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La gara

Gara 39
2.0pt">LE NOSTRE SCELTE GENERANO MOLTI MONDI
OTTOBRE 2013
antologia per BraviAutori.it
a un'idea di Nunzio Campanelli
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia
Prefazione
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Spesso nella vita ci troviamo di fronte a un bivio che ci impone di compiere delle scelte, e in base al tipo di scelta compiuta condizioniamo il nostro futuro. Quante volte ci siamo trovati a pensare come sarebbe stata la nostra vita se in una data occasione avessimo agito diversamente da come abbiamo fatto?
E se fosse possibile intraprendere tutte le possibili scelte contemporaneamente, creando diversi futuri, diversi tempi che a loro volta si biforcheranno e daranno vita a nuovi tempi?
Ne "Il giardino dei sentieri che si biforcano" Jorge L. Borges racconta della moltiplicazione delle conseguenze derivanti da ogni singola scelta, creando un vero e proprio labirinto dove coesistono diverse linee temporali e dove è possibile esistere e non esistere contemporaneamente, prevedendo con largo anticipo uno degli argomenti interessanti di cui si sta interessando la scienza, ovvero l'interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica.
Fin dal momento in cui ho iniziato a pensare a qualcosa d'interessante su cui costruire la Gara, il tema delle scelte mi è sembrato da subito più che degno di considerazione, fino a diventare l'argomento di Gara 39.
A dire la verità sono stato assalito da qualche dubbio al momento di decidere sul come tradurre in pratica tale tema, poi grazie ad alcune letture di qualche anno fa e a una dritta opportunamente ottenuta da Ser Stefano (che ringrazio), è emersa la definitiva configurazione della Gara, consistente nella realizzazione di un racconto articolato in tre sezioni:
prima: parte introduttiva nella quale la/il protagonista compie la scelta;
seconda: parte finale facente seguito alla scelta compiuta e dove si realizza un primo possibile epilogo;
terza: ulteriore e alternativa parte finale dove si realizza un secondo possibile epilogo.
La Gara è stata appassionante grazie anche alla qualità elevata dei racconti, dei quali ringrazio gli autori per aver accettato di seguirmi in questo bizzarro ma affascinante esperimento.
Infine… ma è meglio che smetta di annoiare il lettore, al quale voglio solo ricordare che:
le nostre scelte generano molti mondi.
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Nunzio Campanelli
Scrittore 97
La macchina rossa fiammeggiante
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Il turno di notte era troppo stressante per Mattia Longo, doveva iniziare alle undici di notte, e finiva alle sei di mattino.
Viaggiava con la sua Alfa Romeo 159, da Ragusa, per arrivare fino a Vittoria e vicinanza.
Mattia si pentiva di essere entrato nella vigilanza notturna, rimpiangeva di aver lasciato la polizia, ma da quando un suo collega era morto in una sparatoria, aveva voluto cambiare mestiere.
Qualcosa di attinente alla legge, ma di meno pericoloso, alla fine un suo amico gli consigliò la vigilanza notturna, buona paga ma lavoro monotono e stressante.
Viaggiare continuamente e visitare tutte le ville e case delle persone che pagavano mensilmente, senza che succedesse nulla.
Ogni minimo movimento dentro le proprietà lo faceva andare su di giri, ed estraeva subito la pistola.
una volta aveva puntato l'arma anche a un cane randagio, che dal canto suo se ne scappò impaurito.
Quella sera era una come altre, la noiosa routine che lo portava di proprietà in proprietà, era stufante.
Quando era nella strada che portava a Vittoria, però si divertiva a sentire il motore della sua 159 rombare, era un Alfista con i controfiocchi.
Stava arrivando a destinazione, doveva girare a sinistra della rotonda, e poi sempre dritto fino ad arrivare al mare, li aveva una villa da controllare.
L'orologio segnava l'una di notte era in anticipo con il suo solito orario, si vedeva che aveva corso più delle altre volte.
Era arrivato davanti alla villa, ma notò qualcosa che non andava, il cancello era aperto, ma i padroni della proprietà erano assenti per altre due settimane.
Accostò la macchina, prese la sua torcia e la fedele pistola, scese dall'auto, senza fare rumore iniziò ad avanzare.
Sotto una bellissima veranda fatta in legno, era posteggiata una macchina cui mancava la targa, era da intenditori, una Brera rossa fiammeggiante, un sogno per ogni alfista.
Mattia la osservò come se non avesse visto mai una macchina, ma poi si riscosse, doveva fare il suo lavoro, non mettersi a sbavare per una vettura.
La villa era completamente buia, sembrava tutto calmo, il silenzio era rotto solo dal canto di una cicala.
All'improvviso da dentro la villa Mattia sentì un sonoro rumore, poi con la coda dell'occhio vide la luce di una torcia che si spostava di qua e di là, in una stanza.
Mattia cominciò a tremare, sentiva l'adrenalina salirgli, ma tentò di calmarsi il più possibile, iniziò a camminare fino ad arrivare all'entrata della villa.
La porta era ancora aperta, Mattia entrò, passo dopo passo con tanta paura.
Era strano, lui che quand'era nella polizia faceva mille incursioni era calmo e controllato, adesso per un semplice ladro si stava letteralmente pisciando addosso, forse era perché dopo tre anni di notti tranquille, una sarebbe diventata movimentata.
Non conosceva la disposizione delle stanze, ma si diresse semplicemente nella direzione del rumore, guidato da un piccolo fascio di luce della sua torcia.
Era arrivato dietro la porta da cui provenivano i rumori, buttò un'occhiata dentro e vide un uomo alto e flessuoso, aggirarsi per l'ambiente frugando di qua e di là.
Mattia stava tremando come una foglia, frappose la pistola tra se e il ladro, poi la sua voce insicura mormorò — fermo, dove sei! Tieni le mani in alto e in vista!.
Il ladro si bloccò all'improvviso, mise le mani in alto, Mattia urlò — adesso voltati lentamente.
A quel comando il ladro non obbedì, e Mattia ripeté la frase sempre più preso dall'adrenalina, stava sudando freddo.
Il ladro si stava girando, quando all'improvviso il vigilante sentì un tremendo colpo alla testa, che lo fece tremare da capo a piedi, poi fu tutto nero.
Mattia si svegliò con un tremendo dolore alla testa, un fascio debole di luce entrava dall'imposta aperta, era stato svenuto per più di cinque ore.
Uscì dalla villa barcollante appoggiandosi al muro, la Brera non c'era più, uscì dalla proprietà fece qualche passo e raggiunse la sua vettura.
La centrale lo chiamava con insistenza, tutto quel vociare gli fece venire un capogiro tremendo, entrò nella macchina, si mise una mano davanti agli occhi e tentò di rilassarsi.
La maledetta centrale non c'è la smetteva di chiamare, si sentì la testa in frantumi.
Si portò una mano sulla nuca, e trovò un grosso bernoccolo, che pulsava come un satanasso.
Fece dei lunghi respiri, poi rispose alla chiamata e disse: — qui vigilante Mattia Longo, c'è stata una rapina alla villa Leone, mandate delle pattuglie i ladri mi hanno colto di sorpresa e sono stato colpito alla nuca.
I fuggitivi sono a bordo di un'Alfa Romeo Brera rossa senza targa.
Appena finì la frase, la base disse — ok, Mattia chiamiamo la polizia, e mandiamo un'ambulanza.
— non c'è bisogno dell'ambulanza, non sono ferito gravemente, vado direttamente alla centrale a fare rapporto — finì Mattia chiudendo l'apparecchio, e massaggiandosi ancora la nuca.
Rimase fermò lì per qualche minuto, poi accese l'auto e partì, si sentiva ancora intontito, ma era in grado di portare la sua 159.
Per la strada di ritorno vide la polizia gettarsi a tutta velocità verso villa Leone, quella nottata Mattia non l'avrebbe più scordata.
Arrivò a Ragusa che erano le sette e mezza, la città si stava svegliando dal torpore che aveva portato il caldo.
Andò subito alla centrale, parcheggiò la macchina ed entrò, sapeva che avrebbe ricevuto le sgrida del suo capo, e poteva immaginare anche come gli sarebbe cresciuto il dolore di testa.
Si trovò davanti alla porta dello studio del suo superiore, che già stava gridando contro la segretaria, si fece forza e bussò.
— chi è? — urlò da dentro una voce.
— sono il vigilante Mattia Longo — rispose a voce bassa lui.
La segretaria uscì fuori, e con lei arrivò un entra furioso.
Mattia già sentiva la testa scoppiargli, ma si fece forza e fu a faccia a faccia con il suo capo.
— Longo! Lei lo sa perché le persone vengono da noi? — disse il superiore.
Mattia, stava per rispondere, ma la voce prepotente del capo rispose al posto suo dicendo — per la sicurezza delle proprie abitazioni, e lei non è stato in grado di dargliela!
— ma signore, io avevo in pugno il ladro, solo che da dietro le spalle un complice mi ha aggredito e…
— non voglio scuse! Adesso esci da qui, stila il rapporto, e vattene a casa! Sei sospeso per adesso.
Mattia uscì dall'ufficio con il capo chino e una forte voglia di prendere a pugni il superiore.
Si sedette alla scrivania e scrisse il rapporto con un forte dolore alla testa a fargli compagnia, almeno sarebbe andato a casa, dove l'aspettavano la dolce moglie e la sua bambina.
Finito il rapporto lo consegnò alla segretaria, e se ne andò verso casa sua.
Entrò nel parcheggio sotterraneo del suo condominio, e vide una cosa che gli fece venire più dolore alla testa, la Brera che aveva visto quella sera, però lì c'era la targa, ma lui era sicuro che fosse quella.
Estrasse la pistola e si avvicinò all'auto, era vuota.
Però notò una cosa all'interno, in un biglietto c'era scritto proprio l'indirizzo e il numero della sua porta.
Subito si precipitò su per le scale, arrivò davanti al suo appartamento, la pistola nelle mani che tremavano, la porta era socchiusa, la aprì ed entrò, era tutto buio, aveva la pistola davanti a sé, e una paura cane.
Entrò nella cucina piano piano, puntava l'arma nel buio più completo, all'improvviso le luci si accendono e parte un eco di sorpresa, ma Mattia per colpa sia dello stupore, sia dell'adrenalina, esplode un colpo dalla sua pistola.
Sei mesi dopo Mattia è un carcerato, vive i suoi giorni nel dolore e nella tristezza, piange ogni mattina e spera che quel giorno per lui sia l'ultimo.
Aveva sparato a sua figlia di sei anni, un angelo dagli occhi azzurri e le treccine bionde, l'aveva colpita alla testa e per lei non c'era stata speranza.
I giorni gli passavano davanti, e ogni giorno era un inferno di lacrime e dolore, da quando era successa, la tragedia odiava le Alfa Romeo, soprattutto la Brera.
Dopo un anno di carcere, Mattia non si sentiva più un uomo ma una bestia, i suoi compagni di cella lo massacravano di pugni per quello che aveva fatto, e lui in quei pugni cercava la morte.
Un giorno che rimase solo nella cella, mentre tutti erano fuori per l'ora d'aria, lui stava piangendo come il solito.
All'improvviso dalla finestrella arriva un forte raggio di luce, che prende sempre più sembianze umane.
Mattia pensa che sia la morte a portarlo via, ma una voce dice — Mattia, ti è stata data una seconda opportunità.
