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Indice:
La gara
La follia!
Quale verità?
Gli amici
Potessi fare la carr…
Tornasole
Fuori tempo
La mattoide
Voci
Sciafff
La folle si elogia
Desideri
Disordine
Sostieni la nostra p…
Copyright
Una produzione

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La gara

Gara 42
ELOGIO DELLA FOLLIA
novembre 2013
antologia per BraviAutori.it
da un'idea di Lodovico Ferrari
In copertina: Magritte, Forbidden literature (The use of the Word)
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

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La follia!

“Quale momento della vita non sarebbe triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso, senza il piacere, e cioè senza un pizzico di follia?”. Così scrive Erasmo da Rotterdam nel suo “elogio della follia”.
Quindi per questa gara seguiremo l’indicazione di Steve Jobs “stay hungry, stay foolish” “siate affamati, siate folli” (per l’occasione faremo finta di avere già mangiato).
Storie di follia, di ordinaria o straordinaria follia. Personaggi folli oppure folli storie, scegliete voi. Pazzi cattivi e pazzi buoni. O anche pazzie d’amore, sogni sconclusionati, insomma cose da matti. Perché, come afferma sempre Erasmo, “La vita umana non è altro che un gioco della Follia”.
Terzo classificato:
Alessandro D. – La Mattoide
secondi classificati:
Anto Pigy – Gli amici
Kaipirissima – Desideri
Primo classificato:
Nunzio Campanelli – Quale verità

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Nunzio Campanelli

Quale verità?


“Ti restano sei, otto mesi di vita al massimo. Perdona la franchezza ma credo che non si debba mai mentire, soprattutto in questi casi.”
Il tono della voce non rivelava nessuna apparente emozione, nulla che comunque avesse a che fare con la propria coscienza.
Convinto che la sua condizione di medico lo ponesse sopra le convenienze, i sotterfugi di solito usati per evitare l’imbarazzo di dover comunicare tali messaggi, pensava di meritare rispetto e riconoscenza da parte dei destinatari. In effetti indossava l’aura di chi si sentiva intermediario tra coloro che debbono morire e l’entità superiore che governa i destini del mondo.
Come sempre era solito fare dopo aver emesso le sue sentenze, anche questa volta si stava allontanando in silenzio per consentire al condannato di turno di assimilare la notizia, e soprattutto per evitare d’essere coinvolto emotivamente.
Un messaggero di morte non può, e non deve, provare pietà.
“ Perché lo fai?”
La domanda lo colse mentre stava per afferrare la maniglia della porta. Rimase bloccato in quella posizione, con la mano protesa in avanti, per alcuni istanti.
La stessa inesorabile questione che occupava per intero le sue notti, privandolo del ristoro del sonno. Non esistevano risposte per quella domanda, e nella solitudine della notte la disperazione era la sola compagna.
La piccola crepa che aveva iniziato a ledere l’integrità delle sue certezze si richiuse rapidamente. Tornò a sedersi allo scrittoio, per rispondere a quella domanda sfrontata.
“Credi che avrei dovuto dispensarti una verità di comodo con la quale drogare la tua coscienza, magari alimentando false speranze costringendoti a sottoporti a inutili, costose e dolorose cure, privandoti quindi del poco tempo rimasto che invece dovresti dedicare ai tuoi affetti, ai tuoi cari?“
Guardò di fronte a sé, soddisfatto delle proprie argomentazioni.
“Sostieni di avere l’obbligo di rivelare la verità. Ti sei mai chiesto che cosa sia la verità se non un aspetto della questione, un modo di vedere, una convenzione? Lo sai che nel preciso istante in cui riveli quella che pensi essere la verità questa diviene menzogna per il semplice fatto che a quel punto chiunque può corromperne l’essenza, persino i destinatari della rivelazione che interagendo con la stessa ne modificano il senso? Lo sai che la verità non esiste se non in forma di mistero assoluto, e che l’unica verità è quella che ancora non conosciamo. No? Quante cose non sai, per essere uno che afferma di agire in nome della verità.”
La crepa si riaprì per non richiudersi più.
Avrebbe voluto rispondere a quelle tesi, rammentando che la dignità della sua condizione lo sollevava da certe sfumature dialettiche, da certi sofismi.
Pensando di essere impazzito però, continuava a fissare la sedia di fronte alla scrivania.
Una sedia vuota.
Non sapendo più cosa fare rilesse quella diagnosi ancora una volta. Fu allora che si accorse di quell’oggetto nella sua mano.
L’aveva preso dal cassetto della scrivania senza pensarci, e ora rifletteva le sue paure.
Doveva controbattere quei concetti, non poteva lasciarli incuneare nelle sue certezze.
La sedia, però, era vuota.
Cominciava a capire come si potesse interagire con la verità, tramutandola in menzogna.
La successiva esplosione di uno sparo di pistola proveniente dal suo studio provocò un’incontrollata agitazione tra le varie persone in attesa.
L’infermiera, indecisa, infine aprì la porta. Il cadavere di quello che era stato fino a poco prima il suo datore di lavoro giaceva riverso sopra la scrivania, con il cranio squarciato da un proiettile.
Una vasta chiazza di sangue si andava allargando sopra una lettera di diagnosi.
Il nome del mittente coincideva con quello del destinatario.

