Sere di ottobre
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Sere di ottobre
Io, che all’epoca dei fatti altro non ero che un giovane attendente dell’optio che comandava il manipolo di cui facevo parte, camminavo insieme agli altri comites, venti in tutto, uomini, cittadini liberi, legionari di Roma. Con noi c’erano due signiferi, quattro equites del reggimento della cavalleria di Lelio, egli stesso, cinque centurioni, tre legati di coorte, due mori della Numidia, Massinissa, unico vero re di quei selvaggi e inospitali territori di là del mare nostrum da noi riconosciuto, Cornelio e io.
Il comandante aveva lo sguardo fisso avanti a sé, ispirava profondamente con aria assorta, concentrato sul da farsi e noi con lui; discendemmo uno scosceso avvallamento argilloso, rovi e sterpi tutto intorno, con il frinito e il ronzio d’insetti unica melodia ad allietare il nostro passaggio, insieme al trapestio di zoccoli equini il cui riverbero metallico dei ferri posti alle loro turgide e nere piante si propagava lungo tutto il terreno con un tonfo sordo e opaco.
Sentimmo nelle vicinanze la corrente di un rivo, acqua che bagnava i ciottoli lapidari d’Africa che a me ricordavano le brune e levigate pietre di Hispania e gli opali dell’Ebro: anche allora conoscevo bene i fertili campi iberici, terre di pingui buoi, di Gerione infingardo e di grano bruciato dai raggi del Sole, quando il Carro stava alto in su la volta.
Il tenue fragore delle acque indicava la prossimità della radura.
Oltrepassammo un placido appezzamento di ulivi, cespugli di sterpi adiacenti ad acacie i cui oli e balsami erano decantati in tutto l’orbe, e brulle colline di tamerici: non ginepri, nessun cumino tanto caro al genio di mio padre e ai Lari protettori. La vita si appressava alle ombre e all’ora del riposo e le spigolature delle messi, ancora oltraggiate dalla spoglia falce che scandiva l’intervallare delle stagioni, si piegavano all’avanzare del nostro drappello, legato di Roma nelle terre dei leoni.
L’infelice figlio di Dauli non faceva pervenire il suo mesto canto e il nibbio portatore di sventure non librava le sue ali nel caldo cielo numidico; solo stridii d’avvoltoi, risate di iene e minacciosi sibili di caimani circondavano noi, lì per vendicare il sangue romano sparso alla foce della Trebbia e sopra la mai più fertile terra di Canne. E per porre fine a quella guerra, che lunghi anni imperversò nel nostro sacro suolo italico. Le fiere attendevano un lauto banchetto preparato per l’indomani, al levarsi del Sole.
Molte volte la mia cara madre fu in forte angoscia, pregando e supplicando gli immortali che le orde del Temibile non venissero a razziare la nostra villa venusina poche miglia a sud dal terreno dove migliaia di virtuosi difensori dell’Urbe ebbero trovato il loro imperituro giaciglio.
La luna rifulgeva alta ed eburnea e faceva riflettere l’ombra della sagoma di Cornelio e del suo fiero cavallo lunga, a terra, mentre lenti avanzavano entrambi con fare guardingo. Al suo arrestarsi, noi facevamo altrettanto.
Massinissa era alla sua sinistra; Lelio lo affiancava a destra, e mi ricordo non tolse mai la nodosa mano dall’elsa del proprio gladio, flagello dei Mauri.
Giungemmo alla radura: era la notte del diciottesimo giorno, l’ottavo mese di October, cinquecentocinquant’uno anni dalla fondazione della Città; da poco si era conclusa la stagione del vino che sempre rallegra i cuori.
Li scorgemmo mezzo stadio avanti a noi; erano disposti tutti in sella ai propri cavalli secondo un raggio d’arco convesso che alla nostra vista divenne concavo: il fiero e temibile punico stava al centro e diede passo al cavallo, trottando verso noi e facendo disporre le schiere con lui ai lati, soldati che innalzarono sovente le picche in aria al suo passaggio; lontano, alle loro spalle, si vedevano a est del campo numerosi fuochi e bivacchi: era il loro accampamento.
