al galoppo perde il contatto con il suolo e incomincia a volare.
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Re: commento

Messaggio da leggere da Giampiero »

Scusa, ho dimenticato il voto, che è quello più basso che riservo alle scritture prolisse che si beano di sé. Anche per non lasciartì così, senza esprimere la mia opinione da lettore sul “perché” questo testo secondo me è duro da digerire.
Tu hai dato della pesantezza al mio testo, vabbè ci sta, sarai a tuo modo un valido lettore e magari hai il naso fino superiore a quello mio. Cosa che dubito fermammente.

Ora ti trascrivo un paragrafo del tuo racconto, dove secondo me un lettore senza tendenze suicide non andrebbe oltre alla lettura:

“Quando mi capitava d’incrociare la linea dei suoi occhi, retta come una mensola, lo sguardo mi s’allungava, dal basso verso l’alto, a sostenere quelle imponderabili vastità o, come in quel momento, mentre s’accostava a una delle ante, a indugiare sulle luci del tramonto novembrino, lente a sfumare lungo i crinali a occidente dal vermiglio al viola al vermiglione, pronte ad avvolgere Montefosco in un tegumento purpureo, io non riuscivo a inseguirne lo sguardo, incline a inseguire le mie notturne rimuginazioni. E mi scappò di dire millecentosessantasei, e lui mi rispose un che distratto. Precisai che erano i metri cubi del Salone delle Feste in cui ci trovavamo.“

La linea retta dei suoi occhi, retta come una mensola… Dio mio, davvero nel 2024 gli scrittori si esprimono in questo modo? Io, caro Namio, ci ho capito semplicemente una mazza. Dico, la traiettoria di questa chiamiamola visuale per stabilire il nulla mi sfugge, lo dico da ingegnere. il vermiglio, il tegumento purpureo, il viola vermiglione... ma dài dài. Sarà un mio limite di lettore di almeno un romanzo alla settimana, ma a me non è arrivato nulla, non mi hai smosso alcun sentimento. La cosa buffa è che hai messo il becco sul mio passato remoto e non vedi il prolisso sulla tua scrittura che spande da tutte le parti. Parli di pesantezza proprio tu, la cui semplicità non ti appartiene. Vedi, questo paragrafo è il punto centrale del tuo racconto: ed è qui che il lettore si blocca. Perché capisce dove l’autore va a parare: punta tutto su questo linguaggio aulico e non funzionale alla storia.

Il punto è, per finire, che non accetto lezioni di scrittura da chi non può insegnarmi un bel niente. Se tu fossi stato davvero oggettivo, come lo è la scrittura, avrei preso per oro colato il tuo suggerimento. Mentre, invece, dovresti accettare tu il mio: scrivi avendo di fronte il lettore (quello vero evidentemente) e cambia registro, evita queste metafore datate 1800. Io magari sono della tua stessa generazione, ma la mia scrittura è totalmente diversa, in linea quantomeno con i tempi attuali. Poi, vabbè, hai lettori che ti stimano. Salutameli.
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Re: Attraverso i vuoti della memoria

Messaggio da leggere da Giampiero »

Oggi ho un po' di tempo e mi dedico a te.

Ecco altri dettagli sempre del paragrafo del tuo racconto che t'ho evidenziato prima.

"Quando mi capitava d’incrociare la linea dei suoi occhi, retta come una mensola, lo sguardo mi s’allungava, dal basso verso l’alto, a sostenere quelle imponderabili vastità o, come in quel momento, mentre s’accostava a una delle ante, a indugiare sulle luci del tramonto novembrino, lente a sfumare lungo i crinali a occidente dal vermiglio al viola al vermiglione, pronte ad avvolgere Montefosco in un tegumento purpureo, io non riuscivo a inseguirne lo sguardo, incline a inseguire le mie notturne rimuginazioni. E mi scappò di dire millecentosessantasei, e lui mi rispose un che distratto. Precisai che erano i metri cubi del Salone delle Feste in cui ci trovavamo."

1. Dici: “a sostenere quelle imponderabili vastità” dando per scontato che il lettore capisca quali sono queste benedette “vastità”. Rileggendo, con una buona dose di pazienza, forse ho capito che dai per implicito che il lettore capisca che le imponderabili vastità sono riferibili all’amico del personaggio io narrante. Ma il problema è che in narrativa un autore non deve dare nulla per scontato: nella frase infatti si inciampa.

