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Indice:
La gara
Il bando
Canto alle stelle
L’astronave
Finalmente, la Stella
Una Stella per amica
Nella laguna
La Stella di Maria
È appena finita la g…
Demoni e stelle
Stella
Copyright
Una produzione
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La gara

Gara 48
Stelle
settembre/ottobre 2014
antologia per BraviAutori.it
da un’idea di Lodovico Ferrari, a cura di Marina Paolucci
illustrazione di copertina: Scoperta una nuova classe di stelle (La Nazione)
illustrazioni allegate ad ogni racconto di: autori vari
Si ringrazia Massimo Baglione per il supporto, e gli Autori di questa raccolta per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

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Il bando

Ci ha lasciati Mork, al secolo Robin Williams. E ci ha lasciati, un po' prima, anche Margherita Hack, una donna di grande intelligenza. Come ricordarli?
Con il tema della nuova gara di BraviAutori.it: le stelle.
Stelle intese come astri tra cui viaggiare in astronave, stelle come luci che illuminano le notti degli amanti o che esplodono carbonizzando i suddetti amanti, stelle come simbolo della notte, stelle come persone famose, come il brodo Star o qualunque altro significato gli vogliate dare.
Buona scrittura!
Lodovico

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Canto alle stelle

(racconto 1° classificato)
Maddalena Cafaro
La terra era umida e il suo odore ricco di vita si univa a quello dell'erba tagliata. Una madre camminava mano nella mano con la figlia, risalivano la collina, in cima gli anziani stavano allestendo un grande falò.
La figlia si muoveva silenziosa, osservava il cielo terso e cercava di non bagnare il vestito nuovo.
«Questi sono i nostri anziani, loro sono i custodi della nostra storia, sii rispettosa verso di loro.»
Alcune coperte erano state sistemate intorno al falò, formavano un cerchio. Un secondo anello venne formato da sedie improvvisate. Chi arrivava si recava da tre uomini, portava loro una ciotola oppure un sacchetto quindi riceveva il permesso di sedere. La madre attese il proprio turno insieme con la figlia. Si si avvicinò al più anziano dei tre e dalla borsa estrasse un involucro che gli porse.
L'anziano ammirò per lungo tempo il lavoro della madre, poi con il consenso degli altri due indicò il posto alla propria sinistra. Entrambe si sedettero, una di fianco all'altra.
«Questo è un grande onore, il dono che abbiamo portato è piaciuto.»
«Cosa ne sarà della nostra coperta?»
«Verrà portata in dono a una famiglia che ne avrà bisogno.»
«Mamma, perché non ci sono bambini?»
«Non tutti i giovani possono ascoltare i canti e le leggende. Per te è stata fatta un'eccezione. Ora resta in silenzio e ascolta.»
Gli ultimi raggi del sole stavano lentamente scomparendo dal cielo lasciando una scia di colori, il crepuscolo accompagnava gli ultimi preparativi. Vennero gettati nel fuoco altri ciocchi di legno, le fiamme si alzarono verso il cielo e le scintille volarono nell'aria.
La notte calò intorno a loro, il cielo era terso, le stelle avevano già intonato il loro canto. In lontananza si udiva il richiamo dei coyote.
Gli anziani si sedettero su degli sgabelli di legno intagliati, alla loro destra avevano lasciato vacante un posto.
«Questa è la prima notte di luna nuova, com’è nostro costume in questa notte, cantiamo le antiche leggende, affinché la storia non sia dimenticata, affinché i giovani imparino. Io sono Piccolo Lupo e questa sera vi parlerò del canto alle stelle e alla luna.»
Piccolo Lupo lanciò una manciata d'erbe nel fuoco, un fumo denso e sottile s’innalzò verso il cielo.
Madre e figlia guardarono le spirali grigie scomparire nell'aria. Un bisbiglio si propagò tra i presenti, accanto a Piccolo Lupo aveva fatto la sua comparsa un lupo vero in carne ed ossa. Il manto era grigio come le nuvole cariche di pioggia mentre i suoi occhi erano chiari come il ghiaccio. Piccolo Lupo sorrise al lupo come se fosse un vecchio amico.
La madre disse alla figlia «Il grande spirito ci ascolta.»
La figlia annuì, ma era troppo concentrata nell'ammirare quell'animale che aveva visto sempre e solo nei suoi libri, avrebbe voluto accarezzare quel pelo e sentirne la consistenza sotto le dita.
Il lupo si schiarì la voce e si alzò, per permettere a tutti di vederlo.
«Questa sera ricorderemo il sacrificio di una madre e di una figlia, ricorderemo di un periodo antico in cui non c'era l'abbondanza che abbiamo oggi. Ricordate e pregate, affinché quei giorni non si presentino ancora. Le guerre proliferavano nella vana speranza di conquistare cibo e acqua. Gli amici divennero nemici, persino nella propria famiglia s’insinuò il tradimento.
Fu un periodo di oscurità, la speranza cedette il posto alla disperazione e al sospetto, l'amore fu dimenticato in favore dell'odio.
Sulle rive di un fiume, in una notte limpida come questa, una giovane donna guardava la terra arida intorno a sé, tra le sue braccia giaceva la figlia. La fame e la sete avevano debilitato la bambina, e ora stava morendo.
La quiete di quella notte venne interrotta dal canto della giovane donna. Cullava sua figlia, sapeva che presto il suo spirito avrebbe abbandonato il giovane corpo. Il dolore e l'amore erano la musica che accompagnava la sua disperata preghiera:
"Grande Spirito, la tua voce è nel vento, tu nutri ogni forma di vita nel mondo, ti prego ascoltami! In questa notte, sono qui con il mio sangue e la mia carne, mi mostro nel mio dolore a Nonna Luna. Oh! Grande Spirito, non so cosa abbiamo fatto per farti adirare, sono solo una madre che vede la propria figlia lasciare queste terre prima ancora che possa averle calpestate. Nonna Luna, intercedi per me, ti offro la mia vita e quella della mia bambina, affinché nessun'altra madre debba soffrire come me ora".
Il Grande Spirito è sempre stato giusto. Quella notte inviò un messaggero, un lupo dal manto d'argento che parlò alla donna.
"Donna il tuo dolore e quello della tua bambina sono doni degni. Nonna Luna vi accoglierà in cielo, così potrete restare sempre insieme. Non temere le tue sofferenze sono terminate e con esse quelle del tuo popolo. Che il tuo sacrificio non venga mai dimenticato".
In ogni notte limpida come questa, alzando gli occhi al cielo, possiamo vedere la Grande Orsa con la sua Piccola Orsa, illuminare il nostro cammino. Il dolore di una madre e di una figlia hanno salvato un intero popolo. Questa sera noi ricordiamo, questa sera noi onoriamo quel sacrificio.»
Piccolo Lupo si sedette, il lupo che fino a poco prima era seduto ai suoi piedi era scomparso.
La madre strinse la mano alla figlia, la quale la guardò.
«Ho capito mamma. Sai stavo origliando quando il dottore ti ha detto che la chemio non ha funzionato. Vuol dire che farò come Piccola Orsa, ti aspetterò tra le stelle.»
La figlia si strinse alla madre cercando di infonderle coraggio.
«Sono così orgogliosa di te, sei degna del tuo nome e io sarò degna del mio. Un giorno noi due staremo di nuovo insieme ed illumineremo la terra con la nostra luce.»
La luna era alta nel cielo stellato, del grande falò erano rimaste soltanto le braci, quasi tutti erano ritornati alle proprie case, soltanto i tre anziani erano rimasti.
Piccolo Lupo prese il fagotto che gli era stato donato, una coperta patchwork con al centro stampata l'immagine di una bambina dai lunghi capelli corvini che rideva di gusto.
«E' un vero peccato che Grande Orsa Bianca debba dire addio a sua figlia così presto. Non è possibile che i dottori si siano sbagliati?»
«No. Piccola Orsa presto non sarà più con noi. I genitori non dovrebbero mai sopravvivere ai propri figli. Purtroppo non c’è dato di scegliere.»