All'uomo appena sentì quella frase, venne un forte capogiro, e all'improvviso non vide nulla, poi si ritrovò dentro la sua 159, non era più nelle fredde pareti della cella.
Guardò la data, era quella in cui tutto era finito, non ci poteva credere.
Scese dalla vettura, se ne fregò della Brera e salì di corsa le scale, tutto era come un anno prima la porta socchiusa, il buio, poi la cucina, di nuovo la luce improvvisa e la sorpresa.
Appena vide la sua bambina Mattia, non pensò a nulla, la abbracciò piangendo, e dicendo che le mancava.
Tutto era al suo posto, si sedettero tutti, e iniziarono a festeggiare, era il compleanno di Mattia, ma anche la sua rinascita.
Gli ospiti se ne andarono che era sera, e lui si sentiva euforico, era ricominciato tutto da capo.
Andarono a dormire, e quella notte si preannunciava tranquilla, non più animata da incubi ricorrenti, che gli facevano apparire la sua bambina morta.
Un rumore verso le due di mattina però fece svegliare Mattia, il quale si alzò e andò verso il corridoio.
Trovò un uomo alto e flessuoso macchiato di sangue, buttò un'occhiata alla stanza di sua figlia, e la vide con la gola tagliata.
Mattia scattò con furia verso quel bastardo, ma una botta alla testa lo fece cadere a terra intontito.
Dopo sei mesi Mattia è di nuovo in carcere, e stavolta per un crimine che non ha commesso, i ladri che aveva incontrato, si erano vendicati, mettendo in mano a Mattia il pugnale insanguinato del sangue della figlia.
Lodovico
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Prologo.
La testa mi scoppia. Premo con le mani sulle tempie. Non serve a nulla.
Mi giro verso destra. Il display della sveglia appoggiata sul comodino segna le 13:46. I miei lunghi capelli neri mi cadono davanti al viso. Mi piacerebbe tagliarli, ma non posso. Sento un rumore alla mia sinistra. Mi volto. Una ragazza bionda respira pesantemente sotto le leggere lenzuola di seta. Decisamente bella, ma non so chi sia. Mi capita spesso. Sarà la solita groupie che mi avrà abbordato dopo il concerto. Chissà. Spero di avere fatto bella figura stanotte, l'alcol, oltre che di amnesie, è causa di scarse prestazioni sessuali. Comunque farò sicuramente di meglio da sobrio. La sua spalla è morbida al tatto. La agito leggermente.
— Ciao bella.
— Ciao Venom.
Due occhi di un azzurro intenso si aprono in quel giovane viso. Forse troppo giovane. Spero sia almeno maggiorenne. L'ultima volta che mi ero fatto una diciassettenne mi era costato caro, per metterla a tacere aveva voluto l'equivalente in denaro di un automobile da corsa.
— Come ti chiami — chiedo senza un vero interesse.
— Giada, non ti ricordi?
— Ero un po' ubriaco ieri sera. Non ricordo nemmeno di averti scopata, ma possiamo rimediare subito.
La prendo per le braccia e la faccio sedere su di me. Com'era prevedibile è nuda. Comincia a muoversi.
La porta della camera d'albergo sembra colpita da una mandria di bufali imbizzarriti. So chi è.
— Venom, cazzo, apri questa porta.
Finalmente aveva imparato a usare i nomi d'arte anche fuori dal palco. Il nostro agente aveva insistito molto perché lo facessimo. Diceva che era molto meglio per il marketing entrare nei personaggi. Non si è mai visto un batterista di una band heavy metal di successo chiamarsi Federico, e il cantante Carlo.
Scosto la bionda e mi alzo dal letto. Senza preoccuparmi di coprire il mio corpo svestito spalanco la porta. Lui mi guarda con aria minacciosa.
— Dobbiamo essere alle tre a fare le foto per l'articolo di Rolling Stone, piantala di scoparti quella troietta e vestiti, coglione.
Mi giro verso la ragazza. È distesa sul letto, nuda come mamma l'ha fatta, non ha nemmeno provato ad avvolgersi nel lenzuolo. Probabilmente il gran colpo di farsi, oltre il batterista dei Blind Tiger, anche il cantante, l'avrebbe stuzzicata molto. Ma Death sembrava poco propenso a un pomeriggio di sesso.
— Fanculo, Death, io faccio quello che mi pare.
Sbatto la porta e lo chiudo fuori. Sento due pugni percuotere violentemente il legno.
— Prova a mancare, bastardo, e vedrai che fine fai — mi minaccia Death gridando dal corridoio.
Cazzo, le foto per Rolling Stone, mi ero completamente dimenticato. In fondo Death ha ragione.
Lancio gli shorts di jeans e la canottiera alla bionda.
— Vestiti e vattene.
Raggiungo il bagno. Gli hotel a cinque stelle hanno sempre dei bagni immensi, ma non ho tempo di farmi una doccia. Mi limiterò a pettinare i capelli, già questa operazione richiederà parecchio tempo. Sento la porta sbattere, la ragazza deve essersene andata, spero non mi abbia rubato niente.
Slayer, il chitarrista, appare in scena. Illuminato dalle luci rosse sembra un demone e la sua chitarra nera una spada che lui punta dritta verso il pubblico. La lunga nota distorta fa tremare i coni degli amplificatori. Lentamente si trasforma in un sibilo sempre più acuto. Tocca a me. Muovo il piede destro con decisione. Il primo colpo di cassa si abbatte sugli spettatori come una mannaia. Grida, mani alzate, gente sudata che salta. Che il massacro abbia inizio! Oxide, con il suo riff di basso, fa sussultare lo stomaco dei fans. Si comincia sul serio. Arriva Death. È uno stronzo ma ha una gran bella voce.
Siamo quasi alla fine, sono sudato, nella calda serata di Luglio. Approfittando di una pausa raccolgo da terra la birra ormai calda e me la scolo. Death si avvicina. Sta cantando una ballad. Mi guarda male. So che non vuole che si beva durante i concerti. Lo fisso negli occhi, poi alzo la bottiglia di birra e gliela mostro. Il suo sguardo fiammeggia, ma continua a cantare.
Nonostante la musica, il rumore si sente. Proviene dall'alto. Alzo la testa. Un proiettore di luci, grande quanto la ruota di un camion, traballa. E questione di un attimo. Vedo che si stacca. Il frastuono è infernale quando cade sul palco di legno. Death è lì. La fiammata sembra un effetto speciale del concerto, ma non lo è. Avvolge Death che, ancora con il microfono in mano, lancia un grido assordante. I suoi vestiti, in finta pelle, prendono fuoco.
Epilogo1.
I capelli di Death sono in fiamme. Mi alzo di scatto dallo sgabello e supero la batteria. Un vigile del fuoco, troppo lento per i miei gusti, si avvicina al cantante. Gli strappo l'estintore dalle mani e lo aziono. Una nuvola di polvere bianca avvolge Death. Pochi secondi di pausa. Dalla nebbia improvvisamente riemerge l'uomo ancora con i vestiti a fuoco. Mi si avvicina. È pazzo, ucciderà anche me. Lo tengo lontano con la mano sinistra. Sento la carne del braccio che si scalda. Lui vi si aggrappa. — Lasciami, bastardo — grido. Non riesco a svincolarmi dalla presa. Cadiamo insieme in avanti sulle lamiere affilate del proiettore. Sento un dolore insopportabile al braccio, poi più nulla. Nero.
La clinica è una delle più costose della città. Buon cibo, belle infermiere, medici gentili. Non mi manca nulla. A parte il mio braccio sinistro. L'ho perso quella sera sul palco. Un batterista senza un braccio è come un uccello senza un'ala. Inutile. Avrei dovuto starmene seduto dietro la mia batteria a guardarlo bruciare. E poi non è servito a nulla. Death è morto per le ustioni e si è portato all'inferno anche il mio arto. Spero che il diavolo lo custodisca finché ci andrò anch'io. La pagherà. Intanto insieme a lui è defunta pure la mia carriera. Dovrò cambiare vita.
Un anno dopo.
Slayer sta violentando le corde della sua chitarra. La voce del nuovo cantante non è così potente come quella di Death. Una pausa. Raccolgo la birra con la mano destra, l'unica mano che mi resta. Me la scolo. È la quarta. La batteria elettronica di fronte a me sostituisce degnamente il mio braccio sinistro. Una nuova vita da musicista, la vecchia vita da rocker. Osservo il pubblico. Dovrò dire a Marco della security che, dopo il concerto, mi porti quelle due tipe, la bionda e la mora, in camerino. Nel letto della suite dello Sheraton ci dovrebbero stare benissimo.
Epilogo2.
Brucia, bastardo, brucia. Seduto sul mio sgabello, le bacchette in mano, osservo le fiamme estendersi ai capelli del cantante. Non ci penso nemmeno ad alzarmi per aiutarlo, che il diavolo se lo prenda. Slayer si avvicina con un estintore strappato dalle mani di un vigile del fuoco troppo lento. Una nuvola di polvere avvolge l'incendio e pare calmarlo. Oxide trascina il corpo di Death lontano dalle fiamme. Pare che si muova. Peccato. Mi avvicino pure io al cantante. È steso a terra, ustionato dappertutto. Due infermieri, con una barella, arrivano trafelati da dietro il palco. Compare una bombola di ossigeno. Poco dopo la sirena dell'ambulanza si alza sopra le grida del pubblico.
È un bel giorno per un funerale. La bara in legno scuro ha brillato al sole finché la terra l'ha ricoperta. Esco dal cimitero, la giornata è fin troppo calda per il mio giubbotto di pelle. Salgo sulla mia Harley nera e, con un calcio deciso, accendo il motore cromato. Riposi in pace. Domani telefonerò al cantante dei Korpse, lui potrebbe sostituire Death, hanno un timbro di voce molto simile. Apro la sacca laterale della moto e ne estraggo una bottiglia di Four Roses. Ne bevo una lunga sorsata. — Alla tua salute, Death — penso.
La strada corre veloce sotto le ruote della potente motocicletta, i capelli che escono dal casco svolazzano sulle spalle. Mi sento libero. Libero di suonare, di bere, di correre. Apro la visiera per sentire l'aria sulla pelle. Succede improvvisamente. Una sbandata, la mano non raggiunge il freno. L'ultima cosa che ricordo è il rumore del casco che sfrega sull'asfalto.
Bianco. Tutto bianco. Il soffitto, il letto, le pareti. Odio il bianco. Mi angoscia. In questo ospedale tutto è bianco. Faccio scendere lo sguardo. Dove dovrebbe esserci il mio braccio sinistro vedo bianco, il lenzuolo, nient'altro. L'ho perso nell'incidente. Forse il destino ha voluto punirmi per la mia perfidia, forse è stato solo l'alcol. Un batterista con un braccio solo. Fine dei giochi. Dovrò cambiare vita.
Un anno dopo.
Slayer sta violentando le corde della sua chitarra. La voce del nuovo cantante non è così potente come quella di Death. Una pausa. Raccolgo la birra con la mano destra, l'unica mano che mi resta. Me la scolo. È la quarta. La batteria elettronica di fronte a me sostituisce degnamente il mio braccio sinistro. Una nuova vita da musicista, la vecchia vita da rocker. Osservo il pubblico. Dovrò dire a Marco della security che, dopo il concerto, mi porti quelle due tipe, la bionda e la mora, in camerino. Nel letto della suite dello Sheraton ci dovrebbero stare benissimo.
