
Indice:

La Gara

Gara 44
IL POTERE DELLA PAROLA (fuori e dentro la pagina)
gennaio 2014
antologia per BraviAutori.it
da un'idea di Marino Maiorino
In copertina: Annunciazione Gardner, attribuita al maestro Pier Matteo d'Amelia
Illustrazioni allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringrazia Massimo Baglione per il supporto e gli Autori di questa raccolta per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia
Prefazione
In principio era il Verbo,
il Verbo era Dio
e il Verbo era presso Dio.
Vangelo di Giovanni
Come scrittori, che sia per puro diletto o a livelli più elevati, la materia della nostra arte sono le parole, con le quali ricostruiamo situazioni, creiamo mondi, diamo vita a personaggi.
Lo facciamo manipolando la mente del nostro lettore, spesso cercando di raggiungere quella sospensione dell'incredulità che ci darà la facoltà di operare la nostra magia.
È uno strumento potente, quello che impieghiamo, che nel nostro dilettarci con esso ci accomuna un po' allo sciamano primitivo, un po' all'alchimista e un po' allo scienziato (pazzo). Ma ne siamo consci? O siamo soddisfatti di giocare con questa materia come bimbi terribili e pericolosi?
Il bando
Voglio esplorare insieme a voi il lato magico, mistico, recondito della parola, la sua capacità di fare cose e le modalità per realizzare questo prodigio.
Raccontate esempi che ci facciano riflettere sull'importanza delle parole, che siano episodi storici o invenzioni di sana pianta, per evidenziare l'importanza dell'uso di questo strumento (e tutto quello che ne consegue ad usarlo anche male, se volete).
«Fiat Lux!», «Mi-cha-el!», «Abracadabra!», «Amen!», ma anche i più prosaici «Sim-Sala-Bim!», «Apriti Sesamo!». Non mancate però di spiegare il meccanismo che dà potere alla parola.
Marino Maiorino
Solo Tre Minuti
Nunzio Campanelli

Il parcheggio sotterraneo era deserto. Dal centro commerciale arrivava l’eco di una canzone, ossessivamente ripetuta per l’ennesima volta. Un uomo in impermeabile era lì da un quarto d’ora e l’aveva già ascoltata almeno tre volte. Guardò l’orologio, mancavano dieci minuti alle nove. Pensò che dopo quel lavoro avrebbe preso una lunga pausa. Sentiva di averne bisogno.
“Tre minuti/solo tre/ minuti per/ parlarti di me…”
- Cazzo, l’hanno rimessa!
L’imprecazione gli uscì di bocca soffocata, ma bastò per richiamare l’attenzione di due ragazzi che erano appena scesi dall’auto a poca distanza. Immobile dietro la colonna che aveva scelto come rifugio, sperava che non si avvicinassero. Non era in vena di straordinari, e poi quei due non gli avevano fatto niente. Il fragore di una risata che si andava disperdendo in lontananza lo rassicurò. Guardò di nuovo l’orologio. Cinque minuti alle nove. Gli rimbalzarono in testa le parole udite in una cabina telefonica poco prima. “Ore nove minuti zero. Auto sportiva nera. Posteggio 185. Lampeggiare più volte. Ritirare busta gialla e consegnare valigetta. Allontanarsi velocemente.”
Amava lavorare per quell’organizzazione. Poche parole, ognuna con un ben preciso significato. Nessuna possibilità di errore. Puntualità assoluta. Non occorreva improvvisare, tutto era congegnato alla perfezione. Come un orologio.
“Forse basteranno/a ricoprirti/di bugie/come se…”
Le parole di quella canzone, invece, avevano il potere di innervosirlo come mai gli era successo prima. Cercando si recuperare l’abituale freddezza consultò di nuovo l’orologio. Due minuti alle nove.
“Io dovessi/mostrar di me/ quello che/ancora no/non sono stato mai…”
Un minuto alle nove.
Il rombo di un’auto che si stava avvicinando con rapidità lo indusse ad acquattarsi nel suo nascondiglio, finché l’udì spegnersi. Aspettò alcuni secondi e poi si sporse dalla colonna per guardare. Un’auto sportiva scura era parcheggiata al 185 e stava lampeggiando. Gli parve anche di vedere qualcosa muoversi intorno, ma non ne era sicuro, con quell’oscurità. Forse si era scelto un posto troppo distante. Si mosse da dietro la colonna con una valigetta in mano e una semiautomatica con silenziatore nell’altra.
“Per convincerti ho…”
L’auto continuava a lampeggiare, senza fermarsi.
“Strano” pensò.
Avvicinandosi ebbe la conferma di aver scelto un punto di osservazione troppo distante, tanto da scambiare il numero 183 con il 185, che era ancora vuoto. Proprio in quel momento arrivò una coupé nera che, parcheggiando nel posto designato, lampeggiò con i fari più volte.
L’uomo con l’impermeabile guardò l’orologio.
Ore Nove. Minuti tre.
Entrambe le auto stavano lampeggiando.
“Tre minuti/solo tre/ minuti per/ fidarti di me…”
Ore nove. Minuti tre. Le parole di quella canzone erano diventate la sua ossessione. Aveva bisogno di un punto di riferimento a cui aggrapparsi, come un naufrago che disperatamente cerca di non affogare. Imprecando prese una decisione.
- Figli di puttana!
Puntò la pistola e fece fuoco verso le sagome che intravedeva dietro i due parabrezza.
La prima continuava a lampeggiare.
Si avvicinò. Sul sedile lato guida c’era appoggiato un cappotto, la cui sagoma aveva scambiato per quella di una persona. Un led rosso brillava sul cruscotto. Un probabile malfunzionamento dell’impianto di allarme era la causa del continuo lampeggiare dei fari.
Aveva sparato a un soprabito. Il conducente era sceso non appena aveva parcheggiato. Gli sembrava di aver visto muoversi qualcosa, prima.
Si avvicinò alla seconda auto. Una giovane donna lo stava guardando con gli occhi sbarrati. Sulla fronte un piccolo foro, da cui usciva un filo di sangue. In una mano, una busta gialla.
Prese la busta. Sentiva su di sé lo sguardo della ragazza che aveva appena ucciso. Impossibile, sapeva che poteva essere solo autosuggestione. Infine la guardò. Era bella. Molto bella. Sembrava stesse sorridendo. Con delicatezza le abbassò le palpebre, indugiando solo un attimo per guardarla un’ultima volta. Un attimo di troppo. Un’infinita tristezza calò su di lui come una cappa soffocante. Capì che non avrebbe più fatto quel “lavoro”.
“…tu dovessi/saper di me/quello che/ancora no/non sono stato mai…”
Giunto al di fuori del parcheggio si recò presso la solita cabina per telefonare.
- Fatto.
- Hai avuto problemi?
- ...no.
- Che hai?
- Niente.
- Hai consegnato la valigetta?
Smise di respirare.
“…come neve/fredda scenderei/per coprir/tutto quello che sei/come sale/bianco brucerei/bianco brucerei…”
Ascoltò quell’ultima strofa come se sospeso nell’aria, potesse guardarsi mentre osservava la valigetta che ancora stringeva in mano.
La deflagrazione l’investì mentre stava pensando alle parole di quella canzone.
Di lui restò solo l’orologio, ancora funzionante.
*Le strofe citate nel racconto sono tratte dalla canzone “Solo3min” dei Negramaro.
Poetron
Lodovico

