
Indice:


Gara 56
Amicizia ritrovata
novembre 2015
antologia per BraviAutori.it
da un'idea di Ida Dainese
illustrazione di copertina: foto di Loris Prandin
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringrazia Massimo Baglione per il supporto e gli Autori di questa raccolta per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia
Il bando
Un’amicizia può nascere sui banchi di scuola, sul posto di lavoro, durante un viaggio, o sul finir della vita.
Può essere un’amicizia della stessa età o dello stesso sesso, ma anche di sesso diverso e di età differente.
Può essere tra persone di diversa nazionalità e cultura, ma anche tra fratelli o compagni di disgrazie.
Spesso, però, i fatti della vita ci obbligano a seguire strade alternative o solitarie, qualche amico si perde per strada, per la lontananza fisica, per la diversità delle opinioni, per una scelta che non condividiamo, per una grave offesa, persino per una malattia o per la morte.
Però, qualcosa di questi amici ci resta comunque dentro, qualcosa che nel passar del tempo ce li fa cercare con la speranza di riannodare il legame.
A volte li ritroviamo, a volte invece arriviamo tardi, ma loro ci lasciano delle tracce, delle prove, e possiamo dire di averli raggiunti comunque.
Ogni autore ha narrato una propria immagine di amicizia ritrovata:
Nel rapporto tra due umani con un gatto, nuovo esemplare di antica amicizia.
Nel ricordo felice di una bambina verso due donne sfortunate, conosciute appena.
In una foto riapparsa all’improvviso che risveglia nei nipoti il ricordo di un nonno.
Nel ritrovare il nome di una compagna di scuola, amica di un periodo duro.
In un incontro tra due ex compagni di scuola ora agli antipodi.
In un’amicizia d’infanzia che si sfalda e si disgrega in cattiveria vuota.
In una crescente complicità tra due persone che si scambiano messaggi al computer.
Buona lettura!
Ida Dainese
Un vecchio amico
(racconto primo classificato)
Carlo Celenza

Sapete cos'è un ronfa-morde?
Ovvio, un gatto che mentre ti morde ronfa.
Sarà anche ovvio, porca miseria, ma il mio mi morde a sangue e questo non mi sembra tanto ovvio.
Io glielo lascio fare. Potrei sgridarlo, dargli il classico colpetto sul sedere. Sedere? Lo so che i gatti non hanno il sedere ma insomma lì, dove alzano la coda, ma non lo faccio.
Mi sento in colpa, per lui questa casa è un carcere; vivo in un secondo piano, non può andare e venire come gli pare, come farebbero e fanno tutti i gatti normali, lui non esce.
Io, non lo faccio uscire.
Ho paura, me ne sono morti tanti che avevo promesso, avevamo promesso, io e mio figlio che coi gatti basta così, ma il gatto in casa ci mancava.
I "ti ricordi Goffo?" o "ti ricordi Kikio?" ci lasciavano nel silenzio.
Io sono separato, mio figlio ha voluto vivere con me e quindi la mia è la casa di due uomini.
Non ci sono tendine alle finestre e non c'è il servizio della domenica. Tra di noi non siamo molto formali, ognuno fa quel che crede durante il giorno ma la risultante è che ognuno di noi vive da solo la maggior parte della giornata.
Quando tempo fa mi ha proposto un cagnolino, ho capito che a casa mancava qualcosa.
Padre e figlio di solito sono piuttosto trattenuti nei loro rapporti, non hanno modo di mostrare il loro lato tenero ma quando c'è un gatto in casa tutto cambia, facciamo i gridolini, lo coccoliamo dicendogli un mare di sciocchezze e alla fine un pizzico di gioia e allegria rientra in casa.
Queste però sono solo considerazioni a posteriori, non è pensando a quello che ho voluto un gatto in casa, e non me lo sono andato a cercare, è stato un mio caro amico a chiamarmi.
- Vecchio – così mi chiama e non ha torto a farlo – vieniti a prendere il gatto. –
L'ho trovato davanti all'officina con un tigrato grigio in braccio.
Quasi piangevo mentre me lo mettevo in braccio.
Ha girato per la macchina mentre lo portavo a casa, ma senza diventare isterico, si limitava a guardarmi con i suoi occhioni dolci come a chiedermi se si doveva preoccupare, ma ho imparato a fare come loro, mentre lo guardavo chiudevo per un attimo gli occhi per non mostrare aggressività e lui alla fine si è accoccolato sul sedile del passeggero continuando a guardarmi, già si fidava.
Ora è con noi da due mesi, forse ne avrà quattro, ha ancora le unghie come spilli, è ancora un cuccioletto, ma è maschio e non lo farò sterilizzare, quindi se ora mi morde a sangue per quando sarà adulto è meglio che mi procuri delle protesi.
Mi sento in colpa per tenerlo prigioniero in questo modo ma il mio vicino di casa ha una gatta adulta, sterile per fortuna. Già hanno fatto conoscenza e passano da un balcone all'altro, possono tenersi compagnia, penso.
Il gatto è un predatore, farlo vivere tra quattro mura è forse crudele e mi faccio mille colpe per questo, ma qui con noi è al sicuro, non avrà mai freddo o fame, non sarà inseguito dai cani o investito da un'auto, non sarà esposto alla crudeltà di qualche bulletto che si diverte a sentire le sue grida mentre scappa con il pelo in fiamme.