Robygian
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Inizio (Prima sezione)
Riccardo non aveva mai avuto nessuna avventura, neanche per gioco, passava le sue giornate meditando sul suo futuro e sulle possibilità di incontrare un amore vero, di quelli che ti stordiscono completamente e non ti fanno dormire la notte.
Stava affacciato al balcone, calzoncini corti e canottiera. La stagione permetteva queste esposizioni, anche se le convenienze ne sconsigliavano l'utilizzo. Non passava nessuno su quella misera strada, la cittadina si snodava lungo una riviera marittima lungo uno scosceso pendio. Gli abitanti del paese erano tutti pescatori o piccoli venditori.
Lui stava riposando dopo la battuta notturna. Sfoggiava una muscolatura evidente sulle braccia per il duro lavoro affrontato e aveva una coloritura degna di un abitante africano.
Passarono diverse persone, dirette al piccolo mercato fuori le mura diroccate, antico retaggio di passate fortune marinare, tra loro una giovane di bell'aspetto si voltò dalla sua parte, sorridendo.
La osservò con piacere, aveva forme attraenti e splendide gambe, ben tornite e diritte.
Le fece segno di volerla incontrare, lei ammiccò con la testa. Lui si preparò di tutto punto e scese nell'ingresso di casa in attesa del suo passaggio.
Trascorsero circa venticinque minuti e la vide rientrare con due borse in mano. Da buon cavaliere si offerse di darle una mano con il pesante fardello. Lei accettò con piacere. Si presentarono.
"Ciao, mi chiamo Laura". "Piacere, Riccardo".
Si avviarono lentamente su per la salita che conduceva a casa di Laura e mentre salivano, parlarono della loro vita e delle personali attese. Quando lui espose i suoi problemi a Laura, questa le disse, senza preamboli " Anch'io vorrei avere un ragazzo da amare, qui non ho trovato ancora nessuno che si sia interessato a me; tu sei il primo che lo fa e con gentilezza".
"Sai Laura, non immaginavo che in questo paese potesse nascere un fiore tanto splendente, sarei veramente felice di essere il tuo accompagnatore".
"Ne sarei onorata Riccardo, sei una persona speciale e mi piaci molto".
"Saresti disponibile per un incontro, anche domani, giù al molo?"
"Ci sarò certamente, facciamo per le cinque del pomeriggio, va bene?".
"Benissimo, allora a domani, ciao Laura".
Si salutarono e mentre lui si allontanava, una luce maliziosa attraversò i suoi occhi.
Riccardo ripensò a quell'incontro e le ore erano diventate momenti di attesa che non passavano mai. Lei invece si rotolava nel letto accarezzandosi e attendendo il momento di poter avere le sue mani su di sé. Mentre mugolava di piacere, sentiva nelle narici il profumo selvatico che lui emanava. Vennero infine le cinque della sera tanto attesa.
Lei giunse con un bikini ridotto, bianco e quasi trasparente per l'umidità della sera incombente, lui portava i suoi calzoncini corti e gli zoccoli ai piedi.
Rimase affascinato dalla visione di quella ragazza così attraente mentre lei si prefigurava le mani che dolcemente le toglievano il costume e la accarezzavano vogliose d'amore.
Fu un momento di commozione reciproca. Si osservarono da una certa distanza, incerti sul da farsi, infine si slanciarono e rotolarono abbracciati sulla sabbia umida del molo.
Un bacio appassionato li unì in un attimo di passione unica, nessuno di loro due l'aveva mai vissuta, ma la natura fece il suo dovere. Mentre le mani di Riccardo scendevano e salivano sul suo corpo, alla scoperta d'intimità sconosciute, lei lo stringeva a sé con la passione repressa di donna ancora da cogliere. Fu un pomeriggio di fuoco. I due giovani si congiunsero ripetutamente ascoltando il richiamo della carne che implorava soddisfazione.
Passarono le ore e a malincuore, dovettero rientrare, lasciando sulla sabbia i segni del loro amore.
Furono giorni magici, nessuno aveva mai provato tanto amore verso un altro com'era successo a loro e il tempo li aveva resi più responsabili e più esperti. Ogni volta si accontentavano maggiormente e lei, con fantasia tutta femminile, inventò nuove posizioni e diverse possibilità di rapporti. E la sabbia li avvolgeva, impregnandosi nel loro sudore e umore.
Passarono una meravigliosa estate e nel mese di settembre lui partì per il servizio militare.
Furono quindici mesi di attesa, cocente attesa, e quando, infine, lui rientrò, Laura era andata all'estero con suo padre. Nessuno provò mai un dolore come quello che colpì Riccardo. Nessuna ragione lo poteva calmare e senza pensare troppo alle conseguenze decise di raggiungerla oltre oceano. Quella era una ragazza segnata dal destino e gli avrebbe portato molti dolori da sopportare. I preparativi furono lunghi e minuziosi, sua madre versava lacrime amare nel preparare ogni cosa per il figlio. Riccardo partì un giorno di maggio. Fu un viaggio disperato, il suo animo era esacerbato.
Laura non aveva fatto più avere proprie notizie e questo rendeva tutto più difficile per il povero ragazzo che si affannava per lei.
1° bivio (Seconda sezione)
New York era una città immensa e fu come cercare il classico ago nel pagliaio, ma Riccardo aveva dalla sua parte una volontà incrollabile e dopo circa due mesi di ricerche affannose, la rintracciò.
Era ridotta in pelle e ossa e stava chiedendo l'elemosina a un angolo della quinta strada.
La vide e ne rimase colpito, tutto si sarebbe immaginato ma non quello spettacolo che aveva di fronte. Laura, la sua Laura, ridotta a fare l'accattona e, nonostante gli occhi avessero ancora la luce del passato, era in uno stato tanto malandato che faceva pena solo a guardarla.
Si avvicinò facendo in modo di non spaventarla e quando le fu di fronte, la chiamò dolcemente.
Al suono di quella voce amata e familiare, lei alzò lo sguardo e quale non fu la sua felicità nell'incontrare i suoi occhi. Si alzò a fatica e gli corse incontro e si abbracciarono, e finalmente si ritrovarono.
Laura spiegò le motivazioni della sua partenza, della morte accidentale del padre e della sua caduta in basso, sempre più in basso man mano che il tempo passava. Ora si era ritrovata a chiedere l'elemosina, poiché non aveva ceduto alla tentazione di prostituirsi. Sicuramente avrebbe guadagnato di più ma decise di non compiere quel passo.
Riccardo aveva qualche piccolo risparmio da parte e insieme iniziarono una nuova vita. L'America è un grande paese e aiuta i giovani volenterosi a percorrere la strada prescelta.
Erano giovani e di bella presenza. In breve lui trovò lavoro come cameriere in un ristorante italiano.
Laura, dal canto suo, iniziò ad arrangiarsi come sarta all'inizio e poi anche lei fu assunta come cassiera nello stesso ristorante, dove lavorava Riccardo. Fu un periodo tranquillo, guadagnavano da vivere sufficientemente e trovavano anche il tempo di divertirsi. La domenica pomeriggio, lavoro permettendo, andavano al Central Park e camminavano nei prati osservando gli animali e le persone che, come loro, si aggiravano alla ricerca di riposo o di eventuali incontri.
Dopo alcuni anni, quando ormai disperavano di rientrare in Italia, si presentò una splendida occasione. Il proprietario del ristorante doveva procacciare dei prodotti italiani da importare e chi, se non ragazzi del posto, avrebbero potuto fare questo lavoro? I due ragazzi s'imbarcarono la sera del 22 settembre e giunsero sulle coste italiche ai primi di ottobre.
Il loro impegno li portò in varie zone ma, infine, ritornarono al loro paese. Quanta gioia e commozione ritrovarono tra le persone del posto e la mamma di Riccardo fu la più felice. Aveva ritrovato il figlio e aveva acquistato una figlia, sempre desiderata ma mai venuta alla luce.
Furono giorni di baldoria. Laura aveva ripreso la sua corporatura e si presentava come una signora di buona famiglia. Il suo passato era un mistero per tutti e nessuno chiese mai nulla degli avvenimenti in cui si trovò coinvolta dopo la morte del padre.
Nemmeno Riccardo chiese più di tanto, a lui bastava averla ritrovata. Il loro amore era rimasto intatto e nessuno poteva sciogliere quello che la natura aveva unito in una maniera stupenda.
Nei venti giorni di permanenza ebbero modo di conoscere e fare amicizie. Tutti quelli che incontravano si mettevano a disposizione, l'affare americano faceva gola a molti e tutti cercavano di simpatizzare con i due ragazzi.
In breve si fecero ottimi affari e ritornare era diventato impellente, i prodotti servivano per lanciare una nuova linea gastronomica sul mercato americano e fare concorrenza ad altri locali della stessa strada.
La mamma di Riccardo lo invitò a stare molto attento, tutto si poteva fare ma combattere contro il destino era inutile e mentre ripartiva, gli disse sottovoce "Attento figlio, la vita può riservare molte sorprese a volte".
A fine ottobre rientrarono al loro lavoro, accolti con grande soddisfazione dai colleghi e in speciale modo, dal padrone. Era talmente soddisfatto del loro lavoro che li gratificò con una busta piena di dollari, ben accetti in un momento di difficoltosa organizzazione famigliare.
Stavano pensando di mettere su una nuova casa e servivano soldi in quantità. Il mobilio e quanto necessitava aveva prezzi incredibili, per non parlare di una nuova auto che era indispensabile per potersi muovere nella città. I sacrifici fatti non erano stati sufficienti a colmare il deficit economico, e loro avevano cercato di far quadrare un bilancio già di per sé carente.
A complicare la vita venne un bimbo, che con tutte le sue richieste cacciò i due nella più completa disperazione. La gioia della sua venuta non compensava i sacrifici richiesti e i due giovani ebbero momenti di grande preoccupazione economica. In conseguenza di tale problema Laura decise, in un momento di sconforto, di togliersi la vita. Fortuna volle che Riccardo se ne accorgesse in tempo e lei fu salvata ma lasciando dietro di sé un segno profondo, difficilmente sanabile.
Il gesto inconsulto di Laura gli tolse ogni voglia di combattere. E furono giorni difficili in cui lei non riusciva a vincere la confusione mentale in cui era piombata e decise, senza valutarne le conseguenze, di provvedere ai bisogni economici facendo quello che non aveva accettato in un primo momento. Iniziò a prostituirsi nelle strade di New York e poi nel Central Park, credendo di sfuggire alla miseria e al destino che incombeva su di lei. Riccardo, non potendo sopportare la vergogna, un giorno, prendendo il figlio sulle spalle, se ne andò via e rientrò in Italia, abbandonando Laura al proprio destino.
Di lei non seppe più niente e solo dopo molti anni, essendo la madre del piccolo, venne a sapere della sua morte in misteriose vicende. L'Interpol non diede spiegazioni. Laura si era cacciata in seri guai spacciando anche droga ed era entrata in collisione con una gang sudamericana che controllava la zona. Fu trovata con la gola tagliata, dissanguata e seminuda, accanto allo zoo.
Queste notizie giunsero in seguito a ricerche effettuate e raccolte da un giornalista del "The New York Times".
Riccardo aveva ripreso il suo lavoro di pescatore mentre il piccolo lo aiutava con le reti o quanto era in grado di fare. La nonna ancora lavorava in casa, sbrigando tutte le faccende e curando il guardaroba di entrambi.