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Anto pigy

Gli amici


Conobbi Marco sui banchi di scuola. Era un ragazzo taciturno, voleva essere lasciato in pace e non fa ceva amicizia con nessuno. Se ne stava nell’ultimo banco in fondo a guardare dalla finestra, estraneo a tutto. Io mi sedetti in parte, capitando quasi per sbaglio su quel posto. Fu come se le nostre solitudini si incontrassero e, in un qualche modo, si annullassero.
“Ciao, sono Carlo Milano.” Gli dissi porgendogli la mano. Lui mi guardò in silenzio, soppesandomi. Mi sentii messo a nudo dal suo sguardo, come se fosse in grado di leggermi dentro, come se potesse conoscere di me tutto quello che io stesso non potevo neppure supporre. Sentii su di me le occhiate interrogative degli altri compagni, che evidentemente avevano già deciso che il tipo era strambo e che andava tenuto lontano.
Non mi strinse la mano, mi fece solo un segno con la testa. Era già abbastanza. Sapevo d’istinto che ci saremmo capiti, che io avrei rispettato il suo riserbo così simile al mio e lui mi avrebbe apprezzato e accettato per quello che ero.
E così fu, anche se la nostra amicizia poteva sembrare strana. Potevamo essere più diversi? Non credo. Io biondo occhi chiari, lui capelli castani e occhi marroni. Io attento alle lezioni e sempre preparato, lui distratto, noncurante dei brutti voti.
Durante i compiti io mi gettavo a capofitto nelle domande e ne riemergevo dopo un’ora di intenso lavoro. Poi mi giravo e vedevo Marco. Mordicchiava la punta della penna, lasciando scorrere lo sguardo lungo gli aceri del cortile, seguendo languidamente il cadere tenue delle foglie. Il suo compito bianco tranne che per il nome, Marco Lolani. Io gli spingevo il foglio più vicino in modo che potesse copiare, colpendogli il braccio con il gomito per riportarlo tra noi. Lui mi guardava, stupito, mi sorrideva mentre io gli facevo segno di leggere e ignorandomi tornava a guardar fuori.
Ovvio che cominciavo a stare in pena per lui.
Con l’andare del tempo coglievo gli sguardi pensierosi dei professori, che sbirciando verso di noi si mettevano a discutere con apprensione. Sapevo che non era solo il suo andare male a scuola a essere una preoccupazione, ma il suo comportamento distaccato, indifferente a tutto.
Il professor Righi ogni tanto mi prendeva in disparte per parlare, cercando di comprendere. Ma le domande che faceva non erano mai quelle giuste, sembravano andare attorno al problema senza mai avere il coraggio di affrontarlo. Avrei voluto dirgli tutto quello che pensavo, ma non potevo. Un po’ perché non sapevo come farlo, un po’ perché mi sembrava quasi di tradire la fiducia di Marco.
Eppure io lo capivo benissimo. La nostra amicizia era fatta più di silenzi che di parole, più di sentimenti condivisi che di discorsi inutili. Io leggevo la sua ansia e la sua voglia di essere altrove, provavo la sua stessa nostalgia del nulla, quello struggimento incomprensibile nel sentirsi rinchiuso in un luogo, in un corpo o in un tempo che in un qualche modo non ci apparteneva.
Come se la vera realtà fosse un’altra e nessuno se ne fosse accorto.
Anche i compagni erano passati da un comportamento indifferente a uno più ostile. Avevo avvertito il cambiamento che sorgeva poco a poco, senza poterci fare nulla.
Mentre Marco ed io alla ricreazione ce ne stavamo in disparte, sentivo le compagne sghignazzare mentre ci osservavano da lontano, udivo il mio nome sussurrato alle mie spalle, epiteti poco simpatici su di noi che mi giungevano a stralci: “è pazzo…”, “è fuori…”, “è pericoloso…”, “è capace di arrivare con un fucile…”, “io ho paura”.
Paura di Marco! Il pensiero mi faceva ridere. Lui non si curava delle cose che dicevano, probabilmente nemmeno le sentiva. A me invece facevano male. Tutti gli insulti rivoltigli mi arrivavano addosso come e peggio che se fossero stati rivolti a me. Lo avrei quasi desiderato, avrei mille volte preferito che mi prendessero di mira al suo posto. Ma cosa potevano dire di Carlo? Anche in questo caso brillavo di luce riflessa, io ero “il povero sfigato”, ero il “mezzo demente” che stava appresso al pazzo.
Marco cercava di insegnarmi a fatica, con le sue parole e con il suo comportamento, che quello che dicevano non aveva importanza, che non era essenziale quello che gli altri pensavano ma ciò che noi stessi eravamo, che non dovevamo dimostrare niente a nessuno.
Un giorno, durante una lezione, un compagno bisbigliava le solite cattiverie, ridendoci in faccia.
“Smettetela!” Urlai alzandomi in piedi. “Smettetela di parlare male di me e Marco! Cosa vi abbiamo fatto? Non lo capisco.” I compagni ci guardavano attoniti e stupiti. Con soddisfazione vidi che erano vergognosi di se stessi. L’insegnante aveva un’aria dispiaciuta, ma non mi fermò e io andai avanti. “Ce ne stiamo in disparte senza dare noie a nessuno e voi continuate a prenderci di mira, perché siete meschini e non avete nulla di meglio da fare nelle vostre miserabili vite. Guardate Marco e ridete perché non lo capite, invece dovrebbe essere un esempio per voi. Io sono stanco! Crescete!” Dissi infine. Poi mi girai per vedere l’effetto che il mio discorso aveva fatto su Marco. Lui mi guardava pensieroso. Gli leggevo dentro un po’ di divertimento e un po’ di rammarico. Quando mi sedetti ancora fremente, mi strinse la spalla e intuii nel suo sguardo una pena infinita.
In qualche modo doveva finire, lo sapevamo entrambi. Forse il mio sfogo aveva accelerato le cose.
C’era il professor Righi quella mattina. Bussarono alla porta. Il preside entrò e ci presentò l’uomo che era con lui come il dott. Giusti.
“Il dott. Giusti e io siamo venuti a prendere Carlo Milani.” Disse il preside con un sorriso sulle labbra.
Io non capii. Guardai Marco con aria interrogativa e lui, senza dire nulla, mi restituì uno sguardo allarmato.
“Carlo Milani.” Chiamò il preside. “Vieni, prendi le tue cose.” Lo diceva con un tono tranquillo, ma sentivo che era forzato. I compagni tacevano, non mi guardavano. Lentamente mi alzai, presi lo zaino e mi avvicinai. Dietro al preside e al dott. Giusti, ancora fuori dall’aula, vidi mia madre. Aveva gli occhi tristi, mi ricordai delle parole che non avevo voluto ascoltare quella mattina, prima di uscire di casa.
“Ci vediamo presto, Carlo.” Mi disse il professore con serietà.
“Posso almeno salutare il mio amico Marco?” Dissi cercando di mantenere un tono calmo.
“Vieni Carlo,” mi rispose il dott. Giusti “parleremo dopo di Marco.”
Non volevo andare ma obbedii. Uscendo mi girai un’ultima volta verso il mio amico. Là in fondo, nel nostro posto vicino alla finestra, rimanevano due banchi vuoti, mentre le foglie degli aceri volteggiavano posandosi sul davanzale.