Lelio guardava Cornelio, che di rimando mirava il comandante nemico appressarglisi in sella al proprio purosangue grigio dal nitrito maestoso e dalla criniera nera e fulgida; il comandante ostile era possente di statura, aveva ampie spalle e ampio petto, folta barba ed era guercio da un occhio. Anche i suoi sodali mossero verso di noi in numero pari al nostro, diversi di loro biondi e fulvi celti imponenti, qualche moro numidico – che guardava torvo Massinissa - con incisioni sulla pelle, medagli e anelli a forarne lobi e membra del torace, e infine i nemici cartaginesi, quelli a lui più prossimi. Riconobbi tra quelli il solo nobile Magone più un capotribù celtico, alto ed eccelso, con una doppia lancia in mano: mio padre combatté contro i suoi uomini e contro le linee dei liguri nella battaglia del Ticino, il cui letto del fiume ancora oggi bagna tumulo le sue ossa. Lo so perché alcuni dei suoi soldati, che insieme a lui avevano sofferto, cantato nelle notti stellate e sperato in un ritorno a casa, vennero alla villa di mia madre, portando la nuova e descrivendo le fattezze e i tratti somatici di molti nemici, dei più fieri in particolare. Si chiamava Vrenno ed era un condottiero di uomini che vivevano in tende di là dal Rodano.
―Mi pervenne voce che volesti incontrarmi, nobile Cornelio.― esclamò il punico, possente nella voce, vestito con una lunga tunica di lino riparata da una corta pelta metallica; custodiva al braccio il suo elmo dal cimiero blu, e dello stesso colore era il peplo che gli discendeva lungo il fianco; sull’altra mano teneva impugnata, dolcemente e senza alcun vigore belluino, la lunga asta di frassino.
Cornelio lo fissò, inizialmente senza rispondergli; era giovane, ardente, bruciava d’ambizione e aveva sete di battaglie, per la gloria di Roma e per la sua. Gli occhi erano scuri, vivi e scintillanti; lento nel parlare e di mente acuta, un tagliente stratega sul campo di battaglia. Portava alto lo stendardo della sua gens, nobile stirpe di cittadini virtuosi e incorruttibili; erano passati ormai quasi due anni dal suo sbarco nella terra dei leoni e fu lui a tenere viva la scintilla dopo l’onta: le sue controffensive in terra hispanica e ai Campi Magni avevano ridato slancio al Popolo e al Senato romano. Già da allora io ero un soldato impiegato nei suoi manipoli durante quelle vittoriose spedizioni; costruivo torrioni, scavavo fossati e attendevo al mio superiore Lucius, l’optio della retroguardia del nostro battaglione, mio e dei fratelli d’arme che come me tenevamo alta l’insegna dell’aquila invicta.
Conoscevo l’impeto e la risolutezza di Cornelio, generale come suo padre, nato anch’egli negli accampamenti e avvezzo alle asperità della vita di un milite. Egli sapeva come effondere coraggio ai suoi uomini, combatteva senza mai tirarsi indietro ma sapeva anche essere duro e spietato verso la codardia, l’indisciplina e l’insubordinazione. I Patres avevano affidato alle sue armi e alla sua sagacia le sorti della Res Publica.
―Si. Desideravo guardare proprio te negli occhi, nobile e temibile Barcide!
Dalla sua voce non emergeva astio o aggressività verso il nemico; piuttosto una sincera ma velata ammirazione. Egli non temeva il feroce Annibale; voleva sconfiggerlo sul campo il cartaginese, secondo forse solo ad Alessandro per strategia militare e dovizia d’ingegno.