Riccardo, dopo queste sofferenze, superando i momenti di smarrimento in cui era stato cacciato da una sorte avversa, conobbe infine una giovane donna, povera ma molto per bene e la sposò.
Il piccolo aveva bisogno di una madre e anche se la moglie non era com'era stata Laura, creò un'atmosfera felice e tranquilla nella nuova sistemazione famigliare.
Andarono avanti per molti anni tranquillamente nel paese di mare.
2° bivio (Terza sessione)
Riccardo ritrovò Laura a New York. Era diventata una ragazza copertina. La sua bellezza era stata notata da un giornale, che l'aveva voluta come modella. Era stata avviata su una strada di luminosa carriera fotografica. La sua immagine comparve su ogni migliore rivista specializzata. Riccardo non ebbe difficoltà. Aveva la faccia del suo amore in ogni rivendita giornalistica. Anche nella metropolitana il suo viso sorrideva felice ai viaggiatori. Quando le telefonò, lei con molto tatto gli fece capire di avere ormai altri interessi. La sua vita aveva preso strade diverse e le sue amicizie erano altolocate. Furono momenti di sconforto, Riccardo sentì la terra aprirsi sotto i suoi piedi. Aveva fatto di tutto per ritrovarla e ora, che poteva riaverla, lei, la traditrice, si rifiutava persino di vederlo. Bella ricompensa. Un amore che sembrava eterno su quella spiaggia infuocata era divenuto fumo che si sperdeva nell'aria. Per la miseria, almeno fosse stata l'aria di casa nostra. Proprio sotto il cielo americano doveva succedere! Che cavolo. Riccardo si ritenne sconfitto dalla vita stessa, aveva fatto il possibile per ritrovare il suo amore e riprendere una vita degna di questo nome, ma tutto era andato a farsi fottere. Prese il subway e si diresse a Coney Island e sulle rive dell'Hudson dopo una lunga meditazione, fatta di immagini, pensieri e sogni, si tolse la vita. Una vita vissuta nella ricerca affettiva finalmente conclusa nel nulla.
Filippo Puddu
(racconto vincitore)
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1. La salita
Nubi di fumo si levavano al cielo dense e nere, il villaggio attorno alla fortezza bruciava, capanne e corpi inerti venivano inceneriti. Vecchi, donne e bambini, nessuno era stato risparmiato dalla furia assassina delle forze del Giglio Bianco. Avevano attaccato all'alba, l'ultimo assalto al potere dei Valerion era stato spietato. Nessun prigioniero, questi erano stati gli ordini, nessun ricordo doveva restare della dinastia deposta, nemmeno i poveri sudditi, la cui unica colpa era stata quella di servire il signore sbagliato, potevano avere salva la vita.
Un ghigno soddisfatto segnava il volto del Re che avanzava, con passo sicuro e sguardo fiero, tra la distruzione dei vicoli della fortezza. In testa portava la raggiante nuova corona, diamanti e pietre preziose erano incastonati nella complessa architettura di corna di cervo, il mantello color porpora raccoglieva, con il lungo strascico, i fiumi di sangue che ancora defluivano dai corpi massacrati. Le guardie reali finivano e mutilavano le vittime agonizzanti sul ciglio della strada.
Ormai tutta la città era caduta ai suoi piedi, il palazzo dei Valerion era stato l'ultimo edificio a cedere alla furia omicida. Due guardie, dai volti imbrattati di sangue e il giglio ricamato sul petto, vigilavano ai lati del grande portone d'ingresso. Sopra la volta capeggiava il motto "Iustitia semper triumphat". Il Re lo lesse massaggiandosi con gusto la folta barba grigia, il sorriso si fece ancora più ampio.
L'interno del palazzo era un pullulare di corpi straziati, il puzzo di morte e i gemiti disperati non smorzavano il buon umore del Giglio Bianco, che traeva invece giovamento da quella musica. Si districò abilmente tra i meandri del palazzo, tra grandi ambienti contornati da colonne marmoree e scalinate decorate da stucchi, giunse infine a destinazione. Nolan Valerion stava seduto sul trono, occhi spalancati e mani sulla grande lancia che, trafiggendogli il ventre, lo costringeva sul proprio seggio. Il Re proruppe in una grassa risata: — Sempre attaccato alla sua sgangherata poltrona, quel bastardo, in vita come in morte!
Irissa Valerion aveva perso la sua corona da regina insieme alla sua testa, ironicamente ruzzolata tra i piedi del defunto marito. "Ne rimane soltanto uno…" pensò tra sé il Giglio Bianco, intuì subito dove avrebbe trovato il bambino, l'ultimo dei Valerion. Mentre i suoi soldati facevano baldoria arraffando quanto potevano dalla ricca sala, notò un capannello di picchieri fermi in un angolo, si divertivano prendendosi gioco di qualcuno. Non appena si resero conto dell'arrivo del proprio signore, si spostarono mostrando al Re una donna disperata, stringeva forte a sé un fagottino.
— Bairon Valerion… il tuo nuovo signore è giunto.
L'uomo prese tra le forti braccia il neonato, inutili furono le urla della balia e i suoi tentativi di difendere il bambino, a un cenno del Re venne infilzata dalle sette lance.
Il bimbo dormiva, ignaro di tutto. Il Giglio Bianco uscì trionfante nel balcone adiacente, là dove i Valerion si mostravano al popolo nei giorni di festa. Questa volta nella piazza antistante non stavano gli artigiani e i contadini del castello, ma l'esercito di tinte porpora. Alla vista del proprio comandante, gli uomini andarono in visibilio lanciando spaventose urla di giubilo. Il Re mostrò loro il neonato, sollevandolo sopra la propria testa, sospendendolo nel vuoto. Tutti ammutolirono. Un raggio di sole filtrò tra le grige nubi e il denso fumo, illuminò il viso del piccolo Bairon, ultimo della sua dinastia, principe di un regno ormai non più suo.
2. La dinastia (Primo epilogo)
I due grossi destrieri neri correvano l'uno contro l'altro sollevando cumuli di polvere alle loro spalle, i cavalieri si fronteggiavano impavidi, solo il colore dell'armatura li distingueva, l'una color porpora e l'altra verde, il giglio campeggiava su entrambi gli scudi. I contendenti si avvicinavano a velocità sostenuta, parvero sollevare all'unisono le lance da giostra, l'impatto tremendo fu accentuato dal fragore della folla.
— Bene padre, il vostro migliore soldato è stato fatto fuori senza troppi complimenti.
Nei posti d'onore delle tribune, il giovane principe accompagnava il suo Re. Il Giglio Bianco non rispose alla provocazione, si limitò a osservare divertito il cavaliere in verde che, trionfante, si guadagnava l'acclamazione della folla. Gli spalti erano gremiti. Quando Bairon si tolse l'elmo integrale, dando respiro ai lunghi capelli color carbone, le donne sospirarono innamorate e gli lanciarono rose rosse, il ragazzo ne prese una al volo e se la portò dritta al cuore.
Il principe era inquieto, non apprezzava lo spettacolo, e fece per alzarsi. Fu bloccato dal padre.
— Melion, sai perché lui è là a mostrare il suo valore in battaglia… mentre tu sei qui al mio fianco? — il Re parlava senza voltare lo sguardo sul figlio, non attese la sua risposta. — Il suo destino è quello di guidare gli uomini in battaglia, conquistare, sterminare, che possa morire in quel macello, a noi non interessa. — Il Giglio Bianco finalmente si girò, scompigliò i riccioli biondi del principe e concluse: — Mentre il tuo destino è quello di regnare, dare ordini, governare e goderti la vita da Re, da Giglio Bianco.
Melion si rassegnò alle parole del padre, tuttavia la profonda invidia gli continuava a scalfire l'orgoglio. Sapeva che gli mentiva, col suo fisico gracile e l'abilità in battaglia di una servetta, sarebbe stato abbattuto dallo stalliere del peggior cavaliere.
Guardando il fratellastro ricevere tutti quegli onori non riuscì a trattenersi: — Avresti dovuto ammazzarlo diciott'anni fa, avresti dovuto farlo sfracellare al suolo.
La grande sala del ricevimento pullulava di invitati, tutti ubriachi. Le immense porte in mogano si spalancarono e la servitù entrò con grandi vassoi.
— Un dolce speciale per l'eccelsa cerimonia annuale! — Annunciò una voce stentorea. Sul fondo della sala, sul piano sopraelevato dove stava la mensa reale, il Giglio Bianco non beveva; il suo volto, solcato da profonde rughe, tradiva un'incipiente tensione.
— Vedrete, sarà qui a momenti. — Celsio, canuto consigliere del Re, cercava di rassicurare il proprio signore che, dal canto suo, non smetteva di grattarsi nervosamente la grigia barba.
— Il mio unico figlio non si presenta alla cena cerimoniale e dovrei stare calmo? Trovatelo!
Intanto la servitù aveva ben disposto tutte le pietanze davanti a lui, i contenuti erano celati da un coperchio argentato. Così come voleva la consuetudine, il capocuoco andò a svelare il piatto principale, sotto il naso del Re.
— Per sua eccellenza, il nostro Giglio Bianco, mi sono permesso di preparare una novità.
— Falla finita e muoviti, cuoco!
Il servo tagliò corto, tolse il coperchio con un esperto e repentino gesto.
— Et voilà!
I ricci biondi di Melion ricadevano sul viso deformato da un'atroce smorfia, gli occhi erano rivolti al cielo, la lunga lingua fuoriusciva dal lato destro della bocca, il collo era mozzato di netto. Il Giglio Bianco proruppe in un eccesso di vomito. Le porte della sala si spalancarono violentemente una seconda volta, Bairon entrò alla testa di un esercito dalle verdi armature, i soldati iniziarono a trucidare tutti gli invitati. L'ultimo dei Valerion avanzava con passo sicuro, arrivò a poca distanza dal Giglio Bianco. Sollevò in aria la bastarda insanguinata e sorrise verso il proprio padre adottivo.
— Iustitia semper triumphat. — Gli ricordò, prima di decapitarlo con un potente colpo.
3. I neonati (Secondo epilogo)
Il Re teneva le braccia tese, le grandi mani reggevano il neonato quasi fosse un'offerta al cielo. Al di sotto, le truppe trattenevano il fiato.
— Con questo… — urlò il Giglio Bianco. — La dinastia Valerion è morta e maledetta per l'eternità! — Lasciò cadere il bambino nel vuoto, l'esile corpo si fracassò nel piazzale con un tonfo sordo. Infante tra cento infanti trucidati, i soldati assettati di sangue esultavano e continuavano a massacrare con le loro lame i piccoli corpi inermi, era una montagna di bambini morti, tutti scaraventati al suolo dal balcone.
— Sono morti!
— Sono morti, tutti morti… morti!
— Sono morti, tutti!
— Morti!
Il Giglio Bianco si svegliò di soprassalto mettendosi seduto, la candida camicia da notte madida di sudore. Al suo fianco, Celsio vegliava su di lui: — Beva questo mio signore, ancora quei maledetti incubi.
— Già… — rispose il vecchio Re, prendendo la fumante tisana dalle mani del servo. — Finiranno mai? — con sguardo febbricitante fissò l'uomo seduto di fianco a letto. — Sono morti tutti?
— Tutti mio signore, esattamente diciott'anni fa, nessun infante si salvò, la volontà del Giglio Bianco fu compiuta.
— Bene Celsio… molto bene… — sorseggiò il caldo liquido. — Preparatemi per la festa.