In ogni casa serve un centro affettivo, qualcuno su cui senza timore riversare un affetto troppo spesso timidamente tenuto nascosto, oppure buio e noia ti sommergono.
Quindi vecchio amico ritrovato mordimi pure, ne hai tutto il diritto anche se so che non lo fai per rabbia.
Quindi vecchio amico ritrovato mordimi pure, ne hai tutto il diritto anche se so che non lo fai per rabbia.
Da come ti vedo e da come conosco i gatti penso che diventerai uno di quei maschiacci massicci e pieni di testosterone e che dovrò anche trovare il modo di farti sfogare tutta quella aggressività in qualche modo; ho sentito di centri di vacanza per gatti, devo informarmi meglio, ma con te questa casa di due uomini ha ritrovato tante cose.
Non puoi fare del bene senza fare del male, non so chi lo ha detto, ma è una cosa che ho sentito e mi ha fatto riflettere.
Anche nell'affetto più disinteressato c'è del male assieme a tanto bene, ha ragione Vasco, è tutto un equilibrio sopra la follia.
(fine)
L’amicizia mancata
(racconto secondo classificato)
Skyla74

Olga era amica di mia nonna. Nei pomeriggi invernali prendevano il the insieme. Con biscotti. E mai che Olga portasse i biscotti. Così mia nonna si arrabbiò. Chiuse la porta sulla strada, allora sempre aperta e Olga aspettò fuori, sulla via che portava alla chiesa. Per niente. Tornò il giorno dopo, poi non venne più. Io avevo sei o sette anni. Mi mancavano quelle chiacchierate, quando ero in visita dalla nonna. Olga mi vezzeggiava. Poi si rabbuiava. Raccontava del figlio che si era sposato con una donna cattiva. Si era fatta intestare tutto, poi buttava fuori casa Olga ad ogni momento con la scusa che loro erano giovani e volevano starsene in pace senza una vecchia che ciondolava senza far niente. Mia nonna e Olga erano amiche? Forse, ma erano tempi difficili e mia nonna sempre in bolletta. The con biscotti per due erano troppi, per una che faceva economie anche sulle bustine di the che riciclava.
Olga si suicidò sei mesi più tardi. Si buttò nel fiume che separa il paese dalla città, verso le cinque di una sera di autunno. Mia nonna disse: «Proprio lei che aveva il terrore dell’acqua». Andò al funerale. E non se ne parlò più. Va compresa. Era cattolica e abituata a stringere i denti fin da piccola. Lo visse come un tradimento.
Giuseppina era una delle nostre vicine di casa. La vita era stata particolarmente crudele con lei. Le aveva dato un marito che la riempiva di botte tre sere al mese. All'epoca se chiamavi i carabinieri ti chiedevano «E’ in pericolo di vita? No? Allora aspettiamo un po’ che sono cose coniugali». E noi aspettavamo che le cose coniugali finissero. Solo che la mia sorellina piangeva per le urla che venivano di là del muro. E il rimbombo di quelle botte sulla carne. Non so se le avete mai sentite. E’ lo stesso rumore che fa un battipanni su un tappeto, solo che ogni tanto Giuseppina sbatteva la testa contro qualcosa. Il letto. La gamba di un tavolo. Quella sera mia mamma corse dalla mamma di lui che abitava al piano di sotto. Si fecero coraggio e suonarono al campanello. Ci vollero dieci minuti. Lui aprì la porta e le mandò affanculo. Però smise. Giuseppina camminò sbilenca per giorni. Andava e veniva dal bar per prendere il vino per il suo padrone. La figlia di lei fu informata. Se la prese in casa come tante altre volte, ma ovviamente non durò. Strana logica seguono le donne votate al martirio. Figlia di ignoranza, stupidità e autolesionismo. Alla fine fu lui a dirle che gli faceva schifo e a scappare con una più giovane, che dicono trattasse coi guanti di velluto. E a Giuseppina non restò che raccogliere la commiserazione della gente.
Faceva tenerezza a tutti, povera donnona grassa e senza un soldo, a parte quei pochi che le passava la figlia, separata e con figli sul groppone.
Per arrotondare, Giuseppina cominciò a cuocere torte per il vicinato. Poi le vendeva. Diecimila lire a crostata. Mia mamma si entusiasmò subito, è una donna generosa. Una crostata a settimana, due. Noi bambini eravamo entusiasti ma la mamma lavorava per vivere. Ben presto non riuscì più a stare dietro a tutte quelle crostate. Quando il profumo del lievito inebriava il cortile condominiale sapevamo che Giuseppina aveva bisogno di soldi. Per le calze. Per il detersivo. Per gli spaghetti.
Ricordo l’ultima volta in cui Giuseppina si presentò alla porta di casa nostra, con la sua bella crostata piena di frutta. Mia mamma rifiutò gentilmente. La porta si chiuse. Chissà cosa ne fu di quella crostata. Alla fine si chiusero le porte di tutto il vicinato. Un po’ per l’orgoglio di non dover ammettere che alla fine eravamo tutti in bolletta, magari non tanto quanto lei ma poco meno, un po’ per l’eccessivo entusiasmo di quell'aroma di vaniglia che serpeggiava per i terrazzi, tra la biancheria stesa. Cominciarono tutti ad evitarla.