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Pessimo autore

Potessi fare la carriola


Dal finestrino guardava il terreno sfrecciare dietro di lui. Il testone, apparentemente troppo pesante, era stancamente posato sulle nocche e, ogni tanto, scivolava via, ma veniva ogni volta rimesso al suo posto.
Lanciò un occhiata ai vari presenti scorrendo dall'uno all'altro, squadrandoli interamente senza molta corte sia; ne studiava abbigliamento, modi di fare, come conversavano e come si comportavano con le persone a loro circostanti. Sospirò una volta finito e tornò a guardare fuori.
Poteva catalogare ognuno di loro tramite archetipi di persone già viste, personalità già conosciute, cipolle di atteggiamenti già spolpate fino al nocciolo. Carla, Giulio, Marco, Sandra... aveva un nome per ognuno di loro, forse anche due. Era come se già li conoscesse tutti, come se li avesse già visti da una vita, non importa quali fossero i loro sogni, le loro aspettative e ciò che pensavano di essere; li conosceva già tutti, come tutti gli esseri umani non erano altro che automi di carne progettati per svolgere determinate funzioni e non di più, costretti a ripetersi generazioni dopo generazioni negli stessi errori, negli stessi dilemmi, nelle stesse relazioni, negli stessi drammi. Cambiavano le lingue, i mezzi, la forma... non la sostanza, erano solo meri sacchi di carne umana mossi da programmi biologici. Per quanto ognuno di loro potesse credere di essere unico e originale in realtà non faceva altro che vivere una vita già vissuta, forse sì, era unico rispetto alle persone che gli stavano attorno, ma era identico a qualcuno vissuto dieci, cento o mille anni prima.
Si immaginava qualche povero idiota seduto in un carretto a guardare il panorama con aria sconsolata... voleva essere di più, voleva rompere quel ciclo di ripetitività, ma come? Era forse possibile?
Nonò nonò, nonò nonò, nonò nonò
Quel fastidioso rumore del treno, non lo sopportava a cosa era dovuto? Le ruote avevano particolari forme per non distorcersi o erano i binari ah sì binari come le autostrade separati da pezzi di ferro per non deformarsi con il calore dell'estate ha un fisico orrendo devo fare un po' di addominali oppure...
Un uomo sulla cinquantina dalla faccia abbronzata e dai modi rozzi ma affabili si sedette accanto a lui e disse: - Ciao.
Il ragazzo ammiccò.
- Stasera c'è il concerto di Gianna Nannini.- Fece l'altro entusiasta.
- Ah, davvero... interessante...
- Eh sì, quella lesbicona è proprio una gran porca.
Non fece in tempo a spalancare la bocca per l'incredulità che l'altro si alzò e andò ad attaccare bottone con un gruppetto di ragazzi, poi ad un vecchio poi a una madre con una bambina, le battute della sua recita erano sempre due poi si allontanava, a volte aspettava una risposta altre no. Sempre identico ogni volta, eppure, la prima volta fece sorridere il ragazzo, la seconda gli fece accennare una risata, la terza lo fece ridere di gusto.
Quello si alzò e cambiò binario, al primo posto vuoto si mise a sedere. Aveva ancora un residuo di sorriso che si spense quando vide una signora bionda davanti a sé. Era identica alla professoressa di matematica finanziaria, stessa conciatura, stessa smorfia perenne e stesso portamento. Chissà, probabilmente avrebbe parlato allo stesso modo, aveva lo stesso numero di figli un marito al campo santo e una depressione contagiosa.
- Mi, scusi...
-Sì, giovanotto?
- Stasera c'è il concerto di Gianna Nannini.

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Eddie1969

Tornasole


Aprii gli occhi a fatica perché, in effetti, non lo volevo proprio fare. Erano le nove e mezza circa di mattina, il cielo era coperto e scendeva una pioggerellina fine, fine, caratteristica del mese di novembre.
— Accidenti, maledizione, accidenti, maledizione, maledizione!

Che motivo c'era per alzarsi? In effetti non c'era più nemmeno motivo di pormi quella domanda, tante erano le volte che l'avevo fatto in precedenza. Sentivo la terra mancarmi ogni giorno di più sotto ai piedi e avevo paura, una paura senza limiti che, sapevo, nessuno avrebbe potuto togliermi di dosso. Dall'alto dei miei diciannove anni suonati, sentivo che tutto quello che mi stava capitando e mi circondava aveva sempre meno senso.
Il mio modo di concepire il mondo, sia reale che figurato, suddiviso in "bene" e "male" in maniera netta, assoluta, dove nessun compromesso era possibile, mi stava portando sempre più nell'abisso.
Lo psicologo me l'aveva ripetuto più volte che non si poteva far rientrare ogni cosa in una delle due categorie, ma io non ci riuscivo; ci provavo e riprovavo ma non ci riuscivo!
Stanco di rimuginare, mi alzai di scatto, mi vestii e uscii senza che nessuno mi vedesse; nel frattempo era comparso anche un po' di sole.
Camminando di buon passo arrivai fino al vicino parco cittadino, trovai una panchina che mi andava a genio, e, asciugata con un fazzoletto la sua parte centrale, mi ci accomodai: in questo modo nessuno mi si sarebbe messo di fianco.

Stavo per tirare un sospiro di sollievo, quando sentii un tonfo e un conseguente sobbalzo di tutta la mia persona.

— Meno male, ero proprio stanco.

Qualcuno mi si era seduto accanto!

Un grosso orecchio sormontato da uno strano, logoro, copricapo beige con scaldacollo, e circondato da una peluria quasi uniforme che doveva essere l'insieme di barba e capelli, un naso di normale grandezza, e, in basso, un impermeabile, anch'esso sul beige, definivano la figura di un uomo corpulento sui quarant'anni.
Questi, fissando l'orizzonte, dopo alcuni istanti di silenzio, cominciò a parlare in maniera ispirata, quasi vibrante; il suo tono era basso e caldo:

— Guardati intorno! Fai bene attenzione a quello che noti in trasparenza. Non è difficile se usi la tua sensibilità… —

— Dunque l'hai vista? L'hai vista questa opacità, questa specie di nube "azzurro-rosastra" che avvolge tutto? E, dimmi, cosa pensi che sia? La nebbia, l'effetto degli scarichi delle auto o, con più fantasia, una specie di aurora boreale cronica?
No, caro mio, te lo dico io di cosa si tratta, è polvere! Polvere proveniente dal disfacimento delle cose, da tutto quello che ci circonda. Pensaci!
Ma, attenzione, non è uno sgretolamento fisico: esse, dal punto di vista materiale, appaiono sempre le stesse (o quasi); non è afferrandole e stringendole che te ne accorgerai. Stiamo parlando di qualcosa di molto più profondo, più importante, per questo ti chiedo di usare la tua sensibilità; lo si vede dai tuoi occhi, con le palpebre abbassate come una bandiera a mezz'asta, tu lo senti più di chiunque altro!
È la perdita di senso! È il senso delle cose che viene eroso! Il loro significato, quello che esse rappresentano, il loro valore più intimo, la loro anima! Capisci?
A cosa può servire tutto quanto se non ha più un'identità? Cosa può diventare se non un minestrone indefinito? Se non si riconosce più quello che rappresenta, la sensazione, il sapore che ti lascia in bocca?
Non riesci a distinguere se questo o quello sia salato, dolce, amaro, buono, cattivo, migliore o peggiore di quest'altro o quell'altro.
E quello di più terribile, come avrai inteso, è che non solo gli oggetti tangibili vengono colpiti, ma anche quelli figurati! Certo anche loro hanno un senso, anzi loro in particolare sono quelli che danno vita al senso delle cose! Se un oggetto può salvarsi, in parte, aggrappandosi alla sua parte fisica, gli elementi figurati, sono invece, spacciati!
L'amore, la paura, l'allegria, l'odio, la rabbia, il benessere, il malessere, la soddisfazione, e tutte le sensazioni in genere, rappresentano noi e il nostro mondo. Se "amare" diventa una sensazione indefinita tanto quanto odiare, gioire o sentirsi stanco, allora ci sarà spazio soltanto per l'apatia!
Guardati intorno: in questa nebbia dai colori così amichevoli, buoni (i colori dei bambini), procediamo a tentoni, sbattiamo contro qualcosa di non ben identificato e non riusciamo più a capire da dove si stia venendo e dove si stia andando!
I contorni svaniscono, i punti di riferimento sono instabili, provvisori; sempre più provvisori, sempre più instabili! La struttura portante di una casa fatta di sola sabbia.
Pensaci di nuovo: quale può essere il risultato di tutto ciò? Come si può sentire un individuo immerso nella nube?
Per capire meglio dobbiamo introdurre il concetto di "entropia" e osservare che il significato di ogni elemento fisico o figurato è composto dall'aggregazione di infinite unità, ma di soli due tipi fondamentali, secondo uno schema preciso. Li possiamo chiamare semplicisticamente "bene" e "male" (avrai sentito tante volte questa storia).
Se il processo di sgretolamento entropico riduce tutto allo stato di tali molecole base, che inevitabilmente si mescoleranno in modo casuale, la risposta alle domande precedenti verrà da un'unica tremenda, antica parola: CAOS!
Finito il panegirico, l'uomo si alzò e se ne andò, sparendo presto dalla mia vista. Nonostante quello che aveva detto fosse stato proprio un discorso da folli, assomigliava moltissimo alla mia storia, al mio modo di percepire l'attuale stato delle cose, al mio "male di vivere", insomma!