Il punico aveva un’aria fiera e risoluta ma allo stesso tempo sembrava affaticato dalla vita, dalle battaglie, dalle lunghe e sfiancanti marce e dalle corruzioni della vita politica in città. Le forti braccia sembravano aver esaurito l’antico e spaventoso vigore, quell’impeto che gli permise in passato di solcare i flutti del mare a comando della sua flotta, con cui espugnò Sagunto magnifica, che gli fece oltrepassare Pirenei e Alpi alla testa di feroci guerrieri e gigantesche creature dalle zanne sopra le fauci, al fine di infliggere a noi tutti, stragi, lutti e razzie, entro l’antico suolo d’Esperia.
―E perché comandante romano? Cosa ti ha spinto a voler far cavalcare i tuoi uomini e i miei la sera prima della battaglia? V’è forse una qualche tua intenzione a cessare le ostilità?
―Solo alle condizioni che Roma imporrà al tuo popolo!
―Irriverente, nobile Cornelio!― rispose il capo cartaginese sorridendo mestamente, con gli occhi che fissavano il suolo ―…e quali sarebbero le condizioni della tua città?
―Cartagine si sottometterà a Roma, pagandole il tributo che il Senato e il Popolo Romano stabiliranno: in talenti, grano e mercanzie. Seguirà l’immediata smobilitazione del tuo esercito e della flotta dai rapidi remi che per anni hanno sollevato indegnamente la spuma del nostro mare, predando acque e litorali di popoli liberi sotto la protezione di Roma.
―Sai bene, nobile Cornelio, che ciò non avverrà mai senza sangue: non c’è alcuna conquista con la spada riposta nel fodero. Ma tu sei giovane e credi ancora all’onore dei tuoi avi e della città che difendi. Presto capirai cosa è avvenuto alle tue spalle e cosa ti riserverà il domani Scipione; hai versato del sangue per un popolo, per gente che aspetterà solo di vederti - gelosa della tua gloria - caduto in disgrazia. Ho passato da diverso tempo gli anni febbrili che oggi hai tu soldato, qui invasore del suolo che mi hanno affidato di proteggere; so bene le aspettative che hai. E anche le ambizioni che covi nel tuo profondo...―
―Io non covo nessun’ambizione personale, generale punico!― lo interruppe Cornelio; un silenzio di paura e di imbarazzo circondò i due semicerchi che scortavano i comandanti; il celta della grossa mole lo si vedeva stringere la pesante lancia con foga e violenza repressa per aver udito come il suo nobile anziano condottiero fosse stato interrotto da cotanta insolenza.
Ma Annibale sorrideva; sembrava non curarsi del fiero portamento di Cornelio Scipione, cosa che di contro fece rabbia a quest’ultimo: cominciava a sentirsi schernito e trattato con sufficienza dal generale cartaginese.
―Mio padre mi diceva spesso, quand’ero ancora un ragazzo, che le guerre si vincono con la spada o con l’oro: non esistono altre vie, soldato romano…―
―Non sono un soldato! Io sono il comandante dell’esercito romano!― ripiombò netto Cornelio alzando il tono della voce.
I cavalli a quel punto cominciarono a impennare e Magone sguainò la spada, atto che noi interpretammo come una minaccia, impugnando gli scudi oblunghi e gli spiedi affilati. Il luogotenente di Annibale si rivolse a Cornelio, minaccioso ―Interrompi ancora una volta il mio generale, soldato romano, e questa notte stessa i vermi consumeranno le tue carni!
Io impugnai la lancia muovendomi contro il mastodontico soldato celtico e lui verso di me, puntando il clipeo come volendo accogliere la mia provocatoria sfida, ma fu Annibale a riportare la calma, parandosi innanzi con il cavallo.
―Che questa radura non veda il sangue di prodi guerrieri, commilitoni, numidi e romani! La terra di Zama domani! Sarà lei a nutrirsi di corpi e del fragore d’armi: non qui! Non adesso soldati! Hanno impartito tutti noi la disciplina e il rispetto dovuto alle ambasce. Alla parola il suo pegno. Alla spada il tributo che le è dovuto!
Imponente e autorevole la voce del Barcide sovrastò quella di tutti i presenti lì nella radura; solo Cornelio era rimasto impassibile, senza impugnare arma o scomporsi al seguito della minaccia di Magone.