Fu un'intensa giornata di festeggiamenti, giostre e tenzoni divertirono i feudatari e il Re. Giunta la sera, venne preparato il grande banchetto.
La sala del ricevimento pullulava di invitati, tutti ubriachi. Le immense porte in mogano si spalancarono e la servitù entrò con grandi vassoi.
— Un dolce speciale per l'eccelsa cerimonia annuale! — Annunciò una voce stentorea. Sul fondo della sala, sul piano sopraelevato dove stava la mensa reale, il Giglio Bianco non beveva; il suo volto, solcato da profonde rughe, tradiva un'incipiente tensione.
— Vedrete, il principe sarà qui a momenti. — Celsio cercava di rassicurare il proprio signore che, dal canto suo, non smetteva di grattarsi nervosamente la grigia barba.
— Il mio unico figlio non si presenta alla cena cerimoniale e dovrei stare calmo? Trovatelo!
Intanto la servitù aveva ben disposto tutte le pietanze davanti a lui, i contenuti erano celati da un coperchio argentato. Così come voleva la consuetudine, il capocuoco andò a svelare il piatto principale, proprio sotto il naso del Re.
— Per sua eccellenza, il nostro Giglio Bianco, mi sono permesso di preparare una novità.
— Falla finita e muoviti, cuoco!
Il servo tagliò corto, tolse il coperchio con un esperto e repentino gesto.
— Et voilà!
Venne presentato un dolce gelatinoso di forma piramidale, contornato da grappoli d'uva. In quello stesso momento, il portone in mogano della sala si spalancò nuovamente, con violenza. Melion entrò barcollante, i ricci capelli biondi erano scarmigliati e lo sguardo tradiva l'eccesso d'alcol.
— Tu! — urlò, avanzando traballante in direzione del padre. — Tu… — ripeté rivolgendogli contro un grosso pugnale. — Assassino di bambini… che tu sia maledetto per sempre! Non smetteranno mai di di perseguitarmi… non ci lasceranno mai vivere! Siamo tutti maledetti…
Gli astanti erano troppo ubriachi per porre rimedio a quella follia, il Re assistette impietrito: il principe si trapassò il cuore, suicidandosi.
Quando il sole sorse all'orizzonte, i suoi raggi baciarono il viso violaceo del Giglio Bianco, il suo grasso e vecchio corpo penzolava esanime, impiccato sotto il balcone reale. Prima di togliersi la vita, il Re aveva indossato una grossa targa lignea: "Iustitia semper triumphat."
Rovignon
— Allora, ciao.
— Ciao — rispondo poco convinto dall'idea di lasciarla andar via. — No, dai, resta.
— Io vorrei, Carlo, ma sei tu che mi costringi ad andare.
— Io? — Domando incredulo.
— Sì, tu e le convenzioni a cui sottostai.
— Quali convenzioni? — Chiedo confuso mentre raccolgo il libro che devo restituire alla biblioteca.
— Appunto — dice Alice appoggiando la mano sulla mia ed è come se il suo tocco e quello della copertina diventassero roventi.
Quando il contatto s'interrompe, però, noto che non è successo nulla e, tornandola a guardare, non posso evitare di pensare che anche la protagonista del libro si chiami come lei e sia come me l'ero immaginata mentre leggevo. Se non fosse che si tratta di un nome abbastanza comune, avrei pensato che fosse molto di più che una semplice coincidenza.
— Ciao — dice dopo un ultimo bacio sottraendosi all'abbraccio — spero di poterti rivedere presto.
Vorrei inseguirla, ma le gambe, non so perché, non si muovono e resto a guardarla mentre si allontana sotto la leggera pioggia di marzo.
Sono due settimane che aspetto inutilmente che torni a farsi vedere.
Alice non è più passata dalla biblioteca. Lo so perché cerco di passarci ogni momento del mio tempo libero, di più, ho persino chiesto dei giorni di ferie al capufficio per aumentare le possibilità di poterla incontrare, ma Alice non è più venuta a studiare tra questi banchi.
Provo a rituffarmi nella cronaca nera del quotidiano che da ore mi tiene compagnia, ma sono stufo di leggere delle malefatte dell'ultimo serial killer, quello che a furia di decapitare le vittime si è meritato il soprannome di Boia. E allora, colto da infinita nostalgia di quei giorni passati insieme a lei, decido di rileggere il libro capitatomi tra le mani poco prima di incontrarla.
— Mi spiace — dice la signora al di là del bancone — ma quel libro al momento è fuori. Lo dovrebbero riconsegnare oggi, però. Sa, scadono i quindici giorni da quando è stato preso, e il signore che lo preleva d'abitudine è molto regolare.
— Nel senso che di solito è regolare? — Chiedo perplesso.
— No. Non che il signor De Carolis non lo sia — dice la signora con un mesto sorriso aggiustandosi gli occhiali sul naso — ma dicendo "d'abitudine" intendevo dire che preleva regolarmente sempre e solo quel libro.
— Davvero?
— Sì — risponde la donna continuando a sorridere con lo sguardo trasognato — da non credere che un uomo così rude e di corporatura così massiccia legga e rilegga "Alice nel paese delle meraviglie". Sembra quasi abbia perso la testa.
— Già — rispondo dopo un momento di esitazione — ma quel libro ha qualcosa di speciale.
— Intende dire che "Alice nel paese delle meraviglie" è un libro speciale o proprio che quel volume è speciale?
Non so che cosa rispondere, ma il mio imbarazzo perde di significato mentre la bibliotecaria con voce un po' più squillante del solito sussurro annuncia: — eccolo!
— Chi?
— Come chi? De Carolis.
Appena l'uomo si allontana mi avvicino al banco.
Non c'è bisogno di dire nulla: la donna con un lieve sorriso mi porge la scheda da firmare per poter ritirare il libro.
Mentre mi allontano mi rendo conto che assomiglia alla Regina di Cuori, almeno per come me la sono immaginata io: una donna dotata di gran fascino, ma sotto sotto crudele. E mentre mi allontano, ho la sensazione di essere caduto in una trappola molto più grande di me.
Sarà il nero delle nuvole, ma fuori è già buio. È come se la notte mi sia venuta incontro. Spaurito mi aggrappo al libro che stringo sotto al braccio e mi incammino verso casa.
I lampioni sembrano abbassarsi per farmi più luce mentre avanzo lungo un vicolo che non ricordavo così stretto. Il loro sforzo è encomiabile, fin quando una figura ingombrante mi ostruisce il cammino e, impauriti, si ritraggono lasciandomi alla sua mercé.
— Ti stavo aspettando Carlo.
— Ci conosciamo?
— Non direttamente, ma sei l'unico ad avermi impedito di riprendermi il libro dalla biblioteca… per ben due volte!
Non ho tempo di ribattere, l'energumeno mi salta addosso, deciso a portarmelo via.
— No — urlo d'istinto spostandomi di lato — è mio!
L'uomo non è disposto a lasciarmi andare, estrae un lungo coltello e mi aggredisce ancora: — Ti staccherò la testa e ne farò dono alla regina.
Quelle parole sono cariche di una forza assurda e per un momento mi convinco che tutto sia solo frutto della mia immaginazione.
— Attento — urla Alice uscendo dall'ombra giusto in tempo per deviare il colpo del mio aggressore — vieni con me. Salta!
— Saltare? Ma dove?
— Qui. Seguimi!
Quel che dice Alice non ha senso. Lì c'è solo il marciapiede, o almeno, così mi pare anche se è tutto in ombra.
De Carolis sta già per tornare alla carica.
— Dai deciditi. Salti o no?
2
Non capisco che cosa voglia fare Alice, ma la seguo e a piedi pari salto dentro a quell'angolo oscuro del vicolo e anziché atterrare sul duro marciapiede, mi ritrovo a cadere in un pozzo senza fine.
— Ma? Cosa?
— Ti spiegherò tutto dopo — urla Alice nel fragore del vento che ci turbina attorno — ora però devi aiutarmi a chiudere il passaggio.
— Passaggio?
Alice però non mi risponde, mi sfila il libro da sotto il braccio e strappa via l'ultima pagina.
Quando atterriamo siamo al centro di un bellissimo prato verde.
— Siete arrivati appena in tempo per il tè — dice un enorme coniglio estraendo un orologio dal taschino del panciotto e invitandoci a prendere posto a una tavola apparecchiata con una varietà infinita di pasticcini.
— Ma allora tu sei davvero quell'Alice?
— Sì Carlo e questo è proprio il Paese delle Meraviglie. Un posto in cui, ora che abbiamo chiuso fuori la Regina e il suo scagnozzo, regnerà la pace.
È tutto molto difficile da credere, ma abbracciato alla mia Alice sento che non può essere che come dice lei.
— Levami una curiosità: come mai mi hanno lasciato prelevare il libro dalla biblioteca? E soprattutto, perché non hanno tolto loro l'ultima pagina per impedire il passaggio tra i nostri mondi?
— Perché è lei ad averlo aperto: ama troppo tagliar teste e siccome aveva capito che nel suo regno ne erano rimaste ben poche ancora da far saltare, è venuta a procurarsene qualcuna su da noi.
— Capisco — dico passandomi una mano sul collo.
— Non ti preoccupare, adesso siamo al sicuro.
Chiudo gli occhi e la bacio con trasporto, per ora le spiegazioni della dolce Alice mi bastano, adesso sono le sue carezze che voglio.
3
Non capisco che cosa voglia fare Alice e non riesco a fare quel che mi chiede. Le mie gambe non si muovono e resto fermo ad aspettare il colpo di De Carolis.
— Dannazione! — Esclama Alice spingendomi via giusto in tempo per salvarmi la pelle una seconda volta. — E io che vedevo in te il mio principe azzurro? E invece? Anche questa volta dovrò cavarmela da sola!
— Uccidili — urla la bibliotecaria sopraggiungendo di corsa — possibile che quella ragazzina se la cavi meglio di te? Vedi di portarmi la sua testa questa volta, altrimenti…
La regina di cuori non riesce a terminare la frase, colpita al volto da un calcio volante di Alice che di improvviso lascia la lotta con l'energumeno.
È in quel momento che io, spinto da un sussulto d'orgoglio, ne approfitto per gettarmi su De Carolis. Non so come, ma con un calcio riesco a disarmarlo e con un altro a piegarlo in due. Infine, con un colpo alla mascella, lo Metto al tappeto. Mi giro per dar manforte ad Alice, ma con un pugno ancor più forte del mio, la mia bella ha la meglio sulla regina.
— Caspita — commento massaggiandomi la mano — sei davvero la mia donna ideale!
— E tu hai rischiato che te la mozzassi io la testa — dice con falsa rabbia Alice, quindi, dopo avermi dato un bacio aggiunge: — Forza, aiutami, visto come sono andate le cose, sarà meglio far saltare loro.
Per un momento credo che quell'affermazione non sia da prendere alla lettera, ma poi capisco che nel punto in cui non ho voluto saltare è nascosta una voragine da cui si alza una fredda corrente d'aria turbinante ed è lì che buttiamo di peso prima De Carolis e poi la Regina di Cuori.
— Bene — dice Alice raccogliendo il libro cadutomi a terra — e ora assicuriamoci che non posano tornare indietro. — Quindi strappa l'ultima pagina e aggiunge: — Ora sì che quella strega non potrà più tagliare teste su questo mondo.
— Capisco — dico passandomi una mano sul collo.