Tornato a casa, nella mia stanza trovai un biglietto di mia madre: — ti ho preso al mercato questo cappello per l'inverno, so che ti lamenterai perché non vuoi mai che ti compri qualcosa, ma ti terrà ben caldo, e durerà a lungo, fidati!
All'inizio non ci avevo fatto caso, ma vicino al biglietto, notai uno strano copricapo con scaldacollo… Esso era di colore beige.

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Scrittore97

Fuori tempo

È notte, una notte calda con una grande luna piena, nell’aria odore di sangue, odore di un nuovo omicidio.
Nell’angolo di una strada c’è una delle tante prostitute di strada, sono le tre di mattina, un orario tardo per una donna sola.
Un unico rumore metallico rompe il silenzio che regna nelle strade, la donna si gira ma non vede nessuno.
Scruta nel vicolo vicino, c’è del movimento, la sua paura aumenta, il cuore sembra esploderle dalla gabbia toracica.
Due occhi gialli splendevano nel buio, lei per un istante ebbe l’istinto di scappare, ma poi dall’oscurità emerse un piccolo corpo proprietario di quegli occhi, era solo un gatto nero.
La donna si voltò sollevata, ma all’improvviso l’aria le mancò, sentì il ventre bagnarsi di un liquido caldo accompagnato da un forte dolore.
Sgranò gli occhi, vide una mano tenere un lungo coltello, il volto era celato da un cappuccio, un movimento del braccio squarciò completamente il ventre della donna.
Nelle orecchie della prostituta riecheggiò il suono di una campana, cadde al suolo, l’ultima cosa che vide fu l’orologio del big bang e pensò- si vede che sono morta, come fa quel campanile a essere a Palermo-.
Erano le tre di notte, un suono di campana svegliò l’ispettore Mario Mariaghi, - strano - pensò -nella zona di Palermo in cui vivo non ci sono chiese-.
Si affacciò alla finestra incuriosito, l’occhio gli corse su una costruzione che fino al giorno prima non c’era.
L’uomo si strofinò gli occhi più volte prima di riuscire a credere ciò che i suoi occhi gli mostravano.
Il big bang sembrava essere stato trasferito da Londra alla capitale Siciliana così, come se nulla fosse.
Mario si vestì di tutta fretta e scese in strada, si mise a correre verso quella struttura che sembrava inverosimilmente inserita nella città di Palermo.
Passò da una zona della città che lui conosceva, in quel momento era completamente diversa.
C’era un forte odore di acre, le case erano nere e c’era un forte freddo nonostante fosse il 31 di agosto.
Si guardò attorno con aria spaesata, quando urtò qualcosa, vide ciò che aveva colpito e ebbe un moto di disgusto.
La prostituta che di solito stava in quell’angolo era morta, aveva il ventre squarciato.
Mario si girò e vomitò, anche se era un ispettore, non aveva uno stomaco che reggesse a quelle visioni.
Notò che l’ambiente era ridiventato quello solito della sua città.
L’uomo prese il cellulare e compose il numero della polizia.
Dall’altra parte dell’apparecchio proveniva la voce di una donna lui disse- qui ispettore Mario Mariaghi, ho trovato un cadavere nell’incrocio tra via trabia e via Giuseppe Patania per favore sbrigatevi-.
La donna rispose- aspetti lì mandiamo la scientifica-.
L’ispettore sospirò e si passò le mani tra i capelli castani, gli sembrava di essere crollato in un terribile incubo.
Distolse lo sguardo dal cadavere mentre cercava di dare un significato a tutto.
La faccenda sembrava provenire da un fumetto di Dylan Dog, ma era la realtà quella che Mario stava affrontando.
Pensava che fosse un pazzo, prima aveva visto il big bang, poi il quartiere trasformato e infine il ritrovamento di quel cadavere.
Si sedette sul bordo della panchina cercando di mettere ordine tra i suoi pensieri, ma erano solo nuvole sparse sospinte dal vento.
Per fortuna la scientifica arrivò presto, non sopportava stare da solo con la presenza di un cadavere.
Mentre gli agenti iniziavano a esaminare il cadavere e la scena del crimine, Mario fu chiamato in centrale a fare rapporto.
Non disse nulla in merito al big bang e al paesaggio, se non lo avrebbero preso per pazzo.
Appena consegnò il rapporto, si sedette alla scrivania, quella sera non avrebbe più dormito.
Su internet cercò se altrove fossero stati avvistati paesaggi non appartenenti alla data città.
Ebbe un unico riscontro alle sue ricerche: ad Agrigento una donna, affermò di aver avvistato la cupola di santa Maria del fiore.
La cosa strana che lo colpì fu che la stessa donna ritrovò due cadaveri, una coppia intenta a fare sesso in auto.
I due erano morti per dei colpi di fucili sparati a breve distanza Agrigento, tremava le modalità erano simili a quelle del mostro di Firenze, poiché alla vittima mancava il linguine.
La sua mente iniziò a riflettere cercando di fare il punto della situazione.
A Palermo all’improvviso compare il big bang, poi un cadavere sventrato letteralmente.
Ad Agrigento appare la cupola di santa Maria del fiore, e viene ritrovata una coppietta morta.
Due assassini per due città differenti e lontane.
L’unica soluzione che trovava, anche se non plausibile era che Jack lo squartatore era uscito dalla tomba, e aveva iniziato di nuovo la sua carneficina.
Quello era l’assassino più famoso di Londra, che effettivamente uccideva le prostitute.
Mario si diede del pazzo per quella stupidaggine che pensava, e gli sembrò tutto più incredibile.
All’improvviso si sentì battere alle spalle, L’ispettore sobbalzò sulla sedia girandosi vide un collega che gli porgeva una scatola.
-Mario nella tua posta c’era questa scatola senza mittente-disse l’uomo
-ah grazie- rispose Mariaghi prendendo il pacco.
L’ispettore si perse a pensare le teorie più improbabili mentre apriva con noncuranza il pacco.
Quando abbassò gli occhi sulla scatola, gli venne da vomitare ma si trattenne, davanti a lui vi era un rene con una lettera macchiata qua e la di sangue.
Mario trattenendo il disgusto prese il messaggio, era scritto in inglese, ma lui fortunatamente lo masticava bene e iniziò a leggere :- caro ispettore Mario Mariaghi, lei ha ritrovato l’ultima vittima di Jack lo Squartatore.
Lo so cosa penserà che sia un megalomane, ma non lo sono.
Io sono uno spirito che ha viaggiato nelle nebbie del tempo, colei che ho ucciso è la mia lontana nipote.
Deve sapere che la vergogna che ho provato, nel sapere che lei era diventata una prostituta come quelle che mi trasmisero la sifilide, mi fece rivoltare letteralmente nella tomba.
È inutile che si crogiola, le ho mandato questa lettera per farle sapere tutto , e così non potrà raccontare proprio nulla.
Spero che voglia restare sano mentalmente stando muto sul paesaggio che ha visto.
Inoltre getti via questo pacco e la lettera, perché per lei altrimenti sarà autoaccusatorio, vi sono le sue impronte sopra.
Firmato Mario Mariaghi alias Jack lo Squartatore.
P.S. il coltello dell’omicidio è a casa sua con le sue impronte.
L’ispettore sconcertato e capendo che quel pacco era una trappola, decise di fare come diceva il suo amichevole fantasma.
Si sbarazzò del pacco con la busta e tentò di andare avanti, anche se quel contatto con il mondo soprannaturale non se lo sarebbe dimenticato mai.