―E sia allora, Annibale Barca! Domani la feconda sabbia di Zama si tingerà del porfido dei nostri mantelli e del rosso del sangue punico, celtico e macedone: so delle truppe ausiliare sbarcate in tuo soccorso!
―È forse un illecito il mio, nobile Cornelio? Far in modo che un popolo al quale voi vorreste sottrarre la libertà salpi fin qui e combatta contro la vostra tirannia? No! Non me ne vergogno. Ho visto i miei fratelli morire e soccombere nella tua terra; le mogli non rivedranno mai più i loro volti. I soldati più esperti e fedeli che abbia mai avuto non ci saranno domani mattina! Al mio ordine avanzeranno barbare truppe avvezze alle risse, insieme a mercenari lautamente retribuiti dal mio sinedrio. Non combatterò in un terreno da me scelto e studiato. Se proprio vuoi saperlo mi è stato perfino imposto il dare battaglia per questo giorno Scipione. Non io! Non io l’ho voluto! Ma tu continua pure a ritenere che domani combatteremo ad armi pari! Piacciati pure il credere alle fandonie che proclamano i tuoi consoli e gli oratori nelle pubbliche piazze; pensalo, se vuoi, che sarà la tua superiorità a farti vincere la battaglia, ammesso che tu riesca a prevalere su di me! Non dovresti mai sottovalutare un vetusto generale!
―E difatti non lo farò! Non ti sottovaluterò Annibale Barca: non domani! Ho udito la fama e le prodezze belliche che ti contraddistinguono; la tua doga aguzza è intiepidita dal sangue romano, sangue che però tu ritieni essere stato versato in misura inferiore rispetto a quello cartaginese; cinquantamila cittadini e soldati, uomini, amici di mio padre e servitori della Res Publica, sono stati trucidati e scannati dalle tue orde di invasori. So della tua marcia lungo le terre celtiberiche e italiche; hai sollevato intere popolazioni contro l’ordine del mio popolo. I tuoi numidi e alleati celti hanno per anni predato villaggi e case del nostro territorio, violato donne e ucciso inermi. E adesso tu vieni a parlarmi di fandonie della mia gente? Di discorsi oratori? No Barcide! Domani a questa stessa ora, gli avvoltoi qui intorno beccheranno la carne e gli occhi di uno di noi, la vostra o la nostra scorta: mi rivolgo anche a voi, celti traditori della fides!― esclamò Cornelio all’indirizzo di quei barbari presenti nella scorta nemica ―Dici che non hai potuto preparare questo scontro come avresti voluto, perciò convogli tutte le aspettative su me e sui mei uomini ma sappi che domani le sorti della battaglia saranno decise dai celesti e dal volgersi della Fortuna: non l’oro, non il Senato cavalcheranno le piane di Zama; ci sarò io, ci sarai tu, i miei fedeli, i superstiti di Canne bramosi di vendetta e i tuoi, bramosi di risse e denaro: sia pure come sostieni. Ma non dire che sarai orbato dei tuoi sodali veterani; Magone è qui e vedo degli esperti combattenti anche nel mezzo di questo manipolo. Domani saremo schierati armi pari l’uno di fronte all’altro.
Annibale e Cornelio si fissarono; il punico lo compativa, mostrava un atteggiamento disincantato circa l’esito della guerra, giacché riprese ―Non sono qui per convincerti. Né ho alcuna intenzione di ascoltare le vostre umilianti condizioni di quella che definite “pace”. Sarai tu stesso a scoprire col tempo che è l’oro e non la spada la gloria di Roma.
―Questi discorsi non ti rendono onore Annibale. Non sono adatti a un uomo della tua tempra!
―La mia tempra, giovane Scipione? Non ho più alcunché da dimostrare ormai a questo mondo: la mia gloria e il nome che porto viaggiano già sulle ali dei messaggeri, pronte quali sono a pervenire, com’è giusto che sia, ai posteri.
