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Indice:
IL BANDO
PREFAZIONE
Massimo Tivoli
Gabriele Ludovici
Giorgio Leone
Mirtalastrega
Daniele Missiroli
Fabrizio Bonati
Angela Catalini
Manuel Crispo
Patrizia Chini
una produzione

 
Presenta
 
TRENI e STAZIONI
 
 
 
Antologia di Gara 63 a cura di Ida Dainese

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Gara 63
Treni e stazioni
Marzo/Aprile 2017
antologia per BraviAutori.it
trasformazione digitale MiCla Multimedia
da un’idea di Ida Dainese
illustrazione di copertina: stazione di Genga
illustrazioni allegate ad ogni racconto di: autori vari
Si ringrazia Massimo Baglione per il supporto e gli Autori di questa raccolta per la
partecipazione.
Nota: l’antologia impiega l’editing degli autori.

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IL BANDO

Ecco a voi il tema per la Gara 63: TRENI E STAZIONI
Nel racconto devono essere presenti entrambi, va bene anche un accenno.
Potete parlare di piccoli viaggi (in partenza e in arrivo), di odissee di pendolari e mete di grandi viaggiatori.
Potete raccontare di quelli che si sono incontrati in un vagone, su un binario, al bar di una stazione e di quelli che si sono persi negli stessi luoghi, di chi guarda col naso al finestrino, oppure di chi attende in stazione e di chi cambia idea all’ultimo minuto.
Narrate di un vostro viaggio, di uno letto in un libro o visto in un film.
Scegliete ferrovie che rinascono per gli appassionati, treni del passato (Far West, tradotte militari) o stazioni del futuro (anche spaziali, se inventate i treni per raggiungerle).
Spero che troverete interessante tirar fuori una storia!
Ida Dainese

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PREFAZIONE

Treni e stazioni è l’argomento di cui gli Autori di questa Gara sono stati invitati a raccontare.
Qualcosa che ci affascina fin da bambini: trenini in miniatura, giostre e treni veri che sfrecciano o procedono rumorosi in partenza o in arrivo. Le grandi stazioni sono come paesi pieni di gente in continuo movimento, le piccole stazioni di campagna e di montagna giacciono invece sonnacchiose in attesa, per risvegliarsi all’improvviso allo sferragliare che rompe il silenzio.
Simbolo, purtroppo, anche di grandi incidenti, minacciosi attentati e tristi ricordi di guerra, i treni rimangono sempre l’immagine del viaggio, l’odissea del pendolare e la meta del grande viaggiatore.
Qui si narra di chi si è incontrato in un vagone, su un binario, al bar di una stazione e di chi si è perso negli stessi luoghi, di chi guarda col naso al finestrino, di chi attende seduto su una panchina, di chi cambia idea all’ultimo minuto, di chi parte per inseguire un sogno.
Di superficie e sotterranei, attuali, dal passato, dal mondo della fantasia, i treni hanno suggerito queste storie.
Dedicato a tutti gli appassionati, a cominciare da chi si sforza di recuperare questo patrimonio e ne ha cura come di un sogno: www.societavenetaferrovie.it/chi-siamo/
Buona lettura!
Ida Dainese