2. Poi dici: “mentre s’accostava a una delle ante” ma da dove spuntano fuori queste ante? Ante di che? Io sto ancora cercandole.

3. Poi passi dal punto di vista del personaggio io narrante per indugiare sullo sguardo dell’amico del personaggio, per poi passare nuovamente sull’io narrante, che ammira il panorama: il tutto con l’utilizzo di una punteggiatura asfissiante, separate da virgole, che fa andare letteralmente in apnea.

4. Poi dici: “io non riuscivo a inseguirne lo sguardo, incline a inseguire le mie notturne rimuginazioni” come se il lettore conosce le notturne rimuginazioni del personaggio io narrante. Boh.

5. Infine, la ciliegina sulla torta: “E mi scappò di dire millecentosessantasei, e lui mi rispose un che distratto. Precisai che erano i metri cubi del Salone delle Feste in cui ci trovavamo.”

Qui il lettore, secondo l’intenzione dell’autore, dovrebbe aver capito tutto, dato che si chiude il paragrafo.
E invece sappi che io, caro Namio, non c’ho capito un emerito fico secco.
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Re: Attraverso i vuoti della memoria

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Cosa di cui dubito, e non che dubito. A ogni modo, ascolta, Giampiero. Ho qualche annetto, non sono di primo pelo. Non mi arrogo il titolo di scrittore, ma sono un lettore, che poi tu abbia il naso più fino del mio è possibile, anzi te lo auguro. Come ti auguro di essere migliore di me. La gara stagionale è una competizione con voti e commenti. E io ho votato e commentato il racconto. Fa parte delle mie prerogative in quanto partecipante esprimere un giudizio e farti notare che quei verbi al passato remoto, uno di seguito all'altro, non funzionavano. E ti ho esemplificato come avrei ovviato a quello che per me era ed è un inconveniente. Dovresti ringraziarmi per il tempo che ho perso. Va beh. E poi, francamente, ti ho messo un bel tre, e non il tuo uno al mio dopo aver letto la mia recensione, l'astio è pure immotivato. Guarda che non hai postato un capolavoro, e io ho commentato il testo secondo il mio giudizio, che puoi criticare, ma che devi accettare, e non sono stato offensivo, come invece hai fatto tu con quel ennesimo capolavoro o quel che dubito. Non ho adoperato il sarcasmo né l'ironia per rivolgermi ai tuo scritto, tantomeno mi sono permesso di adoperarli nei tuoi confronti, a te come persona, come invece ti sei permesso tu. Un testo può piacere o no, è soggettivo. E io rispetto il tuo giudizio e il tuo voto. Ma non rispetto la maleducazione. Esprimere giudizi caustici nei confronti di chi ti ha criticato è una forma di maleducazione. Sei appena arrivato, dai agli altri il tempo di farti conoscere. Io e Lodovico abbiamo vinto insieme sedici gare stagionali. Non mi considero certo un professionista, né una grande penna, ma sto qui da qualche anno.
Se poi ritieni che il livello qui sia basso, ma che ci stai a fare?
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Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Namio,
"Attraverso i vuoti della memoria", dici, ma dove sono, questi vuoti?
Mi sembra non si perda un'unghia di te, in queste righe così piene ed esuberanti, di un rococò o di un gotico fiammeggiante letterario da leggere e ritirarsi a considerare di dover comprare l'ultimo Devoto/Oli. E così stupendamente smaltate...
Non ti rimprovero nulla, al contrario: mettersi a nudo così... "Se sia più nobile affrontare impavidi i dardi dell'avversa fortuna E soccombere a essa". Perché Carlo è l'alter ego col quale avresti sempre desiderato dialogare, pur avendolo dentro te.
Quando potrò rispondere a tono ai tuoi racconti? Le tue sono parole da rileggere tra 20, 30 anni per me (non perché tu sia tanto più in là con gli anni, ma perché io tengo 'a capa 'e chella manera...)
Hai toccato due figure che non smetteranno mai di sollecitare, arrovellare le persone: la felicità e la maschera. Sì, hai toccato anche la malinconia (la fai diventare nostalgia, ma la tua è malinconia), che è essa il contrario della felicità: non è la tristezza che ammazza la felicità, ma la malinconia, che ci urge a vivere perennemente in un tempo diverso dal presente (e infatti, li declini tutti, i tempi). Non è per questo che la felicità è così sfuggente? Perché non sappiamo godere il presente ("il passato è stato, il futuro non è ancora, il presente, come elemento di separazione di due cose che non esistono, come fa a esistere?").
Bisogna accettare di cambiare i propri paradigmi, per poter aprire gli occhi sul presente e goderne, e temo che né il tuo protagonista (Carlo ne è solo la "spalla"), né Carlo (troppo cerebrale) potrebbero farlo.
Il tuo protagonista CREDE di essere uno spirito artistico, analogico, ma Carlo è l'evidente dimostrazione del contrario: apparentemente il suo miglior amico, nonostante la diametralmente opposta diversità, eppure il perfetto comune intendimento.
E maschere. La maschera del tuo nobile, e quella del suo amico, apparentemente impassibile e corretto, salvo poi desiderare come un cane da compagnia la fugace ricompensa di un sigaro blasonato (oggi, certamente più di un titolo).
Dunque, con tutta questa materia, con tutte le apparenti pause che il protagonista si prende "ad arte", dove sono questi famigerati "vuoti di memoria"? Io vedo una persona che ha avuto molto, TROPPO tempo per riflettere in solitudine.
S'è capito che m'è piaciuto?
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Re: Attraverso i vuoti della memoria