— Non ti preoccupare, adesso siamo al sicuro.
Chiudo gli occhi e la bacio con trasporto, per ora le spiegazioni della dolce Alice mi bastano, adesso sono le sue carezze che voglio.
Patrizia Benetti
1 Dopo alcuni anni di grande felicità, io e Katia abbiamo avuto una profonda crisi. Sembravamo diventati entrambi apatici, indifferenti uno all'altra. Quando lei mi vedeva tornare dal lavoro pareva perfino infastidita. Perché eravamo cambiati così tanto? Col tempo, si sa, l'entusiasmo si affievolisce ma lascia il posto ad altri sentimenti ben più profondi. Mi sfogai col mio amico Luigi e lui mi rassicurò dicendo che conosceva troppo bene me e Katia ed era sicuro che eravamo fatti uno per l'altra. Si trattava, secondo lui, di una crisi passeggera. "È proprio ora che dovete cementare il vostro rapporto. Cercate di riavvicinarvi e la vita tornerà a sorridervi".
Io provai con tutte le forze a riaccendere i nostri sentimenti. Cercai di comunicare con mia moglie ricordandole i bei momenti trascorsi insieme. Le proposi anche un viaggio per ritrovare noi stessi, la nostra complicità, la bellezza della nostra unione. Lei accettò ma più per zittirmi che per convinzione. Che cosa potevo fare se lei non collaborava? In Katia l'indifferenza cresceva di giorno in giorno, la sentivo sempre più lontana. Era lì con me soltanto fisicamente ma la sua mente era altrove. A cosa pensava? Perché non mi voleva più?
Un giorno rientrai, a sua insaputa, molto prima dal lavoro. Erano solo le tre del pomeriggio e la trovai con un vestito a fiori, intenta a cantare e ad arricciarsi i capelli. Quando mi vide ebbe un sussulto, poi ridiventò seria come sempre.
Fece per deporre l'arricciacapelli ma io l'afferrai per un braccio e chiesi spiegazioni "Da dove viene quel vestito? Non l'ho mai visto prima! Dove avevi intenzione di andare?". Il mio fu un vero e proprio interrogatorio. Ero fuori di me. Lei si divincolò, prese la borsa e se ne andò in tutta fretta.
Cercai di raggiungerla ma quando uscii di casa era già sparita.
2 Cominciai a vagare senza una meta, addolorato e colmo di rancore. Passai per il centro, i vecchi seduti davanti al bar notarono il mio sguardo sconvolto e mi fissarono con malizia. Sento ancora le loro risa di scherno rimbombarmi nelle orecchie.
"Chissà che ne dirà Pascal…", disse con ambiguità uno di loro. Katia e Pascal! Non l'avrei mai detto. Ora che sapevo mi precipitai da quel bellimbusto. La porta sul retro era aperta perciò entrai e li trovai avvinghiati tra le lenzuola. Fui pervaso da un senso di nausea. Katia era solo una delle tante amanti di Pascal. Come aveva potuto cadere così in basso? Quando si accorse della mia presenza rimase sorpresa e si irrigidì ma lui scrollò le spalle e la attirò di nuovo tra le braccia. "Vedi di andartene", mi disse poi con arroganza e lei scoppiò in una risata così sguaiata. E no, questo era troppo! Come osavano trattarmi così? Non ci vidi più dalla rabbia e ripensai alle parole di Luigi, "Devi cementare il rapporto".
E io lo presi alla lettera.
3 Scrollai le spalle, rassegnato al fatto che tra noi fosse tutto finito. Non importava più né il come né il perché. Io avevo fatto tutto ciò che era in mio potere per tenere vivo il nostro rapporto ma lei non aveva accettato le mie proposte, non aveva accolto la mia mano tesa verso di lei.
Katia aveva ucciso il nostro amore.
Anto Pigy
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Amelie sedeva con le mani in mano, senza proferire parola.
Sapeva che il marito Richard e il dott. Rogers stavano attendendo la sua decisione. Per un tacito accordo, la scelta finale sarebbe stata sua. Non ne sapeva il motivo, né lo voleva conoscere, sentiva che era giusto così. Lei era la madre dopotutto.
Dopo le due ore di analisi che avevano fatto assieme, ora se ne stava in silenzio, quasi come stesse meditando, come stesse definitivamente ponderando, mettendo ancora a confronto per una volta, l'ultima, i pro e i contro.
In realtà Amelie non stava pensando a nulla. Il suo cervello aveva bisogno di un vuoto assoluto, di prender le distanze dalle mille schede tecniche e dalle proiezioni che avevano visionato. Dopo tanta tecnologia, voleva che la sua anima si mettesse in contatto con il suo io ancestrale, con quel residuo di intuito capace di fornirle la giusta scelta, al di là dei calcoli matematici.
Richard, dal canto suo, era rimasto attratto dalle prospettive che si potevano dischiudere con l'utilizzo del materiale genetico misto. Si trovava in quel momento della vita dove le speranze più ingenue della gioventù erano ormai svanite e le pressioni pratiche della realtà cominciavano ad affacciarsi perentorie. Era a capo di un'azienda importante nel settore delle telecomunicazioni, aveva una moglie che amava e una vita comoda e, si poteva dire, felice. Solo la mancanza di un figlio cominciava a logorare la serenità del loro rapporto.
I dépliant erano giunti casualmente nella sua posta elettronica. Aveva letto dapprima con superficialità, poi con interesse, l'invito della Genetics Enterprise a valutare le nuove tecniche di fecondazione con rimpasto genetico attuate dal dott. Rogers. Si era informato tramite le giuste amicizie e i propri contatti, aveva incontrato il dottore, si era fatto spiegare in cosa consisteva la nuova fecondazione assistita e, solo allora, ne aveva parlato alla moglie.
— Lasciatemi dire che questa è una nuova frontiera — aveva detto loro il dott. Rogers — ma sicura. Le sperimentazioni sono già state fatte e i risultati già controllati.
— Ma cosa comporta la modifica genetica del feto? — aveva chiesto sua moglie.
Il dottore aveva sorriso come se non stesse aspettando che quella domanda.
— In poche parole significa gravidanze certe e bambini sani. — Poi aveva cominciato a entrare nei dettagli.
Richard ne era rimasto affascinato. Già si vedeva con il suo bambino — maschio ovviamente — leggermente potenziato nell'intelletto e nel fisico. Non voleva manipolazioni del colore dei capelli o degli occhi, quello no, voleva solo che fosse forte e che fosse in grado di sostituirlo nel suo lavoro. Che male c'era nel dare a suo figlio delle opportunità in più?
Ora però lasciava a sua moglie la decisione finale. Lei aveva avuto più dubbi; si era chiesta spesso se fosse giusto e se non stessero giocando a fare gli dei. La prospettiva di avere un figlio, tuttavia, non poteva non allettarla.
— Amelie, — disse il dottore, sentendosi autorizzato a usare il nome proprio — se vuole possiamo rivedere ancora tutto il procedimento.
— No, non serve. — rispose la donna senza alzare lo sguardo. Poi tacque ancora.
Dopo qualche attimo, alzò il volto e guardò il marito.
C'era una luce nei suoi occhi che aveva il peso del destino.
Hp 1
Richard guardava la città che si stendeva davanti a lui, fuori dalla vetrata del suo ufficio. Si sentì improvvisamente vecchio, vedendo il riflesso del suo volto sul vetro.
Aveva in mano la foto che ritraeva suo figlio Nigel a tre anni, con il suo peluche preferito stretto in braccio. Si sedette riposizionandola sopra il tavolo.
Sul mobile a lato c'erano le altre: Nigel a dieci anni nella squadra juniores di rugby, Nigel con Amelie, Nigel a sedici anni portato in trionfo dai suoi compagni dopo la vittoria nel campionato, Nigel alla sua laurea.
Sentì con sofferenza il suo amore per lui.
— Papà, ho concluso l'affare! — Nigel entrò senza bussare, molto contento di sé. Era diventato un giovane uomo, pieno di energia. I muscoli disegnavano forme apprezzabili sotto la giacca, l'abbronzatura faceva risaltare gli occhi verde smeraldo.
Si diresse al mobile sulla destra e versò un generoso sorso di brandy per sé e per il padre.
— Come hai fatto? — chiese Richard prendendo il bicchiere dalle mani del figlio.
— Non ti annoierò con i dettagli. — disse sedendosi, con una smorfia di fastidio. — Ti basti sapere che abbiamo tutti i fondi di cui avevamo bisogno.
Il padre non insisté. Non lo faceva più da molto. Aveva perso via via tutto il suo potere, mantenendo solo una parvenza di comando.
La prima volta aveva preteso delle spiegazioni. Alcuni suoi rivali in affari avevano subito degli incidenti sospetti proprio pochi giorni prima di concludere un contratto al posto loro e il figlio del suo concorrente era morto. Il dubbio che il figlio avesse agito alle sue spalle non lo aveva più abbandonato.
— Papà, non ti devi preoccupare di quello che faccio. — Gli aveva risposto secco quel giorno. — E poi, in affari a volte ci sono degli effetti imprevedibili. — E aveva sorriso in maniera enigmatica e perversa.
Quella era stata la prima volta che Richard aveva cominciato ad aver paura di suo figlio. Solo in quel momento aveva capito di aver vissuto sempre in bilico, con il presentimento che qualcosa di preoccupante stesse per succedere. Qualcosa che aveva a che fare con suo figlio, con il suo Nigel.
Non aveva mai avuto il coraggio di fermarlo, di intervenire. In qualche modo si sentiva responsabile per quello che era diventato. Non era stato proprio lui a definire nel dettaglio quali caratteristiche implementare al momento di gestire la sua nascita? Quali geni rendere predominanti e quali no, quali peculiarità mettere in evidenza? Amelie non aveva voluto saperne, a lei bastava avere un figlio da amare.
E lo amavano così tanto. Anche Amelie aveva dei dubbi su di lui, ma non ne parlavano mai. Quello che non veniva detto, in un qualche modo era come se non esistesse, o quasi…
Quando Claire, la ragazza di Nigel, aveva accusato il figlio di averla picchiata, loro avevano fatto finta di non crederci. Ma sapeva che Amelie ancora oggi si sognava le ferite sul volto e sul corpo che Claire, piangendo, le aveva mostrato.
— Forza papà, devi venire con me in banca. C'è bisogno che tu faccia una transazione per me. — Ordinò Nigel.
Si avviarono insieme, Richard sempre un po' più curvo, Nigel vigoroso e scattante, quasi dovesse sempre frenarsi per conformarsi al ritmo degli altri. Mentre raccontava alcuni dettagli delle sue prodezze al padre, Richard non lo ascoltava nemmeno.
Entrarono insieme attraverso le porte della banca e non si accorsero in tempo di quello che stava succedendo.
Troppo tardi videro le persone a terra, riunite in un angolo dell'ampio atrio. Alcuni criminali impugnavano armi e minacciavano i cassieri.
Dei dilettanti. Non si avvidero in tempo del sopraggiungere dei due e la sorpresa li fece reagire con impulsività.
Forse fu la vista leggermente potenziata o forse solo l'istinto, ma Nigel comprese subito che l'uomo di fronte a loro stava sparando. Con mossa fulminea, grazie all'incremento dei suoi riflessi, riuscì a spostare il corpo del padre proprio davanti a sé.