Il fumo della sigaretta si arricciava davanti suoi occhi. Era la terza. Tre quarti d’ora davanti a quel tablet a rispondere a una serie interminabile di domande. Luisa sperò che ne sarebbe valsa la pena. La sua amica Giulia ne era entusiasta. Vedremo, pensò. Finalmente sul display lesse: “Domanda 135/135”. L’ultima. Schiacciò la Marlboro nel portacenere ormai colmo avendo cura di non sporcare la scrivania. “Elaborazione in corso”. Si pentì di avere iniziato a mezzanotte, gli occhi le si stavano chiudendo e l’umore era tutt’altro che buono. Forse avrebbe dovuto spegnere e ricominciare il giorno seguente. Un suono come di campana le risvegliò la mente che, ormai, era intorpidita dal sonno. “Elaborazione terminata”. Un grosso pulsante verde con la scritta “avanti” apparve nel centro dello schermo. Luisa ci appoggiò il dito.
La delusione la avvolse come una coperta di neve. Una decina di righe in carattere arial su fondo bianco. Tutto quel tempo perso per così poco. Iniziò la lettura. Il suo viso, illuminato dalla fioca luce del display del tablet, impallidì. Luisa non credeva ai propri occhi.
Se lo sarebbe immaginato molto più grande. Una scrivania ingombra di fogli che sarebbero stati tolti prima di andare in onda, uno sfondo variopinto con il logo della trasmissione e, di fronte, poche grandi telecamere ancora spente. Pochi metri quadri, molti spettatori da casa. Gli parve incredibile come la televisione amplificasse gli spazi. Non che Matteo fosse un fruitore di programmi televisivi, anzi. Preferiva di gran lunga la tastiera del computer al divano del salotto. Le luci si accesero. Una ragazza carina venne a tamponargli il viso con una specie di spugnetta pelosa intinta in una polvere assolutamente sconosciuta.
Il giornalista riordinò la carta e si aggiustò la cravatta. Una voce proveniva da un luogo al di là delle luci. “Tre. Due. Uno.” Matteo si rese conto che l’intervista stava per cominciare.
- Oggi è qui con noi l’autore di “Poetron” la app più scaricata degli ultimi sei mesi, Matteo Gerbi.
Si era pentito di avergli attribuito quel nome un po’ retrò, forse perché, quando si continua ad ascoltare una parola, questa perde di significato.
Il giornalista gli si rivolse.
- Matteo, raccontaci la storia di Poetron, com’è nata l’idea?
- Sono partito dall’osservazione che le varie poesie colpiscono in modo diverso le persone, alcune le amano, altre meno e ho immaginato che fosse a causa delle diverse sensibilità e aspettative del lettore. Ho poi cercato di catalogare le persone sottoponendo loro centotrentacinque domande e, basandosi su queste risposte, Poetron compone poesie diverse.
- Quindi il software sceglie una delle poesie nel suo database e la propone secondo la tipologia del lettore?
Come prevedibile il giornalista non aveva capito nulla. Matteo ridacchiò dentro di sé.
- No, non è così, non c’è nessun database di poesie, ma solo un elenco di parole che ho scelto insieme al mio amico poeta Riccardo Lai. Ogni domanda ha quattro risposte perciò le combinazioni diverse che il software può gestire sono il numero diciotto seguito da ottanta zeri. Un algoritmo poi sceglie le parole dal vocabolario che sta sul nostro server, applica le regole grammaticali, costruisce frasi di senso compiuto e crea la poesia.
Lo sguardo sperduto del giornalista dimostrò che cominciava con fatica a comprendere.
- Perciò è la app stessa che compone i versi.
- Esatto, io non conosco le poesie che Poetron scriverà. Variano da persona a persona e sono tutte inedite.
Finalmente a casa. Luisa si tolse le scarpe, i piedi le facevano male. Colpa dei tacchi. Il tablet, collegato alla corrente con un cavo che pareva una lunga coda, giaceva sul mobiletto vicino alla televisione. Premette il pulsante di accensione. Il suo dito fremente fece partire quella che era diventata la sua app preferita. Poetron le propose l’elenco degli argomenti. Luisa scelse “amore”. Venti righe. Tutte da leggere e rileggere. Il cuore le si scaldò e si dimenticò del dolore ai piedi.
Ultimi ritocchi e avrebbe finito. Cancellò buona parte dei file, lasciò solo quello modificato da lui. Non vedeva l’ora di abbandonare quella tastiera. La stanza in semioscurità era silenziosa, in quel momento. Il cadavere giaceva di lato, ormai freddo. Non se lo sarebbe perdonato. Uccidere non è mai giusto, ma può avere un senso. D’altra parte se lui avesse capito, se lo avesse assecondato, se avesse smesso, tutto ciò non sarebbe successo. Voleva solo uscire da quella stanza e aspettare il giorno seguente. Sapeva che lo avrebbero trovato, non si sarebbe nascosto.
Gli occhi della ragazza, sgranati, stavano leggendo quelle parole. Non riusciva a crederci. Come avrebbe potuto fare a meno di quel programma che era stato, per lei, fonte di emozioni fino ad allora mai provate? Ricominciò a leggere, sperando di avere capito male.
“Ultimo aggiornamento software.
Poetron, da questo momento, smetterà di funzionare.
Il software non sarà più disponibile per il download.
Ringraziamo i milioni di persone che hanno scaricato la nostra app.
Matteo e Riccardo.”
Luisa pianse come aveva fatto poche volte prima di allora.
Il tenente dei carabinieri cercava di capire.
- Quindi mi vuole dire che è stato lei a uccidere Matteo Gerbi?
- Sì, sono stato io.
Il ragazzo sembrava incapace di ammazzare una mosca. Piegato in avanti, non aveva il coraggio di fissare il militare negli occhi.
- Perché lo ha fatto?
Riccardo sentiva tutto il peso della colpa sulle sue spalle.
- Avevo creato, insieme a Matteo, un programma che generava poesie personalizzate e avevamo avuto grande successo di vendite…
- Quindi lo ha ucciso per soldi – lo interruppe il carabiniere.
- No, affatto, i soldi non mi interessano, l’ho ucciso perché lui non capiva.
- Cosa non capiva?
- Non capiva che noi avevamo ucciso l’arte. La gente preferiva leggere poesie freddamente confezionate da un computer piuttosto che le parole sofferte di un poeta, dei suoi sentimenti, del suo amore non corrisposto. Venivano dimenticate le lacrime e le emozioni di Goethe, Pessoa, Neruda, Leopardi. La poesia passata e futura sarebbe morta. Non potevo permetterlo.
Mentre Riccardo era portato in cella dal suo sottoposto, il tenente pensò che avrebbe passato parecchi anni in prigione. La porta dell’ufficio si riaprì. La sua fidanzata, in lacrime, si gettò tra le braccia del carabiniere.
Levità
Eddie1969