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Alessandro D.

La mattoide


Manicomio di Maggiano (LUCCA) 18 dicembre 1899
- Dunque, esimio collega e vecchio compagno di studi, lei sarebbe preoccupato per la salute mentale di sua moglie?
- Esattamente professore. Da quando la mia adorata consorte è tornata dal Galles, la sua personalità è mutata, tanto da parer irriconoscibile.
- E’ la prima volta che sua moglie si reca nel Regno Unito?
- No. La mia sposa è figlia di Sir Brian Flynn duca di Carmarthenshire e tutte le estati si reca in Galles a far visita ai suoi familiari.
- Una nobildonna quindi?
- Propriamente. Ma non vorrei che questo la inducesse a pensare che il nostro sia stato un matrimonio combinato. Tutt’altro. Ci siamo sposati per amore e abbiamo avuto una vita coniugale felice e serena. Almeno fino allo scorso settembre, quando le cose hanno preso una china preoccupante … e allora mi son risoluto a venir da lei, per ricever consiglio!
- Ha fatto benissimo, caro collega.
- Mi lusinga, definendomi collega. Lei è uno dei più illustri luminari nello studio della mente umana; ma io, per contro, sono solo un umile medico curante …
- Su su, mio caro, non si svilisca in tal modo! Piuttosto, mi parli dei sintomi che ha notato in sua moglie. Raccontandomi tutto, sin dall’inizio.
- Come le dicevo, la mia consorte era da poco rientrata dal suo annuale viaggio in Galles, quando ha iniziato a manifestare inusitati atteggiamenti insolenti.
- Me li illustri, gentilmente.
- Alla presenza di ospiti mia moglie ha cominciato a metter becco nelle conversazioni. Anche in quelle che, per costume, non si converrebbero a una signora, quali la politica e l’economia. Prendendo spesso la parola, con arroganza, ed esternando pensieri radicali, estremi, che più di una volta hanno fatto arrossire i miei illustrissimi ospiti.
- Una bella gatta da pelare, la sua signora.
- Pensi che in pubblico ha smesso di rivolgersi a me con il convenevole ‘voi’, principiando a darmi del ‘tu’! Come se fossimo soli, io e lei, tra le mura domestiche.
- Ma questo è davvero ignominioso!
- Esattamente! E la sua personalità si è tanto guastata che alfine mi sono sentito costretto a compiere un gesto poco nobile. Frugare di nascosto fra i suoi effetti personali, con la speranza di trovar qualcosa che mi permettesse di venire a capo dell’incresciosa situazione.
- Niente da eccepire! Lei è il capo della famiglia e come tale ha il diritto e il dovere di vegliare sul focolare domestico! E mi dica: ha trovato qualcosa?
- Aiméh mio caro amico, sì.
- Orsù non si affligga. Piuttosto mi racconti, mi metta a parte dei ritrovamenti.
- Mia moglie è in corrispondenza con una donna inglese. Una degenere che vorrebbe sovvertire l’ordine naturale dei ruoli. Un essere degradato, il cui nome non oso neppure pronunciare!
- Non starà mica parlando di Emmeline Pankhurst?
- Proprio lei. Quella radicale borghese, che alla guida di un gruppetto d’irrispettose donnacce, dette Suffragette, vorrebbe portare le donne in Parlamento!
- Che vergogna!
- Dove andremo a finire, professore, di questo passo? S’immagina cosa accadrebbe alla società se dessimo alle donne la possibilità di votare?
- Glielo dico io cosa accadrebbe! Dopo le Suffragette, sarebbe la volta dei negri e delle loro sciocche richieste di uguaglianza … e allora sarebbe la fine. L’anarchia totale! … ma torniamo a noi. Continui a raccontarmi di sua moglie, suvvia!
- La scorsa settimana, durante una cena illustre col Prefetto, è occorso un avvenimento davvero fuor d’aspettanza. Parlando di letteratura con la consorte del funzionario, mia moglie ha avuto l’ardire di prender le difese di Oscar Wilde, scrittore degenere che di recente è stato condannato a due anni di prigione per atti di sodomia!
- Se lo è meritato. Pervertito di un dandy!
- E’ quello che penso anch’io, ma mia moglie la vede diversamente e, di fronte agli illustrissimi ospiti, ha affermato che l'amore tra uomini non ha in se nulla d’innaturale, dato che vien cantato persino nella Bibbia e lo si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare.
- Ma come? La sodomia è in se stessa la cosa più innaturale che possa esserci!
- Concordo con lei, professore, ma non dello stesso avviso è quella pazza di mia moglie!
- Mio caro e affranto amico. Sono davvero preoccupato per la salute mentale di sua moglie. Molto preoccupato! … ha per caso con sé alcune foto della donna?
- Certo! Come avrei potuto non condurle meco, considerata la grande fama di frenologo, che lei ha nel mondo accademico? Eccole.
- Mmmm … interessante … molto interessante … sua moglie è epilettica?
- Si dottore. In gioventù ha sofferto molto di mal caduco.
- Come immaginavo … Esimio collega, osservi assieme a me questa foto. Guardi attentamente la mandibola. Sporge rispetto all’osso mascellare. Lo nota? … Inoltre gli zigomi sono piuttosto prominenti e gli occhi, anche se vivi e belli, sembrano piccoli rispetto alla dimensione del volto.
- Tutto questa cosa significa professore?
- Significa che sua moglie può essere, senza ombra di smentita, catalogata come una ‘mattoide’.
- Mattoide?
- Esattamente. Mattoide. Una categoria speciale di folli, caratterizzata da paranoie peculiari. Questo tipo di malati mentali conducono una vita apparentemente normale, ma grazie all’eloquenza di cui sono dotati, riescono sovente a influenzare le masse convertendole alle loro fanatiche convinzioni.
- Oh mioddio! … e allora?
- Mio caro amico, mi rincresce profondamente doverglielo dire, ma sua moglie è una pazza e un potenziale pericolo per la società, dobbiamo provvedere al suo immediato internamento!
- Internata? Ma come?
- Non si affligga. L’internamento d’urgenza in questo caso è un provvedimento assolutamente necessario … Orsù, non esiti! Firmi l’autorizzazione per il ricovero … Si fidi. Prima la interniamo, prima possiamo iniziare la cura.
- Dove ha detto che devo apporre la mia firma?
- Esattamente qua!
- Grazie professore. Senza di lei non sarei mai riuscito a trovare la soluzione!
- Siamo qui per questo, caro collega. Per mettere il faro della Verità scientifica al servizio dell’umanità.