Giuseppina si gettò nello stesso fiume di Olga, anche lei di pomeriggio, anche lei sotto gli occhi dei passanti. Dicono che l’uomo che cercò di afferrarla sia rimasto col suo golfino stretto tra le mani.
Il marito vive ancora oggi nello stesso appartamento, ormai diroccato, con la sua donna, ormai vecchia. E cosa ne sarà stato del figlio di Olga e la nuora cattiva? Chissà.
Dicono che i luoghi dove sono avvenute tragedie portano impresso per sempre il ricordo di ciò che è successo. Dove hanno sofferto di più quelle poverette? Nella loro vita quotidiana? Nelle acque del fiume che le ha accolte?
Povere donne sole. Senza soldi, senza affetti.
Eppure c’è qualcosa di queste donne che mi è rimasta dentro, qualcosa che col passare del tempo me le ha fatte cercare nella memoria con la speranza di riannodare il legame. Di ricordarle. Di salutarle e dir loro che sono esistite nonostante tutto. Olga con le sue chiacchiere che mi trattava come una piccola principessa. E Giuseppina e le sue torte deliziose.
Questo racconto è per voi.
(fine)
Una storia che inizia all’alba
(racconto terzo classificato)
Alberto Tivoli

Ludovico si alzò sulle punte dei piedi, fletté le dita e spinse in avanti.
Gli spigoli del libro colpirono il tetto dello scaffale, il volume rimbalzò indietro e aprendosi come una corolla precipitò dalla libreria.
– Ma che combini! – lamentò Teresa.
– Scusami, scusami. Ti sei fatta male?
La donna arricciò le labbra e si massaggiò la spalla offesa – sei così maldestro.
I due, in ginocchio tra ziggurat di libri e scatoloni alla muffa, si guardarono negli occhi e sorrisero. – Facciamo che tu me li passi e io li sistemo? –
propose lei, carezzando la guancia a grattugia del fratello.
Sul pavimento, un Mowgli caffellatte, con una smilza Shere Kan issata sopra la testa, fissò Teresa sorgere dietro le spalle di Ludovico, in equilibrio su una scaletta pieghevole.
– Allora, qua in alto mettiamo tutti i Mursia. Me li passi?
L’uomo saggiò la copertina con i polpastrelli e gli sembrò di percepire il fresco del cielo e il caldo della terra disegnati sul cartoncino. Strinse tra l’indice e il pollice le pagine e le fece frusciare con l’eleganza di un prestigiatore che serve un mazzo di carte. E il caso gli servì una figura.
– Che c’è? – chiese Teresa – si è rotta la rilegatura?
– Ero convinto di averla persa, l’avevo cercata così tanto – mormorò
Ludovico.
Prese tra le mani una fotografia in bianco e nero, lo sfondo ingiallito e macchiato, gli angoli screpolati e solcati di pieghe. La fissò fino a sfocarne i bordi che accesi dai racconti e dall’immaginazione lo avvolsero vibrando.
L’alba nel deserto può essere l’unico momento buono della giornata, un istante di separazione tra il freddo inesorabile e il caldo sfiancante.
Franco buttò giù l’acqua calda e stringendo il fucile cercò una posizione più comoda contro la murata della trincea.
Si lisciò la pelle del viso. Diceva che era come la striscia di fosforo spalmata sui bordi delle scatole degli svedesi – rossi che il sole ci cuoce, e ruvidi, ruvidi, anche con la barba fatta, vedi che le dita non scivolano. – Fatti bello – gli aveva risposto Camillo – che ‘sta foto la mandi a tua moglie, falle credere che stai al sicuro e in salute.
Così Franco si era messo di fronte a una tenda nuova, spalancata a mostrare le scatole con le etichette che facevano venire l’acquolina in bocca; si era chiusa la giacca dell’uniforme e spazzolato i pantaloni; aveva messo via l’arma e calzato il berretto, di sbieco; e si era infilato una mezza sigaretta tra le labbra, quasi per caso, come quando passeggiava a braccetto con Nina sotto i portici del centro.
E forse Nina, sperò, proprio quella mattina avrebbe ricevuto la fotografia con scritte sul retro le sue carezze, i suoi sorrisi e i suoi baci, per lei e per l’anima di quel bambino che avevano chiamato al mondo ma che lui non aveva ancora conosciuto.
Ma, nel deserto, il sorgere del sole può anche segnare il momento peggiore della giornata: un fischio, un lampo e il terremoto; un fischio e poi il buio.
Ma, nel deserto, il sorgere del sole può anche segnare il momento peggiore della giornata: un fischio, un lampo e il terremoto; un fischio e poi il buio.
– Una scheggia lo accecò per sempre. Quasi morì, povero nonno.
– Era bello, vero? Era proprio un bell’uomo – disse Teresa – mi sarebbe piaciuto ricordarlo.
– Ho imparato a leggere con lui – spiegò Ludovico – gli leggevo i romanzi d’avventura mentre lui ti faceva giocare sulle ginocchia. Salgari, Verne, Kipling ci piacevano a tutti e due.
– Davvero? E io stavo a sentire?
– Ridacchiavi, a volte facevi un pisolino, quasi sempre facevi i capricci.
Teresa mise il broncio e il fratello gli tirò il naso.