Erano le tredici e quarantacinque quando alcuni piccioni, che stazionavano abitualmente su un cornicione di palazzo Montecitorio, avvertirono un leggero tremolio; spaventati si alzarono in volo per poggiarsi sul più sicuro obelisco di Psammetico II. Seguì quindi una scossa più forte che fece staccare alcuni calcinacci dalla facciata dello stabile; a quel punto i pochi avventori, data l'ora, si resero conto di ciò che stava accadendo e uscirono allarmati nella piazza omonima.
— Onorevole, se n'è accorto anche lei?
— Direi proprio di sì, è stata una scossa bella forte!
Detto questo, l'edificio cominciò letteralmente a oscillare, ma i due parlamentari dovettero realizzare che nessun'altra struttura circostante partecipava al presunto terremoto…
— Onorevole, ma com'è possibile?
— Non lo so, Onorevole, sono sconcertato quanto lei!
Un'ulteriore scossa, ancora più forte, sembrò dare uno spintone al povero palazzo che, di par suo, si inclinò leggermente di lato.
Intanto nella piazza s'era formato un buon gruppo di persone: oltre a tutti gli sfollati, c'erano un paio di uomini della nettezza, tre vigili, alcuni militari, diversi passanti occasionali e un drappello di turisti giapponesi.
— Santo cielo, Onorevole, il parlamento rischia di crollare! Se non è un terremoto, come pare evidente, dev'essere un attentato!
— Concordo pienamente con la sua deduzione, Onorevole!
In quell'istante si sentì qualcosa di simile a un boato, la folla si spaventò e arretrò di vari metri. Palazzo Montecitorio però non crollò, anzi restò perfettamente intatto… Semplicemente si staccò dal suolo e cominciò a salire molto, molto, lentamente in aria, fino ad arrivare, in circa quindici minuti all'altezza di una decina di metri.
Mentre l'edificio saliva, vennero allertati i vigili del fuoco che, attrezzati di tutto punto, arrivarono con diversi mezzi. Uomini con rotoli di fune in spalla salirono lungo le scale telescopiche prontamente allungate; raggiunto il piano terra dell'edificio e rotte due finestre adiacenti ciascuno, fecero entrare un capo della cima dalla prima per poi farlo uscire dalla seconda, quindi, stretto un nodo sicuro, calarono l'altro capo a terra. In questo modo il palazzo venne, come annunciò l'addetto stampa della protezione civile: "assicurato al suolo perché non volasse via"…
La situazione era sotto controllo, e tutti tirarono un sospiro di sollievo. La notizia della "levitazione di Montecitorio", però, stava solo cominciando a prendere il volo: in meno di un giorno diventò lo scoop che tutti i (sedicenti) giornalisti avevano sempre aspettato.
Le autorità vennero messe sotto assedio, tutti volevano spiegazioni; negli ambienti investigativi l'imperativo categorico diventò risolvere il mistero della "Camera volante"!
Ogni pista possibile e immaginabile fu battuta: dopo i controlli antiterrorismo, della polizia scientifica, di un esperto in armi chimiche, batteriologiche e nucleari, di un ingegnere edile, di un ingegnere aerospaziale e via dicendo, si arrivò alla visita di un monsignore che, inviato dal vicinissimo Vaticano, benedì la struttura pregando il Signore di farla tornare giù al più presto…
Tutto ciò però non servì, mentre sotto alla "Camera volante" la folla continuava a crescere. Esasperato, il prefetto, si arrese all'evidenza che la logica e la razionalità non potessero risolvere il problema; passò quindi a percorrere il cammino dell'inimmaginabile…
— Alfré, non so più che pesci pigliare; tutto il mondo ci guarda e i miei superiori vogliono risultati immediati. Tu che sei usciere del palazzo da più di vent'anni, dimmi che devo fare. Aiutame, Alfré!
— Dottó, na cosa ce sarebbe: n'amico mio conosce n'omuccio de bborgata de settant'anni che ha sempre avuto 'n dono, na capacità insomma. Sarebbe na specie de mago, de veggente. Potrebbe indagà sull'edificio: basta che c'entra, che tocca na colonna, na statua o chessò io, e "sente" che iè successo ar palazzo.
— Bravo Alfré! Questo volevo, chiamami subito st'omuccio!
…
Il signor Aristide Treccarte fu condotto fino a palazzo Montecitorio, o, meglio, fino a dov'era ubicato prima di decollare; venne quindi fatto salire con un'autoscala su al portone d'ingresso. Ad attenderlo, nell'atrio, trovò Alfré e il prefetto in persona.
— Dunque, Arì, ce lo sai perché stamo qua, vero?
Ma il signor Aristide aveva già poggiato un orecchio alla parete dell'aula del Basile e stava "ascoltando" il palazzo. Poi, a un punto, volse lo sguardo verso l'alto osservandone il soffitto.
— Allora, Arì, che senti? Che vedi?
— Le parole, dottó.
— Come le parole? Si spieghi meglio.
— Vedete lassù, vicino ar soffitto? Lì è pieno, strapieno de parole, dette in tutti questi anni da' parlamentari.
De solito sono leggere come l'aria, sicché non vanno né 'n arto né 'n basso; pian piano se n'escono dalla porta come le persone. Ma quelle de' politici so sempre più vuote, più false, più leggere! E vanno su, su, in arto, fino a toccà 'l soffitto e lì, come se fussero tanti bei palloncini, spingeno!
Pe' primi ce stanno li paroloni, quelle che se sono inventati pe' fregà er prossimo, ma n'un hanno mai voluto dì nniente: "governissimo", "inciucio", "ribaltone", "bipolarista", "cerchiobottista", "giustizialismo", ecc. So ddelle mongolfiere quelle!
Segueno quelle 'n latino, che useno per dasse 'n tono de maestri: "ad personam", "deficit", "par condicio", "quorum", "una tantum", "vulnus", ecc.
Non de minore importanza so le straniere, che servono per lasciatte ner dubbio dell'ignoto, nella paura: "spread", "welfare", "bipartisan", "devolution", "impeachment", ecc.
La cosa più triste, però, so le parole normali che na dignità de fori ce l'aveveno, ma qqui ddentro hanno fatto na bbrutta fine, so state ammazzate e so de' fantasmi oramai!
Ecco, "faremo", vedete com'è sbiadita, gonfia! Così come "prometto", e "cambieremo", e "riforme", e "democrazia". Ce ne so tarmente tante da stacce na settimana!
Il prefetto restò per due minuti buoni immobile con lo sguardo verso il soffitto e la bocca spalancata; poi però si riprese, guardò il signor Aristide e Alfré, quindi chiuse gli occhi per alcuni secondi richiamando a sé il proprio autocontrollo. Infine disse loro:
— Bene, tutto questo non è mai esistito, non è mai accaduto, voi non avete visto e sentito niente, nulla deve uscire da queste mura, altrimenti mi vedrò costretto a prendere dei gravi provvedimenti nei vostri confronti!
A un tratto però si sentì uno stridio, e poi un rumore secco. Quindi un altro, e un altro! Una sassaiola di schianti di corde che si rompevano riempì il cielo di Roma…
Le sette porte del cielo e della terra
Anto Pigy

