
Indice:

Un'estate al mare
Antologia di racconti
selezionati da Gara 22 di Braviautori.it
da leggere sotto l’ombrellone,
o anche sotto l’ombrello,
o d'avanti al caminetto.
Luglio 2011
Edizione a cura di Licetti
per Roberto Guarnieri
Foto: autori vari
Prefazione
Un'estate al mare: questo il tema di gara 22, ma il bando e le richieste di chi lo ha formulato sono di non cadere nel banale o nel tradizionale. E noi Bravi Autori potevamo deludere le aspettative? Siamo a giugno e il tema vacanze è un leitmotiv.
Estate è sinonimo di gelato, di fresco, di bibita ghiacciata. Avete però mai provato a pensare cosa provi o pensi un cono o una coppetta in attesa del suo destino, rinchiuso tra quattro pareti di ghiaccio al bar della rotonda? Il nostro impareggiabile Ser Stefano ha provato a immedesimarsi in uno di loro. E ha vinto la gara.
A proposito di dolciumi e stravizi dopo la dieta di primavera, Aleeee76 pensa che al profumo dei bomboloni nessuno resiste, nemmeno in estate, in una spiaggia rovente. E c'è pure chi si caccia nei guai per questo.
Nel tempo libero una capatina in riserva naturale non la si nega a nessuno, anche se questa è purtroppo deturpata da un degrado annoso. Quanti ricordi riaffiorano dalla fantasia di Mastronxo, ricordi che segnano dentro, ma che lasciano poche tracce dietro di sé.
L'abbronzatura è d'obbligo, soprattutto d'estate. Purtroppo chi per un vizio di natura si ritrova a essere incompatibile con i raggi solari ci deve rinunciare e può solo sognare la California di belle ragazze sul surf. Credete anche voi che Artidoeufemismo non vi ci sia mai recato?
Una ragazzina come tante, sopraffatta dal caldo insopportabile, vorrebbe fuggire almeno per qualche giorno dalla città e dalla famiglia. È troppo giovane, ma Tania Maffei la incoraggia a crescere. E che la porta si chiuda pure per dare spazio alla gioia di vivere.
Viaggiare, vedere posti lontani dove la vita, nel suo ritmo, sembra quella di altri tempi. Vecchi castelli e fantasmi di storia fanno corona a un percorso personale di confronto con altre usanze, quelle perdute da tempo, in nome di una civiltà che ci inghiotte. Stefano di Stasio, con la sua passione per il passato, ci conduce là dove la tradizione ha sempre vinto contro il progresso.
In spiaggia chi ama la lettura non disdegna i gialli. La nostra impeccabile Morgana Bart scherza sui progetti omicidi di un rampante ingegnere nei riguardi della moglie gravemente infortunata. Anche loro sono lì sotto l'ombrellone come ogni anno…
Ancora ricordi, ma stavolta pieni di malinconia, di rammarico e sensi di colpa. Polissena disegna due destini uguali che si ripetono a distanza di tempo. Qui il passato era forse meglio lasciarlo sepolto.
Al bar o nei night spesso si incrociano strane persone. Se ne stanno seduti per ore con un drink davanti a rimuginare nel vuoto delle loro vite, mentre basterebbe così poco per aiutare chi veramente soffre. Anche Skyla74 insegue un sogno per un mondo meno ingiusto.
Alla fine la spiaggia si svuota e non rimangono che quei ricordi felici di tempi passati che non ritornano. La malinconia di Licetti se ne va tra le onde e il cielo.
Questa è stata la nostra estate. Decisamente non tradizionale. Nemmeno sotto l'ombrello in un piovoso pomeriggio d'autunno.
Buona lettura.
MATTATOIO
~ di Ser Stefano ~

I muri di ghiaccio mi sorridono, e io, fresco, sorrido a loro. Amo il glaciale buio della nostra casa. Amo essere al sicuro nella carta plastificata e in buona compagnia, con decine di amici. Tra noi si parla e si discute sempre di tutto. Ci prendiamo in giro per le forme che abbiamo, dei gusti che siamo, delle nostre nascite e del futuro che ci aspetta. Vita quotidiana insomma, semplice, bella.
Vorrei tanto mettermi insieme a Coppetta. C'è qualcosa in lei che mi attira fin da quando sono arrivato in questa gelida casa. Tutte quelle sue rotondità mi fanno venire il mal di cono. E poi... quella ciliegina soda, sopra, mmm, quanto vorrei strusciare le scaglie di cioccolato su quella collinetta rossa e turgida.
Stavo discutendo con l’amico Whisky sull'eventualità di fare una festa alcolica per cercare di smuovere un po' Coppetta dalla sua proverbiale rigidità, quando mi sento sollevare e trasportare via. Passo attraverso il tetto della casa e subito dopo la vedo in basso e sempre più lontana. Vengo pervaso da forti ondate di vertigini dopo tutto questo periodo di immobilità ed è panico allo stato puro. Mi viene tolto il colorato copricapo di carta e sono accecato da una luce di intensità impossibile. Appena concretizzo dove mi trovo, vorrei non aver mai potuto vedere. Sono a circa un metro di altezza e qualcosa mi stringe. Vengo trasportato contro la mia volontà attraverso un’enorme distesa gialla che ho già visto raffigurata sul vestito lungo di Calippo: sabbia.
Ci sono centinaia, migliaia, di giganti nudi e bianchi, che urlano, dormono per terra, rincorrono palle di varie dimensioni, schiamazzano ovunque. Fin dove riesco a spaziare con la vista, vedo solo questo caos di rumori, creature che si agitano e fetori disgustosi. Se esiste un inferno, deve essere questo.
I miei vestiti vengono strappati con ferocia e mi ritrovo la parte superiore completamente nuda. È come se venissi stuprato, violato nell'intimo, ma non ho tempo per la vergogna. Il freddo che avevo accumulato ben presto si dipana e ondate di calore insopportabile arrivano da tutte le parti. 'Morirò liquefatto' ho solo la forza di pensare, mentre avverto che i miei spigoli si stanno già indebolendo.
Una grande creatura biancastra, ma più piccola rispetto alle altre, lancia uno stridulo grido. Vedo Cucciolone volare dalle sue mani e schiantarsi con un urlo tra la sabbia. Infiniti granelli lo ricoprono e si appiccicano come ventose ai due morbidi mantelli di biscotto. Si ribalta sul fianco e lì resta, svenuto.
Solo allora mi rendo conto che sto gridando, in preda a una crisi isterica.
Qualcosa mi ha azzannato la testa e stacca in un colpo tutta la protezione di cioccolato, lasciando il gelato allo scoperto, alla mercé del caldo infernale. Un piccolo rivolo di panna scorre lento su tutto il cono, segnale inequivocabile del mio inevitabile destino. 'Dio dei gelati - prego - fai in modo che questo incubo finisca velocemente'.
Qualcosa mi ha azzannato la testa e stacca in un colpo tutta la protezione di cioccolato, lasciando il gelato allo scoperto, alla mercé del caldo infernale. Un piccolo rivolo di panna scorre lento su tutto il cono, segnale inequivocabile del mio inevitabile destino. 'Dio dei gelati - prego - fai in modo che questo incubo finisca velocemente'.
Mi portano sotto un’enorme volta colorata. Il calore si fa meno intenso, ma un altro morso mi asporta letteralmente tutta la calotta glassata e un grosso pezzo di gelato. Urlo e insieme al mio, sento le urla degli altri. Poco avanti a me un Winner Taco sibila agonizzante. Gli è stata divorata la parte croccante e le sue fredde viscere stanno colando fuori dal biscotto finendo sulle strane appendici rosa della creatura. Poco più in là, gli ultimi sussulti di un gelato che cerca disperatamente di aggrapparsi al bacchetto di legno. Inorridisco quando mi accorgo ciò che era stato una volta: un Piedone. Delle sue aggraziate forme resta solo un agghiacciante ricordo.
- Gettati a terra – grida qualcuno da dietro. Lo guardo e riconosco subito. È Magnum, uno tra i più fieri e coraggiosi di noi. – Soffrirai meno – mi dice mentre il suo scudo di cioccolata viene sbriciolato e inghiottito con una semplicità disarmante – Fallo se puoi... - e grida forte mentre bianche zanne affondano in lui e iniziano a strappare parti del suo vanigliato intestino.
Provo a sbilanciarmi facendo scorrere i liquidi sciolti tutti da un lato, ma la creatura mi sta tenendo stretto. È furba e così forte che nulla posso. Ci riprovo, ma gli sforzi risultano vani. Non ho scampo.