Richard percepì la pallottola che attraversava il suo corpo. Nei suoi ultimi attimi di vita provò una felicità intensa perché aveva salvato suo figlio, il figlio che aveva sempre messo davanti a ogni cosa. Nello stesso istante si sentì così infelice e sperò, con l'ultimo alito di vita, che Amelie non venisse mai a conoscenza di quello che Nigel aveva fatto.
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Amelie stava attendendo suo figlio. Nigel doveva venire a prenderla per accompagnarla a fare alcune spese.
Era pronta già da un po' e attendeva seduta sulla veranda, con la borsa in mano. Poi lo vide arrivare.
Come al solito provò un acuto senso di possesso e di amore. Nigel guidava con prudenza e la salutò con la testa mezza fuori dal finestrino ancor prima di arrivare sotto casa.
— Ciao mamma!
Lei sorrise e girò attorno all'auto per andare a sedersi al suo posto.
— Allora, come va oggi? — chiese dando un bacio al figlio.
— Mmm — rispose Nigel facendo retromarcia. Amelie sentì, più che vedere, la smorfia che si era disegnata sul volto del figlio — come al solito.
— Nessuna novità per il lavoro?
— No, ancora niente mamma.
Lei non disse niente. Sapeva che era un tasto dolente e non voleva essere assillante.
Nigel era stato la sua luce e la sua benedizione. Non aveva importanza se aveva faticato a finire la scuola e se aveva scelto di non andare al college.
Richard invece non si rassegnava. Le cose tra loro si erano incrinate e, anche se Amelie non voleva pensarci, sapeva che le dava la colpa di tutti gli insuccessi del figlio. Non avevano mai affrontato la cosa, ma anche così, il miraggio di ciò che avrebbe potuto essere rimaneva sospeso nell'aria.
Lei non aveva rimpianti, avrebbe rifatto tutto nella stessa maniera, avrebbe ripreso le stesse identiche decisioni. Ogni volta che posava gli occhi su Nigel non aveva nessun dubbio. La sua vita era stata felice, aveva avuto un figlio senza l'aiuto della scienza, senza ricorrere a modificazioni genetiche pericolose.
Parcheggiarono. Amelie prese a braccetto il figlio e cominciò a raccontargli delle piccole vicende di casa.
Troppo tardi videro le persone che uscivano dalla banca, mascherate, impugnando le armi. Si ritrovarono proprio nel mezzo.
Si dice che nel momento del pericolo, quando si vedono le persone che amiamo minacciate, il corpo reagisca tirando fuori delle potenzialità nascoste. Nigel comprese subito che l'uomo di fronte a loro stava sparando. Spinto dalla disperazione si buttò avanti, facendo scudo con il suo corpo alla madre.
Nigel percepì la pallottola che attraversava il suo corpo. Nei suoi ultimi attimi di vita provò una felicità immensa perché aveva salvato sua madre e, nello stesso istante, sentì una pena infinita per il dolore che avrebbe lasciato dietro di sé.
Nunzio Campanelli
(racconto fuori gara)
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1.
Con la punta del badile saggia la compattezza del terreno, toglie qualche sasso dalla superficie, poi con un gesto antico come il peccato inizia lentamente a scavare la fossa.
A poca distanza giace il cadavere di un giovane soldato, venuto a morire in quella valle desolata. Una vasta chiazza ha tinto di rosso la sua uniforme all'altezza del petto, i lineamenti contratti nello sforzo della morte denunciano al massimo una ventina d'anni.
Mentre sta appoggiando alcune pietre per formare un simbolo sul cumulo di terra, sente qualcosa muoversi alle sue spalle.
— Toglile!
Sulla destra inizia a materializzarsi una sagoma che imbraccia un fucile. Lo guarda in modo distaccato, come se la sua presenza non lo riguardasse.
— Hai sentito? Toglile!
— Sono solo pietre.
Il dito del soldato si avvicina pericolosamente al grilletto.
L'uomo non si muove.
Il viso del soldato sembra deformarsi nello sforzo di riuscire a trattenere la propria rabbia. Ha conosciuto solo morte e desolazione. Rabbia e miseria. Fame e insulti. Il dito si contrae.
La deflagrazione rimbalza nella valle di colle in colle, lasciandosi dietro un silenzio improvviso.
"Sono solo pietre" pensa il soldato mentre scava una fossa per seppellire l'uomo che ha appena ucciso. "Valeva la pena morire per delle pietre?"
Solo nel chinarsi per raccogliere le pietre sopra la tomba del suo compagno d'armi si rende conto della presenza delle altre sepolture, in successione una dopo l'altra in un infinito perpetuarsi di un destino ineluttabile.
Rimane fermo sopra quella tomba, con le pietre in mano che lentamente gli scivolano a terra, rotolando lontano fino a confondersi con il suolo.
Lo scatto metallico del percussore che introduce il proiettile in canna, e le parole sputate come veleno alle sue spalle non lo sorprendono. Guarda in faccia il suo prossimo carnefice intento a ripetere l'ordine.
— Rimettile a posto!
— No. Con mille pietre puoi costruire una casa ma con una di queste… ne puoi distruggere mille.
" Sono solo pietre. Rimettile a posto."
" Lì dove stanno sono solo pietre. Messe insieme sono di più. Molto di più."
2.
Il viso del soldato sembra deformarsi nello sforzo di riuscire a trattenere la propria rabbia. Ha conosciuto solo morte e desolazione. Rabbia e miseria. Fame e insulti. Il dito si contrae.
Le deflagrazioni rimbalzano nella valle, di colle in colle, lasciandosi dietro un silenzio improvviso. Due corpi giacciono a terra, come abbracciati. Uno stringe ancora una pietra in mano. Dall'alto di una collina un mezzo blindato con le insegne di una nazione lontana ruota la torretta per verificare la presenza di altri potenziali pericoli. La canna della sua mitragliatrice pesante esala del fumo. Uno degli occupanti informa il comando con la radio.
— Due belligeranti eliminati. Ripeto: eliminati.
3.
Il viso del soldato sembra deformarsi nello sforzo di riuscire a trattenere la propria rabbia. Ha conosciuto solo morte e desolazione. Rabbia e miseria. Fame e insulti. La canna del fucile lentamente si abbassa. Il soldato guarda in faccia l'altro. Avranno la stessa età. Vent'anni probabilmente. Gli fa segno che può andare. Sulla tomba restano alcune delle pietre che dovevano servire a tracciare un simbolo. Con un calcio le disperde. Poi s'incammina in direzione opposta all'altro. In testa un solo pensiero:
"Non è così che si raccoglie il grano."
Dall'alto di una collina un mezzo blindato con le insegne di una nazione lontana ruota la torretta per verificare la presenza di potenziali pericoli. Uno degli occupanti informa il comando con la radio.
— Niente da segnalare.
Ser Stefano

1. Scelta
Claude si contorse sullo scomodo sedile del Boing 29.
Non era una missione come le altre, pensava, troppa segretezza, troppa apprensione nella voce del colonnello. Ho come l'impressione che qui ci giochiamo la guerra e l'onore.
Guardò l'ammasso di puntini che formavano la città, l'obiettivo accoglieva un grosso contingente militare nemico, ma era abitato principalmente da contadini e pescatori. C'erano donne, vecchi e bambini. Mogli, padri e madri di qualcuno, figli, amici.
Le mani sulle cloche stavano tremando. Il co-pilota di Claude guardava fuori dal finestrino immerso nei suoi pensieri o più probabilmente desidero di essere altrove.
Il via libera dalla base gli assordò la testa e lo fece sobbalzare.
Cosa doveva fare? Obbedire ciecamente o ascoltare quello che gli urlava la testa e il cuore?
2. Obbedienza
Claude fissa il muro bianco. Si chiede se oggi è un buon giorno per incontrare la morte. Gli hanno legato le braccia dietro la schiena con un nuovo tipo di camice. Come se quello bastasse per fermarlo. Lui è un flying cross, uno dei migliori piloti militari al mondo. Forse il migliore. Non lo avrebbero fermato se lui non avesse voluto.
Gli infermieri pensano che i sei tentativi di suicidio siano falliti per delle fatalità, per pura fortuna. Stupidi. Non c'entra la fortuna. Lui non vuole morire. Vuole pagare per i propri crimini. Deve soffrire per ogni uomo, donna e bambino che ha ucciso. Non basteranno cento vite, lo sa. Ma il dolore, l'avvicinarsi alla morte senza abbracciarla, lo fa sentire meglio. Una piccola rata pagata.
Anders, filosofo e sua personale guida, lo guarda preoccupato. Claude non è mai stato violento con gli altri, solo contro se stesso, quindi nessuno gli impedisce di ricevere visite direttamente nella sua cella, o camera come usano chiamarla.
— Come ti senti oggi? — chiede Anders.
— Bene. (Quando potrei cercare nuovamente di togliermi la vita?).
— Tieni sempre nel comodino la lettera di scuse e quella del perdono?
— Sì. (Potrei rompere il comodino e tagliarmi la gola con una scheggia).
— Ricorda che non è stata tua la colpa. Non sapevi neanche cosa stavi facendo.
Claude alza gli occhi, rabbioso. Le emozioni sono impossibili da reprimere.
— Sì che lo sapevo. Non ufficialmente, certo, ma non ero così imbecille da non capire che stavamo combinando qualcosa di grosso.
Anders si rabbuia. Ne hanno già parlato a lungo e non c'è via d'uscita da quel discorso. Nessun appiglio per farlo ragionare, per togliere quel macigno dal suo petto. Un peso che avrebbe fatto impazzire qualsiasi essere umano degno di questo nome.
— Devi costringerti a lasciare tutto alle spalle. Ricominciare da dove la vita si è interrotta. Hai una moglie che ti aspetta a casa.
Claude non pare vederlo più. — Centotrentamila morti. Quella mostruosa palla gialla. Ho ucciso centotrentamila persone…
Claude viene trovato la mattina seguente, riverso sul pavimento, in un mare di sangue. Dalla ricostruzione si appura che, dopo aver staccato una gamba del comodino, l'ha affilata a morsi e vi si è lanciato contro squarciandosi la giugulare, tutto con le mani legate dietro la schiena. Qualcosa deve essere andato storto rispetto alle altre volte o, finalmente, è andata bene, dipende dai punti di vista.
3. Libertà
Claude guarda il piccolo televisore bevendo una birra calda. È in pantofole, canotta e mutande. Il monolocale che abita abusivamente è lercio. Tutta Cincinnati è lercia e puzza. L'annunciatrice in tv appare entusiasta nell'annunciare che un'altra isola è stata presa al Giappone. Sembra quasi eccitata. Nessuna notizia però sull'avanzamento dei tedeschi sul suolo americano. Avevano sbagliato tutto, dovevano fermare i tedeschi e non accanirsi contro i giapponesi. Se fossero sbarcati in Europa…
Ma io, confessa Claude a se stesso, sono l'ultimo a poter parlare, a dare lezioni di vita agli altri.
Si sentono alcune esplosioni lontane. Claude va alla finestra e sbircia fuori. Uno scorcio di palazzi degradati e semidistrutti gli fanno venire un crampo allo stomaco. Gli ricorda il braccio della moglie che usciva dalle macerie di quella che chiamavano casa.
Da quando è stato degradato ed espulso con disonore dall'American Force è raro che un giorno sia migliore del precedente. Oggi non lo è.
I V3 tedeschi continuano la loro opera di distruzione a Hebron, Florence forse. Sono diventati terribilmente precisi negli ultimi anni.