– A lui piacevano pure i gialli, i thriller. Però diceva che ero ancora piccolo e che glieli avrei letti più avanti.
– È merito di nonno – dichiarò lei – è merito suo.
– Direi proprio di sì. Mi ha fatto innamorare dei libri e io cercavo di interpretare i diversi personaggi, facevo le parti e lui faceva certe facce!
Fratello e sorella restarono in silenzio, rapiti dalla vecchia fotografia.
– Quando è morto – riprese Ludovico – ho continuato a leggere ad alta voce e a recitare i dialoghi, mi scambiavo anche di posto quando passavo da un personaggio all’altro.
– Questo me lo ricordo, giocavo anch’io con te! Tu facevi sia Fogg che Passepartout e io facevo Auda.
Ludovico scoppiò a ridere – mi ricordo che quando recitasti la parte in cui lei dichiara il suo amore a lui, non riuscivi a toglierti una smorfia come per dire che l’indiana era tutta scema a volersi sposare quell’inglese convinto di essere ormai in bolletta!
– E poi ho ricercato quei nostri giochi nel teatro – proseguì, annuendo – sono stato fortunato a farne un mestiere.
– E poi ho ricercato quei nostri giochi nel teatro – proseguì, annuendo – sono stato fortunato a farne un mestiere.
– Pensavi di averla persa?
– Sì, la cercai per giorni, ormai erano anni che non ci pensavo più.
– Papà ha altre foto di nonno in guerra.
– Ma questa è speciale, era solo mia e la usavo come segnalibro. È l’ultima foto di nonno ancora in grado di vedere. Quegli occhi, sotto l’ombra del cappello, stavano per chiudersi per sempre.
– Non pensasti di cercare tra questi vecchi scatoloni?
Ludovico scrollò le spalle – erano seppelliti in cantina, nella casa vecchia. C’è stato un periodo che li volevo buttare.
– Ora hai tutto lo spazio che vuoi. Puoi tappezzare le pareti di librerie.
– Nonno per me è stato un amico, e con quella foto mi è stato sempre vicino, anche dopo la sua morte. L’avevo perso. Durante tutti gli anni da incubo che vi ho fatto vivere ho rinnegato lui e tutta la famiglia.
Teresa si sporse verso il fratello, abbracciandolo – Ora è passato tutto, sei stato forte, è tutto passato.
Lui accarezzò la vecchia stampa, lasciando scorrere le lacrime lungo le guance incavate – Ho perso me stesso e ho perso nonno. Se non fosse stato per te mi sarei bevuto l’anima.
– Vi siete ritrovati, e questa volta per sempre – gli disse la sorella, soppesando la vecchia edizione che le era piovuta sulla testa – che dici, tu fai Mowgli e io Shere Kan?
Ludovico le sorrise – Credo che per te sia più giusta la parte di Bagheera.
Ludovico le sorrise – Credo che per te sia più giusta la parte di Bagheera.
(fine)
Lucia
Patrizia Chini

Era stato mio padre, in quel lontano 1960 e contro il parere di mia madre, ad affidare la mia educazione e il mio avanzamento negli studi, alla competenza e all’esperienza delle suore di un istituto religioso a poche decine di chilometri da casa mia, in uno dei paesi che tutto il mondo conosce come "Castelli romani".
Non ho altri ricordi del giorno in cui vi arrivai se non la sensazione di smarrimento che mi colse quando, dopo aver salutato i miei, mi ritrovai sola nel grande dormitorio dove mi aveva accompagnato una suora per assegnarmi letto e armadietto. La religiosa, che era sparita mentre ero intenta a disfare la valigia, si riaffacciò dopo poco e, senza troppi preamboli, mi disse che dovevo sbrigarmi a scendere per la cena al piano terra, dove si trovava il refettorio. Scesi una rampa di scale e mi ritrovai persa di nuovo... in giro non c’era anima viva e nessuna traccia di altre scale.
Riapparve la suora che mi aveva sollecitato.
─Ma dove vai? Dai, vieni con me!─ lanciandomi un’ancora di salvataggio che mi tirò fuori dal blocco che mi attanagliava: respirai di nuovo e le lacrime, trattenute a lungo, sgorgarono copiose.
Oggi, dopo tanti anni, sullo scaffale dove sono allineati i libri che conservo con più cura, c’è quello di Economia Domestica, disciplina annoverata tra quelle del piano di studi della Scuola Media di quei tempi. Lo prendo spesso in mano, lo apro alla prima pagina, dopo la copertina, accarezzo con le dita la dedica "Con affetto, Lucia" e comincio a ricordare…
Al terzo anno di permanenza in quell’istituto ormai mi consideravo una veterana sia come "interna" che come alunna della terza media la cui sede era all’interno dell’istituto stesso.
Avevo una buona considerazione da parte delle insegnanti, come pure della direttrice e delle altre suore. Non ero mai stata ripresa per motivi gravi o in qualche modo eclatanti ma...
Nella vita c’è sempre un "ma" che, quando meno te l’aspetti, cambia le carte in tavola e il corso degli avvenimenti.
C’era, tra noi interne, una ragazza taciturna, una mia compagna di classe, Lucia, con la quale le nostre tutrici ci avevano precluso il piacere di instaurare rapporti amichevoli o altri tipi di intrattenimento anche solo verbale. Le solite ben informate dicevano che era stata scaricata in collegio per prevenzione e le avevo sentite sussurrare:
─… perché è rimasta incinta!