Capisco finalmente il senso della vita e quanto ingiusta sia. Siamo destinati a essere maciullati e fagocitati da queste orribili creature. Comprendo quanto siamo stati stupidi nelle lunghe e spensierate conversazioni in quella che chiamavamo casa, ma che si è rivelata per quello che è: un allevamento. Ci hanno fatto nascere solo per saziare il loro appetito, le loro voglie.
Un altro morso stacca, tra indicibili dolori, un'altra grossa parte di me. Il morbido wafer che mi riveste non offre nessun tipo di resistenza. Sento le mie forze affievolirsi.
Il pensiero vola a Coppetta. So che non la rivedrò più e so che anche per lei arriverà, prima o poi, questa stessa orribile fine. E mi dispiace: desideravo un altro futuro per lei, per noi. Questo mi carica di rabbia cieca, ma impotente. Ho solo il tempo per tentare una sorta di vendetta. E mentre sento l'avvicinarsi della creatura, espello tutte le feci che posso, giù, dove il cono si restringe, riempiendolo per un bel po'. Spero che chi mi sta facendo tutto questo, capisca il mio insulto, il mio ultimo disperato grido di rancore e dolore, tutto il mio sdegno verso la sua meschina razza.
L’IRRESISTIBILE PROFUMO DEI BOMBOLONI
~ di Aleeee76 ~

La sera.
Il sole che tramonta ricopre di ombre liquide le piccole dune di sabbia create dal rastrello di un bagnino appassionato di giardini zen. Strano come in tanti anni di frequentazione della spiaggia non mi sia mai soffermato a guardare questo piccolo spettacolo di arte geometrica. Certo, per notare le piccole cose ci vuole la giusta prospettiva e oggi, piantato nella sabbia come il manico di un ombrellone con solo la testa che sporge dal bagnasciuga, io quella prospettiva, diciamo, ce l’ho.
“Allora, ragazzino, adesso ti spiego come stanno le cose”. La voce appartiene a un uomo dalla stazza imponente seduto su una sedia tipo regista. Mentre parla affonda i denti in una ciambella fritta delle dimensioni di una pizza baby.
“Hai menato mio figlio e hai fatto una cazzata. Sergio è uno stronzo e tratta la sua fidanzata senza rispetto, ma è mio figlio e io alla famiglia ci tengo. Altri ti avrebbero fatto secco per una cosa come questa. Sei stato fortunato. Io sono un buon cristiano”. L’uomo morde la ciambella, mugugna di piacere e si sbottona la camicia bianca mostrandomi con orgoglio un tatuaggio della Vergine Maria con in braccio Gesù bambino.
“Quindi, ragazzino, ti concedo l’opportunità di scegliere. Puoi decidere di rimanere qui nella tua buca ad aspettare che salga la marea, oppure decidere di farmi un piccolo favore. Che mi dici?”
Sullo sfondo, a un paio di metri da noi, il mare sta lentamente guadagnando terreno, onda dopo onda.
Poche ore prima.
Ma chi me l’ha fatto fare di accettare un mese di questo lavoro di merda in cambio di quindici giorni di vacanza a Ibiza? Nemmeno un anno in paradiso vale lo sbattimento di andare su e giù per la spiaggia tutto il giorno con questa scatola appesa al collo e il puzzo di fritto delle ciambelle sempre nel naso. Tre giorni e già odio la spiaggia rovente, i cani che ti rincorrono e i bambini che scavano più buche delle talpe. E odio anche la mia voce, che continua a ripetere, metro dopo metro, la stessa inesorabile cantilena: “Boomboloni-i”.
Se però ci devo trovare qualche vantaggio, ci sono un sacco di occasioni di rimorchio. Dopo mesi di minestroni invernali e insalatone primaverili in previsione della prova costume, anche le ragazze più virtuose finiscono per concedersi alla volgare e sfacciata lusinga del bombolone.
Ho già collezionato sette numeri di telefono e un quasi - appuntamento a cena per questo sabato. Non male, ma il mio obiettivo resta un altro. La chiamo la Sirena del Nettuno, perché sta al Bagno Nettuno, ed è di gran lunga la ragazza più bella che io abbia mai visto. Passa il suo tempo sdraiata a leggere su un lettino rigorosamente all’ombra, nascondendo i suoi occhi dietro un paio di occhialoni scuri da diva.
Ieri, per la prima volta, mi ha sorriso quando mi sono avvicinato gridando uno speciale “Boomboloni-i” tutto per lei. Forse oggi si lascerà tentare, e allora...
Oltrepasso il Bagno Internazionale, dove spaccio con senso di colpa una dose di colesterolo solido a una nonnina che temo non arriverà alla fine della merenda e arrivo al Nettuno. Mi avvicino al lettino con andatura distratta, per quanto sia possibile farlo con una cassa di bombe fritte a tracolla. Lei alza lo sguardo dal libro e mi sorride. Butto là senza troppa convinzione il mio richiamo d’amore: “Boomboloni-i?” Lei allarga il sorriso, appoggia la testa su una spalla facendo oscillare i capelli lunghi e biondissimi e mi fa segno con l’indice di avvicinarmi. “So che non dovrei, ma non so proprio resistere”. La voce, leggermente roca e con una nota di malinconia, le si addice quanto il bikini azzurro che indossa.
Apro il mio vaso di Pandora e ne estraggo il Frutto Proibito. Lei allunga una mano e sta quasi per toccarlo quando una manina pelosa, sbucata dal nulla, afferra il bombolone e lo caccia per terra. “Ma sei scema? Sta roba ti fa ingrassare solo a guardarla”. La voce stridula appartiene a un pigmeo peloso che si è materializzato dietro il lettino della Sirena.
Apro il mio vaso di Pandora e ne estraggo il Frutto Proibito. Lei allunga una mano e sta quasi per toccarlo quando una manina pelosa, sbucata dal nulla, afferra il bombolone e lo caccia per terra. “Ma sei scema? Sta roba ti fa ingrassare solo a guardarla”. La voce stridula appartiene a un pigmeo peloso che si è materializzato dietro il lettino della Sirena.
“Ma, Sergio, io …”
“Ma un cazzo! Sta roba non la mangi punto e basta”.
Sento la rabbia crescermi dentro. Non solo sta insultando i miei bomboloni, ma sta anche minacciando con un dito la donna dei miei sogni.
“Senti, Sergio, avrò il diri …” La replica della ragazza viene interrotta da un ceffone.
Senza pensarci carico il botolo e lo getto sulla sabbia incandescente.
Grida, ma non riesce a rialzarsi per via del peso della cassa dei bomboloni. Prima che la ragazza mi chieda di smetterla, riesco a mollargli un pugno in faccia.
E’ il primo pugno della mia vita e ho l’impressione che abbia fatto più male a me che a lui. Mi alzo, mentre mi accorgo che tutta la spiaggia ci sta guardando. La Sirena mi sorride, poi si china a soccorrere il fidanzato. I suoi occhi, spogliati degli occhiali neri, mi ringraziano e mi chiedono scusa. Ricambio il sorriso e mi allontano in fretta. Alle spalle mi arriva la voce strozzata dell’animaletto peloso: “Ma lo sai chi sono io? Eh, stronzetto? Non te la immagini neanche la valanga di merda che ti sei tirato addosso!”.
Di nuovo sera.
Così mi ritrovo a ventidue anni con qualche esame di filosofia a libretto, alcuni numeri di telefono di ragazze passabili e una bara di sabbia spalmata addosso. E la marea che sale.
Dieci minuti dopo la rissa con il pigmeo mi sono saltati addosso in quattro, mi hanno dato una bella ripassata in una cabina del Bagno Ondina e mi hanno infilato in questa buca. Contraddicendo ogni stereotipo, non l’hanno fatta scavare a me. Era già pronta. Forse avranno assoldato un bambino.
Se non altro, quella che mi si presenta è la scelta più facile di tutta la mia vita. “Credo che accetterò la sua offerta. Di che tipo di favore ha detto che si tratta?” L’uomo si batte la mano libera sul ginocchio.
“Così mi piaci! Vedi che facevamo un errore a farlo fuori, Sergio?”
Una risata cattiva che arriva da dietro la mia testa mi informa che la scimmietta si sta godendo lo spettacolo. “Domani troverai nella tua cassa una scatola con una ciambella speciale. Ci sarà anche la foto di un uomo, un tizio magro sulla sessantina, che sta al Bagno Paradiso. Tutto quello che devi fare è vendergli quella ciambella. E assicurarti che ne mangi almeno un pezzetto. Pensi di potercela fare?”