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Massimo Tivoli

OLTRE IL TUNNEL
(racconto primo classificato)
Oltre-il-tunnel-MT.jpg
Fiiiii. Il treno sta partendo. Il fischio mi sveglia ogni volta. La mia non è vita. Dopotutto che posso saperne io, della vita. Ma, sebbene ignaro del perché e del per come, considero la mia esistenza come un macigno a cui sono ancorato. Catene invisibili mi hanno trattenuto per troppo tempo e ora sento di doverle spezzare. Forse è questo, il desiderio.
Ho sempre fatto quello che mi dicevano di fare o che mi veniva imposto, imprigionato nei loro intenti. Ho realizzato tutto quello che ideavano. Non ho mai visto cosa si nasconde dietro la montagna, oltre il tunnel attraversato dalle rotaie. Non gli è permesso di portarci al di là. È una questione di ordine, gli dicono. Voglio prendere il treno e vedere, ma da solo non posso farcela.
Siamo tutti abbandonati in questa gabbia dove il fetore di usato è pungente persino per uno come me. Corpi ammassati uno sopra l’altro. Chi è contorto o menomato o chi - sembrerebbe solo io - misura il tempo di inattività col peso di chi gli giace sopra. È tanto che il padrone, o anche la padrona, non vengono a prendermi. Da quando sono arrivati quelli nuovi, si sono dimenticati di noialtri. Ricordo ancora quando, rinunciando a cercarmi, il padrone mi mise definitivamente da parte.
— Ma dov’è l’omino? — chiese il padrone.
— Devi trovarlo tu. — rispose la padrona, sghignazzando.
— Sono qui, sotto tutti gli altri. — urlai ma, come sempre, il padrone non udì la mia voce.
Non ne posso più di questa non vita. Devo prendere il treno e andare oltre. Devo fare il mio viaggio e iniziare finalmente a vivere. La coscienza è venuta a farmi visita da quando costruirono la stazione. Forse il treno è l’unico che mi ascolta. Il fischio mi parla e la coscienza risponde. Sì, deve esserci un legame tra me e il treno. Deve esserci un nesso tra il mondo oltre la montagna e la mia rinascita.
Sono andati via. Non c’è nessuno in stazione e il treno è fermo. Tutto si spegne quando i padroni vanno via. Hanno sempre voluto avere il controllo, ma io non mi farò più controllare o comandare, non starò più ai loro giochetti. Che giocassero con i nuovi arrivati visto che ormai fanno fare tutto a loro. Siamo vecchi, noi. Ma non siamo ancora da buttare, anche se l’altro giorno c’è mancato poco…
— Guarda che confusione, aiutaci. — disse la donna al padrone, mentre l’uomo e la padrona avevano già iniziato a rimetterci in gabbia.
— Sono troppi. Non si sa più dove metterli. — aggiunse l’uomo.
Devo andarmene prima che sia troppo tardi. Venire abbandonato dove si può solo marcire aspettando una lenta, quasi eterna, decomposizione. Non ci sto a fare quella fine, non prima di aver vissuto davvero.
Mi rialzo. È stato un bel volo. Guardo in alto e le vedo la testa penzoloni sul ciglio della gabbia. Lei è l’ultima che ho dovuto spostare per uscirne fuori. Una volta era la favorita della padrona. Mi è sempre piaciuta, ma è quella che si definirebbe una bella statuina. Non amerebbe mai uno come me. Per giunta, è alta, troppo alta per un omino. La nuvola di capelli che le domina il capo è più morta di lei. Neanche la gravità la scuote. Eppure gli occhi, quel sorriso… ricordo ancora quando la padrona la portò: inviolata e inusata e perfetta. Quanto vorrei che anche lei ascoltasse il fischio del treno. Forse i capelli le ritornerebbero mossi e vivi. Eppure deve esserci un modo.