(fine)

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L’astronave

(Racconto 2° classificato)
Nunzio Campanelli
Sono qui, solo, in questa fredda, inquietante astronave ormai da troppo tempo per ricordarmi per quale motivo sono stato mandato quassù.
Fuori solo un cielo nero.
Il tempo scorre, monotono come un orologio fermo.
Sto scrivendo il diario di bordo, nessun fatto da segnalare.
Io non so chi sono.
L’astronave è enorme, la sto ispezionando da qualche tempo immemorabile. Ogni giorno un settore nuovo.
Non ho ancora finito.
Non so quando finirò.
Non so se finirò.
C’è da impazzire.
Forse sono già pazzo, e questa follia è generata dalla mia mente.
Forse sto sognando, ma un sogno non può durare all’infinito.
Credo.
Spero.
Guardo fuori. Mio Dio, è pieno di stelle!
Questa enorme macchina va avanti da anni, secoli… millenni?
Ci deve essere un motivo per il quale sono qui, diretto verso un luogo che non conosco, in un tempo che non capisco, proveniente da un mondo che non ricordo.
Forse il senso è che non c’è un senso.
Questo è il mio mondo, anzi: il mondo. Tutto il resto è ornamento, decorazione.
Forse è stato creato per me.
Forse io sono il fine della creazione.
Forse io sono Dio.
Giulio gridò a lungo nel tentativo di espellere insieme all’aria anche la disperazione. Si ritrovò in un luogo sconosciuto, seduto su un letto disfatto dal quale non poteva scendere. Nessuno che lo impedisse, al di fuori della sua volontà o, forse, della sua mancanza. L’oscurità della stanza che lo ospitava era interrotta da una vetrata affacciata sul nero spazio siderale. L’incubo dal quale si era risvegliato urlando non lo aveva abbandonato, anzi sembrava tenacemente ancorato alla sua coscienza, tanto da renderlo incapace di distinguere tra sogno e realtà. Forse la sua stessa vita era il sogno di un altro, e al risveglio di questi di lui e delle sue angosce sarebbe rimasta solo qualche sinapsi residua in una mente estranea.
Sospirando per il doloroso distacco dalla sua amata poltrona, il professor Arconti si avvicinò alla finestra per scostarne il tendino, come sempre faceva prima di concludere l’esposizione delle sue teorie. Dopo alcuni attimi di contemplazione del panorama, riprese il discorso.
«Posso sostenere quindi che l’improvvisa scomparsa di suo fratello Giulio sia avvenuta a causa di forze la cui reale entità non c’è dato ancora di conoscere. Sto parlando di meccanismi mentali d’inaudita potenza, che s’innescano solo nel caso di totale utilizzo delle potenzialità della propria mente.
Meccanismi difficili da governare, che potrebbero aver imprigionato suo fratello in un luogo e in un tempo sì reali ma governati da leggi a noi ancora ignote.»
Antonio, che era approdato per disperazione allo studio di parapsicologia di Arconti dopo la scomparsa del fratello Giulio, si lasciò sfuggire un’esclamazione di meraviglia.
Arconti, senza riuscire a nascondere un moto di fastidio per l’interruzione, proseguì nell’esposizione della sua teoria sul potere della mente umana. Liquidò poi velocemente Antonio, dicendogli che voleva essere avvertito di ogni possibile sviluppo.
Arconti stava scrutando il volto di Antonio, che era tornato nel suo studio per raccontare quelli che aveva definito al telefono “gli ultimi, incredibili fatti”.
«Mi trovavo a casa. Ero solo e stavo pensando a Giulio. Poi, l’ho visto. La stanza ha cominciato a trasformarsi, e Giulio era lì, seduto su un letto sfatto, che mi stava guardando. Aveva la bocca chiusa, ma lo sentivo parlare. Mi ha raccontato di un sogno strano, dal quale si è risvegliato per trovarsi sopra quel letto. Poi quello strano luogo è scomparso nel nulla, così come dal nulla si era materializzato.»
Antonio fece una pausa interrompendo il racconto, come sopraffatto dal ricordo di quegli avvenimenti. Arconti tentò di calmarlo con il suo fluente eloquio.
«Vede, Antonio, Giulio parla di stanze, ma si tratta di una creazione dalla sua stessa mente. La “trasformazione”, per usare le sue parole, avviene quando cerca di fuggire dalle barriere che ha costruito.»
«Non capisco come tutto ciò sia potuto accadere. Voglio dire, prima ero a casa, poi quel luogo così strano…»
«Ascolti, Giulio si trova a casa sua. Non è mai andato via. Lei non lo vede e non lo sente con i suoi normali sensi, ma egli è lì.
Si ricorda quello che le dicevo? Un luogo e un tempo reali anche se obbedienti a leggi a noi ignote. Per qualche motivo, questi due mondi paralleli sono entrati in contatto, e lei ha potuto vedere suo fratello. Mi diceva che le ha parlato. Che cosa le ha detto?»
Ignorando la domanda Antonio si alzò in piedi e, contrariamente al solito fissò il suo sguardo con decisione su quello di Arconti che, pur senza comprenderne il motivo, cominciò ad avvertire una certa agitazione.
«Professore, vuole vederlo?»
«Chi?»
«Giulio, naturalmente.»
Arconti afferrò la fotografia con riluttanza, dandogli un’occhiata di sfuggita. Ciò che vide lo lasciò interdetto. La riconsegnò all’altro mentre questi continuava a parlare.
«Nella mia famiglia si ripete ormai da tre generazioni. Sembra sia diventata una tradizione. Mi dispiace, forse avrei dovuto dirglielo subito.»
Il professor Arconti capì di essere stato vittima di un inganno. Decise di affrontare la questione.
«La prima volta, però, ho parlato con Antonio, vero?»
«Sì.»
«Che cosa vuole da me, Giulio?»
«Niente che lei non possa darmi.»
Inquieto, Arconti si avvicinò alla consueta finestra, scostandone la tenda. Non riuscì a trattenere un’esclamazione.
«Mio Dio! È pieno di stelle!»
Improvvisamente le pareti dello studio si annichilirono per lasciare che nuove mura in pietra ne prendessero il posto. Giulio stava trascinando Arconti nella sua prigione.
«Vede, professore, per uscire da quel mondo, bisogna essere sostituiti da un’altra persona. In questo momento al mio posto c’è Antonio, abbastanza spaventato direi, ma lui si fida di me. Antonio è mio fratello gemello. È questa la caratteristica che si ripete da tre generazioni, nella mia famiglia. Un parto gemellare. Gemelli omozigoti, per la precisione.
L’ha detto lei stesso che quelle forze eccezionali di cui parlava possono essere governate solo in rari casi, come, evidentemente, provenire da un parto gemellare. Solo uno della coppia però. In questo frangente, io. Per il resto, è come diceva lei, professore.»
«Perché io?»
«Purtroppo per lei, quel mondo in cui sta entrando ha bisogno di un parametro fondamentale per esistere.»
«Quale?»
«Bisogna crederci.»
Arconti aveva la sensazione di precipitare in un pozzo, a una velocità sempre maggiore. L’universo stellato gli scorreva accanto, mentre un’astronave si stava avvicinando.
(fine)