Una risata cattiva che arriva da dietro la mia testa mi informa che la scimmietta si sta godendo lo spettacolo. “Domani troverai nella tua cassa una scatola con una ciambella speciale. Ci sarà anche la foto di un uomo, un tizio magro sulla sessantina, che sta al Bagno Paradiso. Tutto quello che devi fare è vendergli quella ciambella. E assicurarti che ne mangi almeno un pezzetto. Pensi di potercela fare?”
Nessuno può resistere in eterno al profumo di queste ciambelle fritte. Nessuno.
Annuisco convinto. “Quanto tempo ho a disposizione?”.
RISERVA NATURALE
~ di Mastronxo ~

Luglio 1998, Riserva Naturale di Punta Aderci
«Eccolo, eccolo!» sussurra Ennio.
«Che vedi, hu, che vedi?» Guglielmo tira pacche impazienti sulla schiena abbronzata del fratello. Sono sudati tutti e due. È umido lì, in mezzo al canneto, i piedi nudi a cercar di non pestare gli sparti e gli eringi pungenti, le mani sporche di sabbia che aprono a forza una via tra le fronde malcurate. Le piante sono secche, devono stare attenti a non tagliarsi. Se tornano a casa coi pantaloni insanguinati, ne prendono tante da non riuscire più a mangiar seduti. Ennio si scosta un po’ di lato per mostrargli la scoperta. Ordina il silenzio con l’indice alle labbra. «Fa’ piano. Piano! Guarda là in mezzo, dove non ci stanno piante.»
È proprio vero, l’hanno trovato. Tre uova, piccole come noci, sembrano volersi nascondere sotto la sabbia, nella buca poco profonda scavata prima della deposizione. Una accanto all’altra, timide, come a sorreggersi a vicenda. I fratini e le loro covate sono diventati specie protetta. È stata istituita pure la Riserva, in febbraio, per tenere lontana la gente molesta e cercare di proteggere gli esemplari rimasti, che stavano diminuendo sempre più. Ormai se ne vedono pochi in giro, di uccellini.
«Belle vero? Dai, andiamo adesso! E zitto» Il piccolo Guglielmo diventa tutto rosso, il sudore cola copioso sul viso e tra i capelli. «Ennio, me n’avevi promessa una, e dai! “Se m’accompagni, te ne porti a casa una”, così mi hai detto!»
«Ma non possiamo, sei matto? Ci danno la multa. Che, la paghi tu poi?» Ennio non riesce neanche a terminare. Il fratellino lo spintona e si getta in avanti, rischiando di cadere faccia a terra per la foga. Si sbuccia i palmi delle mani e le ginocchia. Una nuvoletta giallognola di polvere si solleva dal suolo come un fumo malsano. Guglielmo, ancora carponi, sente qualcosa scricchiolare, perde stabilità. Si guarda le braccia. Non fa in tempo a dire nulla. Il grido di Ennio è abbastanza forte per entrambi.
Luglio 2006 – Riserva Naturale di Punta Aderci
Miriam ha gli occhi luccicanti. Sono più intensi degli astri che bruciano sulla volta scura sopra di loro, due pozzi profondi in cui si riflette la luna di settembre.
Ennio voleva vedere insieme a lei le luci lontane delle imbarcazioni, guardare il mare e farsi cullare dalla ninna nanna della risacca e tenerla stretta, proteggendola dal vento che soffia costante da sud-est. Gli bastava questo, ma quegli occhi. Quegli occhi non gli danno il permesso di ammirare nessun altro panorama, perché sono quelli di una donna innamorata e possono annientare la volontà di un uomo con un battito di palpebre.
«Li hai?» chiede Miriam, la malizia sulle labbra, umide, mature.
«Cosa?» lo sa benissimo, cosa.
«Non ti preoccupare, li ho io. Quelli del mio ex.» Una mano lieve e decisa si fa strada fino alla cintura di Ennio. Labbra sicure, dolci frutti, esplorano quelle di lui seguendo la sottile orchestra dei grilli e delle onde. «Non aver paura» le parole di Miriam gli accarezzano i timpani, danno sicurezza. Il suo profumo lo fa quasi stare male. «Prendimi.»
Lungo il sentiero del ritorno, la ragazza cammina tre passi avanti, veloce. Non fa nulla per nascondere il disappunto. Si volta all’improvviso. «Sarai contento! Neanche soddisfare una donna. Tre preservativi, tre! Nullità, come tutti gli altri!»
Ennio, umiliato, abbassa il capo e non risponde, ma subito un pensiero atroce gli si accende nel cervello. «Miriam, i preservativi … Li hai raccolti tu?»
«I cosa? Mi chiedi anche di tirar su la tua merda? Vaffanculo, brutto …»
«I cosa? Mi chiedi anche di tirar su la tua merda? Vaffanculo, brutto …»
L’imprecazione resta immobile nell’aria stantia. Il vento è crollato di colpo.
Schiocchi d’ossa spezzate. Una lacrima di donna cade con un piccolo tonfo su una pietra, scivola sul bordo levigato, viene assorbita dalla salsedine disseccata.
Ennio corre verso casa nel silenzio della notte.
Schiocchi d’ossa spezzate. Una lacrima di donna cade con un piccolo tonfo su una pietra, scivola sul bordo levigato, viene assorbita dalla salsedine disseccata.
Ennio corre verso casa nel silenzio della notte.
Luglio 2011 – Riserva Naturale di Punta Aderci
L’odore di pesce marcio è tanto solido, nell’aria, da sembrare un gel collante. Si attacca alle narici, agli abiti e ai pensieri. Contenitori di plastica, bidoni, lattine ammaccate, vecchi copertoni. Tronchi morti. Ennio, quasi vent’anni, vede tutto dall’alto della falesia che dà il nome alla Riserva. Al sole che vuole spaccargli in due la testa, invece, non ci bada neanche.
Le grida divertite dei bagnanti, gli insulti amichevoli, i giochi con le biglie, gli spruzzi d’acqua. E i rifiuti. A questo punto si è arrivati? È necessario distruggere e corrompere, in nome dello svago e di una pelle più abbronzata?
«Rispetto, - gli diceva suo nonno - il Mare vuole rispetto.»
Ennio si alza in piedi, scultura solitaria che domina la spiaggia. Si riempie i polmoni di quell’ossigeno decomposto. Non è arrabbiato. Si sente solo molto triste. Chiude gli occhi.
Le grida gioiose si fanno subito più acute, si gonfiano con note gracchianti, sorprese e dolorose. I piedi di un bimbetto grasso scompaiono nelle fauci d’un ammasso pietroso, i ciottoli masticano la carne viva, spolpano fino all’osso, stringono e spaccano. Una mano gigantesca, che prima era una duna, afferra un vecchietto addormentato sopra un telo. Contrae le dita, un unico spasmo rabbioso per nutrirsi del sangue che schizza fino al cielo, grottesca fontana di pelle e plasma.
Due ragazzi che giocano in acqua cercano di allontanarsi dalle rive, nuotando impazziti. Sedimenti limosi esplodono dal fondale marino, avvolgono i loro corpi allenati, staccano brani di muscoli, ingoiano le morbide viscere. Poi, un’onda improponibile solleva la propria schiena possente, spalanca la bocca piena di spuma, mostra le oscurità di uno stomaco ancora vuoto. Si schianta sul litorale, travolgendo tutto quanto. Riecheggia un tuono che pare più un’esplosione, prima che le acque si ritirino, sfamate.
Ennio espira, torna a vedere. È tutto fermo sotto di lui. Volge le spalle al Mare, si incammina piano e ripensa al suo fratellino. Lui era piccolo, non sapeva quel che faceva. Non sarebbe dovuto succedere. La lacrima di un uomo cade con un piccolo tonfo sul terreno brullo, lascia un segno che presto diverrà solo ricordo, reso invisibile dal caldo e dal tempo inesorabile che passa.
FOTOTIPO A
~ di Arditoeufemismo ~

"Da dove verrà il vento? Dicono che sia il respiro di Dio. Chi dà veramente forma alle nuvole? Questo era il gran giorno. Lo avevamo aspettato tanto." Mi vennero in mente le parole finali di un "Mercoledì da leoni", mentre osservavo i grossi addensamenti cumuliformi minacciare la massa d'acqua che, sterminatamente, si estendeva davanti ai miei occhi.
Quel pomeriggio d'agosto, era stato particolarmente faticoso raggiungere, dopo mezz'ora di camminata da casa, la Jolla, meglio conosciuta qui a San Diego come Black's Beach. Poche persone sulla spiaggia, per lo più nudisti rigorosamente surfisti. Prima di partire dalla mia abitazione avevo ingoiato due compresse di Carovit forte plus. Poggiai le braccia su una tavola short. La fish e la long non facevano per me. E poi su questa spiaggia le onde arrivavano veloci, le migliori da sinistra.