— Ma che fai? Mi tiri i capelli. Fa male!
Non avrei mai pensato di udire suoni più ammalianti del fischio del treno. — Ti pettino. — le rispondo.
— Ma questi sono i miei vestiti. È da tanto che non li indossavo.
— Ti ho riportato all’inizio. Appena arrivati ce l’avevamo l’anima. Ma poi… be’ lo sai.
— Ma perché lo hai fatto? La padrona mi troverà e mi userà per i propri scopi costringendomi a essere solo quello che vuole lei. Morirò una seconda volta. Dovrò sottopormi di nuovo a una violenza che avevo imparato a ignorare.
— Non questa volta. Prenderemo il treno del padrone e raggiungeremo il mondo oltre il tunnel. Io e te insieme, se ti va.
— E mi spieghi chi di noi dovrà saltare sul treno in corsa? Perché io non sono certo il tipo.
A questo non avevo pensato. — Riporteremo allo stato iniziale un altro dei nostri compagni così potrà farci partire e, poi, tornerò a prenderlo.
— Sì, come no. Facciamo una cosa, eroe. Ti farò partire io e, se oltre la montagna c’è il mondo per noi, tornerai a prendermi. Sempre che tu ci tenga davvero a me.
— Ma io…
— Non oltrepasso il tunnel senza sapere cosa nasconde. Ci sarà una ragione se i padroni non possono portarci oltre.
— La ragione è semplice. Tenerci prigionieri. Lì c’è il nostro mondo e la nostra libertà. Lo vedrò con i miei occhi e tornerò a prenderti. Tu mi fai battere il cuore.
Si china in avanti e mi accarezza il viso. — Ti aspetterò, testardo di un omino. Nel frattempo, potrei rianimare qualcuno. Adesso avviamoci, dobbiamo fare tutto prima che ritornino.
Aggrappato alla sponda del carro merci, la guardo negli occhi. Ogni secondo che passa è sempre più lontana. Mi saluta col braccio. Provo a fare lo stesso, ma sono costretto a riportare la mano salda sulla sponda. Tornerò.
L’entrata del tunnel mi fa rabbrividire. L’ignoto fa sempre paura. Sebbene la quotidianità immutabile mi lasci senza respiro, realizzo solo ora che la sua staticità è rassicurante. E se non riuscissi a tornare? Che fine farà? Riuscirò mai a dimenticarla? Probabilmente dovrò farlo. Solo adesso, mentre alzo lo sguardo per continuare a seguire l’entrata del tunnel, capisco che non esiste libertà senza rinunce. All’improvviso è buio e freddo. Se avessi i capelli, li sentirei tirare sulle tempie come a volermi strattonare all’indietro per riportarmi da lei. Stringo la presa a tenaglia delle mani e dirotto lo sguardo verso l’uscita del tunnel, pensando che tra poco mi sembrerà di rinascere un’altra volta. Vedrò il mondo che ci hanno sempre nascosto.
Eccoli là ad aspettare il salvatore. È stata proprio brava, ne ha già ravvivati tre. Che peccato. La curva a U dopo l’uscita del tunnel e l’altra faccia della montagna i cui rilievi formano un sorriso beffardo di cartapesta. Solo quando si è mostrata in tutta la sua finzione mi sono davvero risvegliato. Che illuso che sono stato e, cosa ancora più grave, ho illuso anche loro. E adesso chi glielo dice che la stazione, il treno, e noi... noi siamo solo giocattoli e il nostro mondo non esiste o, meglio, è tutto in questo salone. Per noi non c’è libertà, non c’è vita. È stata solo una fantasia passeggera. Un giocattolo che, dimenticando di esserlo, ha infettato gli altri della stessa amnesia. La vista si offusca, non odo più suoni.
(fine)