Messaggio da leggere da Namio Intile »

Ciao, Marino.
Grazie per l'intervento, ti assicuro che sei riuscito a rispondere in modo non banale. La scrittura qui è barocca, è vero, ed è voluto. Ed è voluta anche la densità di senso, pure se in un racconto così breve affatica la lettura. Il tema portante è la memoria, anzi i suoi vuoti. Vuoti perché se la memoria ci definisce, noi non siamo padroni della sua formazione, come tento maldestramente di dimostrare nel raconto. Ma parlo anche di felicità, è vero, e di tempo. Dici che l'infelicità dipende dall'incapacità di godere il presente. Ma, obiettivamente, per la maggior parte delle persone è difficile anche solo vivere il presente. Siamo schiacciati dal presente, dalle sue urgenze, dalla sua arroganza, dalle sue irrisolvibili ingiustizie, e suppongo che non sia casuale. Come scrivevo ad Antonio/Yakamoz (anche il turco è lingua che riesce a esprimere concetti con una parola) la felicità come la intendiamo noi oggi ha un sapore anglosassone. Da una parte la ricerca della felicità, dall'altra l'impossibilità di raggiungerla. La ricerca della felicità ci costringe a vivere in una eterna tensione a un obiettivo che non sarà mai raggiunto. Timeo Danaos et dona ferentis, mi viene da citare Virgilio per analogia. I padri costituenti americani la sapevano lunga e forse sarebbe ora, in Europa, di leggere la storia americana più attentamente e con occhi meno innamorati. E forse per seguire questo ragionamento la mia malinconia non è una condanna all'infelicità, ma ci salva proprio da questa felicità.
Un caro saluto, e grazie.
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Re: Attraverso i vuoti della memoria