Fu da quella parte che incrociai il suo sorriso. Non era molto alta e neppure particolarmente atletica. Se l'avesse vista quell'arpia di mia sorella l'avrebbe catalogata con l'etichetta di "scaldabagno". Così definiva le ragazze che secondo lei avevano le spalle larghe come i fianchi, e un'altezza non adeguata. Lo scaldabagno però era stata ripagata da madre natura che le aveva regalato un viso molto grazioso. Denti bianchissimi, capelli castani eterei, qua e là schiariti dal sole della west coast.
Mi arrivò potente il profumo. Chi lo spruzzasse, chi lo indossasse era un mistero, ma tutto ne pareva impregnato. Non mi piaceva particolarmente. Troppo insistente.
L'occhio si spostò sulla sabbia nera. Attirava i raggi che giocavano "all'effetto Dio", filtrando in scenici spot tra le nuvole scure di quella mattina. Il mare sembrava un gigante dormiente.
Cercai una cabina. Mi imbarazzava sempre quel che dovevo fare, ma lo dovevo fare. Non c'erano alternative. Tirai la tenda, mi tolsi la Lacoste e i bermuda e cominciai con cura a cospargermi di Eryfotona. Il suo film protettivo avrebbe assorbito, riflesso e disperso le radiazioni UVA e UVB e le cheratosi non avrebbero potuto attaccarmi. Tornai a guardare il mare. Le onde cominciavano a gonfiarsi da est. Erano un po' meno veloci di prima, ma, senza dubbio, più alte.
Vidi lo scaldabagno correre loro incontro. Sotto braccio aveva una short con serigrafie spettacolari. I suoi capelli danzavano al suono aritmico del vento. La osservai immergersi nell'oceano. Poi riemerse per sdraiarsi sulla tavola ad aspettare l'onda giusta. Era una dei pochi bagnanti che indossasse il costume. Aveva un bikini bianco che lasciava trasparire lo scuro dei capezzoli. I bellissimi capelli ormai erano bagnati e appiccicati al viso.
Fu allora che arrivò. Era l'onda perfetta.
La ragazza ora aveva perso la goffaggine. Sembrava padrona dell'equilibrio. Flesse leggermente le gambe corte e un po' tozze. Il sedere grosso sembrava perfetto per imporsi come baricentro dell'universo. Lei cavalcò l'onda, a lungo, scivolando da sinistra verso di me, verso la riva.
Il fondale beach break creava delle piccole, pericolose, ondine close up. Quando lei ne fu prossima, fece un saltello leggiadro e tutto il monitor venne invaso da un sorriso stravolto dal grandangolo.
Il mio orologio da polso, con il suo allarme, mi avvertì che dovevo rincasare.
Inserii gli auricolari e pigiai il tasto play. Subsonica: Il diluvio. Samuel cantava: "Sei stata l'ondata perfetta per infrangerti contro di me. E adesso che tutto è sommerso, cosa è restato e perché?" Lasciai il negozio della catena americana Hollister e andai verso l'uscita di Euroma2.
Inserii gli auricolari e pigiai il tasto play. Subsonica: Il diluvio. Samuel cantava: "Sei stata l'ondata perfetta per infrangerti contro di me. E adesso che tutto è sommerso, cosa è restato e perché?" Lasciai il negozio della catena americana Hollister e andai verso l'uscita di Euroma2.
Prima di abbandonare quel luogo chiuso, mi coprii il capo, come da raccomandazione del dott. Congiù, con un ridicolo cappello panama a falde larghe. Appena fuori mi accorsi che forse non ne avevo bisogno: un acquazzone estivo fu il mio compagno di tragitto dal centro commerciale fino a casa.
Ci arrivai una ventina di minuti dopo, zuppo ma felice.
— Mamma, oggi lo schermo grande di Hollister era collegato con una web cam di una spiaggia a San Diego in California. Vedessi che spettacolo.
— Sì, ogni negozio della catena Hollister trasmette immagini di arenili della west coast in tempo reale. Solo che quel posto mi fa venire il mal di testa. È tutto scuro con quei faretti sui capi d'abbigliamento. E poi quel profumo terribile che spruzzano!
— Chissà se un giorno andrò davvero in California, mamma.
— Sei un fototipo A, capisci? Hai avuto un melanoma che per poco non ti faceva morire. La tua pelle deve scordarsi del sole per sempre. E ora sdraiati che devo spalmare Aldara sul basialoma che hai sulle spalle.
— Aldara no, mamma. Brucia più del sole!
VACANZA AL MARE
~ di Tania Maffei ~

Ricordo quell'estate bollente. La scuola era finita da poco e, come sempre, avevo davanti a me due lunghi mesi durante i quali non avrei avuto da fare assolutamente nulla. Marina, la mia migliore amica, mi aveva invitata a passare qualche giorno al mare da lei. La madre, una tipa molto strana, non c'era mai, e la casa era praticamente deserta. Il cane, la servitù e il padre che passava il fine settimana chiuso nel suo studio a lavorare, non le erano di nessuna compagnia. Marina avrebbe voluto che trascorressi lì almeno due settimane, ma la mia adorata mammina diceva che non stava bene che due ragazzine di diciassette anni passassero il loro tempo da sole in una villa che oltre tutto distava anche parecchi chilometri dal mare.
Ero sdraiata sul letto sudata fradicia. I capelli mi si erano attaccati alla fronte e il leggero vestito che indossavo era diventato tutt'uno con le lenzuola. Nell'alzarmi produssi un rumore sordo come se l'impronta del mio corpo fosse rimasta lì, sul letto.
Andai in bagno per farmi la terza doccia della giornata. Mi guardai allo specchio. Ero orribile. Bianca come il latte, con delle occhiaie spaventose e i capelli appiccicati al volto. Mi buttai sotto il getto dell'acqua che, quasi fredda, mi dette un leggero senso di refrigerio. Diciassette anni un’età schifosa. Sei grande, ma non abbastanza da fare quello che vuoi.
Uscii dalla doccia gocciolante. Faceva così caldo che non provai neanche ad asciugarmi.
Pensai al mio breve passato. Da piccola trascorrevo il mese di giugno al mare da mia nonna. Non tutti i mesi di giugno sono uguali. Alcuni sono plumbei, stagnanti, con nuvole grigie e basse, in cui non si può dire che faccia caldo. Altre volte sono luminosi e ventilati. In quel caso il sole fa luccicare il bordo sabbioso del mare e, a pochi metri dalla riva, i pesci saltellano e scintillano fra i riflessi. Mi divertivo con la testa penzolante sul molo a osservare le sagome dei piccoli pesci che crescevano protetti fra le pietre del fondale e a domandarmi chi fra di loro sarebbe sopravvissuto. Il giorno dopo tornavo provando a riconoscerne qualcuno che cercavo di identificare per una sfumatura di colore sulla coda o per una striatura sulla pinna. E la consapevolezza che si trattava di una occupazione votata all'insuccesso non mi impediva di restare affascinata dai loro repentini movimenti. I pesci piccoli nuotavano in gruppo. Solo i più grandi si azzardavano a vivere solitari in acqua e, sebbene più difficili da vedere, anche loro mi attraevano. Fu la vita vicino al mare la fonte delle mie prime emozioni, sentimenti, riflessioni nonché l'unica forma di solitudine non dolorosa che conobbi fino all'adolescenza. Fra me e la natura si creò un vero rapporto di comunicazione. Strisciavo come le lucertole, imitavo il grido degli uccelli, conoscevo le abitudini dei crostacei e dei molluschi, raccoglievo ossi e legni dal mare, ammucchiavo alghe, riconoscevo il suono del vento e l'odore del temporale.
Quando camminavo sola sulla spiaggia raccogliendo conchiglie e fossili, scoprendo minuscoli buchi lasciati dalle arselle o cercando amuleti di madreperla gettati a riva dal mare, non avevo ancora capito che quel luogo mi apparteneva. Ero parte del paesaggio e vivevo nella sua magia. Poi la nonna morì e quelle vacanze ebbero fine.