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Finalmente, la Stella

(Racconto 3° classificato)
Stella_decadente
"Diario dei capitani, data astrale 35900.789.
I recenti guasti alla sala macchine sono stati riparati.
La navigazione procede tranquilla, siamo prossimi a Sirio B".
Sirio B, la nana bianca che galleggia vicino a Sirio; la fase finale di una stella di piccole dimensioni che degenera in una palla poco luminescente.
Ancora qualche ora e avrebbero lanciato la sonda WYIREJUE, rivestita di un materiale termoresistente all'avanguardia, portando a termine la missione patrocinata dall'Istituto di ricerche della Federazione.
I comandanti Ann e Dani, terrestri, si avvalevano della collaborazione di ufficiali provenienti da ogni angolo della Federazione. Bogsuj19813, un primate del sistema di Altair soprannominato “il saggio”; Mikkk, una specie di tartaruga di Deneb (dotata di un'agilità fuori del comune), Yrquoiw (detta Yr), un'umanoide magica proveniente da Vega.
«Mah, per me qualcosa non quadra» esordì tutto a un tratto Bogsuj, rimasto in plancia con Ann.
Lei non capì. Il guasto era stato risolto, la navigazione procedeva senza intoppi.
«No, dico sul serio. Parlo di Mikkk» bisbigliò l'ufficiale con fare misterioso. «Mi sembra un po' strano.»
Ann lo guardò in tralice. Che aveva Mikkk di strano? Le stava così simpatico!
«A volte si eclissa e non riusciamo più a trovarlo, è successo anche durante quel guasto alla sala macchine. Sembra nascondere qualcosa.»
«Su, non diventiamo paranoici. Le suggerirei di tenere sotto controllo le telecamere, invece.»
Ann sospirò irritata. I sospetti di Bogsuj la rendevano inquieta, così richiamò la schermata degli obiettivi sparsi per la nave.
Mikkk strano? E quindi? Magari aveva i cavoli suoi, non per forza uno deve tramare contro la missione perché si comporta in modo strano. La prima missione che permetterà di vedere nel nucleo di una stella, anche se quasi morta. Cosa ci sarebbe da tramare?
Eccolo. Percorreva un corridoio dall'altra parte della nave, guardingo.
«Vede? Come mai si guarda intorno?»
Ann fece spallucce. «Non saprei, forse è qualche comportamento tipico dei denebiani?»
Ingrandì l'immagine.
«Un momento» disse. «Che strani occhi... non sembrano neppure i suoi...»
D'improvviso si aprì la porta e Mikkk comparve sulla soglia, sorridente come sempre. Ann fece un balzo dallo spavento.
«Capisco che non sono il massimo per i canoni terrestri, ma addirittura spaventarla mi sembra eccessivo» sogghignò la tartaruga.
Ann scoppiò a ridere nervosamente.
«Ma no, che dice? Mi ha solo colto di sorpresa. Certo voi denebiani siete il contrario delle nostre tartarughe, ma addirittura percorrere la nave da un capo all'altro in un nanosecondo...»
Si accorse troppo tardi dell'occhiataccia che Bogsuj le stava lanciando di sbieco.
Il sorriso del denebiano s’incrinò.
«Ehm» Ann si schiarì la voce. «Volevo dire... credevo lei fosse dall'altra parte della nave, non la stavo certo spiando dalle telecam...»
L'espressione di Mikkk mutò all'improvviso.
«Rafff, in plancia comandi» disse al trasmettitore.
Ann ammutolì. Uno schiocco metallico alla sua sinistra la fece trasalire. Bogsuj aveva sfoderato la spada laser e si protendeva verso il tartarugone, che lo fissò risoluto.
«Amico, non ti agitare. Siete in trappola ormai. Mi spiace, mi eravate simpatici...» disse. E, sguainò la sua spada laser.
«Non avevo dubbi» rispose la scimmia. «Infatti ho provveduto appena possibile ad allertare il comandante Dani e Yr.
Ann si sentì una cretina patentata.
«Ma ma ma ma ma...» balbettò. «Mikkk, cosa significa? Perché?»
«Perché è l'unico modo per focalizzare l'attenzione del mondo sui nostri problemi. Mai sentito parlare di XZCVB, il comitato per la liberazione di Deneb5? Tutto l'universo è a conoscenza delle vessazioni cui il nostro pianeta viene sottoposto dalla Federazione, e cosa si fa? Si promuovono missioni scientifiche per scoprire cosa c'è dentro una stella!»
«Sì, ma che c'entra? Sono due cose diverse! Bloccare una missione scientifica non è il modo migliore per risolvere problemi sociopolitici!»
Dall'annuire di Bogsuj capì che stava riguadagnando punti.
«Non abbiamo alternative, spiacente.»
Un piccolo trambusto sullo schermo attirò l'attenzione di Ann. Yr stava combattendo a colpi di telecinesi con il sosia di Mikkk, mentre in un altro obiettivo Dani era impegnato contro un altro denebiano. Dovevano essere una decina, come avevano fatto a nascondersi sulla nave per tutto quel tempo? L'equipaggio era numericamente superiore, ma quei dannati rettili combattevano come ninja, era la loro natura.
Un colpo secco dietro di lei: Bogsuj e Mikkk avevano iniziato a duellare. Lo scimmione ci sapeva fare, ma l'avversario era molto più agile, e inoltre era dotato di scudo.
Improvvisamente un denebiano si catapultò nella sala. Ann non capì subito da dove provenisse, ma non doveva essere la porta d'entrata. Si fece coraggio ed estrasse la spada, pronta ad affrontarlo.
Ma la tartaruga era più interessata ai comandi.
«No no no no, non ci provare!» reagì Ann.
Lui la colse di sorpresa, disarmandola e puntandole la spada alla schiena.
«Mi serviva giusto un comando vocale. Coordinate 24567.567» intimò il denebiano.
«Non ci penso nemme...»
La tartaruga le schiacciò la faccia contro il piano dei comandi
«Okay, sarò obbligato alla mossa di Hokuto.»
Ann sentì una zampa rugosa premere con forza appena sotto la nuca. Fra poco avrebbe pronunciato le coordinate contro la sua volontà. Tentò di ribellarsi, ma un dolore lancinante la paralizzò. Poi si sentì scattare come una molla, e l'attimo dopo Rafff parabolava verso il soffitto della plancia, per poi atterrare rovinoso.
Anche Bogsuj era a terra. Rafff e Mikkk si lanciarono occhiate allibite.
«Ha il nervo anti-mosse di Voluto!»
In quel momento Dani e Yr irruppero in plancia, la spada laser protesa.
I due comandanti si scambiarono un cenno col capo. Ann, stremata, si aggrappò ai comandi. Avrebbero portato a termine la missione, costi quel che costi. I denebiani fecero per impedirglielo, ma Dani e Yr si lanciarono in sua difesa.
Ann guidò la nave verso la meta. Si sentì acchiappare per un piede, i suoi compagni faticavano a tenere testa agli avversari. Aumentò la velocità e, proprio mentre le speranze la abbandonavano, una luce la abbagliò.
Finalmente, la stella.
No, era la luce della camera che suo padre aveva acceso, dopo aver spalancato la porta.
«Dove diavolo siete finiti? È mezz'ora che vi chiamo per cena!»
«Dai, papà, stiamo per ultimare la missione!» protestarono i due.
«Ma quale missione d'Egitto! La cena si raffredda, mettete a posto questo casino!»
Sbuffando, i ragazzi obbedirono. Tolsero il poster della galassia che avevano appeso all'armadio e sistemarono le spade, la scimmia Bombolino, la bambola Iridella e la tartaruga ninja Michelangelo.
(fine)