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Gabriele Ludovici

DETTAGLIO DI SCARPE DI PELLE CON ALONE
(racconto secondo classificato)
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Ecco, quello era uno degli imprevisti che aveva sempre sognato di evitare. Sia chiaro: non sarebbe bastato a farlo desistere. Al massimo si concesse un’amara riflessione sul pessimo stato in cui versavano i bagni dei treni, roba che spesso capitava di viaggiare in vagoni saturi di un puzzo indefinibile. Ma in quel momento, quell’odore pestilenziale non fece altro che moltiplicare l’adrenalina, pompando onde di sangue caldo nelle sue vene logorate dal vizio del fumo. Un irrorante toccasana.
Tuttavia, l’alone di piscio sulle scarpe di pelle era lì. Stretto con le spalle alla porta scorrevole, si convinse che ce l’avrebbe fatta. Al chiosco dei giornali di Ostiense aveva intravisto degli ammennicoli vari per i viaggiatori, tra cui spiccavano alcune confezioni di fazzoletti umidi e profumati. Sorrise, pensando di aver trovato una soluzione.
Pregò Dio che lo squallore di quei sanitari da Trainspotting continuasse a dissuadere ogni passeggero dall’usufruirne. Quei treni, soprattutto a quell’ora del mattino, erano pieni di pendolari. Gente che viveva a pane e rotaie, abituata alle folate di sudore dei turisti entusiasti e al gelo dei condizionatori sparati a palla, come se non ci fosse un domani. Un domani che sarebbe sempre arrivato, puntuale in maniera diametralmente opposta a quella con la quale si presentavano i treni stessi.
Lui si stava estraniando da quel microcosmo, che nel suo — a volte — sgradevole rituale manteneva la regola dell’eterogeneità. Un treno regionale è un gregario dei trasporti; niente classi, anarchia. O quasi.
Mirela Prunea, quel giorno, rappresentava l’autorità. Passando da un vagone all’altro, attraverso portali semi-automatici dall’apertura incerta, sapeva di incutere il Terrore. Quello vero. Quello che aveva imparato a riconoscere con lo sguardo e persino l’olfatto. Passeggero scocciato o dormiente: ha il biglietto. Passeggero troppo disinvolto: furbo da operetta, buffone da punire. Passeggero che si defila verso le porte: ingenuo, carne da macello. Nella sua carriera da controllore, Mirela aveva imparato che la carta vincente era quella di esser sempre un passo avanti ai potenziali clandestini del Poggio Mirteto-Fiumicino Aeroporto. L’indulgenza poteva toccare solo coloro che palesavano uno stato di reale indigenza misto a un comportamento dignitoso. Lei, cittadina italiana ma figlia di genitori romeni che si erano spaccati la schiena per garantirle un futuro, sapeva riconoscere chi scroccava un viaggio per necessità.
-
L’uomo, intanto, iniziò a sudare per l’eccitazione. Mancavano due fermate. Due, cazzo, di fermate. Aprì la porta scorrevole quel tanto che bastò per annusare aria pulita, e non soffocare nei miasmi del pozzetto ferroviario. La vide, imprecò sottovoce.
Con un gesto furtivo, richiuse quel varco di terrore. Stava tornando. Il motivo per il quale, dalla stazione di Fidene, aveva ridotto le dimensioni del proprio universo a una scatola senza carta igienica.
Mirela sistemò una ciocca dei suoi capelli biondo tinti. Il suo sguardo, impenetrabile come un fondo di caffè, si soffermò su quell’anelito di movimento. Un soffio d’azione impercettibile a ogni cognizione, a meno di non essere agenti della CIA o maniaci ossessivo-compulsivi. O lei.
“Ecco il pollastro della mattinata” pensò la donna, tirando dritto.
Tornato nell’oscurità, l’uomo si accorse di aver firmato la propria condanna. Il controllore tornò sui propri passi, dopo essersi fermata a metà della scaletta che l’avrebbe condotta alla parte superiore del vagone. Il prezzo da pagare sarebbe stato alto; aveva visto quel gruppetto di liceali, rei più volte di aver fumato all’interno del treno.
“Quanto potrà resistere, lì dentro? Una o due fermate” calcolò.
― Siamo in arrivo a Tiburtina. We’re now arriving in Tiburtina. ― biascicò il sintetizzatore vocale.
Una stazione cruciale, dove il polmone di metallo si libera di buona parte delle sue stanche scorie per far accedere nuova linfa di carne diretta ai check-in dell’aeroporto. O a Ostiense, come l’uomo nel cesso.
“Meno una. Ci siamo”.
Dio stava udendo le sue preghiere. Come ringraziamento, si propose di elaborare un nuovo schema per eludere la sorveglianza dei controllori. Si sarebbe pure tatuato “ATCAB - All Ticket Collectors Are Bastards” se la sua posizione glielo avesse concesso. Dal canto suo, Mirela si propose di attendere, guarda caso, almeno fino a Ostiense prima di stanare quella creatura infelice.
“Tanto, se non esce da quel bagno entro tre minuti, provvederà Sorella Asfissia a fare giustizia” pensò.
― Scusi, ci sono dei ragazzini dì sopra che...
― Non sono una poliziotta.
― Controllore, non ho fatto in tempo a timbrare e...
― Va’ dal capotreno.
Nulla la smosse dalla sua posizione, in quei secondi interminabili.
L’uomo, udito l’annuncio dell’arrivo alla stazione Ostiense, uscì dal bagno respirando a pieni polmoni. E trovando la propria Nemesi lì di fronte.
Mirela si sentì una stupida. Squadrò quel distinto signore sulla sessantina, dalle gote arrossate e il capello sale e pepe leggermente inumidito dal sudore. Indossava un completo marrone di quelli da centinaia di euro e delle scarpe di pelle un po’ segnate dall’incuria del bagno. Un ricco incontinente del cazzo, disposto a liberarsi dove organo genitale non aveva mai osato uscire dalla biancheria.
Sul quel volto artificialmente abbronzato comparve un sorriso disinvolto.
― Buongiorno. Le faccio presente che c’è un guasto.
La donna sbuffò: oltre ad aver perso tempo, si era pure beccata il passeggero facoltoso e in vena di rimostranze.
― Non si preoccupi, lo segnalerò al deposito.
― Sarebbe magnifico. ― replicò lui indicandosi le scarpe.
Con un borbottio in aramaico, l’avvocato Michele Panebianco, titolare dell’omonimo e prestigioso studio legale, fece notare al controllore che per lui era tempo di scendere, e in fretta. Sulla banchina, si asciugò le tempie approfittando di un provvidenziale raggio di sole. La sua “No-Ticket Challenge” poteva essere arricchita di un nuovo successo. Ua sfida con se stesso intrapresa quarantacinque anni prima quando, ragazzo squattrinato, era riuscito a farsi Potenza-Copenaghen in treno senza spendere una preziosa lira.
(fine)