Faceva caldo. Maledettamente caldo. Pensavo a Marina che mi aspettava al mare. Mi sarei potuta divertire, prendere il sole, fare il bagno, ridere, scherzare. Non c'era nulla che mi tenesse legata a quella casa. Tornai nella mia stanza. Guardai il letto in disordine. Mi misi a cercare la roba per il mare: i costumi, i pantaloncini corti, le magliette, gli asciugamani, un cappellino, le ciabatte. Mi sarebbe bastato il borsone che usavo per andare in piscina. La roba per truccarmi me l'avrebbe prestata Marina come pure la crema abbronzante. Avevo gli orari dei pullman. Il primo autobus partiva alle 17 e 30. Sarei stata lì alle 19.
Indossai una gonna di jeans, una maglietta scollata azzurra, gli infradito. Un colpo veloce di spazzola ai capelli ancora bagnati. Erano le tre del pomeriggio. Avevo tutto il tempo. Mia madre era in cucina in piedi su una sedia nel tentativo di recuperare qualcosa da un armadio. Il suo corpo, proteso in avanti, ricordava quello di un condottiero pronto a vincere qualunque battaglia.
— Cosa stai facendo?
— Lo vedi da sola, sto cercando di recuperare un arnese in fondo all'armadio ma non lo trovo. Tu piuttosto cosa vuoi?
— Vorrei andare al mare da Marina.
— Abbiamo già discusso della cosa e ti ho già detto che non sta bene che due …
— Mamma ho diciassette anni. In questa casa fa un caldo terribile e non ho nessun motivo per restarci.
— Mi sembrava che la cosa fosse stata ampiamente chiarita.
— Mamma, alle 17 e 30 prendo il pullman.
— Tu non vai da nessuna parte. Ora chiamo tuo padre.
— Mamma vado solo dalla mia amica Marina.
— Tu devi fare solo quello che dico io. È chiaro?
— Mamma ho già deciso.
— Non puoi andare senza il mio permesso, sei minorenne.
— Vado al mare. Non parto per la Nuova Zelanda.
— Non rispondermi con quel tono strafottente. Dovresti capire da sola che, certe cose, le ragazze per bene non le fanno. Ma perché perdo tempo a parlare con te, una ragazzina stupida, insignificante.
Abbassai gli occhi per terra e pensai "Tanto qualunque cosa io faccia non va mai bene, vero mamma?".
— Non mi sarei mai aspettata da te un atteggiamento così aggressivo. Tu resterai a casa.
Voltai le spalle e me ne andai.
Sentivo in lontananza la sua voce borbottare.
Era convinta che non l'avrei fatto, che non ne sarei mai stata capace. Uscita dalla stanza mi tremavano le gambe. Ero sudata fradicia. Finii di fare il borsone più in fretta che potevo. Afferrai le chiavi di casa e tutti i soldi che avevo. Sapevo che se avessi avuto la pur minima esitazione non ci sarei riuscita. Infilai gli infradito nello zaino e misi le scarpe da ginnastica. Quasi correndo passai davanti alla cucina.
Faceva molto caldo. Mia madre gridava. Lo ricordo distintamente, anche se non ho in mente le parole esatte. Aprii la porta di casa e me la richiusi alle spalle. Ero fuori.
ORKNEY 1985
~ di Stefano di Stasio ~

Il treno mosse su un lungo ponte di ferro sospeso sulla baia. Mi destai dal torpore. Eravamo partiti la sera prima dalla stazione Victoria per viaggiare tutta la notte sui vagoni Scottish Rail verso le terre del nord-est. Nonostante fosse Agosto aveva cominciato a fare freddo. Guardai fuori dal finestrino. Aberdeen ci accoglieva col vestito buono. Era l’alba di un nuovo giorno e già sul mare all’orizzonte un maestro d’orchestra immaginario stava dirigendo una sinfonia di colori che, dopo un preludio di innumerevoli sfumature arancione, passava in modo andante con brio verso le tinte del turchese. Una fantasia di rossi entrava nelle voci del coro, là dove i primi raggi di sole, che facevano capolino sulla distesa del mare, intercettavano alcune nuvole dalla forma bizzarra a forma di orecchie di coniglio.
I miei compagni di viaggio ancora dormivano. Francesco stava reclinato su un lato con gli occhiali che gli si erano storti sul naso. Ogni tanto russava. Paolo sembrava morto. Riposava supino con le mani giunte sul petto. Il viso con un colorito più bianco del solito.
Entrammo nella stazione di Aberdeen. Le stazioni britanniche sembravano sempre di fascino antico, non so perché. Saranno state le edicole dei venditori di tè oppure quei vecchi orologi che, immancabilmente, ti ritrovavi a osservare per accertarti che segnassero il tempo con un’ora in meno rispetto al tuo paese, tremila chilometri fa.
Facemmo un rapido consiglio. Il treno per Inverness partiva il pomeriggio. Avevamo otto ore a disposizione. Decidemmo di visitare un castello nelle vicinanze.
Lasciammo i nostri zaini al deposito bagagli della stazione e ci avviammo sulla strada. Scoprimmo che anche in città, sulla collina, una volta c’era stato un castello. Nel medio evo in tutta la regione, che allora si chiamava contea di Bucham, infuriarono scontri sanguinosi fra il regno di Scozia e la corona d’Inghilterra. “No mercy” nessuna pietà, per oltre sessanta anni era stata la parola d’ordine di entrambi gli schieramenti per significare la sistematica esecuzione in massa dei prigionieri di guerra. All’inizio del tredicesimo secolo il castello che sovrastava Aberdeen era stato distrutto dal re scozzese Robert the Bruce per rappresaglia contro il conte di Bucham, John Comyn, traditore della causa irredentista scozzese. Raggiungemmo in autobus il castello di Fyvie che si ergeva, con le sue cinque torri, immerso in un parco lontano dalla città. Ascoltammo la leggenda della principessa assassinata che ancora vagava di notte in quelle sale. Ci rallegrammo della presenza di una sala per gli ospiti dove c’era caffè e shortbread, i biscotti al burro punzecchiati con la forchetta. Non ci chiesero soldi, ma solo una simbolica offerta che depositammo in un cassettina metallica.
Quella sera salimmo sul treno che ci portava in direzione di Inverness e poi di Dingwall, Alness e Halkirk. Centottanta chilometri di brughiere, pecore e castelli nel nulla. Arrivammo al piccolo villaggio di Thurso, sul tratto di costa dove il Mare del Nord abbraccia l’Oceano Atlantico. Era il nostro trampolino di lancio. Prendemmo informazioni sui collegamenti verso le Orkney Islands, le isole Orcadi. La mattina dopo ci imbarcammo su un piccolo scafo a motore che fece rotta su Kirkwall. Durante la traversata stavo a poppa e potevo vedere, a cadenza regolare, l’ergersi progressivo di onde lente e possenti sul pelo dell’acqua. Intercettavano la nostra rotta e sollevavano l’imbarcazione dalla parte di prua. Paolo stava sulla punta della barca e mi ritrovavo a osservarlo con gli occhi in alto, come se stesse al primo piano di un edificio di acqua grigia sul quale il nostro guscio di noce si andava arrampicando.
Nessuno diceva una parola. All’orizzonte spuntò il porto di Kirkwall, sull’isola capitale. Il cielo era plumbeo. Mentre i marinai gettavano la fune sul molo d’approdo, cominciò a piovere. Erano gocce piccole, che arrivavano portate da folate di vento, dal mare verso la terra. Ci affrettammo verso l’ostello. Non era in muratura, erano dei container. Preparammo una cena frugale.
La mattina dopo il sole si aprì sull’arcipelago. Settanta isole cullate dal mare, dove il sole e il vento avevano modellato una varietà di paesaggi. Spiagge di sabbia bianca, scogliere rocciose e falesie a strapiombo sulle onde. Stormi di uccelli marini transitavano in direzione di isole più piccole. Dappertutto tracce materiali di una storia di cinquemila anni. Testimoni di cicli propiziatori e pratiche religiose, i menhir sulle piccole alture sembravano stonare con la solenne cattedrale di pietra rossa di Kirkwall, costruita nel medio evo.
Il tempo correva via veloce e anche le nostre finanze. Paolo e Francesco cominciarono a lamentarsi del freddo. Ancora un giorno per visitare Stromness, prima di ripartire. La mattina dopo raggiungemmo il porto. Era circa mezzogiorno. I pescatori stavano rientrando. Un equipaggio alla volta, discendevano sul molo e andavano alla pesa del pesce, prima di conferirlo nel centro di raccolta, una cooperativa. Mi avvicinai incuriosito. Nelle cassette vedevo pesci che non conoscevo. Riconobbi sgombri, aringhe, sogliole e merluzzi che splendevano come tirati a lucido con la cera. Salmoni di oltre un metro di lunghezza esibivano una veste solenne di squame, a macchie nere su fondo di grigio che degradava in sfumature verde pastello. Accatastati nelle ceste, i granchi si muovevano come i fan davanti al palcoscenico di una rockstar. Il gesto metodico dei marinai, che si alternavano alla pesatura, sembrava scandire il tempo di vita, un ritmo dolce e inesorabile.