Amh zeforamh, alaya
Amh beroth, telaya.
Amh zeforamh, alaya
Amh beroth, telaya.
“Disconnettersi a meno tre, due, uno. Disconnessione.”
Il mantra del movimento si arrestò all’unisono, lasciando aleggiare come un fantasma l’ultima parola nel silenzio assoluto. La nave stellare, che si muoveva grazie alle onde sonore sinaptiche in interconnessione neurale di tutta la flotta, si era fermata dolcemente, posizionandosi sopra al pianeta.
Myrdinn si prese un po’ di tempo per stabilizzarsi. Lo coglieva sempre una brutta nausea alla fine di ogni viaggio. Non riusciva ad abituarsi all’interruzione della comunione profonda tra la sua mente e il metacomputer centrale, allo stacco tra la meditazione e il ritorno alla realtà.
Comunque non aveva tempo da perdere. Aveva atteso quella spedizione da lungo tempo ed entro breve sarebbe dovuto discendere sul pianeta: un corpo celeste di classe A, un mondo abitato a uno stadio ancora poco evoluto, un perfetto terreno di studio per la presenza di umanoidi molto simili a loro e di una fauna e flora eterogenea molto interessante. Il coronamento di tutti i suoi studi teorici.
- Dottor Myrdinn, - lo salutò il capitano.
- Capitano, a quanto pare ci siamo. – Rispose senza poter trattenere un sorriso.
- Entro poco saremo pronti a discendere.
Myrdinn annuì sentendo l’emozione alla bocca dello stomaco.
- Se possibile, vorrei scendere da solo la prima volta. Vorrei evitare interferenze di ogni tipo.
- Il comando ora è suo, dottore.
Myrdinn non era abituato ai viaggi stellari, ogni cosa che nel suo pianeta era ordinaria amministrazione nello spazio aveva una risonanza diversa, in un certo modo più potente.
La discesa la affrontava con un brivido, un misto di terrore del vuoto e dell’infinito, uno stupore quasi infantile di fronte alla meraviglia del processo di trasferimento, anche se ne conosceva bene i dettagli scientifici.
Collegò la sua sinapsi al circuito di transfer e pronunciò la frase di attivazione: beth anelebeth. Il battito di un cuore, un respiro trattenuto e si ritrovò sulle coordinate impostate.
Non era preparato a tanta bellezza. Era un mondo molto diverso dal suo: quel tessuto verde che correva sul terreno, il cielo limpidamente azzurro, quell’aria leggera che colorava con delicatezza ogni cosa. Chiuse gli occhi e odorò i profumi alieni. Il vento corse spazzando il suo cranio, privo di capelli, e arrotolando alle caviglie la veste che aveva indossato per mimetizzarsi. Myrdinn si sentì in pace, come fosse tornato a casa.
Si prese ancora qualche istante, poi tornò ai suoi compiti. Aveva voluto essere il primo a mettervi piede solo per un motivo egoistico e non se ne pentiva affatto, ma ora doveva allestire la spedizione, trovare un luogo consono per nascondere la struttura di studio, impartire gli ordini alla sua squadra.
- Llameroth. Capitano.
Nessuna risposta. Myrdinn riprovò a richiamare, ma si accorse solo ora del silenzio anomalo che avvertiva, come se non fosse più connesso al metacomputer.
Si spostò e riprovò più volte. Con orrore, alzando gli occhi a quel cielo alieno, vide una grande palla abbagliante che esplodeva. Sentì arrivare impotente lo spostamento d’aria e perse i sensi.
Nello stesso luogo ma in un tempo diverso, Myrdinn guardava il cielo nel punto in cui l’astronave si era distrutta. Erano passati molti anni, anni in cui aveva desiderato con un misto di trepidazione e insofferenza di essere rintracciato e ricondotto a casa, anni in cui si era sentito felice e in pace con se stesso.
Lo avevano ritrovato svenuto e lo avevano curato: uomini rozzi ma con una struttura sociale ben definita, esseri che non conoscevano la scienza ma avevano saperi rudimentali che lui stesso non possedeva. L’avevano accolto curiosi della sua diversità, diffidenti ma allo stesso tempo affascinati dalle sue capacità. Quando si era risvegliato circondato da facce sconosciute, aveva automaticamente invocato la parola di protezione: theraleth. Una zona energetica protettiva lo aveva avviluppato, spingendo lontano ogni cosa. Gli uomini si erano spaventati e gli avevano puntato contro armi primitive. Myrdinn, riprendendosi, a cenni aveva fatto capire di non essere ostile.
Era seguito un periodo di reciproca conoscenza. Per loro, Myrdinn era un adgarios, un invocatore, un uomo capace di dominare gli oggetti con la forza della sua parola, di pronunciare formule magiche dai suoni arcani. Un po’ alla volta si era sentito uno di loro, incarnando il ruolo di un padre o, meglio, di un protettore. Aveva, pur tuttavia, portato avanti lo studio da cui tutto era partito, consapevole che la situazione era quella ideale. Registrava tutto su un supporto di silicio, costruito manipolando la materia e il suono, in modo da lasciare trascritta tutta la sua esperienza.
La pianura dove si trovava aveva lo stesso colore puro di verde e azzurro della prima volta che vi aveva messo piede. Il vento avvolgeva tra le sue dita i suoi lunghi capelli bianchi e li spingeva attorno al collo.
Myrdinn era da solo in mezzo al campo, gli uomini distanti, in circolo.
Era l’ora. Aveva atteso troppo a lungo, non sapeva quanto tempo gli restava. Al centro del terreno aveva nascosto in una teca la sua registrazione, perché forse, un giorno, la sua gente avrebbe trovato il messaggio. Tutt’attorno ora andava costruita la struttura di risonanza che avrebbe guidato il suo popolo. Per gli uomini della terra sarebbe stato un tempio in onore dei propri dei e delle forze della natura.
I pilastri di pietra erano pronti ora toccava a lui.
Tutto tacque, il vento si fermò.
Analnatrah
ut vas betot
ut tienenveh.
Da lontano sentì muoversi i blocchi pesanti. Lentamente si spostavano guidati dal suo canto, nel silenzio più totale e sbigottito degli uomini che attendevano l’ultimo prodigio.
Ed ecco, il primo pezzo con un sussulto si posizionò nel punto esatto che Myrdinn aveva stabilito. Poi un secondo, un terzo e così via. Una teoria di pietre che volavano nel cielo, silenziose e possenti, come fossero esse stesse degli dei.
Al termine del giorno le sette porte del cielo e della terra erano formate: gli astri e il mondo vi si rispecchiarono dentro, al centro continuò ad aleggiare il canto, in sintonia con tutte le sfere celesti.
Il tatuaggio
Skyla74