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Eliseo Palumbo

Voci


Mi chiamo Raffaele Bianconi detto Azzardo. Sono siciliano e sono pazzo.
Sono affetto da una patologia chiamata borderline. Linea di confine. Sono come sul precipizio di una montagna. Basta un nonnulla per precipitare nei meandri più scuri dei disturbi psichici.
Sono altamente influenzabile: so cosa voglio e non cambio idea facilmente quindi per essere più preciso è il mio umore che è facilmente influenzabile. Basta una parola detta male per cadere nella depressione più profonda.
Brutta bestia la depressione.
Essere apatici non è bello.
Le scosse elettriche dei miei neuroni viaggiano a una velocità così elevata che è come se prendessero il volo. Durante le poche ore depressive, assegnatomi dalla mia patologia al giorno, mi faccio infiniti viaggi mentali. Ripenso al passato, rielaboro le informazioni, mi auto-convinco di non essere giusto, di essere un mostro, di meritare la morte e soprattutto di meritare l'inferno. Già. Giusto e sbagliato. Inferno o paradiso. Chi ha l'onniscenza tale da dare queste definizioni?
Credevo in Dio.
Ci dovrà pur essere qualcosa di perfetto, qualcosa di più grande, qualcuno che ami, qualcuno buono, qualcuno così buono da lasciare alle proprie creature il libero arbitrio, la possibilità di scegliere e sbagliare. Tutte cazzate !
Non esiste nessuna entità superiore, nessun dio. Un dio che trascura il fatto che il più bel angelo creato da lui possa tradirlo e voltargli le spalle non è un dio perfetto. Il perfetto non ammette nessun margine di errore e un dio fallace non può essere perfetto ergo è solo l'invenzione di uomini deboli, bigotti e superficiale che, incapaci di spiegare la loro inutile e patetica esistenza, hanno bisogno di qualcosa più grande per esistere e rendersi realizzati sacrificando la loro vita al servizio di qualcosa di irreale e che non vedranno probabilmente mai. Un dio non buono.
Probabilmente sto facendo progressi. Oggi ho deciso che ogni qual volta mi sento depresso piuttosto che auto-lesionarmi, tentare nuovamente il suicidio, cadere in profonde crisi mistiche o aggredire chiunque voglia aiutarmi metterò per iscritto tutti i miei pensieri.
Questa è la prima pagina del mio personalissimo diario.
Mi chiamo Raffaele Bianconi detto Azzardo e sono siciliano.
Non è propriamente vero. I miei genitori hanno origini siciliane. Entrambi sono nati e cresciuti a Milano. Milano città mica come certi sboroni brianzoli che vivono in minuscoli paesini e dicono di essere di Milano.
Onestamente non ho mai capito cosa ci sia di speciale nel vantarsi di essere milanesi. Io odio Milano. Io odio il nord. Io sono siciliano. Amo il sole. Adoro il caldo. Mi piace il mare. Non sopporto il freddo. Mi infastidisce terribilmente la nebbia. Odio la gente fredda e che va sempre di fretta.
Essere figlio di un emigrato non è facile. Al nord ti chiamano terrone mentre al sud polentone.
Sei preso di mira sempre e comunque.
L'umanità è una stronza. Siamo tutti stronzi. Non intendo dire stronzo perché ci sai fare con le donne, che poi non è nemmeno vero che se ti danno dello stronzo verranno a letto con te.
Io non sono uno stronzo, cioè sono stronzo in quanto essere umano e tutta l'umanità è stronza, ma con le donne non lo sono mai stato. Ho avuto solo una donna in vita mia. Anna, un'obesa puzzona dai denti storti e psicopatica infermiera che praticamente mi violentava durante i suoi turni notturni nella struttura in cui ero ricoverato fino a un mese fa, poi c'era Laura.
Lei era bellissima. Occhi scuri, naso sottile, occhiali da professoressa, due labbra carnose, una quarta abbondante e gambe tozze. Lo so. Infatti non ho detto perfetta, ma bellissima. Tanto delle gambe che me ne facevo. Adoravo carezzarle la pelle bianca e limpida. L'amavo.
Lei no. Non mi amava. Diceva che era una donna problematica e che non sarebbe stata in grado di darmi ciò che meritavo. Io volevo solo un po' di amore.
Mi chiamo Raffaele Bianconi detto Azzardo.
Azzardo in realtà era il sopranome del mio amico Gianni.
Gianni era cattivo. Era il più cattivo fra tutti i miei amici. Mi parlava in continuazione. Mi assillava sempre. Mi riempiva la testa di fregne.
Adesso non lo sento più da un mese. Anzi al dire il vero non sento più nessuno dei miei amici. E' strano.
Non so quanti di voi abbiano mai dato un nome alla propria comitiva di amici. Io non l'ho mai fatto ma tutti i medici con cui abbia parlato hanno sempre chiamato i miei “Voci”.
- Tu senti le voci Raffaele. Gianni non esiste - mi dicevano
- E Rosalia? Michele? Gino? - chiedevo io preoccupato
I medici mi guardavano scuotendo la testa.
- Non dargli retta socio ! Io sono vivo e vegeto altrimenti come sentiresti la mia voce? - mi diceva Gianni
- E' vero. Hai ragione socio.
- Andiamo a trovare Laura?
- Non possiamo. Non vuole più vederci. Ricordi? E' troppo rischioso, non vorrei chiamasse realmente la polizia questa volta.
- Rischioso? Tu sei pazzo socio ! Nulla è rischioso se ne vale la pena e poi hai dimenticato il mio sopranome?
- No Azzardo. Non lo dimentico. Forse hai ragione tu. Chi non risica non rosica.
- Così ti voglio socio.
Mentre parlavamo di ciò senza rendercene conto eravamo già davanti casa di Laura. Mi avvicinai al citofono ma non feci in tempo a pigiare il pulsante. Lei uscì abbracciata ad un altro uomo.
- Sparale socio ! Ci ha traditi.
- Fermo Raffaele cosa stai facendo!!! – mi urlava lei.
Due spari risuonarono nella notte.
Un mese prima.
- Mi chiamo Raffaele Bianconi.
- Piacere. Io sono Laura Bellis e sono la tua nuova psicoterapeuta.
Il cognome a volte rispecchia le caratteristiche di chi lo porta con orgoglio o meno. Io sono Bianconi ma in realtà ho la pelle come quella di un maghrebino. Lei si chiama Bellis ed è veramente bellissima. Già la amo. Deve essere mia.