Claude siede nuovamente sulla sgangherata poltrona e afferra il foglio di richiamo alle armi. Non ci sono abbastanza militari per combattere questa guerra, non più. Ora si reclutano anche i civili, di ogni sesso ed età. E se richiamano anche lui, vuol dire che la situazione è disperata.
Il calendario sul muro è fermo alla pagina del febbraio 1952 e la seconda guerra mondiale non sembra sul punto di voler finire presto.
— Puttana — dice non sapendo bene neanche lui se si fosse riferisce all'annunciatrice o alla guerra. Forse a entrambe. Non vuole tornare in quell'inferno fatto di "uccidi o sarai ucciso". Si porta la pistola alla tempia e stacca il cervello dal resto del corpo.
Monica Porta may bee
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1.
Il silenzio del pubblico mi eccita. Alcuni ragazzi circondano ancora le auto, altri si siedono a poca distanza dalla pista, ma i loro occhi sono tutti concentrati sulla partenza.
Manca poco ormai.
Faccio rombare il motore sul terreno asciutto da settimane. La mia "Bmw M-serie tre berlina" è pronta.
L'applauso dei fan aggiunge adrenalina al fuoco della corsa.
Alla mia sinistra, Lotto sogghigna. L'ultima volta ha vinto e crede di farcela anche stavolta con la sua "Mercedes classe M-Guard".
Giro lo sguardo a destra. Flo è pronta a mostrarmi il dito medio. Dietro di noi, le trenta macchine in gara sono già allineate.
Digrigno i denti. In palio c'è molto più del titolo di "Racer-Trophy"; lei è convinta di essere migliore di me.
— Io sono la strada! — grido torcendo le mani sul volante.
Dai finestrini ancora abbassati la risposta della folla piace persino a Flo che stavolta mi sorride.
Ingrano la marcia. Sono il primo a partire, come sempre. Ora devo solo mantenere la concentrazione.
Il volante si scalda sotto la pressione delle mie dita, dallo specchietto retrovisore vedo soltanto il fumo dei concorrenti che ho bruciato sulla linea di partenza.
Ascolto la musica di Bruce; il rock mi fa rivivere ogni volta mentre guido la mia blu bellissima… Monella.
Il circuito si snoda per quaranta chilometri. Solo il primo classificato vince centomila euro.
— Pensa a guidare o perderai anche stavolta! — il mio angelo custode bisbiglia e si materializza sul sedile posteriore dell'auto.
Urlo. Lo faccio sempre quando mi spaventa.
— Cazzo!
— Antonio!
— Va via!
Non siamo mai stati amici. Lo definirei, al più, un intimo conoscente. Lui dice che la colpa è solo mia, io non ne sono convinto. Ogni volta che guido compare all'improvviso sentendosi in diritto di pontificare.
— Sempre gentile, eh?
— Perché non sei una femmina? — piagnucolo.
— Questa è una buona domanda. Sai come ti chiamano dalle mie parti? — dice indicandomi il cielo.
— Non lo voglio sapere.
— E io te lo dico lo stesso.
Decido di ignorarlo. Se sto zitto, lui non può proseguire. È una lotta che regolarmente perdo con me stesso; oggi però non voglio cedere: devo assolutamente rimanere concentrato sulla gara.
— Sentiamo! — mi odio mentre lo chiedo, ma ormai è fatta.
— "Spuntman", ah ah ah! Alla tua chiamata, tutte hanno fatto un passo indietro. Sembrava un balletto. LUI ne è rimasto molto impressionato!
Non ho il tempo di rispondere. Lotto mi supera sulla sinistra accostandosi; il colpo per poco non mi manda fuori strada, ma riesco a rimettermi in asse in due sterzate. Mi basta accelerare e la mia auto si affianca ancora alla sua.
Lotto tenta una finta. Lo evito poi attacco.
— Ancora, Monella… DAI! — urlo. La carrozzeria vibra, supero i duecento chilometri orari. E non sono ancora al limite.
— Uhhaaa! — mi sfugge mentre accelero ancora saettandogli davanti e togliendo traiettoria alla sua macchina.
Sento uno stridio di freni dietro di me, poi il rumore dell'impatto sul terreno. Tre, quattro, al quinto urto poderoso dell'auto sulla sabbia, Lotto è fuori gara.
— Fermati!
Guardo Jeremia dallo specchietto retrovisore sperando di incenerirlo. Non riesco a trattenermi.
— E così mi odiano pure lassù — commento.
— Diciamo che conoscono tutte il tuo potenziale.
— Giusto! Evitano di bruciarsi.
— Fossi in te, non me ne vanterei. Perderai il cielo se non impari a contenerti.
— Sei l'angelo dei miei coglioni! — sogghigno nel dirlo.
Jeremia sorride per poi ricomporsi.
— Ok, come vuoi: ci penso io a fermarti.
— Devi solo provarci — lo sfido.
So che non può farlo. Il libero arbitrio è il suo limite più grande, per mia fortuna, altrimenti sarei già un uomo morto.
Guardo dal finestrino. Il sole rosso sul deserto incendia tutto quello che tocca tra il cielo e le sue dune. Non c'è una nuvola a rompere l'incanto. Vivo la favola mentre percorro il tratto più selvaggio del Marocco, pregustando la vittoria che ormai si trova a pochi chilometri da me.
— Fa la cosa giusta, per una volta! — l'angelo insiste.
— Questa è una gara. Non è mio compito salvargli il culo.
— Ecco lo squallido riassunto della tua vita.
Jeremia, ancora sul sedile posteriore, incrocia le braccia e sbuffa. Ha l'aria afflitta.
Lo conosco da cinque anni, da quando riuscii a sopravvivere a un incidente gravissimo. Dei dieci piloti coinvolti nel tamponamento a catena, solo io rimasi incolume. Subito dopo l'impatto, vidi una figura bianca avvicinarmi. Chiesi aiuto a labbra chiuse, schiacciato dalle lamiere della mia auto, e quella si materializzò al mio fianco prestandomi i primi soccorsi. Da quel giorno la mia vita è cambiata.
Lo guardo ancora. So cosa vuole da me. Vuole che dimentichi le corse, ma io non posso. Sono come l'aria per me.
— Hai capito che non cambierò mai, vero? — pronuncio, serio, ritornando a fissare la strada.
L'angelo solleva gli occhi al cielo.
— Se solo io potessi… — bisbiglia soltanto.
2.
Non ho il tempo di ribattere. La strada davanti a me sembra tremare sotto il sole del crepuscolo. Il terreno ora si fa anche sconnesso. Il disagio che provo è una sensazione che riesce a spaventarmi.
Rallento. Il tachimetro segna centosessanta chilometri e freno ancora ascoltando solo il mio sesto senso.
All'improvviso, vedo quello che prima restava solo una mia intuizione: alla mia sinistra c'è una spaccatura sulla strada. Sembra profonda. Il percorso si restringe a una corsia avvicinandomi pericolosamente al bordo del burrone. Scalo in fretta inserendo la quarta. Guardo Jeremia, con lui vicino non posso nemmeno implorare pietà. Irrigidisco il corpo mentre freno ancora e scalo la marcia in terza posizione.
Sono ancora troppo veloce. Cerco una via per rallentare. La trovo sterzando Monella contro la duna alla mia destra.
L'impatto è così forte che mi manca il fiato, poi non sento più niente intorno a me.
Riprendo i sensi portandomi le mani al volto. Stranamente, non ho ferite. Devo uscire dall'auto. Solo allora mi accorgo di non essere l'unico presente nell'abitacolo. C'è qualcosa di surreale nella situazione che sto vivendo, anche se non comprendo bene cosa mi sfugga. Scendiamo insieme dalla macchina a guardare il disastro. La strada ora s'interrompe anche davanti a noi. Siamo bloccati in mezzo al nulla per chilometri, a giudicare da quello che vedo.
Spalanco le braccia portandomi le mani alla testa.
— Ormai è finita. Devo aver deviato dal percorso senza accorgermi. Ho perso la gara — mi lascio sfuggire.
— Game over! — il mio strano compagno di viaggio scoppia a ridere nel dirlo, saltellando su se stesso. Sembra un folle. La testa mi duole, le mie gambe quasi si rifiutano di muoversi, devo insistere per farmi obbedire. Ritorno in macchina in cerca del mio cellulare.
— Dai Antonio, scherzavo! Siamo salvi, è questa la sola cosa importante — dice seguendomi.
Lo fisso, inebetito, e annuisco mordendomi la lingua finché non riesco più a trattenermi.
Devo capire, devo sapere.
— Ma tu, chi cazzo sei? — mi scappa.
3.
Non ho il tempo di ribattere. L'espressione sincera dell'angelo rimbomba come uno sparo dentro l'abitacolo lasciandomi attonito. Lo guardo ancora. Jeremia non parla più. Dopo anni trascorsi a farmi notare i bisogni degli altri, ora sembra sconvolto dalla mia presenza.
— Sei l'angelo della morte, oggi — lo dico sorridendo mentre punto alla vittoria. Il viaggio senza intoppi mi ha galvanizzato. Mancano seicento metri al traguardo e sono ancora solo sulla strada.
Accelero.
Jeremia scuote soltanto la testa e guarda fuori dal finestrino. Per la prima volta da quando lo conosco, non sa più cosa dire per convincermi che sbaglio. Dovrei essere felice del suo silenzio, invece non lo sono. La sua espressione mi ricorda quella della mia maestra di terza elementare, la desolazione fatta persona alla vista del mio compito di matematica zeppo di errori.
La sua tristezza ora è la mia. Sto per soccombere. Non voglio, eppure mi accorgo di rallentare.
Ancora una volta, è Monella a salvarmi. Romba sotto di me scuotendomi dall'apatia che mi ha sorpreso disarmato, la sento spingere il mio corpo a reagire: insieme tagliamo per primi il traguardo.
Il cuore rimbomba insieme al motore, la sorpresa nel grido della folla mi toglie il fiato, precede di un solo attimo il fragore degli applausi scroscianti.
Lascio il volante e corro fuori dall'auto cercando Flo con lo sguardo.
Non è ancora arrivata. Abbraccio le ragazze in minigonna, giusto per cortesia. Sono belle da morire, ma non le desidero più. Mi bastano due baci a ciascuna sulle guance per fissare il loro disappunto.
— Eccola! — Jeremia punta il dito davanti a sé; è il primo a intravvedere l'auto di Flo che sfreccia e chiude la gara in quinta posizione, seguita a breve distanza dagli altri partecipanti.
All'improvviso, tutto si fa più nitido dentro di me. Mi libero dalle ragazze e corro incontro a Flo. Apro la portiera. Gli occhi blu del mio amore si spalancano per la sorpresa.
So di averla fatta soffrire. So che non la merito. So che dovrei dirle di chiedermi di più.
— Dio… — riesco, invece, solo a sussurrare prima di prenderla in braccio baciandole le labbra.
— Ti senti bene? — mi dice appena riprende fiato.
— Sì. È solo che… dio, quanto mi sei mancata!
Stavolta è Jeremia a spalancare gli occhi, illuminandosi. Apre le ali. L'alone dorato che ora sprigiona mi riempie di felicità e finalmente comprendo il senso della sua presenza al mio fianco. Mentre Flo mi bacia il collo, lo saluto con la mano. Tutto di lui comincia a sbiadire lentamente fino a scomparire. Sento che non lo rivedrò mai più: è l'addio più dolce che io abbia mai provato.
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