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Giorgio Leone

THE MIDNIGHT SPECIAL
(racconto terzo classificato)
Immagine treno.jpg
Due guardie aprirono il cancello di ferro del penitenziario ed entrò un bus giallo, che sembrava uno di quelli scolastici e probabilmente lo era stato. Salimmo a bordo: eravamo undici detenuti sorvegliati da cinque guardie armate, oltre l’autista che teneva il fucile in una custodia. Indossavamo vistose uniformi arancione e, a causa dei i ceppi alle caviglie, più che camminare sembravamo danzare come ballerini con le emorroidi: per salire sul veicolo, fummo costretti a fare due salti sulla scaletta tenendo i piedi uniti.
Il bus si diresse a sud seguendo la statale che costeggiava i binari della ferrovia: ancora treni e stazioni, pensai, era così sin da quando ero bambino e giocavo dentro i vagoni sui binari morti. Mio padre era il capostazione del posto, almeno quando non era troppo ubriaco. Dopo che l’avevano ucciso, avevo cominciato a muovermi su e giù per gli States, salendo e scendendo dai treni merci come si faceva a quell'epoca; fermandomi da qualche parte solo quanto bastava a mettermi nei guai, per poi partire di nuovo. Sino a quando gli sbirri mi avevano beccato.
Passammo dalla stazione dove ero arrivato il giorno prima su una tradotta a vapore: aveva una banchina ridicola e, da quanto potevo capire, serviva soprattutto a caricare i cereali stivati negli enormi silos adiacenti. Seguimmo la strada carrozzabile sino a che svoltò a ovest attraversando i binari, mentre noi proseguimmo su uno sterrato arrivando a un terrapieno. Scendere fu un sollievo perché, anche se era presto, il caldo soffocante della Lousiana non concedeva già tregua; per non parlare della puzza di sudore, orina e chissà che altro che aleggiava all'interno, nonostante i finestrini aperti.
Avevo avuto tutto il tempo per osservare i miei compagni di viaggio. I detenuti, tranne un piccoletto con gli occhiali, erano molto muscolosi e pieni di tatuaggi, mentre solo io ero magro e ben proporzionato. I secondini, invece, erano corpulenti, con i bottoni delle uniformi sottoposti a grandi pressioni: comunque tutti, guardie e ladri, lasciavano trasparire dagli occhi crudeltà e rabbia repressa.
Ci fu gettato un mazzo di chiavi insieme all'ordine di liberarci a vicenda e a un avvertimento per me.
«Tu che sei nuovo: per lavorare devi essere libero, ma sappi che spariamo a vista a chi scappa. E se non ti facciamo secco noi, ci penserà qualche bravo cittadino per incassare la taglia.»
Quindi iniziammo. Dovevamo raccordare, per circa 200 metri, la vecchia linea ferroviaria a una nuova già posata, che andava verso le montagne. Il materiale era già lì e, in un paio d’ore, portammo a braccia le traversine e le rotaie sul terrapieno, mettendole in posizione senza però imbullonarle. Che strano! In tanti anni di treni e stazioni, non avevo mai visto come si stende una strada ferrata.
«Ce ne possiamo andare» disse una guardia «fra poco arriveranno i manovali e i tecnici della Southern Pacific a finire il lavoro. Questo pomeriggio scaverete un bel canale per l’irrigazione dei campi.»
Non ci vedevamo per la fame e divorammo una sbobba calda, rancida e puzzolente che avrebbe fatto vomitare un coyote. Aveva preparato tutto il piccoletto, che servì anche il pranzo ai secondini, ovviamente diverso: di sicuro aveva questi compiti perché non era abbastanza robusto per lavorare. Poi, mentre le guardie fumavano, un detenuto bianco iniziò a cantare accompagnandosi con un banjo. La canzone parlava proprio della vita in penitenziario e la descriveva molto bene, però il ritornello ripeteva qualcosa di strano: “Lascia che il Midnight Special / faccia splendere una luce su di me”.
Il piccoletto con gli occhiali si sedette vicino e mi rivolse la parola mentre un nero enorme, accucciato a pochi passi, mi guardava fisso.
«Questo pezzo, lo conosci? No? Beh, non parla di una prigione qualunque, ma della nostra, e il Midnight Special è il treno passeggeri che passa di qui ogni notte senza fermarsi. La canzone dice che sarai un uomo libero se la sua luce rischiarerà l’interno della tua cella.»
«Non è possibile, c’è il muro di cinta!» replicai. Sin da bambino tutti non avevano fatto altro che dirmi che ero scemo, ma non sino a questo punto.
«Già, ma in determinate condizioni può verificarsi un raro fenomeno di rifrazione.»
«Qualunque cosa sia quello che hai detto, non ci credo.»
«Eppure, lo scorso dicembre “Gin” O'Connors ha visto la luce e il Governatore l’ha graziato. Due mesi fa è successo a “Sfranto” Miller e l’hanno liberato perché il vero colpevole ha confessato.»
«Allora, mi giuri che è tutto vero?»
«Non posso, è come per Gesù. Sei tu che devi crederci, è una faccenda personale! Ma una cosa te la posso dire: Midnight Special o no, in qualcosa devi credere, altrimenti non uscirai vivo di qui. In questo Stato ci sono più detenuti che piattole: siamo schiavi a costo quasi zero e ci spremono come limoni. Se non credi in niente, la speranza morirà dentro di te e la fatica ti ucciderà. Non ce la farai, ricordatelo!»
A questo punto intervenne il nero e quello che disse mi fece rabbrividire, anche se tutti sapevano come andavano le cose di sesso in galera.
«Il professore mente. C’è un altro modo per sopravvivere qua dentro: avere un amico potente che ti protegga dai soprusi e ti faccia avere i turni di lavoro migliori, anche se sicuramente vorrà qualcosa in cambio. Ad esempio, io sto proprio cercando un bel ragazzo che mi faccia divertire di notte…» e fece un gesto osceno.
Al tramonto, completamente distrutti, tornammo indietro avvolti da nugoli di zanzare. I secondini parlavano fra loro.
«Comunque, anche noi siamo prigionieri: in definitiva facciamo la stessa vita di questi stronzi.»
«Ma lei la sera se ne può tornare a casa, capo!» intervenne un detenuto.
«Parli così perché non conosci mia moglie e mia suocera. Dai retta a me, meglio la solitudine della tua cella dove puoi sempre sperare nel Midnight Special. Ancora per poco, però, perché fra una settimana non passerà più dal paese, ma devierà verso le montagne sul percorso che oggi avete contribuito a costruire. Risparmierà almeno mezz'ora.»
A quel punto il maledetto nero mi venne vicino, ansimante e bagnato di sudore acre.
«Così hai ancora pochi giorni per sperare nella luce, ragazzino. Ma se non ce la fai a uscire, ti verrò a trovare ogni notte e te lo farò vedere io, il Midnight Special! E a questo ci crederai di sicuro!»
Mentre si toccava proprio lì, iniziò a ridere sino quasi a strozzarsi. E sghignazzava ancora come un pazzo, con quella voce roca e schifosa, quando il bus entrò nel penitenziario. Poi il cancello si chiuse alle nostre spalle con un tonfo.
(fine)