«Sexy, vero?»
Una donna a seno nudo mi sorride in posa provocante. Sta sul foglio che Elena mi porge, fresco di stampa. Il suo prossimo tatuaggio, così dice.
Sorseggio il caffè della macchinetta, bollentissimo. Elena è una così brava ragazza… spero che non lo veda nessun collega.
«Ha le ali… è un angelo» osserva lo stagista che si è materializzato alle nostre spalle stile Diabolik. Come sia riuscito a vedere le ali dietro quelle titaniche tettone, è un mistero, ma in effetti ci sono. Un pelo più in alto rispetto alle natiche che si intravedono di profilo.
«Cosa rappresenta?» chiedo. Per la serie “domande originali per chi si fa un tatuaggio”.
«Volevo rappresentare la mia rinascita come donna e amante dopo il divorzio» risponde Elena tutto d’un fiato. Perché l’ho chiesto?
La camminata strascicata di Andy interrompe il momentaccio. Vent’anni passati come biker negli Stati Uniti esibendosi come rocker gli conferiscono un certo fascino, o almeno così dicono le ragazze. Ogni volta che lo guardo mi chiedo come ci sia finito qua, nell’ufficio brevetti, ma poi mi ricordo che ha la protesi d’anca a causa dell’incidente stradale. E’ stato in coma per due mesi, Dirty Andy dei Bangalore, proprio a un passo dal successo. Nonostante oggi lo conoscano solo gli amanti del rockabilly, negli anni Ottanta Mtv l’aveva messo sotto contratto. Giusto in tempo perché lui e la band si montassero la testa e cominciassero a litigare come primedonne.
Guarda il disegno. Lui che di tatuaggi ne ha fin sul cranio, sembra perplesso.
«Una zoccolaccia» sentenzia.
«Ma va’!» Elena gli toglie il foglio di mano. «E’ la mia rinascita sessuale dopo il divorzio. Anzi, mi chiedevo» Andy ridiventa serio. Nulla di buono può venire da una donna quando comincia così.
«Te che sei pieno di tatuaggi, non è che puoi consigliarmi qualcuno di bravo?»
«Ci sarebbe Alfredo Testadicane» brontola Andy. L’avesse detto lo stagista mi rotolerei dalle risate, invece mi faccio attento.
«Ma devi avere la parola d’ordine.»
«E cioè? » chiede Elena.
«Dai, lascia stare che mi fai fare figure di m...»
«Ah giusto, perché sono una donna» lo interrompe Elena.
«No è che parli troppo e quello ha l’incazzatura facile» insiste Andy.
Povera Elena. Già la vedo arrivare alla bottega di tatuaggi per bikers col diamante di fidanzamento al dito (mai restituito) e la Bmw che le ha regalato il papà per il compleanno. E’ una brava ragazza, fa tutto in buona fede, ma... è così… così. Si vocifera che il marito l’abbia lasciata perché la famiglia di lei era opprimente. Non solo lui ha dovuto rinunciare ad avere una casa sua per trasferirsi nella villa dei genitori di lei, ma gli avevano anche “proposto” di mollare il lavoro che faceva per sedere nel consiglio di amministrazione dell’azienda di famiglia, lo stesso dove siederà Elena non appena avrà fatto un po’ di esperienza qua da noi. Poveruomo. Durante il matrimonio si era dovuto sottoporre a mesi di psicoterapia, adesso invece lo si trova sul molo di Cesenatico a pescare, per poi rientrare alla sua roulotte a sera tarda. A chi gli chiede come va, offre il the e dice di non essere mai stato così felice. E l’assegno di divorzio che lei gli versa mensilmente, lo devolve a una onlus.
«E dimmi ‘sta parola d’ordine» supplica Elena.
«Joe DiMaggio»
«Cos’era, un cantante rock della tua epoca?» chiede Elena.
Andy non risponde.
Il giorno dopo, pausa caffè, Elena arriva. Ha il braccio sinistro paonazzo. Solleva appena la benda e mi mostra l’angelo (zoccolaccia) tutto sbavato, i colori osceni.
«Cariiino» dice Samantha, la segretaria. Fino a un secondo fa mi stava intrattenendo con le levatacce a cui la costringe la sua creatura. Gradisco l’interruzione.
«Dici?» chiede Elena. «E’ normale che faccia un male cane?»
«Ma i tatuaggi così grandi non dovrebbero metterci almeno due o tre volte a farli?» chiedo.
«Boh, alla fine sono andata al Tattoo Center. Quel tizio consigliato da Andy è proprio uno stronzo.»
«Cos’è successo?» chiediamo in coro. Sentire parlare così la cocca di papà non è da tutti i giorni.
Elena si incupisce.
«Entro e dico salve. C’era gente che parlottava dietro un paravento, il rumore di quella macchinetta come-si-chiama. Nessuno mi risponde e allora dico salve, ancora. Una specie di orco si sporge dal paravento. Ha addosso un tanfo di sigarette… io sorrido e quello torna dietro al paravento. Mi siedo. Dopo venti minuti quello sbuca e sai che mi dice?»
La guardiamo.
«Mi dice “ah, vedi che hai finito di rompere le palle?”»
Intanto arriva Andy che ha sentito tutto.
«Gli hai detto la parola d’ordine? Quello lavora in nero la metà del tempo, avrà pensato che eri uno sbirro.»
«Joe DiMarzo» annuisce Elena.
Mi morsico la lingua.
«E lui?» chiede Andy, serissimo.
«Lui mi ha chiesto cosa volevo e io gli ho mostrato il foglio. Al che lui mi ha detto “questa merda non la faccio, mica ricopio i disegni degli altri. Fuori dalle palle!” E non era un modo di dire perché mi ha spalancato la porta e ha aspettato che uscissi. Mi ha riso dietro, ti rendi conto? A una donna!»
«Comunque Joe DiMaggio, se qualcuno te lo chiedesse…» dice Andy.
«Sì?»
«Lavorava nella pornografia anni Cinquanta» dice Andy e intanto guarda il tatuaggio.
Bisogna ammetterlo, c’è qualcosa tra le gambe dell’angelo, qualcosa che sembra… ma forse è solo una sbavatura.
In seguito quell’orrore fu rimosso, ma Elena va ancora in giro a raccontare di Joe DiMaggio, noto pornografo e della sua avventura tra i rioni malfamati. Spesso mescola le cose in modo che la storia sia più torbida di quello che è. D’altronde non doveva simboleggiare una rinascita sessuale? E la parola d’ordine- giusta o sbagliata a seconda del caso – si perpetua, eccitando i salotti “bene” della città.
Vendetta Promessa
Scrittore 97

Eccomi qui, disteso nel freddo pavimento della mia villa, il sangue a insozzarmi il corpo, se solo avessi saputo non avrei fatto quell’errore di tanto tempo fa.
Ricordo ancora la sera in cui tutto ebbe inizio, era una fredda sera di marzo, avevo tutti i sensi all’erta, ogni muscolo teso allo spasimo.
I miei occhi scattavano irrequieti da destra a sinistra, alla continua ricerca di un qualsiasi movimento, la mano ferma sulla pistola al mio fianco.
Anche se il freddo gelava fin dentro la mia anima corrotta, emanavo sudore da ogni poro della mia persona, ne sentivo l’odore rancido, come il mio compagno che storse il naso.
- calmati Luigi, la refurtiva è al sicuro, sono passati sei mesi dalla rapina, la polizia ha già perso le nostre tracce -
- statti zitto screanzato! Ti potrebbero sentire e così addio bottino-
- e chi ci dovrebbe sentire a quest’ora non c’è nessuno in città-
- Giovanni cazzo! Lo vuoi capire o no che qui non si scherza, si tratta di qualcosa contro la legge si va in carcere!-
- e parlò l’uomo che si mette a urlare in piena notte- rispose Giovanni.
- state zitti tutti e due, avete parlato fin troppo- disse una voce alle mie spalle.
scattai velocemente indietro, la mano estrasse la pistola, e con un click l’arma era pronta a esplodere al minimo sollecito del mio dito già tremante.
- abbassa quel gingillo Luigi, sei fin troppo teso, prendi esempio da Giovanni-
Io tirai un lungo sospiro cercando di darmi un contegno era Marco, la pistola entrò tremante nella fondina, un forte senso di rabbia mi invase appena vidi il sorriso di Giovanni.
- seguitemi ragazzi - disse Marco con un’espressione seria stampata in volto.
I mie passi si unirono a quelli dei due compagni, il rumore dei piedi sul selciato era l’unico a sentirsi.
Il tragitto fu breve ma pieno di emozioni contrastanti, quello che avevamo fatto era una cosa sbagliata, ma come potevo risolvere la mia situazione?.
Al solo pensiero mi vennero le lacrime, Marco se ne accorse e mi si fece vicino- forza Luigi, non avrai più problemi con tuo figlio, e non dovrai più avere paura della disoccupazione-
Io sorrisi, si, finalmente mio figlio avrebbe avuto una vita degna, non più di stenti, per colpa della mia maledetta situazione economica, dettata da questo governo infame, che pensa solo ai suoi interessi.
Arrivammo alla periferia della città, tutti con i sensi all’erta, una cascina si stagliava tra il verde e il nero della notte.
Entrammo piano e con cautela, i nostri occhi vedevano solo il buio più tetro, Marco accese una torcia, e con sicurezza si diresse in un punto del pavimento.
E ne uscì un sacco pieno di soldi, ero al settimo cielo.
All’improvviso Giovanni estrasse la pistola, e con un colpo secco colpì Marco.
Io rimasi paralizzato, ogni movimento che tentavo di fare mi era negato, il sorriso di Giovanni era freddo, la sua pistola ancora fumante si frappose tra me e lui.
-mi dispiace Luigi se avrei potuto avrei evitato, ma i soldi sono soldi- mi disse il bastardo mentre si preparava a sparare.
Prima che il colpo partisse Marco creduto morto saltò su Giovanni disarmandolo.
Questa volta non esitai, estrassi l’ arma e sparai al mio aggressore, le sue ultime parole malvagie mi gelarono dentro- la mia morte non rimarrà invendicata, te lo giuro, questa è la mia parola-
Mi gettai disperato su Marco, che con uno sputo di sangue mi disse- Luigi, io sto per morire, prendi il denaro e vivi felice con tuo figlio-
Non ebbi il tempo di dirgli tutto il mio dispiacere, che esalò l’ultimo respiro tra le mie braccia.
Lasciai cadere il corpo, raccolsi la borsa e scappai correndo come un forsennato con le lacrime agli occhi.
Passarono dieci anni dal momento del fatto, mi ero stabilito con mio figlio in una villa che avevo comprato, con una cameriera, e una guardia del corpo.
Avevo ancora paura delle maledette parole di Giovanni, vivevo all’ombra di una sua possibile vendetta.
Una sera, anzi quella sera la mia guardia del corpo, Filippo, un ragazzo sui venti anni come mio figlio, mi portò del vino.
Stranamente si inginocchiò a consegnarmelo, proprio come il quadro dell’annunciazione alla madonna appeso al muro, poi mi baciò la mano.
- come mai sei così ossequioso Filippo? Non sono un re-
- ma sei chi mi ha tolto dalla strada, e questo è un mio regalo -
Stappai la bottiglia, iniziando a trangugiare di buon gusto, passò un’ora, in quel lasso di tempo fui tempestato di domande.
La voce di Filippo era mielosa e mi chiese a bruciapelo- come sei diventato ricco?-
Io stranamente risposi- uccidendo un bastardo, e prendendomi i soldi-
All’improvviso la mascella di Filippo si serrò, e mi arrivò un pugno, facendomi precipitare a terra.
Il ragazzo mi legò alla sedia tappandomi la bocca, ero stupito dalla reazione, non sapevo nemmeno perché tutto fosse giunto a quel punto.
Filippo uscì dalla porta, e io iniziai a dimenarmi come un pazzo, ma le corde mi stringevano solo di più.
L’aguzzino ritornò dopo dieci minuti trascinando mio figlio, il mio povero figlio con la faccia piena di lividi, tumefatta, e questo mi fece piangere.
Il mio unico figlio, scampato a una vita da schifo, che adesso era lì, davanti a me, con le lacrime agli occhi azzurri che si spostavano da me a Filippo, con uno sguardo di chi non capisce e implora pietà.
La voce dell’ aguzzino si disperse nell’aria - la mia vendetta, e quella di mio padre sta per essere compiuta-
L’ombra di Filippo sembrò allungarsi e trasformarsi in quella di Giovanni, il mio maledetto passato che ritornava, a nuocere il mio unico figlio.
-sotto scopolamina hai rivelato la tua vera natura da assassino, quello che hai ucciso era mio padre, volevi tutto per te, ma la sua memoria sarà vendicata, parola mia-
Ecco quel bacio, è stato come quello del tradimento di Giuda, ma qui non si parla di santi, di dei, ma il mio unico e insostituibile figlio.
Mi ribellai alle corde, fino a farmi male, ma il responso fu uguale, la pistola che usciva dalla fondina, il colpo in canna, e lo sparo.
Stavolta non era morto Marco, ma mio figlio.
Se avessi potuto urlare avrei sfondato i vetri, se avessi potuto reagire quella casa sarebbe crollata, se avessi potuto non avrei mai fatto quella maledetta rapina!.
Filippo ancora ridendo spara altri due colpi, il dolore alle ginocchia è immenso, e lui dice ridendo- vivrai senza poter camminare, e con il pensiero che per colpa tua è morto tuo figlio-.
3 Parole
LaRouge