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Una Stella per amica

Marina Paolucci
E’ una giornata splendida. Il cielo terso sembra da cartolina, o appena dipinto, senza sfumature, da un pittore. Ho mal di testa, sarà colpa del jet lag. Vorrei chiamare Viola, lo farò più tardi. Ho bisogno di riprendermi dal viaggio.
Oggi, 24 giugno, è S. Giovanni, il mio onomastico. Da dieci anni lo festeggio con il naso all’insù, al Parco di Monza. In città è la festa del patrono e si sparano i fuochi d’artificio nel cielo stellato.
Ho portato qualche souvenir per amici e parenti, cose di poco ingombro: penne, magneti, cartoline, stringhe, a stelle e strisce, bianche rosse e blu, bandane degli States.
Il regalo più prezioso è per Viola, la mia migliore amica. Siamo cresciuti insieme, lei è bellissima. Io che studio le stelle, penso che Viola sia più bella di ogni stella. Così, la chiamo Stella.
Mia madre si è impossessata del mio trolley, lo svuota alla ricerca dei vestiti sporchi da lavare. Parla con mio padre, sono così stordito che non capisco cosa dicono. La porta di casa sbatte. Penso che papà sia sceso in cortile a fumare.
«Mamma lascia stare, svuoto io il trolley.»
«Già fatto.»
«Potevi chiedermi il permesso prima di frugare tra le mie cose, ti pare?»
«Uff! Sei appena tornato e già brontoli. Quante storie, sono tua madre.»
«Scusa, dove hai messo la busta di carta con dentro i pezzi di giornale?»
«L’ho data a papà, è andato a buttare la cartaccia, giù c’è il camion dell’immondizia.»
«Quale cartaccia! Mamma! Nei pezzi di carta c’era un regalo importante!»
«Come mai l’hai messo lì?»
Mentre mia madre aspetta una risposta, scappo giù per le scale. Non ci posso credere. Ha buttato via il sacchetto senza chiedermelo. Spero che il camion della nettezza urbana sia ancora nei paraggi, altrimenti sono fregato.
«Ehi! Fermo! Per favore! Devo recuperare una busta di carta?»
«Dici a me, ragazzo?» mi chiede un uomo sulla cinquantina.
«Ha già svuotato il bidone della carta del civico 23?»
«Non ancora, è lì nel mucchio. Hai fatto in tempo, se l’avevo rovesciavo nel camion il contenuto era irrecuperabile.»
Mi avvicino ai bidoni bianchi cerco quello del mio condominio. Eccolo. Provo a sbirciare dentro, la borsa, appena depositata, per fortuna sta sopra, facilmente reperibile. La pesco, ringrazio l’uomo e torno a casa.
«L’hai trovata?» mi chiede mia madre.
«Sì, per fortuna. Mamma, la prossima volta, per favore, non toccare più le mie cose.»
«Come sei permaloso! Vabbè, come vuoi.»
Chiamo Viola, farò subito dopo la doccia e mi riposo un po’, stasera devo essere carico. Sarà la serata della rivelazione.
«Pronto?»
«Giovanni! Sei tornato? Che bello saperti a casa! Stai bene?»
«Ciao Stella. Ora che ti sento sto alla grande. Sei pronta per stasera? Passo a prenderti per le nove, poi raggiungiamo gli altri al parco. È la notte magica.»
«Lo sarà per voi. Da quando sono ipovedente io le stelle non posso vederle. Se passi a salutarmi mi fa piacere, ma non vengo al parco.»
«Lo so… Ma tu preparati, a più tardi. Bacio.»
Oggi è un giorno nuovo sul calendario, vorrei che fosse di lieto fine con Viola, i vestiti della paura li ho scartati, mi vanno stretti. Lei mi piace e deve saperlo. Io non temo la sua malattia, lei è una ragazza speciale, e non m’importa se è diventata cieca due anni fa. Ho fatto la doccia, va meglio. Mi sbatto sul letto, sono a pezzi. Punto la sveglia per non dormire fino a domani, ho un appuntamento con Viola, stasera, alle nove.
Drin! Drin! Drin!
Eccomi! Ho dormito poco. Mi vesto e vado da Viola, non vedo l’ora di vederla. Infilo nel borsello a tracolla il regalo per lei, ci sta, dentro una palla di carta.
«Ciao Viola, sei splendida!» le dico appena la vedo, la bacio sulle guance e l’abbraccio talmente forte che sento il suo cuore tamburellare contro il mio. Saluto i suoi genitori, felici di rivedermi, è reciproco, sono due persone amabili.
«Andiamo. Ci stanno aspettando.»
Non le do il tempo di ribattere e mugugnare, la prendo sotto braccio e usciamo di casa, dopo avere salutato la madre e il padre.
«Come è andata in America?»
«E’ andata bene. Il mio stage è stato interessante. Ti dirò, avremo tempo per parlare. Ti ho portato un regalo, te lo darò dopo, sotto le stelle.»
«Così non vale! M’incuriosisci!»
«Resisti Stella! Manca poco…»
Giungiamo al parco che è già buio. C’è tanta gente, chissà dove sono gli altri. Rinunciamo a trovarli, ci fermiamo in un ritaglio libero di prato.
Le stelle splendono alte nel cielo, che è diventato un tappeto nero tempestato di brillanti. La osservo anche per Viola e gli racconto ciò che vedo.
«Davanti a noi c’è la nebulosa di Orione, uno degli astri più lucenti dell’emisfero boreale. Sembra una grande caffettiera, che a metà indossa una cintura con tre brillanti stelle: Alnitak, Alnilam e Mintaka, note come i Re Magi o i tre Re. Gli antichi vedevano in questa costellazione un guerriero o un cacciatore che tende un arco puntinato con stelle. A sinistra c’è Venere, il secondo pianeta del sistema solare in ordine di distanza dal sole, l’oggetto più luminoso del cielo notturno. Si vede anche il Grande Carro… e ti devo dare il regalo.»
«Ah! Già! Me ne ero dimenticata, incantata ad ascoltarti, mi piace che mi racconti il cielo. Io me lo ricordo, mi manca…»
«Passerà, vedrai. Tieni Stella, apri l’involucro con cura.»
«Che cosa sono? Biglie? Sono ghiacciate…»
«Sono due stelle glaciali. Le ho rubate per te in un laboratorio astrofisico americano. Ho studiato un sistema d’innesto, avrai le stelle negli occhi, tornerai a vedere il mondo attraverso la loro luce riflessa. Non avere paura, fidati.»
«Grazie… Io…»
«Sss… Tranquilla. Mi sei mancata tanto quando ero via. Sarò sempre al tuo fianco, non ti lascerò mai più. Te lo prometto sotto il cielo stellato, di cui, tu lo sai, sei per me sei la stella più bella. Ti amo Stella. Vuoi sposarmi?»
«Sì!»
(fine)