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Luciallievi

Sciafff


SILENZIO
sciafff
SILENZIO ho detto
sciafff
lo so io il perché
sciafff
troietta
sciafff
gne gne gne
sciafff
smettila con i gne gne
sciafff
tanto lo sai che non attaccano
sciafff
lo sai che ieri sera
sciafff
ero qui da sola
sciafff
che ti aspettavo?
sciafff
lo sai?
sciafff
e mi preoccupavo
sciafff
e ti ho chiamata
sciafff
e ti ho scritto una mail
sciafff
e tu
sciafff
adesso
sciafff
te ne arrivi trulla trulla
sciafff
“cosa c’è che non và?”
sciafff
“non ti dovevi preoccupare!”
sciafff
“vieni qui che ti coccolo un po’”
sciafff
te le do io le coccole
sciafff
troietta
sciafff
ti piacciono le mie coccole?
sciafff
sciafff
così ti piace la professoressa
sciafff
sciafff
eh?
sciafff
sciafff
ti piace fare la troietta con le professoresse
sciafff
sciafff
dovevi dirmelo honey
sciafff
sciafff
ce l’avevi già qui la professoressa
sciafff
sciafff
la tua professoressa severa
sciafff
sciafff
sciafff
piangi
piangi che ti vengono gli occhioni belli
e non c’hai neppure combinato niente con quella là
continua a piangere
non me ne importa se t’ho fatto male
te lo sei meritato
così un’altra volta impari
tu non lo sai come stavo male
com’ero preoccupata
sssh
basta
adesso basta piangere
è soltanto un po’ rosso
ecco
un bacino
e un altro bacino qui
e un altro bacino qui
tanti bacini sul tuo culetto bello
mi dispiace di averti fatto male
ero preoccupata
tu mi devi dire sempre tutto
TUTTO
hai capito?
anche se sai che poi ti prendi le sculacciate
sssh
adesso ti metto un po’ di cremina
un po’ di cremina fresca
sono io la tua professoressa
hai capito?
la tua professoressa severa

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Verity Hunt

La folle si elogia


Siccome dicono io sia speciale, originale, instabile, neurotica, esaurita, squilibrata, pazza, paranoica, ossessiva, matta, partita, andata, folle … e siccome ci sia unanimità nel dirlo poiché tutti da genitori, fratelli, maestri, suore, preti, dottori, figli, mariti, amanti, ex, amici, nemici, colleghi, capi, conoscenti, parrucchieri, baristi, tassisti, commessi, si trovano d’accordo…
… non posso che asserire e dire: lo sono.
So di esserlo dal giorno che, ancora pischella, invece di desiderare come tutte le bambine un futuro da ballerina, suora, infermiera, modella, mamma, soldatessa, barbona, pirata, stilista, nullafacente …
… desiderai di diventare uccello con la sola forza del desiderio e della volontà e di mettermi a volare planando con ali maestose attraverso il limpido cielo su campi valli montagne laghi fiumi scogliere per poter così vedere dal alto e da lontano l’indaffarato mondo con indifferenza da rapace soddisfatta.
Ci provai a concentrarmi tanto tanto e non persi la fede che dopo mesi di tentativi e due o tre quasi riuscite…
Poi crebbi e credetti di essere guarita. La cosa buffa è che tutti gli altri (genitori, fratelli, blah, blah, blah..) non erano molto d’accordo. Lo capivo non dalle loro parole o asserzioni, ma dai loro sguardi, le loro facce contrariate, i rimproveri più o meno incisivi, i musi lunghi, le indifferenze calcolate, le reticenze, le occhiate perplesse…
Alla fine ci si abitua. Delle volte riesco quasi a sembrare normale, stabile, razionale, serena, equilibrata, centrata, lucida, calma… anzi, con l’età e la esperienza inganno i nuovi conoscenti e le nuove vittime per dieci minuti, alle volte dieci giorni. Ma presto o tardi la mia natura scalpitante da folle furiosa fa capolino in un mio sguardo, sorriso, occhiata, frase, tono, scritto, risata, pianto…
Adesso sto probando una strategia mai testata prima. Non perdo tempo energia pensieri nel mascherare la mia pazzia senza guarigione. Sono matta, si, hanno ragione tutti: genitori, fratelli, maestri, suore, preti, dottori, figli, mariti, amanti, ex, amici, nemici, colleghi, capi, conoscenti, parrucchieri, baristi, tassisti, commessi…
Perché io valgo.