Sole.
Arrivò puntuale all’appuntamento.
Non voleva correre il rischio di perdere un solo secondo.
Stare con lui era la cosa più importante.
— Eppure è qui, l’indirizzo è quello giusto — sussurrò a voce bassa Sole.
La porta è aperta e la ragazza riesce a entrare.
— Non capisco, questa stanza è vuota. Però lui mi ha detto: “Fidati, vai, poi ti raggiungo”. —
Intanto Sole si siede. Dove? A terra, è l’unica possibilità.
— Cosa faccio qui? Questo non è il mio mondo, forse è il tuo! —
Il pavimento è freddo come questo luogo.
— Però lui mi ha detto: “Fidati, quando saremo insieme sarà bellissimo!”. Sì, ma quando? —
È passata già un’ora e di lui nemmeno l’ombra.
Si fa buio, non c’è luce qui. Sole ha paura.
Cuore.
Il mio cuore batte all’impazzata, sembra uscire dal petto.
L’angoscia mi assale. Perché lui non è qui?
Sento dei passi, sono sopra di me. Il soffitto cigola.
Forse è lui… Il cuore rallenta.
Mi sento un po’ meno sola e ho un po’ meno paura.
D’un tratto, un’immagine sfuocata appare alla finestra. E’ un gatto sul davanzale.
Miagola, forse ha freddo. Forse ha fame.
Apro la finestra e il felino mi annusa. E’ titubante, poi entra e con un salto leggero è già ai miei piedi.
Lo accarezzo e il gatto fa le fusa.
Il battito è tornato regolare.
Sono felice.
Non ho più paura.
Ma perché lui non arriva?
Il cuore sembra saltar fuori dal petto, ancora.
Amore.
— Sono qui — è una voce che proviene dall’esterno.
Sole apre la porta. E’ arrivato finalmente!
Si abbracciano e parlano sottovoce.
Sole gli chiede spiegazioni. Lui non risponde.
Poi vede il gatto: — Cosa succede, chi è? —
Si siede a terra e si lascia fiutare.
— Ma tu non avevi il terrore dei gatti? —
Lui si rialza, si avvicina a Sole, l’abbraccia e la bacia.
Fuori inizia a piovere. Un lampo illumina la stanza, poi un tuono forte e prolungato la riempie.
Poi di nuovo il buio.
— Dove sei… Dove sei? —
— Sono qui, è tutto a posto. —
Si ritrovano e si stringono intensamente.
Lui estrae dalla tasca dei jeans l’iPod. Le passa un auricolare, uno lo tiene per sé.
Ascoltano insieme la canzone e diventa un gioco. Quasi magico.
Inizia lui, le sussurra nell’orecchio libero: — Dammi un bacio che non fa parlare… —
Lei prosegue: — È l’amore che ti vuole… –
Le loro voci a volte si sovrappongono, a volte non escono perché si trasformano in una risata.
— Sono le istruzioni per muovere le mani… —
— Non siamo mai così vicini… —
— Dammi tre parole: sole, cuore e amore… —
Tratto dalla canzone di Valeria Rossi “Tre parole”
Parole a colazione
Marina Paolucci