Nel mese di aprile ero stata a lungo malata per la complicanza di un’influenza mal curata e costretta a rimanere a letto e ad assentarmi da scuola.
Ancora ho nelle orecchie lo sbuffare delle suore novizie che venivano a portarmi il pranzo o la cena su fino al quarto piano dove riposavo in un letto del grande dormitorio.
─ Ma ancora non sei guarita? Hai ancora la febbre?─ esordivano ogni volta…
Quando, finalmente guarita, tornai a scuola era rimasto un solo mese per prepararmi agli esami e nessuna compagna libera e disponibile a studiare con me, tranne Lucia a cui, però, non potevamo rivolgere la parola. Chiesi, senza temerne il sicuro biasimo, alla direttrice il permesso di studiare con quella compagna… e tanto feci che riuscii a strapparle un consenso condizionato.
─Potete studiare insieme ma solo rimanendo bene in vista, sotto il controllo delle vigilatrici e solo nella stanza adibita a studio. Non dovete fare "comunella" durante la ricreazione in giardino o nel grande spazio davanti al refettorio. Solo a queste condizioni...
Quel permesso strappato con la mia caparbia ancora oggi mi stupisce per l’intraprendenza che forse non ho mai più avuto.
Quel permesso strappato con la mia caparbia ancora oggi mi stupisce per l’intraprendenza che forse non ho mai più avuto.
Studiammo ma non le chiesi mai nulla del suo segreto, non volli sapere e non perché mi era stato proibito, ma per il rispetto che ho sempre avuto per l’altro, per quella che oggi chiamiamo "privacy".
Fu comunque dura. Mi sembrava di essere nel parlatorio di un carcere, sempre osservate, controllate e richiamate se ci scappava qualche sorriso o scambiavamo qualche parola non inerente all’argomento di studio e… purtroppo (ma oggi dico per fortuna) ci lasciavamo andare sempre più spesso e questo trasgredire insieme ci univa sempre di più.
Contemporaneamente perdevo tutta la considerazione positiva, il titolo di brava ragazza che mi ero conquistata negli anni precedenti.
Contemporaneamente perdevo tutta la considerazione positiva, il titolo di brava ragazza che mi ero conquistata negli anni precedenti.
Mi stavo affezionando a Lucia e non riuscivo a nasconderlo.
Mancavano pochi giorni agli esami e l’atmosfera era pesante e tesa nel dormitorio dove ci stavamo preparando per metterci a letto. La suora, una creatura asessuata e spigolosa, scarna e alta, che avrebbe dormito con noi nel suo grande letto protetto da una tenda bianca, ci invitò ad ascoltarla.
Cominciò a raccontare una barzelletta che doveva, nelle sue intenzioni, rilassarci e predisporci a un sonno tranquillo. Io non riuscivo a seguirla, mi giravo a guardare la mia amica, sola, seduta sul suo letto perché non aveva voglia di unirsi a noi.
Aveva momenti di malinconia e si appartava… chissà quali pensieri le passavano per la testa, quali esperienze dolorose ricordava? Stavo male vedendola in quello stato, chiedevo aiuto con gli occhi alla suora che sicuramente aveva capito, ma che per tutta risposta non seppe far altro che alzare la voce e invitarmi a guardarla senza distrarmi.
"Senza distrarmi"?… Non la ressi più.
"Senza distrarmi"?… Non la ressi più.
Mi alzai e mi diressi verso la mia amica incurante dei richiami e delle minacce gracchiati dalla religiosa alle mie spalle.
Sedute sul suo letto, dopo il mio "Che fai?" e il suo "Niente", rimanemmo senza parlare e senza far altro che guardare nel vuoto. Quando cercavo il suo sguardo poche volte accettò il mio invito, ma io rimasi accanto a lei ugualmente, mi sembrava di aiutarla a portare un peso, anche in silenzio.
Quando me ne andai a letto lei mi sorrise...
Il suo sorriso mi ripagò di tutto, dei rimproveri e dell’espulsione che mi fu inflitta per la disubbidienza ma soprattutto per aver alzato la voce, il giorno dopo, nel rivendicare i diritti di chi è in difficoltà e di averli difesi con forza senza piegare la testa davanti alla direttrice.
(fine)
Amico ritrovato
Giorgio Leone

Esitai solo qualche secondo, poi bussai nervosamente alla porta. Anche se il motivo per il quale ero stato convocato a Palazzo di Giustizia era assolutamente ridicolo, con i magistrati non si può mai sapere.
- Avanti! – squittì qualcuno dall’interno ed entrai.
La stanza sembrava quella di Montalbano. Mobili polverosi degli anni ’20, sulle pareti stampe ingiallite e raccolte di varie annate della rivista "Il Carabiniere", più in alto un Crocifisso e la foto di Mattarella rigorosamente sfuocato come appare in televisione e ogni volta nessuno si ricorda chi è, meno male che ci sono i sottotitoli.
- Si accomodi, sig. Bellotti – disse l’ometto seduto alla scrivania, poi alzò gli occhi e lo riconobbi immediatamente.