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Che il narratore non nominato e Carlo siano le facce di una stessa medaglia è evidente, o almeno lo sembra a me. Nel commento precedente ho definito la scrittura "ampollosa" nel senso di "gonfia e ricercata", per sottintendere che potrebbe non piacere a tutti: o per difficoltà di comprensione o solo perché magari oggi si tende a essere scarni anche, e non solo, quando si scrive. Preferendo un modo più diretto e semplice, diciamo "punk", come dicono gli anglosassoni. Tuttavia, Marino non si sbaglia nel definirla barocca/gotica. Sì, barocca nel suo voler essere sfarzosa, ma neanche troppo, e gotica nelle atmosfere che crea: soprattutto melanconiche. Qualcuno, un po' più su, ha scritto: non ci capisco una mazza! Che io poi mi meraviglio che un siciliano usi la parola "mazza" e non "minchia". È inoltre ulteriormente svilente che, sempre io, da salernitano, debba venire qui a farvi notare che in Sicilia si dice MINCHIA e non MAZZA. Cosa, ulteriormente più bizzarra, è che Giampiero, oltre a essere siculo, in realtà si chiama Carlo: lupus in fabula! Proprio vero che se "parli del diavolo, poi spuntano le corna!"
Aperti al dialogo e mai usare le "parole" per cercare di ferire, questo è il consiglio che posso dare/dire, consiglio che vale anche per me. Non è che se vai in un ristorante e ti servono un piatto che a te non piace, poi picchi il cameriere/cuoco/titolare o chi per lui. Se sei "signore" non mangi nulla, paghi lo stesso e te ne vai. Ma puoi chiamare qualche responsabile e far presente la cosa: e lui "quasi sicuro che lo faccia" si scuserà in qualche modo, liberandoti dal conto da pagare. Divago, ironizzo e sdrammatizzo, chiedo scusa. Ritorniamo ai "Attraverso i vuoti della memoria", ossia a ciò che ci definisce "la memoria" come persone/esseri, ma di cui non abbiamo pieno controllo e "i vuoti" che appunto possono esserci e creare quindi una frammentazione del senso di sé, penso che questo sia il significato del titolo del racconto. Bella pure la citazione di Virgilio: Timeo Danaos et dona ferentis, per sottolineare la diffidenza verso i doni (nemici) che apparentemente portano felicità. Anche se Marino non è in errore quando dice che bisogna ricercare la felicità in una realtà il più fattuale e prossima, imminente, cioè senza pensarci troppo: entro in un bar, prendo un caffè e per un attimo, mentre sollevo la tazzina e lo degusto, sono "felice", una felicità orgasmica! Namio, invece, parla di una felicità come prospettiva/percorso e cita questo: "Riteniamo che queste verità siano evidenti di per sé, che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili, che tra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità", di Thomas Jefferson. Parole sacrosante! Sì, vere. Ma che, soprattutto nel passo: "la ricerca della Felicità", danno l'idea di uno "slogan idealista". Giusto per aggiungere qualcosa al più famoso: Liberté, Égalité, Fraternité (e Félicité). La felicità è un sentimento individuale, difficilmente spiegabile anche a parole ed è più facile pensare che T. Jefferson, con felicità, volesse più intendere "appagamento dei diritti/bisogni minimi che uno Stato deve garantire al cittadino", parlo dei bisogni collettivi che un singolo individuo non può soddisfare da solo. E mi sembra più vicino alla felicità, almeno per come la intendo io, un concetto molto più semplice: come porsi dei limiti in quello che già si ha o si desidera, ma sempre cercando di migliorarsi, e considerare quel che si ottiene in più, sempre se viene, un bene. Ma può darsi che anche io sbagli.

Cari saluti, Namio

Sottolineo che a me piace la scrittura "ricercata" se nel giusto contesto. E La tua lo è. Abbiamo tante parole, perché non usarle?
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Re: Attraverso i vuoti della memoria