Si era radunata una piccola folla di abitanti del posto. Dopo un po’ un pescatore, con una giacca impermeabile gialla, prese una cassa di pesce e si rivolse alla gente che osservava la scena. Non capii bene che cosa stesse dicendo. Niente inglese scolastico a cinquantanove gradi di latitudine nord. Cominciò a brandire un grosso pesce, oscillando con la mano levata a destra e a sinistra, come a salutare qualcuno. Ripeté ad alta voce il suo invito. E allora capii. Una donna affianco a me rispose. Il pescatore le consegnò il pesce. La donna ringraziò e si allontanò. L’uomo continuò a distribuire alla folla quanto era d’avanzo alla sua quota di pescato. Nemmeno l’ombra del denaro, nemmeno un penny. Un brivido mi percorse la schiena mentre tiravo un lungo sospiro, godendo dell’odore salmastro.
Il mare in molte lingue è femminile, come la madre.
LA VACANZA PERFETTA
~ di Morgana Bart ~

Primo giorno di mare, di vacanza, di relax. Tutto doveva essere come ogni anno, non dovevano esserci imprevisti, nessuno doveva compatirli. A questo pensava l'ingegner Moretti, cinquantadue anni, spingendo la sedia a rotelle della moglie Paola, da poco disabile a causa di un brutto incidente domestico.
Amavano quel mare, quello stabilimento, le persone con cui avevano fatto amicizia negli anni e che ogni estate ritrovavano puntuali sotto gli ombrelloni. Era Paola che soprattutto ci teneva, e per questo, aveva pensato l'ingegnere, tutto doveva essere come sempre.
Rocco, il bagnino, li accolse con premura. Sapeva del loro arrivo e aveva organizzato tutto in ogni particolare, ma si sentiva inadeguato. Aveva spazzato per tempo la passerella che collegava lo stabilimento alla fila di ombrelloni, aveva riservato alla coppia l'angolo più tranquillo, al riparo da occhi indiscreti, pensando di fare cosa gradita.
Invece, l'ingegnere lo aveva ripreso subito. — Avevo chiesto il solito ombrellone, a pochi metri dal mare. Mia moglie è invalida, non stupida. Tutto deve essere come sempre, voglio che per lei sia una vacanza perfetta — ribadì Moretti.
— Certamente — borbottò a bassa voce il bagnino. La signora Paola era dimagrita vistosamente negli ultimi due mesi. A causa dell'incidente, da quella maledetta caduta sulle piastrelle del bagno, la donna aveva perso la funzionalità motoria ed era costretta sulla carrozzina. Moretti non aveva voluto infermieri tra i piedi, avrebbe accudito lui stesso la moglie garantendole buone cure e affetto, almeno per i primi tempi. La signora Paola era molto ricca, potevano tranquillamente permettersi un'infermiera a ore, ma lui non era stato d'accordo e aveva preferito rinunciare al suo amatissimo lavoro in azienda per sacrificarsi a lei.
— Certamente — borbottò a bassa voce il bagnino. La signora Paola era dimagrita vistosamente negli ultimi due mesi. A causa dell'incidente, da quella maledetta caduta sulle piastrelle del bagno, la donna aveva perso la funzionalità motoria ed era costretta sulla carrozzina. Moretti non aveva voluto infermieri tra i piedi, avrebbe accudito lui stesso la moglie garantendole buone cure e affetto, almeno per i primi tempi. La signora Paola era molto ricca, potevano tranquillamente permettersi un'infermiera a ore, ma lui non era stato d'accordo e aveva preferito rinunciare al suo amatissimo lavoro in azienda per sacrificarsi a lei.
Questo discorso da fare agli amici, l'ingegnere lo aveva ripassato più volte e gli sembrava convincente. Già immaginava i loro sguardi, colmi di ammirazione. E lui li avrebbe sostenuti con fierezza, sicuro della propria sorte.
Così fu. Gli amici salutarono calorosamente l'ingegner Moretti: avendo saputo della recente disgrazia manifestarono tutto il loro cordoglio per l' accaduto, confidando in una piena ripresa della signora. Commosso, l'uomo ringraziò.
La signora Paola era immobile sulla sedia a rotelle. La sua bocca, storpiata in una piega anomala, lasciava colare un filo di saliva. Era stato attento, Moretti: prima di tutto il decoro. Aveva vestito la moglie con un prendisole blu, le aveva raccolto i capelli e una sciarpa leggera lasciava intravedere quel tanto che bastava. Tocco finale, un paio di grossi occhiali scuri che la riparavano dal sole e dagli sguardi troppo indiscreti.
Ogni tre ore, circa, l'ingegnere doveva fare l'iniezione alla moglie. Chiese cortesemente un séparé al premuroso bagnino e approfittò dell'intimità per lavarla parzialmente. Quindi, stanco, si distese sulla sdraio senza perdere di vista la signora Paola, chiaramente più rilassata.
Il mare era calmo. Sulla riva i bagnanti passeggiavano chiacchierando a bassa voce. Moretti avrebbe fatto volentieri una nuotata al largo.
— Andiamo, Danilo, perché non vieni con noi sul gommone? Staremo via poco, te lo prometto — lo invitò l'avvocato Baù.
— No, non posso lasciare Paola da sola — rispose il Moretti.
— Solo per qualche minuto, giusto per distrarti. Non le hai appena fatto l'iniezione? Non se ne accorgerà nemmeno — gli propose l'amico.
Indeciso, guardò Paola che dormiva profondamente. Mancavano più di due ore alla prossima iniezione e forse poteva farcela. Si assicurò che la scatola dei medicinali fosse chiusa a chiave e la affidò a Rocco. Quindi si avviò verso il mare.
Gli amici parlavano, ma lui non ascoltava. Era stato un periodo duro, pensò, ma se l'era cavata bene. Si era procurato la ketamina pagando profumatamente un ragazzo del quartiere dai dredd castani. Non era stato difficile. I soldi portano ovunque.
Poi l'occasione giusta: la caduta accidentale della moglie documentata da tanto di referto medico. Da quel momento aveva cominciato a somministrarle il farmaco a piccole dosi, giorno dopo giorno, spacciandolo inizialmente come cortisone, fino a farla diventare in breve tempo un vegetale. Doveva resistere ancora per qualche giorno, poi la morte improvvisa della donna non avrebbe stupito nessuno. E lui sarebbe stato libero. E ricco, molto ricco.
Poi l'occasione giusta: la caduta accidentale della moglie documentata da tanto di referto medico. Da quel momento aveva cominciato a somministrarle il farmaco a piccole dosi, giorno dopo giorno, spacciandolo inizialmente come cortisone, fino a farla diventare in breve tempo un vegetale. Doveva resistere ancora per qualche giorno, poi la morte improvvisa della donna non avrebbe stupito nessuno. E lui sarebbe stato libero. E ricco, molto ricco.
All'improvviso il motore si spense per un guasto improvviso. Erano intrappolati in alto mare. Quanto tempo era passato? Senza orologio, difficile a dirsi.
Imprecando, Moretti si tuffò e cominciò a nuotare verso riva. Maledisse sé stesso per la sua superficialità. “A quest'ora l'effetto della ketamina potrebbe essere passato, -pensò, - e Paola avrà cominciato ad attirare l'attenzione della gente. Di sicuro Rocco avrà chiamato un'ambulanza.” Uscì dall' acqua stremato e cominciò a correre verso lo stabilimento. “Dio, ti prego, ti prego”.
Doveva percorrere un lungo tratto di spiaggia, quasi un chilometro. Ma quanto si erano allontanati? Ecco, adesso vedeva distintamente la Stella Marina con i suoi ombrelloni ordinati, poteva anche intravedere la sedia a rotelle di sua moglie. Ma cos'è che non andava? La sciarpa, la sciarpa di seta! Stava vistosamente sventolando, mentre doveva trovarsi ben ferma al collo di Paola.
E poi, finalmente la vide. Proprio davanti agli ombrelloni, circondata da bagnanti curiosi, una grossa autovettura bianca, fuori da ogni dubbio l'ambulanza.
Rallentò il passo, tutto era perduto. Perché non partiva? Era ferma, circondata dai bagnanti.
Rallentò il passo, tutto era perduto. Perché non partiva? Era ferma, circondata dai bagnanti.
Accelerò nuovamente l'andatura, l'ingegner Moretti, e più si avvicinava allo stabilimento più sorrideva.