Come ogni mattina, entrai alla torrefazione vicina all’ufficio per fare la colazione.
C’erano clienti in piedi davanti al bancone, alcuni serviti, altri in attesa, qualcuno comodamente seduto al tavolo.
— Ciao Francesca, il solito?
— Sì, grazie, Claudio!
Lui sapeva cosa desideravo: un cappuccino chiaro, tiepido, con il cacao e tanta schiuma.
Ogni barista conosce le abitudini dei propri clienti.
Mi servii da sola per prendere una brioche nella cristalliera. La scelsi golosa, alla crema, cosparsa di zucchero a velo. Tiepida, profumava di vaniglia.
— Ecco il tuo caffè! – esclamò Claudio, porgendomi una delle mitiche tazze d’autore, che riportano parole gentili impresse sulla porcellana colorata, del tipo “Buongiorno”, “Brilli come stella”, “Ti voglio bene”, “Ti amo”, “Persona stupenda”, tante altre. Una carineria del locale.
Quel giorno, mi capitò la scritta “Viva la vita.” Parole più che vere!
Tuttavia, le mie tazze preferite erano quelle con i complimenti, poiché nessuno me li faceva. Erano giorni fortunati quando me ne capitava una, poche parole bastavano a rallegrarmi la giornata.
A quell’ora, la gente entrava e usciva dal negozio.
— Ciao Adamo, il solito?
— Ciao Claudio, sì, grazie. – rispose una voce alle mie spalle, fuori dalla mia visuale. Non mi voltai.
Rimasi colpita dal tono gioviale e dalla scansione delle parole, priva di inflessione dialettale.
Con la scusa di prendere un tovagliolo in fondo al bancone, mi spostai, urtando il ragazzo dietro di me. Mi scusai.
Era bellissimo! Alto, castano, di corporatura normale, vestiva casual: con jeans, scarpe da tennis e piumino nero; al collo, portava un lunga sciarpa zebrata, avvoltolata in più giri. Gli occhi, verdi, come due smeraldi brillavano di luce propria. Inevitabilmente, incrociarono i miei, di colore azzurro del cielo terso. Rimasi ipnotizzata per una frazione di secondo. Le mie iridi si accavallarono dentro alle sue, creando un istantaneo scorcio di mare verde-azzurro, cristallino.
Abbassai fulminea lo sguardo, e lessi la scritta sulla sua tazza. Riportava una sola parola “Abbracciami”.
Che imbarazzo! Sembrava un invito! Magari…
Sentii i suoi occhi addosso. Mi dileguai a prendere il tovagliolo.
Terminata la colazione, uscii dal locale e mi portai appresso l’immagine dell’aitante sconosciuto.
In ufficio, lavorai distratta con la testa via, pensandolo.
La sera, dopo cena, chiamai Carla, mia sorella, per un saluto lampo e chiederle come stava Rabena, sua figlia adottiva, mia unica nipotina, che all’asilo aveva preso il morbillo.
— Ciao tesoro, come stai? E la principessa?
— Ciao Francesca, sto bene. Rabena oggi si è sfebbrata, va meglio. Tu come stai?
— Bene, grazie. Ti confido un segreto: oggi ho incontrato un tipo bello come il sole.
— Davvero? Dove? Dimmi tutto!
— Non so nulla di lui. Era alla torrefazione, vicino al mio ufficio, a fare colazione. Baci tesoro, buona serata.
— Indaga, indaga! Tienimi informata! Buona serata anche a te. Ciao, baci.
L’indomani, alla stessa ora, sperai di incontrare di nuovo il bel ragazzo misterioso.
Non si fece attendere, arrivò in simultanea. Claudio ci salutò entrambi con la frase di rito — Il solito?
Annuimmo e lui si mise all’opera per prepararci quello che più ci piaceva.
Il ragazzo si collocò al bancone, accanto a me, facendomi avvampare in viso.
Claudio ci servì le mitiche tazze.
La mia riportava la scritta “Sei speciale”. Osservai il cappuccino: senza schiuma, scuro, con una spolverata di cannella. Non era il mio!
Il ragazzo, guardò la sua tazza, “Splendi come sole.” Il cappuccino… non era il suo!
Claudio, aveva invertito le tazze.
— Mi sa che questo è il tuo cappuccino, “Splendi come il sole.” Trovo che le parole siano veritiere!
— Sì, è il mio! Grazie… Questo è tuo, “Sei speciale”. – risposi sorridendogli.
Ci scambiammo le tazze e, all’improvviso, il ragazzo se ne andò. Lasciò la propria tazza intatta.
La mia felicità del momento andò a farsi un giro. Mi venne un’ansia tremenda, mista a nervoso.
Con sorpresa, lo vidi rientrare subito.
Claudio, un altro cappuccino. – ordinò, spiazzandomi. Per chi era? Di sicuro, per qualcuno in arrivo. Imbronciata, guardai la mia tazza e, a piccoli sorsi, cominciai a bere il mio cappuccino.
Evidentemente un ragazzo così bello non era single, avrei dovuto immaginarlo.
La porta del negozio tintinnò aprendosi, aveva appeso al suo interno uno scacciapensieri.
Mi voltai lentamente incuriosita. Quello che vidi mi lasciò esterrefatta.
Entrò trascinando i piedi. Indossava abiti fuori moda, il viso e le mani erano rugose, provate, di un colorito scuro. I capelli, canuti, stavano dritti in testa come gli aghi di un istrice. Gli occhi, come lame di ghiaccio, spuntavano da due minuscole fessure. Senzatetto.
Claudio appoggiò sul bancone una tazza bianca, dozzinale, anonima, senza scritte.
Prima che il vagabondo ci mettesse mano, il ragazzo la invertì con la sua.
— Claudio, hai sbagliato di nuovo. Il cappuccino era per me. – spiegò al barista.
Poi, rivolgendosi al pover’uomo, indicandogli la tazza colorata disse — E’ per te, “Sei speciale”.
Mi commossi nel vedere la scena.
Oltre a essere bellissimo, quel ragazzo aveva un animo umanitario candido, che ben si sposava con il colore della sua nuova tazza, bianca.
Adamo e io, ci salutammo con il sorriso. A rallegrare la giornata, quella mattina, bastarono belle emozioni. Incredibilmente, senza parole.
Fuori Concorso
Michel e il signor Sauge o Il labirinto degli sfizi
Silvia Torre
Giardino. Labirinto. Erbe officinali.
Il sogno di Michel era stato vivido più che mai, tanto da permettergli di ricordare nei dettagli ciò che aveva appena visto: un castello molto grande circondato da un giardino immenso. All'interno del giardino aveva scorto da qualche parte un labirinto, un piccolo labirinto con al centro una piattaforma rialzata in legno e una serie di piccoli archi comunicanti tra i corridoi di siepe. Vicino al labirinto un orto coltivato ad erbe officinali. Ricordava di aver letto confusamente il nome latino "mentha piperita" poi qualcosa come "chaumaema". Michel aveva l'abitudine di annotare i particolari più interessanti dei suoi sogni, avessero avuto un qualche riscontro vero nella realtà imparare qualcosa di nuovo non poteva certo fargli male! A volte capitava addirittura di scoprire che un luogo apparso in sogno esisteva concretamente da qualche parte sul pianeta.
I suoi sogni gli parlavano attraverso parole, immagini, suoni e tutto quello che serviva era prestare attenzione e un po' di interesse. Spesso le risposte alle mille domande e curiosità gli arrivavano con delle banalissime chiacchierate tra amici, qualche altra volta erano i libri a svelare con la loro voce di carta i suoni dei sogni.
Quella domenica si era svegliato di buon umore, cullato dal sogno e dal calore del sole che filtrava tra le imposte, toccandogli viso e corpo. Dopo una colazione veloce si alzò e uscì.
Il traffico di Lyon di prima mattina non lo entusiasmava affatto, men che meno quando si trattava di pedalare una bicicletta, avrebbe scommesso senza alcuna difficoltà che nemmeno il più volenteroso degli ottimisti lo avrebbe trovato piacevole! Fortunatamente il week end Michel non lavorava, e il tempo libero lo passava andandosi a rilassare in qualche parco della bella città. Il giardino botanico era ciò che faceva al caso suo: il sogno gli aveva parlato chiaramente di erbe officinali, e quel giardino pubblico ne era pieno. Il nome latino della menta era tutto quello che riusciva a ricordare con sicurezza, ma sperava vivamente di soprire qualcosa di più. Un giardino, guarda caso, era stata la prima immagine del sogno. Visitare un giardino non era certo un impegno, ma dedicarsi con precisione alla scoperta dei nomi scientifici di piante a cui normalmente non si presta attenzione gli avrebbe richiesto uno sforzo di concentrazione.
Eccola, la Menta piperita. Aveva sentito dire che l'Antico Testamento cita la menta raccontando che profumava le mense elevando lo spirito. Sorprendente che una cosa tanto piccola trovasse uno spazio e un nome in un libro così antico, usato per avvalorare mille tesi religiose ma non certo per contribuire al sapere della botanica!
Accanto alla menta il Laurus nobilis, la Calendula officinalis, la Chamaemelum nobile...gli occhi di michel si arrestarono per un secondo, ricordando con estrema vividezza quel nome: Chamaemelum! Incredibile, non avrebbe mai immaginato che la camomilla avesse un nome così strano. Avrebbe voluto saperne di più, e così per le altre piante del sogno.
Tilia cordata, Lavandula, Alchemilla vulgaris, Glycyrrhiza glabra...Ecco! Un altro nome famigliare, assolutamente impossibile da ricordare. La liquirizia! Angelica archangelica, Illicium verum Hook, Ocimum basilicum...il basilico! Poi la Malva silvestris, Allium sativum... l'aglio!
Mentre Michel stava così, chino a leggere con fare febbrile le minuscole lettere delle etichette, un uomo barbuto si avvicinò, evidentemente divertito dall'interesse di Michel per le piante.
"Salve"
Michel scrutò incuriosito il viso dell'uomo che pazientemente aspettava di esser ricambiato nel saluto.
"Salve..."
"Posso aiutarla?"
"Mi scusi la domanda, aiutarmi a far cosa?"
"Ma a capirci qualcosa naturalmente!"
"Parla delle piante?"
"Certo! Diciamo pure che le studio da tanti anni, ecco."
un sentimento molto vicino alla felicità prese allo stomaco Michel.
"Davvero? Le sarei estremamente grato se potesse darmi qualche spiegazione in più su queste piante! Alcune si conoscono, ma in verità mi accorgo di non saperne molto".
"Allora sono sicuro di fare al caso suo! Sono un esperto in materia, ho studiato botanica tutta la mia vita!"
"Beh, in questo caso, signor...?"
"Florentin Sauge. Si lo so, sembra uno scherzo del buon creatore che io mi chiami di cognome "Salvia". Ma cosa vuole che le dica? A volte i nomi forgiano il destino!"
Il signor Sauge cominciò con il raccontare che la Chamaemelum nobilis, ovverosia la camomilla romana, veniva usata come tabacco per la pipa. Seguitò col dire che il nome dell'aglio venne citato per la prima volta su di un papiro egiziano del sedicesimo secolo, che il basilico era conosciuto nei tempi antichi per essere un ottimo afrodisiaco e che la liquirizia veniva ancora chiamata 'regolizia' da qualche parte in Italia perché sembrava regolasse le funzioni intestinali.
Ma Michel sentiva l'esigenza di andare ancora più a fondo di quanto non avesse fatto.
"Sa signor Sauge, c'è ancora qualcosa che mi sfugge"
"Dimmi ragazzo, è qualcosa che a che fare con le piante?"
"No, a dire il vero con i labirinti"
"Vale a dire?"
La bellissima immagine del castello circondato da boschi e colline si fece largo nella sua mente, e mentre parlava il suo sguardo arrivava fin dentro alle finestre per osservare la vita dei suoi abitanti svolgersi all'interno. Da dove si trovava poteva visitare il giardino col suo labirinto di siepi fitte e alte, e le antiche colonne circondate di rose rosse e narcisi selvatici.
"Esiste qualche immenso castello dove i proprietari abbiano fatto costruire un labirinto di siepi accanto ad un orto di erbe officinali?"
"Certo, ne esistono a migliaia qui in Francia"
"Ma perché?"
"Bah, perché! Prendi ad esempio il castello di Villandry, sulla Loira. I proprietari, gli ultimi, uno spagnolo e un'americana, hanno voluto studiare i giardini del Rinascimento per far rivivere un po' quella stessa atmosfera, sai? E spatapuf! Che ti hanno fatto quei due? Ecco che ti hanno tirato su un labirinto e un orto di piante medicamentose! Cosa che vuoi che ci fosse dietro? Ma niente! Uno sfizio".
La giornata volgeva al termine, il fresco della sera si mescolava agli ultimi bagliori arancio nel cielo di marzo. Michel salutò e ringraziò il signor Sauge, poi montò in sella alla sua bicicletta e scomparve all'orizzonte dei suoi pensieri. Pedalando, pensava. E' proprio vero, tutto il mondo passa attraverso la parola, sogni e sfizi compresi.
fonte per le info sulle piante: www.elicriso.it
Sostieni la nostra passione!
Puoi sostenere l'attività divulgativa dell'Associazione culturale BraviAutori acquistando uno dei nostri libri, i nostri segnalibri e altro ancora.
Libri ed Ebook