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Nella laguna

Umbo Pasqui
I grandi specchi d'acqua sono cieli capovolti: vi si leggono le impronte delle stelle. E non solo. Nella laguna, il riflesso della luna formava tante piccole letterine bianche che poi sparivano tra i flutti.
Come tutte le notti di plenilunio, il fenomeno si era ripetuto anche allora.
A cercare di leggere il senso delle lettere riflesse sull'acqua c'era Bianca, che viveva da sola in un mulino a vento.
Il problema si ripeteva. Non riusciva mai a completare la frase e tali notti erano di pianto. Ma lei era forte, decisa, determinata, e anche di giorno inseguiva le increspature delle onde per cercare di leggere qualcosa. Essendo sempre vissuta nel mulino solitaria, non sapeva che l'immagine che di lei dava l'acqua della laguna era distorta: sicché si vedeva brutta, fin troppo in carne, seppure contornata di stelle. Ma solo perché l'acqua lievemente increspata dallo scirocco non è uno specchio perfetto.
Colpito dall'angoscia della ragazza, un pittore anziano, di nome Silvano, si fermò a parlare con lei.
Le propose di mettersi in posa per un ritratto. Nel suo studio c'erano immagini antiche, lontane nel tempo, intense nel colore ma lievemente malinconiche: come un piccolo quadro dove due spigolatrici lavoravano al tramonto, uno scatto di un'epoca persa per sempre.
Nemmeno il ritratto dipinto da Silvano, seppure di pregio e vicino alla realtà, la placò.
Non si vedeva così. E lo lasciò nello studio, scusandosi per il disturbo. Eppure tra le vernici di Silvano ce n'era una specialissima, che solo lui aveva. Infatti, Bianca, insoddisfatta, cambiava spesso colore dei capelli, virando diverse tonalità di biondo, esplorando bruni diversi, osando violacei o rosa, o altro, attingendo dalla tavolozza dell'arcobaleno. La vernice del pittore cambiava, nel ritratto, seguendo i colori dei capelli di Bianca. Ma questo particolare la colpì solo marginalmente. Infatti, come già detto, lasciò la tela nello studio del vecchio artista.
Il sonno della ragazza era spesso tormentato: sognava periodicamente un koala che entrava nella sua camera e tentava di sussurrarle qualcosa, ma Bianca non capiva cosa, non riusciva a cogliere il messaggio. Ne era inquietata. Non ne conosceva il significato. Non capiva il motivo di un sogno tanto bizzarro.
Altro plenilunio, altre stelle nascoste, altra frase misteriosa da decifrare: questa volta a interrompere la missione giunse Belloccio Bellocci da Manciano, figlio del principe di Neghelli. Un personaggio sfrontato ma dotato di una certa simpatia, ambiguo, multiforme, ma che sapeva attrarre le attenzioni di Bianca. Costui la portò in barca, sulla laguna, per cercare le lettere scomparse. Belloccio era uno dei pochi che sapeva ridestare in Bianca la sua fisicità, distraendola dalle sue astrazioni oniriche. Non negò di essere lusingata e accettò l'invito.
In barca, solo loro due: lei che cercava le lettere tra i flutti, non riuscendo a decifrare alcunché, lui che si aspettava ben altro da quella serata. L'intenso odore di alghe non consentì ulteriori romanticismi. E fu Bianca stessa, sebbene più carnale del solito, a chiedere di essere riportata al mulino prima di mezzanotte. Prima di mezzanotte. Infatti, nella sua camera, ad attenderla, c'era il koala del sogno.
La ragazza si spaventò tantissimo: il koala parlava ma non si riusciva a intenderne le parole.
Erano anni luce lontani. Piani differenti, paralleli. E poi il koala si dissolse, lasciando la giovane nel turbamento.
Chiamò Belloccio, ma dormiva (o non rispondeva). Non sapeva cosa fare se non tornare sulla laguna. E lì tornò a leggere le lettere sulle onde della laguna, senza raccapezzarsi per l'ennesima volta. Riuscì solo a intuire un “torna”. Ma tornare dove? Al mulino? All'acqua? Da Belloccio? Da Silvano? Da altre persone che avevano intersecato la sua vita?
La lettura le provocò ancor più domande, ancor più insicurezze. Forse il koala poteva aiutarla, ma non comparve più.
Comprese che solo lei poteva capire, ragionare su quanto stava capitando, spezzando l'incanto del mulino solitario col desiderio forte di una vita intensa, vera, vissuta e appagante nello spirito e nei sensi.
Capì che il tornare non era un passo indietro, non era una ritirata, un ripiego, un accontentarsi: ma un rilancio nel mondo fuori dal mulino, senza dimenticarsene.
Da quella notte, le pale, ferme da anni, tornarono a girare accompagnate dal vento.
Dalla mattina successiva Bianca non avrebbe più cercato le lettere tra i flutti della laguna, ma chi l'avrebbe accompagnata nel cammino della sua vita, per diventare ciò che sarebbe dovuta diventare.
(fine)