— Come mai è tornato così presto? Sarà stato via solo quaranta minuti, la signora sta ancora dormendo — gli disse Rocco.
Moretti non rispose, sistemò la sciarpa attorno al collo di Paola e, sollevato, si diresse verso il camioncino bianco, mettendosi in fila con gli altri bagnanti per un gelato alla fragola.
COGITO ERGO SUM
~ di Polissena ~

Sembrano passati secoli, invece è ancora tutto come lo ricordavo. L’insenatura, la spiaggia, la crepa sulla roccia, abbastanza grande da permettermi di entrare.
Lo facevamo sempre: io ero il corsaro nero e guidavo i miei bucanieri nell’esplorazione “della caverna del tesoro”. Era il nostro gioco preferito, il nostro posto preferito.
Qui, bevvi la mia prima birra, e presi la prima sbronza. Qui diedi il primo bacio, e mi straziai per la prima delusione.
Qui, l’ultima estate della mia adolescenza, mio fratello chiuse il mondo fuori dalla sua testa. Era una sera come tante: il falò, il rumore quieto della risacca e Guccini storpiato dalle nostre chitarre. Marco entrò nella caverna in cerca di legna portata dal mare. Era il più giovane e toccava sempre a lui. Non so cosa accadde, né quale collegamento in lui si spense. Quando tornò indietro, trascinava i piedi, il viso inespressivo, fisso in un punto indefinito oltre la scura linea dell’orizzonte.
Si inginocchiò davanti al fuoco fissando un pezzo di brace carambolata fuori dal cerchio di pietre. Non rispose alle nostre domande e non reagì quando lo spinsi, pensando a uno scherzo puerile. Semplicemente continuò a fissare la brace, ormai annerita. “Addio.” sussurrò, e fu l’ultima cosa che disse.
I miei vendettero la casa quell’estate e questo piccolo paese della costa marchigiana è sparito dalla mia vita.
Vent’anni sono tanti e le strade della vita ci hanno diviso. Non ho più visto i mie “bucanieri”, a parte Marco ovviamente, anche se andarlo a trovare alla clinica dove risiede da allora non può considerarsi una vera frequentazione. La mia chitarra non è più stonata e assieme alla mia nuova band mi ha riportato qui. Quando ho letto il nome del paese sul programma, però, non potevo evitare di tornare alla “nostra” spiaggia.
Mi infilo nella fenditura e sfioro lo schermo del cellulare perché si illumini.
L’interno della grotta è più angusto di come lo ricordavo, la mia enorme caverna del tesoro è solo un ridicolo buco.
L’interno della grotta è più angusto di come lo ricordavo, la mia enorme caverna del tesoro è solo un ridicolo buco.
Un riverbero di luce esce da una piccola fenditura che non ricordavo.
Metto via il telefono e il bagliore si fa più vivido. Mi avvicino.
Metto via il telefono e il bagliore si fa più vivido. Mi avvicino.
Non appena sollevo di nuovo lo sguardo mi trovo avvolto in una fitta e densa nebbia. Non mi piace. Voglio uscire, ma non riconosco più i contorni, cerco di orientarmi, qualcosa mi tocca la schiena, poi le gambe, il viso ed è come se l’aria stessa divenisse talmente densa da avere una propria, palpabile consistenza. Mi volto di scatto ma il risultato non cambia. Il mio campo visivo è saturato dalla sostanza lattiginosa, le cui appendici vaporose continuano a toccarmi. I colpi si fanno più forti, mi sento avvolto da qualcosa di denso e freddo. Arranco verso il punto dove dovrebbe essere l’uscita.
Nel gelo che mi ricopre credo di udire la voce di Marco ancora bambino. La paura ormai sovrasta ogni altra emozione. Vorrei correre, ma le gambe pesano come pietra. Mi si chiudono gli occhi. Ho sonno.
Abbasso le palpebre, ma solo per un istante. Baluginii confusi nella coltre immacolata confondono le distanze e non so più dove mi trovo.
Mi sembra di galleggiare ora, la mia mente fluttua nel vuoto. Mi sento scaricato, vuoto. Il mio corpo ondeggia come un palloncino legato a un filo. Non è la vita che fluisce fuori dal mio corpo, sono io che lo lascio. Non so se sia l’anima o la mente, ma tutto ciò che sono, tutto ciò che mi identifica, sta scivolando via, tutta la mia esistenza, strappata fuori a forza da mani bianche e inconsistenti.
Nuoto sospeso in questo nulla bianco. Sollevo le mani per portarmele al viso. Non le vedo. La voce di mio fratello è distinguibile ora.
Mi volto di scatto, o almeno credo di averlo fatto. Nella coltre, finalmente intravvedo l’uscita.
La nebbia inizia a diradarsi, come se venisse lentamente risucchiata indietro. E io con lei. Cammino con piedi inesistenti, poggiati su un tappeto d’aria. Mi sto allontanando mentre il mio corpo struscia contro la pietra dell’insenatura. Penso, quindi esisto, perché vedo me stesso dirigersi verso l’uscita. <<No!>> Grido con tutta la forza che mi rimane, non esce nessun suono dalla mia bocca, ormai invisibile, ma il guscio vuoto che ero io, solleva il mento e sussurra un “no” che nessuno riuscirà a sentire. Poi sparisce all’esterno.
GOODBYE MALINCONIA
~ di Skyla74 ~

Sonya afferrò il drink ghiacciato, il terzo per la precisione. Dalla radio della spiaggia le Bananarama starnazzavano “Venus”, follia retrò di qualche deejay che si sfogava prima che la spiaggia si riempisse di carne giovane.
“Goddess on the mountain top
Burning like a silver flame
The summit of beauty and love
And Venus was her name”
Sonya sollevò il bicchiere brindando al pubblico di lettini vuoti. Anche lei era stata bella, ma adesso era solo grassa. Una Venere obesa.
Gorgogliò una risata e il drink le gocciolò giù per il mento.
“She's got it
Yeah, baby, she's got it”
Oh, sì, baby, pensò, io ce l’ho: occhialoni da sole modello Paris Hilton che mi nascondono gli occhioni da alcolizzata, costume bianco Fendy che luccica al sole del mattino attirando i venditori da spiaggia.
Daniele, il barista, c’era andato giù duro col gin. Sonya fece leva sulle scapole e rizzò il collo in direzione del bagnasciuga. Il sole nascente cospargeva il mare di schegge sfavillanti, un cono di luce metallica che si rifrangeva sull’acqua appena increspata incendiandola come il gin che le spaccava lo stomaco.
«Salgo in hotel» disse Giovanni togliendosi gli auricolari. “Hai avuto quel che volevi, no?” era il significato implicito. Sì, Sonya lo aveva avuto la notte appena trascorsa. Tre volte, anche se dell’ultima non ricordava granché. Gliel’aveva detto e lui si era offeso. Scrollò le spalle, svogliata. L’aveva già pagato, voleva anche la buonuscita?
Giovanni raccolse i due stracci che aveva, ma quando Sonya lo vide barcollare verso la strada quel poco di sicurezza che aveva sparì come alcol dato alle fiamme.
Alzò la mano attirando l’attenzione di Daniele. «Magari tra un attimino?» chiese il barista, giovialone. Sì, motteggiò Sonya, aveva ragione. Ubriacarsi prima delle nove non aveva molto senso. La giornata era lunga.
Il barattolo di crema solare si rovesciò a testa in giù nella sabbia con un tonfo. Sonya si avviò verso la riva e un bambino la intralciò, spruzzandole addosso una nuvoletta di sabbia. Gridò euforico facendole crocchiare i timpani. Sonya si piegò per sciacquare il barattolo. Finì a faccia in giù nel mare sotto lo sguardo preoccupato di un papà cicciottello che lavava il sederino alla figlia di sei mesi.
Non era per lui che Sonya boccheggiava.
L’uomo camminava su una secca a venti metri, il sole lo illuminava dall’est di modo che metà del suo corpo sembrava andare a fuoco mentre l’altra metà bilanciava il chiaroscuro come un’ombra satanica. Le sorrise e fece frusciare l’acqua verso di lei. Sonya si schermò gli occhi, mentre lui le porse la mano. «Vieni?» le disse.
«Venire dove?» chiese Sonya. L’impatto con l’acqua fredda, le stimolava la vescica. Ah, una vera Venere!
Lui scosse i capelli in segno di disapprovazione, trecce rasta che gli arrivavano ben oltre il fondoschiena. Era magro, ma le fibre dei suoi muscoli tendevano la pelle abbronzata come cavi d’acciaio in trazione. Anche Sonya aveva quelle fibre ma all’altezza del cuore, una corona di spine che la straziava dal giorno in cui le era morto il figlio, ergo dal giorno in cui lei lo aveva ucciso.