Nella nostra pagina de IlMioLibro.it sono acquistabili i nostri libri su carta.
Nella nostra pagina di Lulu.com sono acquistabili i nostri libri in versione ebook.
Segnalibri


2 segnalibri a scelta saranno vostri con una donazione libera superiore ai 3,00 euro. Per ogni segnalibro in più occorre aggiungere 1,00 euro. Il costo della spedizione semplice (busta chiusa) è incluso nel prezzo. Se desiderate una spedizione raccomandata, occorre aggiungere 6,00 euro al totale. E' possibile richiedere segnalibri con grafica personalizzata. In tal caso i costi sopra citati vanno raddoppiati (tranne la spedizione). Tutti i segnalibri (disegnati da Bonnie) misurano 17,5x4,5 cm, sono plastificati e a doppia faccia.
Puoi sottoscrivere un abbonamento, usufruendo così delle varie agevolazioni previste.
E' solo grazie alla tua generosità che questo sito letterario può continuare a esistere e a offrire l'attuale supporto per una consultazione libera.
Grazie a tutti coloro che ci hanno sostenuto!
Copyright

Tutte le opere incluse in questo documento sono pubblicate sotto licenza Creative Commons (Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia - www.creativecommons.it). Le opere originali di riferimento si trovano sul sito www.braviautori.it.
Tu sei libero:

Alle seguenti condizioni:

Attribuzione. Devi attribuire la paternità di ogni singola opera nei modi indicati dall'autore o da chi ti ha dato l'opera in licenza e in modo tale da non suggerire che essi avallino te o il modo in cui tu usi l'opera.

Non commerciale. Non puoi usare queste opere per fini commerciali.

Non opere derivate. Non puoi alterare o trasformare queste opere, né usarle per crearne altre.
- Ogni volta che usi o distribuisci queste opere, devi farlo secondo i termini di questa licenza, che va comunicata con chiarezza.
- In ogni caso, puoi concordare col titolare dei diritti utilizzi di ogni opera non consentiti da questa licenza.
- Questa licenza lascia impregiudicati i diritti morali.
Gli autori delle opere pubblicate nel presente documento possono essere contattati personalmente attraverso le loro schede personali presenti nello portale www.braviautori.it.
Una produzione

Questo sito offre la possibilità agli autori di inserire le proprie opere in qualsiasi formato (testi, immagini, audio e brevi video). Il sistema funziona con l'integrazione di un database molto dinamico che gestisce numerose statistiche indicizzate, recensioni dei lettori, tags cloud, un comodo segnalibro, un forum, una chat, un correttore di testi che vi cambierà la vita, la possibilità di creare una propria pagina web con link statico e un programma online per la scrittura collaborativa (come Wiki o Knoll), messaggistica immediata tipo messenger o tramite messaggi privati.
Nel nostro forum organizziamo gare di scrittura creativa, dove i migliori elaborati saranno pubblicati nei nostri e-book liberamente scaricabili.
Le nostre attività prevedono, inoltre, concorsi letterari, collaborazioni con altri siti letterari e associazioni, pubblicazioni periodiche su antologie cartacee o in ebook dei migliori lavori inseriti su BraviAutori.it e tanto, tanto altro.
Le opere inserite nel formato ODT (LibreOffice, OpenOffice), DOCX (Word), ePUB (Electronic Pubblication) e TXT saranno trasformate in pagine HTML e saranno udibili grazie a una voce automatica che leggerà il testo. Questa funzione è molto utile per i non vedenti.
Per tutti gli utenti (anche non iscritti) e per tutti gli autori che vogliono inserire una loro prima opera, il portale BraviAutori.it è totalmente gratuito!


lettore di documenti EPUB (Electronic publication) - powered by www.BraviAutori.it
Nota: se questo documento appare molto diverso dall'originale o con gravi errori di impaginazione, probabilmente l'originale conteneva troppe formattazioni del testo annidate una nell'altra. Ti invitiamo, in ogni caso, a segnalare questo problema per darci modo di risolverlo. Grazie.