- Ma guarda chi si vede, nientepopodimeno che cagasotto! Ti trovo bene dopo tanti anni! – annunziai amichevolmente, pentendomi però subito perché non ho mai imparato a tenere la bocca chiusa. Lui sobbalzò e impallidì, poi mi guardò con odio. Per un attimo voltò lo sguardo verso quello che probabilmente era il suo segretario o il cancelliere che stava seduto a una scrivania alle sue spalle e ridacchiava, ma fu svelto a ricomporsi.
- Mi dia del "lei" come faccio io e stia attento a quello che dice. Evidentemente mi confonde con qualcun altro.
- Ma figurati! Siamo stati tredici anni insieme a scuola, come posso sbagliarmi?
Lui sospirò e si rivolse al segretario.
Lui sospirò e si rivolse al segretario.
- Tuturro, vada a prendersi il caffè, che è l’ora. Torni fra dieci minuti che iniziamo a verbalizzare.
Quello si alzò e mentre passava mi guardò con compatimento.
- Mi sa che hai fatto proprio una grande stronzata! – disse acido il magistrato – Cagasotto! Era una vita che nessuno mi chiamava più così. Qua dentro ero piuttosto rispettato, almeno sino a stamattina, ma di certo Tuturro ora starà spettegolando al bar. Non aspettava altro!
- Ma dai, cag... voglio dire Enrico, non te la prenderai per una simile stupidata? Abbiamo passato insieme molti anni meravigliosi e le amicizie nate sui banchi di scuola non hanno mai fine, anche se le vicende della vita ci fanno seguire strade diverse. Qualcosa comunque resta dentro, qualcosa di unico e straordinario che ci rende fratelli per sempre.
Per la verità stavo esagerando un po' perché cagasotto era il nostro bersaglio preferito, quello che in nessuna classe scolastica manca. Oggi si chiama stalking, bullismo o mobbing, ma allora era solo un modo di divertirsi infliggendo ogni genere di vessazioni e umiliazioni ai più deboli. E cagasotto era il soggetto ideale perché aveva paura anche della sua ombra e gli era impossibile reagire. Però ricordavo benissimo di avergli regalato una merendina che sospettavo essere avariata perché era restata per quattro mesi nel mio banco prima che la ritrovassi casualmente.
Per la verità stavo esagerando un po' perché cagasotto era il nostro bersaglio preferito, quello che in nessuna classe scolastica manca. Oggi si chiama stalking, bullismo o mobbing, ma allora era solo un modo di divertirsi infliggendo ogni genere di vessazioni e umiliazioni ai più deboli. E cagasotto era il soggetto ideale perché aveva paura anche della sua ombra e gli era impossibile reagire. Però ricordavo benissimo di avergli regalato una merendina che sospettavo essere avariata perché era restata per quattro mesi nel mio banco prima che la ritrovassi casualmente.
- Dai, non fare così - gli dissi conciliante - ti ricordi di quando ti ho regalato quella merendina?
- Come no, sono finito in infermeria! Ma comunque il vero problema non è come mi hai chiamato. Ora siamo in un vicolo cieco perché Tuturro sa che siamo amici.
- E allora? Che male c’è?
- C’è che per la mia posizione devo essere come la moglie di Cesare – rispose confermando quello che avevo sempre pensato, e cioè che fosse gay - ovvero devo essere al di sopra di ogni sospetto e non dare adito a chiacchiere. Nessuno deve pensare neppure lontanamente che ti possa favorire per i nostri trascorsi. Con te, quindi, sarò assolutamente imparziale, anzi più che imparziale. Non stupirti quindi se sarò scrupolosissimo e fiscalissimo, senza alcun cedimento.
Ecco, ci risiamo, pensai. Nessuno cambia mai veramente e cagasotto è rimasto infatti un cagasotto. In quel momento rientrò Tuturro ed ebbe inizio la verbalizzazione.
- Lei, Bellotti, è davanti al P.M. perché accusato di sette stupri aggravati, come da informazione di garanzia che ha ricevuto.
- E qui la fermo subito, dottore! – intervenni adeguandomi a fatica al "lei" – Lo stupratore, come può vedere proprio dall’avviso, è nato come me a Milano lo stesso giorno dello stesso mese, ma trentacinque anni più tardi, ovvero nel 1984. Ha trentuno anni, quindi, mentre come evidente io sto andando per i settanta. E’ un chiaro caso di omonimia, un errore facilissimo da correggere.
- Questo lo dice lei! Non è che qui ci possiamo basare sull’apparenza fisica, che varia da persona a persona e può anche essere alterata. Tanto per fare un esempio i notai sembrano già vecchi a trent’anni e non cambiano più aspetto sino a quando campano.
- Però ci sono tutti i miei documenti e il certificato di nascita, che le ho portato in originale e fotocopia.
- Però ci sono tutti i miei documenti e il certificato di nascita, che le ho portato in originale e fotocopia.
- Deve sapere che qui dentro siamo abituati a vedere più documenti falsi che veri. Oggi con un computer si può fare qualunque cosa.
- Ma tutto questo è assurdo! E poi la mia età lei la conosce benissimo perché siamo stati a scuola insieme.
- Guardi che c’è un equivoco. Io sono il suo accusatore, non un testimone a discarico. Quindi temo proprio che lei dovrà essere processato e, già che ci siamo, fisso la prima udienza fra tre anni. Nel frattempo se ne starà a San Vittore perché gli stupratori sono noti per la reiterazione del reato.