Ho scalato cigli, speroni e gole; picchi scoscesi e nevai che al levar del sole rifulgevano dell’oro e dell’azzurro del cielo. Sferzata dai venti o bruciata dal calore, la mia pelle si attaccava all’usbergo. Ho visto crollare le altere torri di Sagunto dopo sei mesi di duro assedio. Ticino, Trebbia, l’imboscata del Trasimeno, l’orgia di sangue nella piana di Canne: il mio nome è impresso in ogni dove nei terrori del tuo popolo. E tutto questo l’ho fatto per il mio; per il popolo che vide i miei piedi muovere i primi passi reggendosi alle solide gambe di Annibale Maggiore; le genti che bevevano le acque con le quali piccolo mi dissetavo anch’io. Meditavo rovine e stragi per i tuoi; già vedevo le nari dei miei cavalli sbuffare zampilli di sangue romano; nelle secche terre apuliche potevo da lì sentire il riverbero delle voci di vostre donne che urlavano “Annibale alle porte!”. Poi fui abbandonato. Il consiglio bloccò il rifornimento di uomini e vettovaglie che io, solerte, chiesi l’indomani delle mie schiaccianti vittorie. Mancava poco alla risoluzione di muovere a nord per cingere le vostre mura di arieti, ferro e corvi. Inverni all’addiaccio, sottoposti al gelo degli appennini. Le stagioni passavano, i ciliegi tornavano ciclicamente in fiore, fichi primaticci erano il nostro pasto sotto la calura dello scirocco e le piante gemmavano nella bella stagione; vedevo quotidianamente le cancrene dei miei uomini migliori gonfiarsi e imputridirsi fino a marcire: li vidi spirare anelando la morte. Ma voi temporeggiavate, stessa cosa il Suffeta e il consiglio di Cartagine. Sono passati ormai quasi vent’anni e ogni notte, prima che il giaciglio della mia tenda sollevi dalle mie spalle il giogo d’armi che io stesso ho scelto di portare, odo la voce di mio padre che continua a sussurrare al mio orecchio “O la spada o l’oro!”. Mio padre, che m’ha cresciuto nel rigore e nelle asprezze della vita!
Poi vidi la testa di mio fratello avvolta in morbido panno bianco presentata davanti ai miei occhi dopo il Metauro: solo allora compresi ogni cosa. Il suolo italico non poteva essere domato col valore…―
Scese un silenzio a quelle parole; il crepitio delle fiamme che ardevano le torce e il frinito delle cicale era l’unico sentore effuso in quei momenti così solenni. Poi riprese, sempre il temibile Annibale ―Quanti anni hai tu Cornelio? Tre decadi? Daresti la vita per i tuoi uomini? Certo che lo faresti: te lo leggo negli occhi! Ho provato tutto quello che stai provando tu adesso: aspirare ai trionfi, alla fama, alla salvezza e all’imperio dei tuoi concittadini. Ma ricorda, giovane soldato romano: le logiche che reggono le fondamenta di uno stato hanno poco a che vedere col nostro onore di soldati, poiché la virtù è l’unica remunerazione alla quale quelli come noi possono aspirare!
―Farnetichi Barcide! Sai che la tua ora è prossima e la temi…
―La morte? Mai! Non io! Temo solo una cosa del tempo che mi resterà da vivere, poco o molto che sia: il fatto di poter diventare un domani un peso a me stesso. Questo pavento! La viltà! Il rimpianto! Non la morte!
―Combatto per il mio popolo e distruggerò la tua città, le tue navi e i tuoi porti; avrò riguardo solo per gli dèi dei tuoi padri e per i loro templi.
―Oh…non ci risponderanno gli dei il giorno in cui Cartagine verrà presa…―
―La tua è empietà!
―Forse: in ogni caso però prima dovrai vincere la tua guerra!
―Domani ciò avverrà!