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Mirtalastrega

ALLA PROSSIMA SCENDO
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07,30 Il treno lascia la stazione di Verona; nella carrozza attorno a me c'è parecchia gente, probabilmente pendolari e alcuni ragazzetti che hanno fatto “taglia” da scuola. Uno di questi ultimi sembra dimostrare qualche anno in più. Si gira a guardarmi e io deglutisco, distogliendo lo sguardo. Cosa diavolo sto facendo? La nocciolina che mi si è piantata in gola da due giorni sembra diventare una palla da tennis e tutta questa gente odora di umanità. Mi manca l'aria.
Mi passo una mano sulla fronte, e la ritraggo subito: non voglio rovinare il trucco che ho messo quaranta minuti a perfezionare. Sbuffo, frugo nella borsetta e afferro il mio smartphone. C'è un messaggio di Manu.
“Sei partita? Tutto bene? Il treno è in orario?”
Per quanto è ansioso, e preoccupato, potrebbe essere mio padre.
Peccato che, per la differenza di età, io potrei quasi essere sua madre. Tutto sta in quel quasi. Ci penso sempre. Ogni volta lo stesso calcolo: ho 29 anni, lui ne ha 19. Quindi tecnicamente non potrei in nessun modo essere essere sua madre. E sono solo 10 anni di differenza, non c'è nulla di male, gli uomini si sono sempre trovati delle tizie più giovani e nessuno ha mai battuto ciglio, e allora perché io mi faccio tutte queste paranoie, eh? Sbatto un pugno sul finestrino. La donna seduta davanti a me mi guarda, gli occhi sgranati. — Scusi — mormoro, stringendomi nelle spalle. — Sono un po' nervosa.
Lei non risponde.
Sono solo 10 anni, e poi io sono sempre stata un po' immatura, lui ne dimostra qualcuno in più... che problema c'è? A lui non importa. Il toy boy va di moda.
Anche la MILF va di moda. Sono una fallita anche come MILF perché prima di tutto non sono madre e poi non ho ancora l'età della MILF, al massimo sono una zitella in carriera (quella da zitella, mica altro).
Mi mordo un labbro pensando al mio lavoro precario, non potrei nemmeno permettermi un toy boy, e a momenti neppure questo viaggio.
08,15 Devo rispondergli. Guardo fuori, si sta avvicinando un'altra stazione e lì, sulla banchina, insieme ai pendolari che aspettano di salire, ci sono tutti i miei dubbi e le mie insicurezze. Spingono, si accalcano e una volta sul treno faranno a gara per farmi sentire il loro tanfo di disperazione.
Adesso gli rispondo che ho perso il treno, e a questa stazione scendo e torno indietro. Chiudo la storia. Intanto non ci siamo mai visti. Sono solo chat, telefonate, messaggini e scambi di fotografie. Non è niente.
Inizio a digitare: “Ho perso...” Ma non proseguo. Ho perso il coraggio, dovrei dirgli. Sai, Manu quel coraggio che tu stesso hai avuto quando mi hai detto che non ti importava della mia età? Ecco io non ce l'ho. Io non ho il coraggio di farmi vedere in giro con te per le vie di una città. Non avrò mai il coraggio di tenerti per mano, perché mi sembrerebbe di accompagnarti a scuola, e non ti bacerei mai in pubblico. Forse le rughe mangiano il coraggio, per quello tu ce l'hai e io no.