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La Stella di Maria

Patrizia Chini
Correva l’anno 1992, si avvicinava il Natale.
Più si approssimava e più cresceva la frenesia per gli acquisti. Suoni, colori e odori propri di quella festa andavano colonizzando l’aria frizzantina, annuncio dell’inverno imminente. Passanti frettolosi, carichi di pacchi, erano fermi agli angoli delle strade per scambiarsi gli auguri.
Tra ghirlande di luci intermittenti, nastri e festoni, una pianta, la Stella di Natale, si faceva notare un po’ ovunque, nelle case, nelle vetrine dei negozi, negli uffici.
Avrei voluto averla anch’io a casa, bella e altera, a rallegrarmi l’ambiente. Mi piaceva tanto che m’incantavo ad ammirarne il rosso intenso dei petali e il suo contrasto con il verde bottiglia delle foglie, indice di una personalità rara per una pianta.
L’atmosfera di gioia sospesa, di attesa, contagiava tutti specialmente i bambini, una gioia che leggevo chiaramente negli occhi ridenti dei miei alunni di prima elementare.
A scuola, mentre fervevano i preparativi per i canti e le recite, ci furono scambi di parole tra colleghe.
«Ieri sono andata in giro per i regali, è sempre più difficile scegliere. I ragazzi sono grandi, non si accontentano più!»
«Io, quest’anno preparo le “buste.”»
«Le buste con i soldi?»
«Sì! Non ce la faccio mentalmente a pensare a cosa possa andare bene a questo o a quello.»
Quella che aveva parlato di buste era Maria, una collega con la quale non ero troppo in sintonia, i nostri rapporti erano circoscritti all’ambiente di lavoro.
Era una donna bella e benestante, con il marito ufficiale di Marina e un'unica figlia: grande, già sistemata con casa di proprietà, con un ottimo lavoro per lei e il marito.
Spesso Maria ci raccontava dei viaggi che si poteva permettere e dei tanti regali ricevuti che riciclava puntualmente senza problemi. Io e le altre colleghe non potevamo che complimentarci.
Dopo un po’, lei continuò a parlare.
«Ieri, nelle piazze, c’era la giornata della lotta contro le leucemie. Vendevano le Stelle di Natale per finanziare la ricerca. Non siete andate a comprarle? Con diecimila lire ho preso una bellissima pianta, grande, in negozio la paghi la stessa cifra.»
Quando Maria faceva certe domande le avrei levato il saluto. Sapeva benissimo che nel nostro gruppo di lavoro solo lei poteva “spendere e spandere” come desiderava. Noi altre arrivavamo alla fine del mese rinunciando a tante cose.
«Non lo sapevo...»
«Io non ho avuto tempo!»
Così ognuno si giustificò, senza che ce ne fosse bisogno. Io non risposi.
Non ancora soddisfatta, Maria improvvisò una lezione sulla “Euphorbia Pulcherrima”, nome scientifico della Stella di Natale, sulla sua origine nel lontano e assolato Messico dove cresce spontanea e può raggiungere fino a quattro metri di altezza. Si dilungò sulla bellezza del fiore, detto ciazio, con petali e sepali disposti a coppa, che non è rosso ma di colore giallo e circondato da una corona di cinque brattee.
«Basta! Dobbiamo finire gli addobbi per la recita. Sono stanca, non mi va di ascoltare le lodi delle “stelle”. Vado a casa che ancora devo ancora lavare i piatti della cena di ieri!»
Mentii. Avrei voluto aggiungere le mie di “lodi”, invece mi alzai e andai via. Ovvio, non prima di aver chiesto il permesso alla nostra direttrice, adducendo a un forte mal di testa.
Il giorno dopo cercai di arrivare a scuola qualche minuto prima per finire gli addobbi. Trovai Maria che preparava i fondali per la recita. Sul pavimento aveva disteso grandi fogli bianchi, di quelli usati per incartare i pacchi o dalle sarte per disegnare i modelli. Accanto a ogni foglio c’erano barattoli di colore rosso, verde, e altri, con pennelli di varie misure.
«Sai cosa ho pensato Patrizia? Per il fondale faccio dipingere grandi Stelle di Natale da assemblare in un unico quadro. Mi risulta che ti piacciano.»
Era vero, Maria lo sapeva. A casa avevo pure realizzato la mia uscita un po’ sopra le righe con lei. Avrei dovuto chiederle scusa, non lo feci e continuai a preparare gli addobbi.
«Che ne dite di festoni di Stelle di Natale?» Maria rivolse la domanda al gruppo.
Ebbi la sensazione che insistesse su quell’argomento perché aveva capito che mi dava fastidio. Non fui più sicura che la Stella di Natale mi piacesse veramente.
Passarono a fatica i pochi giorni che mancavano alla fatidica data, arrivò l’ultimo giorno di lezioni, della recita.
Il teatro era gremito di genitori, fratelli, sorelle, zie, nonni tutti pronti a farsi sfuggire qualche lacrima di commozione alla vista del piccolo di famiglia sul palco.
Sul palco... che c’era sul palco, non proprio al centro, ma a lato del sipario, in primo piano, davanti all’asta del microfono dove i bambini avrebbero recitato le poesie e recitato le scenette?
Non eravamo riuscite a dissuaderla. Maria aveva sistemato la sua Stella convincendo le colleghe.
«Non vi sembra che niente sia più adatto di una Stella di Natale?»
Cominciai a odiare quella pianta.
Quando si aprì il palco fu tutto uno sfolgorio di luci e di colori. Il rosso campeggiava su tutto, non solo per le Stelle, anche per le maglie rosse indossate dai bambini.
Come sempre la festa di Natale si rivelò un successo, l’affetto della platea è garanzia di riuscita in questi teatri.
Dopo la recita, e dopo avere augurato un Buon Natale ad alunni e parenti, finalmente ci sedemmo, sfinite, con poca voglia di parlare.
«È andata bene...» disse Maria. Si girò verso di me, lasciò passare qualche secondo e ruppe il silenzio. «Sai Patrizia, un genitore mi ha regalato una Stella di Natale...»
Avrei voluto risponderle qualcosa, tacqui.
«Ti volevo chiedere se vuoi ricomprarti la mia, così dai una mano alla ricerca...» aggiunse.
Non la feci finire di parlare, il sangue mi era andato al cervello. Mi alzai in piedi paonazza in volto, aprii la bocca per urlarle che alla ricerca non occorrevano per via di forza le mie diecimila lire, ma l’avrei comprata lo stesso per darle uno schiaffo morale.
Lei fu più veloce.
«Dai scherzavo. Ti voglio bene... te la regalo.»
(fine)