―E quand’anche cosi sia? Cosa pensi? Di tornare a Roma in trionfo con me in catene o la mia testa appesa a un rostro? Ti osanneranno; invocheranno imperator all’avanzare del tuo corteo per poi? Quando si stancheranno di te sarai dimenticato; se acquisirai troppo potere troveranno a tuo carico solidi capi d’accusa. Se qualcuno di lignaggio più nobile del tuo, o maggiormente influente rispetto a te nella vita civica, dovesse averti in odio, pagherà la sua clientela affinché il tuo nome sia bandito perfino nei comizi. Ora sei indispensabile ma quando ciò non sarà più, ricorderai ancora le cupidigie di guerra e gloria che bramoso speravi di ottenere? Il tuo nome legato a quello di questa terra magari? Le tue ossa diverranno fiacche, la tua carne pingue e opulenta. Allora diranno “Publio Cornelio Scipione! Colui che si appropriava delle ricchezze dello stato e che viveva alle spalle del Senato e del Popolo Romano!”. Rimpiangerai ogni singola goccia di sangue che tu, nei giorni migliori, versasti per il popolo latino che adesso ti ostini tanto a difendere; sari bandito dalla città, processato per l’invidia di uomini corrotti che affermeranno –spergiuri o no- che anche tu lo sia. Allora morirai esule e indignato, dimentico della tua città e restio perfino al pensiero che le tue decomposte membra possano un giorno tornare alla dimora che ti partorì.
―Non sai quello che dici Annibale; sei vecchio e stanco e cerchi scuse per non combattere!
―Anche se le cercassi la mia indole non potrebbe mai rifiutare lo scintillio delle lame. Sono un guerriero, soldato romano: e lo sei anche tu…
―Dunque per cosa combatti? Agli dei non credi, della tua gente e di coloro che vi governano non ti fidi. Per cosa ti batterai domani allora?
―Per l’onore del mio nome! E per quello di mio padre! Per la spada che ho sempre portato con fierezza e lo scudo che non ho mai smesso di imbracciare; per questi piedi, che hanno battuto terre mari e sentieri di tre continenti. E per la pace. Che troverò soltanto quando la tenebra la porterà con sé, chiudendo i miei occhi…―
Seguì un ulteriore silenzio. Poi aggiunse:
―Tu invece Cornelio? Per cosa combatterai domani?
Furono le ultime parole che sentii pronunciare quella notte e furono del punico. Cornelio prese la torcia e la agitò scotendola all’indietro, segno per noi che era il momento di chiudere quella legazione. I galli e gli uomini di Annibale chinarono il capo, mesti all’udire le parole dello strenuo difensore di Cartagine.
Ai cavalli vennero date le briglie, facendoli indietreggiare coi morsi, generando così un disperso levarsi di polvere e grumi di sabbia dal terreno.
Cornelio fu il primo a prendere il galoppo, dando ordine di ritirarci immediatamente alle nostre tende.
Io, ancora scosso da tutto quello che avevo appena ascoltato, presi l’ardire di rivolgermi a lui, dicendo ―Comandante! E se decidessero di attaccarci qui, adesso? Non dovremmo dare loro le spalle altrimenti…―
―Sta in pace miles! Non lo faranno!
―Ti fidi di quei barbari?
―No, certamente! Riconosco che a comandarli c’è un guerriero!
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Un buon lavoro, complimenti. Non ho nulla da segnalarti dal punto di vista formale, a parte qualche incertezza nella punteggiatura passando dal discorso diretto a quello indiretto. Moderazione con gli avverbi (eccessivamente, abbondantemente, profondamente) soprattutto nei periodi iniziali. E con gli aggettivi; meglio uno in meno che in più.
Attenzione a non scivolare in un linguaggio aulico che con la trasposizione del modo di esprimersi e pensare latino ha poco a che vedere.
Non so se hai mai letto i taccuini di appunti della Yourcenar in appendice al suo "Memorie di Adriano"; un aiuto ti potrà di sicuro venire da là, oltre che dalla lettura dei classici.
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Il racconto è ben scritto, denota conoscenza profonda delle terminologie militari e degli eventi storici, il mio giudizio è positivo.
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P.S. Esprimerò il voto dopo attenta rilettura.
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