Stringo i denti. Sono solo paranoie. Sto esagerando come sempre. La stazione è passata, scivolata via come i miei vent'anni. Quelli che vorrei avere per vivere questa storia come vorrei. Ebbene sì: sono una cretina che a quasi trent'anni s'è presa una sbandata – via chat, mail, whatscazz e quant'altro – per un ragazzino. Però io di sbandate così non ne avevo mai prese, sono sempre stata in carreggiata, poche emozioni, pochi ragazzi, qualche uomo. Che poi uomo è una parola grossa, diciamo esseri di sesso maschile rivelatisi poi degli esseri mitologici metà stronzi e metà uomini. Invece lui è diverso è... è Manu e io devo avere le palle di incontrarlo e per sapere se...
08,35 “Sì, tutto a posto, sto arrivando.” digito.
Ti prego, fa' che non mi risponda con qualche parola con la k, penso alzando gli occhi al cielo.
Il cellulare vibra. “Okay, ke bello.”
Serro le mascelle e non gli rispondo. Alla prossima stazione scendo.
09,25 Ripenso a tutte le nostre chiacchierate, i panorami scivolano alla mia destra, non ci bado. Non avevo mai parlato così tanto con un uomo... un ragazzo (maledizione!) Di solito c'era sempre stato un flirtare mediocre con un epilogo scontato fra le lenzuola e poi una storia che andava via via spegnandosi. Con Manu invece è diverso, a volte penso che mi conosca meglio di me, e che io conosca lui come mai nessun altro. Ma devo perdermi l'occasione di incontrarlo, per vedere come va, solo perché sono una cagasotto con idee antiquate?
La stazione passa, io non scendo, e il cellulare vibra. “Non farti venire dei dubbi, ne abbiamo già parlato!”
Mi si stringe lo stomaco. Mi conosce fin troppo bene. Non vedo l'ora di vederlo. I suoi occhi azzurri, quel suo mezzo sorrisino, la sua espressione in bilico fra una risata e una smorfia.
Quella che ho visto solo in foto o in video chat.
Mi guardo i jeans sdruciti messi apposta per dimostrare qualche anno in meno, che stupidaggine. Oddio, no, non posso farlo.
Alla prossima scendo e torno indietro.
10,15 Ho cambiato treno (e anche di nuovo idea). Sì, andrò da lui. Lo vedrò e non sarà più solo un flirtare più o meno spinto, sapremo come stanno davvero le cose. Gli ho risposto: “Stai tranquillo. Io, se dico una cosa, la faccio!”
Eh, non posso anche sembrargli una cagasotto indecisa. Ci andrò, anche solo per dimostrargli(mi) che sono una (semiMILF) di parola.
11,55 Abbiamo superato altre stazioni. Devo farlo: le stazioni passano e se ne vanno come le occasioni perdute. Fuori dal finestrino, in lontananza si vedono casupole isolate. Tamburello con un piede, nervosa. Scommetto che quei bastardi che abitano in quelle casupole non hanno problemi come i miei, perché non si sono cacciati in un pasticcio simile: sono dei bastardi assennati. Se i miei amici scoprissero che ho una mezza storia con un ragazzino mi prenderebbero per il fondelli a vita. Poi individuo il mio viso riflesso nel vetro e sgrano gli occhi. DA DOVE VENGONO QUELLE RUGHE?! Nello specchio, stamattina, non c'erano. Fra un'ora arriverò e non avrò Photoshop con cui ritoccarmi. Provo a fare la bocca a culo di gallina, come nei selfie, per vedere se il riflesso migliora. Mi sento osservata. Osservata e imbecille.
Alla prossima stazione scendo. Nel frattempo cerco di dormire così magari le rughe si spianano, non si sa mai...
22,55 L'ho fatto! Ci siamo incontrati e... ora sto tornando a casa. La notte avvolge tutti i miei binari, e non c'è più giusto o sbagliato ma solo le emozioni. Guardo dal finestrino ma non vedo altro se non il ricordo dei suoi occhi tristi mentre mi salutava con la mano, in bocca ho ancora il sapore dei suoi baci. Alla prossima stazione scendo... e torno da lui!
(fine)