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È appena finita la guerra

Annamaria Vernuccio

E' appena finita la guerra.
I soldati tornano alla spicciolata a ripopolare paesi e città. C'è nell'aria la voglia di divertirsi e si cerca di ricominciare a vivere, lasciandosi alle spalle gli orrori della guerra. A Buscoldo, un paesino della Bassa Padana, il Parroco è su tutte le furie perché è arrivato "Il Varietà". I muri sono tappezzati di manifesti pieni di donnine in abiti succinti e con le gambe scoperte: Sono le Stelline del Varietà che ammiccano promettendo chissà quali fantastiche esperienze.
In piazza non si parla d'altro, gli uomini scambiandosi apprezzamenti sulle doti fisiche delle ballerine e le donne rimuginando tra loro della spudoratezza delle stesse che si mostrano "tutte ignude", le svergognate!
Finalmente si va in scena: nella Sala del cinematografo sono state aggiunte delle sedie, tanta è l'affluenza di pubblico e nell'aria, satura del fumo di sigarette, è tangibile l'eccitazione dell'attesa. Il vecchio sipario si alza e attacca subito una musichetta allegra accattivante cui segue l'entrata in scena delle Starlette. Sono sei belle ragazze coperte, si fa per dire, da lustrini e paillettes, che si dimenano agitando ventagli di piume di struzzo.
Nell'aria applausi e acclamazioni di entusiasmo, mentre in passerella si compie una svolta epocale dei costumi.
Ognuna di quelle ragazze ha lasciato la famiglia, magari rinnegata da genitori e parenti, per intraprendere una vita da girovaga e lontana dall'ideale di "brava fiola", guardando al futuro con la speranza di diventare celebre.
Già si sente parlare in giro di quelle che si sono fatte un nome nel firmamento dello Spettacolo: Laura Adani, Mistanguette, Isa Bluette...
Loro sì che sono ormai delle stelle.
La passerella accoglie le ballerine tra le acclamazioni degli uomini in sala che, mai hanno visto in vita loro tante gambe scoperte e che, ignari della cellulite e della ciccetta in eccesso, toccano il cielo con un dito pensando alle loro pudiche e appena accondiscendenti mogli.
Lo spettacolo finisce, il cinematografo si svuota, ma per gli artisti il lavoro continua. Spogliate dei lustrini e delle paillettes la luce delle starlette si spegne e tornano a essere le ragazze sempliciotte che hanno lasciato da poco le campagne.
Di paese in paese lo spettacolo continua, regala popolarità. Quando le ragazze sfilano seminude in passerella brillano di luce propria rappresentando nell'immaginario collettivo il meglio dell'Universo femminile.
Gli uomini lanciano loro dei bigliettini con delle avance... vogliono provarci, ma chissà se a qualcuno potrebbero piacere tanto da farne le donne della loro vita.
Un giorno qualunque dei nostri tempi.
«Stellin, guarda che viene notte e sto ancora aspettando che metti giù un po' di minestra per cena!»
Sono passati più di cinquant'anni da quando "la Sandrina", cedendo alle lusinghe del bell'Antonio, ha lasciato l'Avanspettacolo per diventare sua moglie.
«Farò di te una donna onesta!» Questa la promessa che le aveva fatto. In verità l'ha mantenuta, ma passata l'ebbrezza di aver conquistato la Stella del Varietà e del vantarsene con gli amici, è ben poco quello che realmente le ha offerto.
Senza lustrini e paillettes, per Antonio, la sua luce si è spenta. Lui non è riuscito a vedere oltre, non ha colto la profondità del suo amore. Quell'amore che per tanti anni le ha illuminato lo sguardo, quando lui le stava accanto, facendo di lei una vera Stella.
(fine)