La Porsche gliel’aveva regalata lei, dopotutto. I pompieri ci avevano messo tre ore a tirarlo fuori, a pezzi. In obitorio non l’avevano lasciata entrare, ma suo marito non le aveva risparmiato i dettagli.
L’uomo fece un cenno vago, verso il mare. «Alla terra promessa, ma prima dobbiamo diventare pescatori di uomini» disse.
Sonya scoppiò in una risata grossolana. «Allora aspetta che vado a prendere il portafoglio» disse. Lui la abbandonò. Sonya boccheggiò e pianse, per la prima volta in un anno.
***
La storia del rasta e del suo esercito di bagnanti fu il tormentone dell’estate. Perfino Bruno Vespa fece uno speciale dedicato allo strano gruppo che si aggirava per le spiagge reclutando adepti. Ci fu chi lo paragonò a Forrest Gump e alla sua corsa ostinata e i più arditi a Gesù.
Grazie alla segnalazione di un reporter, Sonya sbarcò a Lampedusa. Era settembre e i campi profughi stavano per scoppiare, ma non di africani. Erano tutti italiani e cantavano salmi inframmezzati da canzoni di Vasco e Lady Gaga, mentre il rasta dirigeva le operazioni d’imbarco. Quando la vide, le sorrise come se si fossero lasciati il giorno prima.
«Dove si va?» chiese Sonya che ormai non beveva da mesi.
«Alla terra promessa» disse lui. Lo aveva detto anche ai giornali, smorzando di molto l’entusiasmo mediatico.
Come tanti prima di lui, il rasta puntava il dito contro il capitalismo, contro una società basata sui consumi che alienava l’individuo. L'incredibile era quanta gente l’avesse seguito e mica solo giovani idealisti! C’erano nonne che avevano abbandonato i nipoti ai giardinetti, casalinghe che avevano lasciato la pasta a scuocere sul fuoco, uomini in carriera che un giorno avevano mollato l’auto incolonnata in autostrada e avevano preso il mare come balenotteri smaniosi di riunirsi al branco. Ma questo ai giornalisti interessava poco, visto che non c'era nulla di peccaminoso.
Alla fine li avevano abbandonati.
Sonya guardò la scia che il motoscafo si lasciava dietro. Le motovedette della capitaneria di porto li seguirono fino al confine delle acque territoriali: avevano i documenti in regola. In Italia c’era la crisi e “chissenefrega” se un gruppo di esaltati voleva tornare da mamma Africa!
Quell’autunno Berlusconi si fece il cinquantesimo trapianto di capelli, l’italiano medio continuò a sgobbare mentre la spesa media annua pro capite si mantenne mediamente insopportabile.
Il marito di Sonya ingaggiò un investigatore privato, ma quello non tornò più. Non gli spedì neppure la parcella. L’unica cosa che trovò nella cassetta della posta fu una rosa del deserto con sopra un francobollo. Il marito di Sonya la lanciò nel Lambro, chiuse il finestrino del Suv e caricò l’ingorgo cittadino come un toro inferocito.
QUELLE ESTATI CHE...
(sono solo ricordi)
~ di Licetti ~

Sono qui davanti al mare, seduta sulla sabbia che mi ha vista fin da bambina giocare e crescere. Ci torno ogni anno, perché mi piace, ma evito di venirci in estate. Il trambusto dei turisti indaffarati nel loro far nulla e la cronica mancanza di parcheggio sotto casa mi disturba. Il condominio dove si trova il mio appartamento è in centro e quindi a tutte le ore c’è rumore. Inoltre sulla piazza antistante suona ogni sera fino a mezzanotte una orchestrina di quelle dilettantistiche che non sempre fa piacere ascoltare. Le canzoni, che spaziano dal repertorio classico italiano alle hit dell’anno, si ripetono uguali ogni sera. Verrei qui per rilassarmi, non per divertirmi, ma i negozianti della zona hanno sempre bisogno di queste cose per attirare clienti.
E’ comunque davanti alla grande distesa di acqua che il mare ha il maggior effetto su di me. Sto seduta per ore con lo sguardo un po’ perso nel vuoto, fissando un punto impreciso, laggiù dove cielo e terra prendono la stessa sfumatura di colore. In quei momenti la mia mente vaga tra i ricordi, trasportata lì da chissà quale soffio di zefiro.
Ritorno alle estati passate interamente qui, a far compagnia alla nonna, ai tempi dell’università, ogni giorno più abbronzata, ma anche più annoiata. Ritrovo però anche quelle in cui la giornata al mare con le amiche era attesa fin dal momento della programmazione.
Eravamo cinque adolescenti, le altre quattro conosciute per caso sulla corriera che mi portava a scuola. Loro abitavano a qualche fermata dalla mia, ma per mia madre era troppo lontano per arrivarci col motorino, soprattutto d’estate. Fortunatamente due hanno il telefono a casa e così riusciamo a metterci d’accordo sulla giornata. L’orario ed il mezzo da prendere è ogni anno lo stesso. La meta ovviamente il mare, l’unico raggiungibile con corsa diretta e rientro in giornata.
Con il permesso ed il finanziamento dei miei genitori parto la mattina presto. Raggiungo la stazione delle corriere da sola e salgo riservando già dei posti per le altre. Dopo qualche chilometro la loro fermata. Le scorgo e mi sbraccio fuori dal finestrino per far capire che ci sono. Occupano i posti che avevo accaparrato e ci mettiamo a parlare ad alta voce. Siamo tutte eccitate. Oggi splende il sole.
Lungo il tragitto il pullman si riempie, ma questo non ci disturba. Noi continuiamo a parlare del più e del meno, ma anche di dove scendere. Arriviamo a destinazione. Scendiamo compatte e ci avviamo a passo spedito verso la spiaggia. E’ ancora presto, ma vogliamo un posto in prima fila sul bagnasciuga.
Dopo aver steso gli asciugamani e delimitato il territorio, il solito piccolo ed innocente spogliarello, magari in faccia a qualche soldatino in licenza. Ci spalmiamo reciprocamente la crema solare sulla schiena, continuando a parlare o a raccontarci barzellette.
La mattinata passa tra giochi e risate, con grande gioia dei vicini. Non ci annoiamo mai e ne inventiamo sempre una di nuova. Siamo piene di energia.
In acqua la palla è sempre con noi. Usciamo solo quando è la fame a chiamarci.
Spuntino con un panino portato da casa, con il formaggio o il salame nostrano e bibite fresche. Si parla poco, ma a volte bastano gli sguardi a commentare. Ce ne andiamo poi tutte al bar, chi per la toilette, chi per il gelato e due già per il caffè e la sigaretta.
Poi quattro passi sul lungomare o sul viale del centro dove ci sono tante vetrine. Quattro chiacchiere sedute sul muretto, sotto i pini. Passando davanti la sala giochi ci fermiamo a guardare quelli che si battono a calcetto facendo chiasso come se fosse una partita vera e noi le tifose.
Anche il pomeriggio è pieno di attività. Qualcuna ha bisogno di un nuovo strato di crema. C’è chi ha portato un libro, dei fumetti, le parole crociate, mentre il sole ci scurisce la pelle.
Bisogna tener d’occhio l’orologio: c’è solo una corsa al giorno che ci riporta a casa e se non torniamo tutte in orario sono guai per il gruppo. Vorremmo rimanere a goderci il tramonto, la spiaggia meno affollata, ma sappiamo che non si può. Siamo stanche, ci appisoliamo sui sedili, cullate da dolci ricordi.
Rientrate a casa una doccia ci lava stanchezza e residui di sabbia e crema. Saremmo pronte a tornare in pista, ma le mamme non lo permettono. Secondo loro abbiamo già avuto abbastanza dalla giornata. Siamo adolescenti e, anche se di controvoglia, dobbiamo ubbidire. Si chiude la giornata intensa con un libro di avventure accompagnate dal canto dei grilli nei prati.
Questo rito si ripeteva spesso anche due volte la settimana da metà giugno a fine agosto e nessuna di noi all’epoca sognava vacanze in posti esotici. Ci bastava stare assieme per una giornata intera.
Ricordo quelle estati sempre con nostalgia. So che le altre si sono sposate e hanno messo su famiglia. Ora forse sono loro a finanziare la gita al mare dei propri figli mentre io qui, sulla spiaggia, mi rivedo giocare libera e spensierata assieme a tutte loro.

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