- Ma porca puttana, cagasotto, spero proprio che tu non faccia sul serio per vendicarti, altrimenti, quant’è vero Dio giuro che te la faccio pagare cara. Avrei dovuto andarci molto più pesante con te quando potevo, maledetto schifoso bastardo!
Così dicendo mi ero sporto oltre la scrivania e l’avevo preso per i risvolti della giacca.
- Ha visto tutto, Tuturro?
Così dicendo mi ero sporto oltre la scrivania e l’avevo preso per i risvolti della giacca.
- Ha visto tutto, Tuturro?
- Come no, dottore!
- Allora aggiunga tra i capi d’imputazione offese, aggressione e minacce a pubblico ufficiale. E anche abigeato, un reato che non contestiamo a nessuno da parecchio tempo e fra un po’ non sapremo più neanche cos’è.
- Fatto, dottore. Posso chiamare i Carabinieri?
- Li chiami.
Si udì bussare alla porta ed entrarono i Carabinieri inciampando tutti e due nello zoccolino della porta come Catarella.
- Gli mettiamo i ferri, eccellenza?
- Ma certo, con gli stupratori la prudenza non è mai troppa. Anche per vostra sicurezza perché non si sa mai chi prenderanno di mira.
Così mi portarono via mentre Tuturro faceva entrare il successivo. Proprio vero quello che dicono. Dai nemici mi guardo io, ma dagli amici mi guardi Dio. Anche da quelli persi e ritrovati.
(fine)
Cattive amicizie
Eliseo Palumbo

Un lampo.
Una canna fumante.
La pioggia battente.
Il sangue scorre verso il pozzetto fognario.
Arancino giace a terra.
Gli avevano affibbiato questo soprannome all'asilo. Era pacioccone, goffo e quando si sentiva in imbarazzo diventava tutto arancione, proprio come un bel arancino dorato.
Adesso è di bella presenza. Capelli lisci biondi. Occhi verdi. Gusto nel vestirsi. Simpatico. Piace alle donne.
Adesso è di bella presenza. Capelli lisci biondi. Occhi verdi. Gusto nel vestirsi. Simpatico. Piace alle donne.
Piaceva.
Adesso è morto.
Lo ha ucciso Achille. Anche Achille è un soprannome. Da ragazzino Achille si è infiammato il tendine di Achille del piede destro e ogni qual volta ha un riacutizzarsi dell'infiammazione zoppica e quello è il suo tallone d'Achille, da lì il soprannome.
Arancino adorava così tanto le donne che erano diventate una malattia per lui. All'età di diciotto anni, mollata la scuola, ha aperto un Night Club.
Arancino adorava così tanto le donne che erano diventate una malattia per lui. All'età di diciotto anni, mollata la scuola, ha aperto un Night Club.
Un Night a Borgobello, paesino di tremila abitanti dell'entroterra siculo. Uno scandalo.
Lui lo portava avanti.
Lui lo portava avanti.
Puntualmente ogni settimana riceveva la visita dei Carabinieri. Puntualmente i Carabinieri tornavano in caserma a mani vuote.
Questa mattina ha ricevuto l'ultima visita. Pochi minuti dopo squilla lo smartphone. Sul display lampeggia "Cori di Merda".
Cori di Merda è un uomo sulla cinquantina. Tra i venti e i trent'anni è stato un via vai dal carcere. Una volta a Palermo, un'altra volta a Catania, a Gela, insomma ha fatto conoscenza con molta gente in tutta la Sicilia.
Cori di Merda è il consigliere, secondo i P.M., del capo mandamento delle Sette Colline, 'u 'zzu Fofò Russo, nato e residente a Borgobello.
Arancino aspetta con trepidazione l'arrivo del vecchio amico. Sotto i piedi ci sono già tre mozziconi di sigaretta. Le Chesterfield rosse. Proprio Achille gli aveva fatto fumare la prima sigaretta. Achille gli aveva procurato il primo pezzo di fumo. Achille gli aveva presentato Cori di Cani. Achille gli aveva consigliato di stare in campana dopo l'inizio della collaborazione con i Russo.
Mentre Arancino è assorto nei suoi pensieri arriva una Renault Twingo del '93. L'autista spegne i fari. Achille scende dal lato passeggero. Si avvicina ad Arancino. Impugna la pistola, tira indietro il cane, prende la mira.
Aspetta un attimo Achille.
Il tempo a tua disposizione è finito. Mi dispiace.
Ma noi siamo amici. Ricordi?
Sfruttare le persone non è amicizia. Dimenticarsi del bene ricevuto non è amicizia.
Non prendere i buoni consigli non è amicizia. In fin dei conti io non ti ho mai considerato un amico, sei sempre stato un peso da portarmi dietro, e lo facevo per rispetto di tuo padre, mio padrino.
Appunto fallo in sua memoria allora. Risparmiami. Ti giuro che domani sparisco.
Non posso. Ho fatto da garante per te. La tua vita è la mia ipoteca. Sono venuto a saldare il debito con quelle persone che hai fatto entrare nella mia vita.
Non posso. Ho fatto da garante per te. La tua vita è la mia ipoteca. Sono venuto a saldare il debito con quelle persone che hai fatto entrare nella mia vita.