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Demoni e stelle

(racconto fuori Gara: non ha votato, ma ha ottenuto il massimo punteggio)
Paolo Ninzatti
«Loki 14 a base Hel. Loki 14 a base Hel. Urgente. Chiedo contatto telepatico col Gran Satan, urgente!»
«Spero sia importante, lurida spia; Sua Maestà non gradisce essere disturbato per quisquiglie!»
«Allora riferisci tu, fatti bello, e fatti fottere, lacchè di merda. Ma ascolta! Apri il tuo cervello malato, ricevi e riferisci a Sua Maestà ciò che sto per comunicarti.»
«Quali novità porti da quel pianetucolo di scimmie un po' evolute? Una nuova guerretta in nome di qualche deuccio intagliato nel marmo o nel legno? O un novello despota che massacra i suoi sudditi perché non la pensano come lui. Oppure gente che si arricchisce alle spalle di altra che muore di fame? Queste cose piacciono a Sua Maestà. Vorresti abbindolarlo e fargli credere che sia merito tuo? Cosa ti aspetti. Una promozione?»
«Non ho buone notizie, e ho il dovere di informare Gran Satan di uno sviluppo a mio avviso allarmante.»
«Non mi dire! Qualche nuovo messia venuto a portare pace e saggezza tra quelle bestie? Sai meglio di me che dopo un po' li travisano a loro uso e consumo e inventano istanze per ammazzare e torturare. Perfino quello che predicava di porgere l'altra guancia. Dio lo vuole, Dio lo vuole, e alla fine salta fuori Torquemada. L'animaccia dell'inquisitore è uno dei miei ospiti preferiti, qui a Hel.»
«Niente messia e profeti stavolta; hanno lanciato una nuova stazione spaziale. Un piccolo passo verso le stelle.»
«Sai che paura! È da più di mezzo secolo che spediscono ferraglia attorno al loro pallone terracqueo. Le stelle sono ancora lontane per i bipedi. Probabilmente prima o poi, dopo un po' di ricerche scientifiche i militari si accaparreranno l'affare, ci monteranno un popò di missili e bombarderanno dall'alto qualche nemico. E delle stelle se ne faranno un baffo per qualche secolo ancora.»
«Non sta a te giudicare... con chi sto comunicando, tra parentesi? Riconosco le tue vibrazioni mentali. Sei quel cane di Karon?»
«Non offendere! È solo a Kerber che sono stati inseminati geni di quell'animale terraiolo. Io sono razza pura. E non ho cloni in giro, come voi dello stadio 3. Sei l'originale oppure una copia? Loki, non mi ricordo quale? 14? Quante copie ne ha fatte Sua Maestà? Voi siete creati in serie. Io sono unico, invece!»
«Sempre a fare gli smargiassi, voi degli stadi superiori, a vantare chissà quali glorie! Il giorno che la nostra razza sarà solidale conquisteremo NOI le galassie e butteremo fuori gli Ankeles dall'Universo! Non mi stupisce che quei vomitevoli piumati abbiano sempre il sopravvento!»
«Loki, non ti crucciare, è la nostra natura. Individualisti ed egocentrici, tutti per nessuno, nessuno per tutti. Da un lato, se fossimo esempi di virtù come gli alati piumati il nostro compito di portare alla perversione i bipedi umani andrebbe a farsi benedire... oddio, cosa ho detto! E al diavolo le stelle, nel senso. Che cosa ce ne facciamo? Io sto bene nel mio buco nero a teleportare i resti non corporei, le vibrazioni, le aure, anime o comecazzosichiamano, di canaglie ignoranti.»
«Certo, bestia ingrata, quelle che noi abbiamo manipolato a dovere, allettato e tentato. Noi qui al fronte a farsi il culo, e voi a goderne i frutti, ben pasciuti al buio. Se tutti voi, intorbiditi nel vostro egoismo condivideste un po' di metafisica con chi se ne sta sul pianeta delle scimmie a combattere per Sua Maestà sarebbe una benedizione. Scusa il termine blasfemo, hai bestemmiato anche tu, ti faccio il verso. Sapessi la nausea che mi danno le stelle. E immaginati il supplizio di quando quella locale sorge, quel maledetto sole. Fa male, Karon! Ma voi di compassione e pietà non ci capite un accidente. Beati nel vostro buco nero a paciugarvi nella tenebra.»
«Invidia, eh!»
«Certo, e che altro? Almeno lo ammetto. La tua superbia invece è nascosta tra le trasmissioni di pensiero.»
«Vai tranquillo che anch'io sono invidioso. Di Sua Maestà. Ci tiene tutti all'oscuro, anche nel senso metaforico. Sapessi come vorrei capire il suo disegno! Ma perché si incaponisce a giocare a rimpiattino con gli Ankeles sullo sviluppo dei bipedi terraioli? Impedire alla terza razza di arrivare alle stelle a far compagnia ai piumati che spadroneggiano per le galassie è coerente, ma cercare di portarvici NOI è incomprensibile. Le nostre premesse porterebbero al trionfo delle forme pensiero negative, del buio. Perché quindi tutta questa lotta millenaria per farci uscire dai buchi neri anziché dare la possibilità a questi di fagocitare tutto l'universo cancellando per sempre le stelle. A che pro arrivarvi e contaminarsi con la Luce? Tanta fatica per nulla.»
«Karon, godo nel vederti rodere l'animaccia! Chiuso nel tuo buco nero infernale ti stai rabbuiando la mente. Noi qui al fronte, invece stiamo comprendendo il disegno. Imbastiamo teorie e scommettiamo. E se tutto fosse un processo per far proliferare forme pensiero positive sfruttando il nostro millenario sforzo di negativizzarle? Li osservo gli scimmioni senza peli. Qualche migliaio fa casino, ma da ogni casino salta fuori quello che lo sfrutta per rimediare allo stesso. Basta una fiaccola in una caverna oscura e già le ombre si dissipano. Basta una stella nella notte e già trovi la strada. E le stelle sono tantissime.»
«Se sua Maestà capta pensieri del genere ti spedisce dritto qui per disfattismo!»
«Denunciami e mi fai un favore. Le stelle mi fanno schifo. Ho bisogno del buio. Finché dura. Forse tra qualche millennio la Luce delle stelle arriverà anche a Hel.»
«Pagherai tali bestemmie restando dove sei! Non ti denuncio. Continua a soffrire!»
«Ho appena captato un barlume di paura nelle tue vibrazioni mentali. Ancora pochi millenni, Karon! Goditi il buio finché puoi. Lo Spirito sia con te! All'inferno!»
(fine)

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Stella

(racconto fuori gara: non ha partecipato, ma l'ha organizzata)
Lodovico
Sono una stella.
Una di quelle luminose, una di quelle là fuori, fuori dalla finestra della mia camera. Stesa sul letto le contemplo, nel buio della notte, in quel tempo più vicino all’alba che al tramonto. Il paese dorme, io no. Le lenzuola mi solleticano la pelle nuda, avvolgono i miei seni, il ventre piatto, le gambe affusolate. Fa caldo.
Sono una stella.
Me lo ripetono da quando, ancora incapace di leggere, volteggiavo in tutù davanti a decine di persone per il saggio della scuola di ballo. Un metro e poco più di leggiadria su due scarpette bianche. Me l’hanno detto quando, nato un seno ancora troppo piccolo per non essere ridicolo, passavo ore a sforzare le tonsille per ottenere la nota, quella nota, quella giusta, quella che mi avrebbe permesso di diventare una cantante. Ancora lo dicevano il giorno in cui, sbocciata nella mia bellezza adolescente, venivo cinta da quella fascia. Miss muretto di Alassio. Bella, più bella, più di tutte le altre. E brava, più brava. Me lo ripeteva Lucio, mio padre. Mi diceva di inseguirlo, il sogno. Lucio, si faceva chiamare, non papà. Quanto avrei voluto chiamarlo papà. Quanto avrei voluto avere un papà. Il sogno. Il nostro sogno, il suo sogno.
Sono una stella.
Quanti me l’hanno ripetuto! Quanti mi hanno guardata, quanti mi hanno giudicata! Lì davanti, io, nuda anche con indosso i vestiti, e loro a valutare quanto stava dentro di me, ma ancora più a giudicare quanto stava fuori. Quanti me l’hanno ripetuto. Negli anni. Troppi anni. Troppi. Perché il sogno è così. È lì davanti, lo tocchi, ne senti il sapore, l’odore, basta allungare la mano. Ma si allontana, pian piano si allontana, e tu ti sporgi e quasi ci arrivi. Quasi.
Sono una stella.
E un giorno lo tocchi, anzi, è lui che tocca te. Ti tocca e ti sta sopra. Sudato, ansimante. Tre volte i tuoi anni, due volte il tuo peso, cento, mille, diecimila volte i tuoi soldi. E te lo promette: sarai una stella. Dopo questa notte. E passi il tempo a guardare il soffitto, a cercare di non ascoltare il cigolio del letto, a non vedere i suoi peli sulla schiena bagnati. Per non farle uscire, le lacrime. E ringrazi il cielo quando rotola di fianco.
Sono una stella.
Stavolta lo sarò sul serio. Sarò una stella. Una di quelle luminose, una di quelle là fuori, fuori dalla finestra della mia camera. È la volta buona, lo sto per diventare. Poche ore ancora. Poche ore e la mia mamma aprirà la porta della stanza.
Poche ore e vedrà un corpo bellissimo, nudo, freddo come il marmo. Lo vedrà fermo. Vedrà le scatole dei sonniferi e la bottiglia di whisky sul comodino. E vedrà quel bastoncino. Quello del test di gravidanza. Lo vedrà rosa. E capirà. E in alto, nel cielo, anche se il sole del mattino ne nasconderà la luce, una nuova stella con accanto ad una stellina piccola, troppo piccola per essere vista. Perché, qualche volta, anche le stelle si spengono.
(fine)

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