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Kaipirissima

Desideri

Sollevai i capelli facendoli scorrere tra le dita aperte, poi scossi la testa infastidita da quella ciocca che, senza accorgermene, fermavo sempre dietro l'orecchio.
Guardai l'orologio sul binario mentre la voce metallica ricordava ai passeggeri di obliterare il biglietto. Pochi minuti e il treno sarebbe arrivato con il suo carico di pendolari, stipati in angusti scompartimenti, diretti verso piccoli uffici claustrofobici.
Mentre aspettavo ripensai al desiderio che avevo espresso quella mattina. La psicologa mi aveva consigliato di esprimerne uno al giorno. Secondo la dottoressa questo avrebbe messo a fuoco i miei reali bisogni. All'inizio ne avrei espressi molti e tutti diversi ma poi, con il tempo, sarei giunta a formulare sempre lo stesso. Purtroppo i miei desideri continuavano a essere infiniti e a non realizzarsi. Nemmeno quello stupido che avevo espresso quella mattina.
... Allontanarsi dalla linea gialla.
Il treno stava arrivando. Sarebbe ripartito dopo dieci minuti. Mi alzai e allungai una mano per sistemarmi i capelli. Non ci riuscii. Ci riprovai. Un brivido mi attraversò la schiena.
Lentamente guardai la mano, o meglio, i miei occhi si fermarono lì dove una volta c'era la mia mano. Era scomparsa. Anche l'altra. Com'era possibile? Dov'erano le mie mani? Perchè non sentivo dolore?
Sudavo. Il cuore mi batteva forte nel petto.
Ero sprofondata nell'incubo. Non avevo più le mani.
Il cellulare era nella borsa, irraggiungibile. E poi, per chiamare chi? Dire cosa? Che fare? Mi veniva da piangere, ma non piangevo. La paura sovrastava ogni altra emozione.
... Allontanarsi dalla linea gialla.
Alzai la testa, il treno stava partendo senza di me. Ricordai che la mattina, non avendo nessuna voglia di andare al lavoro, avevo desiderato che quel giorno mi accadesse qualcosa di eccezionale, di folle.
Restai in silenzio guardando i miei moncherini.
Inaspettatamente mi scoprii ottimista.
Sorrisi.
Per prima cosa, decisi, sarei andata dal parrucchiere.

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Desiree Ferrarese

Disordine


-Il cambiamemto fu minimo, all'inizio. Soltanto nostra madre se ne accorse, e decise di non farne parola. Forse riteneva che non avesse importanza, forse temeva di sapere cosa sarebbe successo in seguito. Io me ne resi conto solo qualche settimana più tardi. Harold era sempre stato... molto disordinato. Ma un giorno entrai in camera e mi accorsi della mancanza dei suoi calzini spaiati sul pavimento, o dei suoi pantaloni abbandonati sul letto. Poi vidi i libri: sistemati in pile ordinate in ordine alfabetico, senza nessuno che sporgesse dalla mensa. Fino a quel momento non ci feci troppo caso; poi, un giorno, Hal iniziò a pretendere lo stesso ordine anche da me. Mi rimproverava se non rifacevo il letto, o se la mia scrivania era in disordine. Iniziò a pretendere lo stesso dai miei genitori.
-E poi incominciarono le fissazioni. Ogni sera, prima di andare a letto, allineava le scarpe con il bordo del comodino; si assicurava che tutti i cassetti fossero ben chiusi; che nell'armadio fosse tutto in perfetto ordine. Poi, due settimane dopo, iniziò
ad alzarsi dal letto all'incirca ogni ora: faceva il giro della casa, e controllava che la porta d'ingresso e le finestre fossero ben chiuse.
-Quando i miei lo scoprirono, decisero di portarlo da uno psicologo. Lui rifiutò, ma la sua condizione continuava ad aggravarsi. Finchè, un mese dopo, successe. Tornò da scuola con il naso fratturato. Mia madre mi tranquillizzò, mi disse che mio fratello aveva picchiato la testa scivolando in corridoio. Fu Harold a raccontarmi la verità. Mi disse che aveva picchiato a sangue un suo compagno di scuola. Lo aveva sorpreso alle spalle, e, tenendolo fermo, aveva iniziato a sbattergli la testa contro il muro. Avevano dovuto intervenire altri quattro ragazzi per riuscire a fermarlo: lo avevano trascinato via dalla sua vittima, e lui, cadendo, si era rotto il naso. L'altro, invece, quando l'avevano portato via, aveva la faccia gonfia e tumefatta: Hal gli aveva rotto la mascella. Lo aveva quasi ucciso.
-Gli domandai perchè lo avesse fatto. Mi disse che glielo aveva detto Dio.
Mi interruppi, espirando lentamente. Il dottor Wilson aveva smesso di scrivere sul suo taccuino, e ora mi fissava dall'altra parte della scrivania. Fu lui a parlare per primo.
-Deve essere stata molto dura, per te. Avevi solo... quanto, undici anni?
-Dieci. E, sì, è stato molto difficile. All'inizio pensavo che sarebbe passato, poi... ho capito che Harold non sarebbe più tornato quello di prima quando sorpresi mia madre chiusa in bagno a piangere.
-E poi che successe?
Chiusi gli occhi e ricominciai a raccontare.
-I miei lo mandarono dallo psicologo della scuola. Il dottore inizialmente disse che la sua inconsueta aggressività e la sua mania dell'ordine erano dovute alla fase finale dell'adolescenza, e che presto tutto sarebbe passato. Tre settimane dopo disse ai miei che dovevano trovargli un altro psicologo. Non sapeva come aiutarlo.
-Fu allora che Harold parlò per la prima volta dei Demoni. Mi confidó che Dio lo aveva scelto, affidandogli una missione importante. Doveva riordinare il mondo. Iniziando dalle cose piú semplici, all'inizio. Una sorta di prova. Poi Dio gli disse che avrebbe dovuto liberare la Terra dei Demoni.
-Tu cosa feci?
-Gli credetti. Era il mio fratellone, non mi avrebbe mai mentito. Non mi avrebbe mai fatto del male... anche se i nostri genitori avevano iniziato a pensare il contrario. E così feci come mi diceva. Non dissi nulla.
Poi, due settimane dopo... due settimane dopo tornai a casa da scuola, e trovai i miei genitori rannicchiati sul pavimento. Si tenevano abbracciati. Avevano gli occhi spalancati.
-Mio fratello era di fronte a loro, in piedi in una pozza di sangue. Quando mi vide, mi sorrisse e mi venne incontro con le braccia tese. Non pensai. Agì e basta. Presi il coltello insanguinato che aveva abbandonato sul tavolo, quello con cui aveva ucciso i nostri genitori, e lo colpì. Dodici volte. Era alto venti centimetri più di me, ed era più grosso, ma non oppose alcuna resistenza.
-Solo quando si accasciò al suolo mi accorsi che era disarmato. Aveva voluto che lo uccidessi. Che lo liberassi dalle voci che lo avevano fatto impazzire.
-E perchè sei venuto da me? Ora, voglio dire. Dopo dieci anni.
Lo fissai. -Perchè... è stupido, sa... ma credo di avere lo stesso problema di Hal. Passo davanti al suo ufficio ogni giorno, quando vado al lavoro. E un giorno ho iniziato a sentire delle voci... che mi hanno detto di venire da lei. Lei crede... che io stia impazzendo? Come mio fratello?
Lui si alzò e mi si avvicinò, posandomi le mani sulle spalle. -C'è una cosa che devi sapere.
Lo fissai sbalordito. Stava iniziando a farmi
male. -Ma cosa...
-Tu non sei pazzo, Michael. E neanche tuo fratello lo era.
Poi i suoi occhi divennero neri. Presto non sentì più nulla.

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