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Ciao Namio,
quando ho usato "rococò", ho aggiunto "smaltata", perché l'intenzionalità dello stile mi è parsa brillantemente, immediatamente evidente: bisogna saper godere del Sole più ossessivo per lasciarsi andare alle pause studiate del tuo racconto.
E il Sole è a un tempo vita, gioia, benessere. Chi non si lascia andare a quelle pause, che introduci "facendo finta" di dipingere gli ambienti del racconto, per far "perdere la memoria" al tuo protagonista, non sta afferrando che la felicità è proprio in esse, nella libertà che ne deriva.
Non so se siamo schiacciati dal presente. Io ho vissuto gran parte della mia vita tra un futuro che non raggiungerò mai e un passato che non ho mai saputo godere. Mia moglie, santa donna, la cito tanto quanto il tenente Colombo la sua, s'è sempre lamentata che sono sempre stato assente. Scoprire perché è stato devastante persino per me. Quindi, magari fossi schiacciato dal presente! Persino ora che sto attraversando un periodo non proprio dei migliori, il presente mi scivola addosso come un che di momentaneo: per il passato so cosa ho fatto di male o bene, per il futuro so quali fossero le mie intenzioni, il presente è il risultato momentaneo di una ricetta che cucino ogni giorno insieme a quell'incompetente del destino: nonostante tutta la sua innegabile esperienza, alle volte è lui che combina i macelli più indicibili.
E così, nonostante il momento, il presente continua a lasciarmi indifferente: passerà, farò di meglio, non volevo certo sbagliare, jamm' annanz'.
Sono proprio questi momenti che mi fanno essere cosciente del presente come momento di felicità: si è felici (o meglio: IO sarei felice) solo nel presente.
Anche quando parli della felicità dal sapore anglosassone, credo di capire che ti riferisci ad altro, che con la felicità ha ben poco a che vedere. Spensieratezza? Affermazione/riconoscimento sociale? Ogni anno pubblicano il "ranking" ("classifica" è desueto) delle nazioni più felici del mondo. Paesi scandinavi in testa, anche in quella dei Paesi occidentali a più alto tasso di suicidi...
Ho visto la povertà per le strade dei centri storici pedonali delle capitali europee, barboni approntare materassi di spugna sotto la pioggia fina davanti a vetrine di Chanel che terminavano la giornata... Altro concetto che il mondo anglo e sassone ha stravolto: la "libertà". Che, come la felicità, probabilmente noi mediterranei intendiamo diversamente, in maniera sociale: come può essere "libero", un uomo che vive da clochard mentre intorno a lui milionari indifferenti danno dimostrazione di quanto tengono all'aristocratica compagna regalandole unguenti milionari? (Francamente, chi è più libero, in questo siparietto: il clochard o il milionario? :D )
Allo stesso modo, come posso essere felice se non lo condivido? La felicità individuale, personale, è semplice soddisfazione, "avere abbastanza", che, per carità, ci sta tutta, ma vuoi mettere col leggere un sentimento ricambiato negli occhi di chi ti sta di fronte? Persino il protagonista del tuo racconto, nel prendersi quelle pause, riesce a essere momentaneamente felice, perché quel momento di oblio lo sta condividendo col suo Carlo. Come i sigari: quanto è appagante vedere la trepidazione in un amico col quale condividere un piacere? La felicità è sociale.
Il che ci porta alla tua valutazione sull'anglosassone, portatore di un modello sociale individualista e primatista. In un mio racconto passato mi hai attribuito questo spirito di sacrificio che vede nel futuro il proprio appagamento. Ho appena ammesso che, sì, ho vissuto gran parte della mia vita così, ma non perché non sapessi cosa volessi raggiungere o quando: i miei personali momenti di soddisfazione li ho raggiunti quando ho fatto qualcosa di buono e/o bello, e ho potuto condividerli, con la famiglia, con gli amici, coi colleghi (no, non sono il tipo di doppia faccia, sul lavoro). Io ANELO al presente, sebbene sia un presente che vedo a sprazzi (qui, purtroppo, tanto gioca quel modello anglosassone che dici tu).
La mia felicità non ha nessuna legge morale dentro di me (non mi piace imporre alcunché a nessuno), ma il cielo stellato sopra di me, quello sì, condiviso con chi amo.
A presto, Namio.
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Re: Attraverso i vuoti della memoria

Messaggio da leggere da Namio Intile »

Aneli al presente, Marino, mai sei schiacciato dallo stesso. Sei assorbito dalle tue incombenze quotidiane in modo che di tuo non rimanga nulla. Volevo dire quello con schiacciati sul presente o dal presente. La quotidianità come antitesi del presente, per come almeno questa nostra quotidianità ce l'hanno confezionata. Ma non dubito che le élite che da fuori le sbarre ci osservano, invece questa capacità di vivere il presente ce l'abbiano, senza che la quotidianità li abbia a disturbare. La facoltà di gestire il presente è naturalmente legata alla possibilità di gestire il proprio tempo. Se per dieci ore al giorno devo fare quello che un capetto qualsiasi mi comanda, è ovvio che tutti i discorsi sul vivere il presente vengono meno.
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Messaggio da leggere da Giovanni p »

Buonasera, Namio

Quello che colpisce oltre il racconto in se è lo stile. Sto leggendo Mann, e devo dire che ci trovo delle somiglianze impressionanti.
Per quanto riguarda la storia per ora ti dico solo che mi piace solo perché sono in viaggio di nozze e non ho il pc, quindi è faticoso scrivere un commento accurato.

Voto 5
Namio Intile
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Re: Attraverso i vuoti della memoria

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Ciao, Giovanni. In viaggio di nozze? Diamine, auguroni.
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Autori partecipanti: Giacomo Scotti, Bonnie, nwCosimo Vitiello, nwArditoEufemismo, Mario, Dafank, nwPhigreco, Pia,
A cura di CMT.
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Alcuni esempi di nostri libri autoprodotti:


Il Bene o il Male

Il Bene o il Male

Trenta modi di intendere il Bene, il Male e l'interazione tra essi.