Preme il grilletto. Il cane colpisce il percussore. Il proiettile percorre la canna e fuoriesce dal silenziatore conficcandosi nella fronte di Arancino.
Achille sale a bordo dell'auto. Prende il cellulare. Sull'altra mano un bigliettino. Digita il numero.
Pronto? Sono Achille. Dove sei? Benissimo, ricordi il favore che mi dovevi? Ti aspetto davanti il Sodoma. Vidi di spicciariti.
Dopo dieci minuti una Ford Fiesta bianca del 2010 affianca la Twingo. Scende Peppe Last, lo chiamano così perché è sempre stato in fissa con la chimica e da piccolino dopo aver fatto un intruglio con il Last al limone finì in ospedale dove gli fecero una lavanda gastrica.
Mi raccomando Pè, un lavoro pulito. Nessuno lo deve trovare.
Stai senza pensieri Achille. Lo squaglio con l'acido. Tu sei un amico e lo sai che ti puoi fidare di me.
Io non mi fido di nessuno Pè.
Manco degli amici?
Achille non ha amici. Nun tu scurdari mai. Ora arriminati. Buonanotte.
Monta sull'auto. La Twingo parte velocemente verso Borgobello sotto la pioggia torrenziale e i lampi che illuminano gli occhi odiosi di Achille.
(fine)
Post it
Angelo Manarola

Amo avere molti amici, fortunatamente ne ho nella vita quotidiana e anche nelle chat dove, a volte, mi collego.
Mi piace anche scrivere nonostante possegga una pessima sintassi che non mi permette di esser pubblicato da nessuno. Però, pur essendo un insignificante scrittore, ho sviluppato la capacità di comprendere pensieri e comportamenti nascosti con chi mi rapporto.
Di quei due componenti la compagnia che, sovente, si riuniva in chat, conoscevo solo i nomi, sicuramente non reali.
Di quei due componenti la compagnia che, sovente, si riuniva in chat, conoscevo solo i nomi, sicuramente non reali.
Capivo, senza rivelarglielo, che erano legati da una grande intesa.
Avevano sicuramente un rapporto. Presumibilmente non fisico, a causa della distanza delle loro residenze, della differenza di età e di reciproci legami; forse reso ancora più intrigante dalla consapevolezza di condividere, spesso, pensieri intimi che li portava a divertenti schermaglie e sfide.
Sicuramente entrambi attendono l'occasione per incontrarsi dal vero per approfondire quella conoscenza avvenuta casualmente sulla chat.
In verità, di lì a poco, avrebbero potuto incontrarsi grazie a quella riunione della grande ditta dove, entrambi, lavoravano saltuariamente come collaboratori esterni; ma Alessandro, per vari motivi, non vi avrebbe preso parte.
Alla delusione di Francesca faceva da contraltare il rammarico dell'altro, sicuri però che presto o tardi, sarebbe arrivata l'occasione di misurarsi tra loro non solo attraverso la rete.
Avrebbero fatto sesso? Forse si; probabilmente si; o magari no: mi trasmettevano l'impressione di essere entrambi consapevoli che, qualunque cosa avessero deciso di fare o non fare, sarebbe derivata da una comune, consapevole e concorde decisione.
Quella coppia di amici, quella coppia di complici, riusciva, chiacchierando con comuni amici della chat, ad inviarsi input all'insaputa di chi partecipava a qualche discussione con loro. Come molte coppie più consolidate, avevano determinate parole con significati che solo loro conoscevano.
Se, rispondendo a qualcuno, lei usava un determinato vocabolo, notavo che l'altro capiva ben altri significati; se lui nominava un certo nome femminile, ero certo che, in verità, si riferisse a lei.
Divertimento scialbo? Forse, ma non per loro.
Rapporto ridicolo? Probabile, ma non per loro.
Nell'infinita sfera dell'eros, stavano esplorando quella loro piccola elettrizzante emozione, fatta di sfumature eccitanti.
Ora erano entrambi in chat, discutendo, scherzando e chiacchierando assieme a comuni amici.
A volte, come sempre, si punzecchiavano; altre, si dichiaravo d'accordo su qualche argomento ma sempre con la percezione di sapere cosa, l'altro, pensasse esattamente.
Lei, seccata dall'assenza di Ale al congresso, non gliele mandava a dire, lui, rammaricato ma consapevole di non poter parteciparvi, rispondeva tono su tono ai messaggi in codice mentre gli altri, ignari, proseguivano i discorsi comuni.
Lei, seccata dall'assenza di Ale al congresso, non gliele mandava a dire, lui, rammaricato ma consapevole di non poter parteciparvi, rispondeva tono su tono ai messaggi in codice mentre gli altri, ignari, proseguivano i discorsi comuni.
Quel giorno lei lo salutò, prima di non sentirsi per i giorni del meeting della multinazionale, ricevendo in risposta un suo, loro, cifrato messaggio, avulso dalle normali frasi che scorrevano sul monitor: -post it-.
Un augurio di buon viaggio? Più probabile un particolare desiderio oppure un riferimento a qualche loro precedente discorso.
Non gli chiesi il significato, non era giusto intromettermi in quello strano, intimo e rarissimo ménage.
Buon divertimento Francesca, buon divertimento Alessandro.
(fine)
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