Dodici donne e diciotto uomini hanno tentato di far prevalere la propria posizione, tuttavia la Vita ci insegna che il vincitore non è mai scontato. La Natura ci dimostra infatti che dopo un temporale spunta il sole, ma ci insegna altresì che non sempre un temporale è il Male, e che non sempre il sole è il Bene.
A cura di Massimo Baglione
Copertine di Giuliana Ricci.

Contiene opere di: Antonella Cavallo, Michele Scuotto, nwNunzio Campanelli, nwRosanna Fontana, nwGiorgio Leone, nwIda Dainese, nwAngelo Manarola, nwAnna Rita Foschini, Angela Aniello, Maria Rosaria Del Ciello, nwFausto Scatoli, nwMarcello Nucciarelli, nwSilvia Torre, nwAlessandro Borghesi, nwUmberto Pasqui, nwLucia Amorosi, nwEliseo Palumbo, Riccardo Carli Ballola, nwMaria Rosaria Spirito, nwAndrea Calcagnile, nwGreta Fantini, Pasquale Aversano, nwFabiola Vicari, nwAntonio Mattera, Andrea Spoto, nwGianluigi Redaelli, nwLuca Volpi, nwPietro Rainero, Marcello Colombo, nwCristina Giuntini.

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Dentro la birra

Dentro la birra

antologia di racconti luppolati

Complice di serate e di risate, veicolo per vecchie e nuove amicizie, la birra ci accompagna e ha accompagnato la nostra storia. "Dentro la birra", abbiamo scelto questo titolo perché crediamo sia interessante sapere che cosa ci sia di così attraente nella bevanda gialla, gasata e amarognola. Perchè piace così tanto? Che emozioni fa provare? Abbiamo affidato questa "indagine" a Braviautori, affinché trovasse, tramite l'associazione e il portale internet, scrittori capaci di esprimere tali sensazioni. E infatti sono arrivati numerosi racconti: la commissione ne ha scelti 33. Nemmeno a farlo apposta, 33 è la quantità di centilitri di un gran numero di bottiglie (e lattine) di birra; una misura nota a chi se n'intende.
A cura di Umberto Pasqui e Massimo Baglione.

Contiene opere di: nwAndrea Andreoni, nwTullio Aragona, Enrico Arlandini, Beril, Enrico Billi, nwLuigi Bonaro, Vittorio Cotronei, Emanuele Crocetti, nwBruno Elpis, Daniela Esposito, Lorella Fanotti, Lodovico Ferrari, Livio Fortis, Valerio Franchina, Luisa Gasbarri, Oliviero Giberti, Elena Girotti, Concita Imperatrice, Carlotta Invrea, Fabrizio Leo, Sandra Ludovici, Micaela Ivana Maccan, Cristina Marziali, Stefano Masetti, Maurizio Mequio, nwSimone Pelatti, Antonella Provenzano, Maria Stella Rossi, Giuseppe Sciara, nwSalvatore Stefanelli, nwSer Stefano, nwSunThatSpeed, Marco Vignali.

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Luna 69-19

Luna 69-19

antologia di opere ispirate al concetto di "Luna" e dedicata al 50° anniversario della storica missione dell'Apollo 11

Il 20 luglio 1969 è la data che segna per sempre il momento in cui il primo essere umano ha posato per la prima volta i piedi sul suolo lunare. Quel giorno una parte di voi era d'avanti ai televisori in trepidante attesa del touch-down del lander, altri erano troppo piccoli per ricordarselo e altri ancora non erano neppure nati, tuttavia ne siamo stati tutti coinvolti in molteplici maniere.
A cura di Massimo Baglione.

Contiene opere di: nwAlessandro Mazzi, nwAndrea Coco, Andrea Messina, nwAngelo Ciola, nwCristina Giuntini, nwDaniele Missiroli, nwEnrico Teodorani, nwFrancesca Paolucci, Franco Argento, nwF. T. Leo, Gabriele Laghi, nwGabriele Ludovici, nwGabriella Pison, nwIunio Marcello Clementi, nwLaura Traverso, nwMarco Bertoli, nwMarco Daniele, Maria Emma Allamandri, Massimo Tessitori, nwNamio Intile, Pasquale Aversano, Pasquale Buonarotti, nwPietro Rainero, Roberta Venturini, nwRoberto Paradiso, nwSaji Connor, nwSelene Barblan, nwUmberto Pasqui, Valentino Poppi, Vittorio Serra, Furio Bomben.

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