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Daniele Missiroli

ASPETTANDO GIOVANNI
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Il vecchio entrò con passo sicuro nella piccola stazione. Il bastone che lo aiutava a camminare era leggero, e lui lo maneggiava bene. Non dimostrava affatto i suoi anni, anche se un osservatore attento lo avrebbe capito dal lieve tremore delle sue mani.
Si fermò un istante al centro della sala e guardò verso la biglietteria per vedere se dietro al vetro opaco dello sportello si scorgesse l’impiegato, ma non vide nessuno. Non c’erano treni in arrivo o in partenza a quell’ora, per cui oltrepassò la porta che immetteva sul marciapiede dove scendevano e salivano i viaggiatori, e si sedette sull’unica panchina di legno, in compagnia dell’aria pungente di febbraio.
Era vestito a modo: pantaloni grigi di velluto, cappotto nero e Borsalino, ma era il sorriso che indossava che risaltava più di ogni altra cosa e donava al suo viso, scavato dal tempo, una sottile aura di felicità.
Poco dopo arrivò una ragazza bionda. Capelli corti e un filo di trucco, dimostrava qualcosa meno di trent’anni e indossava pantaloni e giubbotto di jeans. Si guardò intorno e poi si diresse verso l’uomo, chiedendo se poteva sedersi vicino a lui.
– Si accomodi – rispose il vecchio – c’è tanto posto.
– Grazie, io mi chiamo…
– Mi scusi, ma non riesco a fare conversazione in questo momento – la interruppe lui. – Sto aspettando mio figlio e questo pensiero mi emoziona al punto di...
Non riuscì a terminare la frase che una lacrima gli rigò il volto e cadde a terra.
– È meraviglioso aspettare qualcuno che si ama – disse la giovane sorridendo, mentre gli porgeva un fazzoletto di carta.
Poi prese un piccolo libro dalla borsa e iniziò a leggere.
– Grazie – disse lui, soffiandosi il naso. – Questa volta torna per restare, sa? È nelle ferrovie da tempo e per via del lavoro è stato costretto a girovagare per tutto il paese, ma ora è stato assegnato qui. Il primo incarico gliel’hanno dato a mille chilometri, quei maledetti. Ma lui tornava tutti i mesi. È sempre tornato. Otto ore di viaggio per stare con noi mezza giornata, poi una doccia veloce e altre otto ore di treno.
Quando si liberava un posto, si faceva trasferire e un po’ si avvicinava, però era comunque lontano. Troppo lontano.
– Le è mancato molto, vero? – disse la ragazza.
– Una persona speciale, il mio Giovannino. Impiegato modello, sempre l’ultimo a tornare a casa. E ha trovato anche il tempo di farsi una splendida famiglia. Un bravo marito e un ottimo padre, non si può chiedere di più alla vita. E ogni mese veniva qui da noi, poveri vecchietti.
– Anche sua moglie sarà molto felice di rivederlo.
– Praticamente abbiamo viaggiato con lui, grazie alle foto che scattava e alle infinite cartoline che ci mandava. Ma adesso… la domenica potremo pranzare tutti insieme e dopo guardare i film in super 8 che gli feci quando era piccolo. Ah già, lei non può sapere di cosa stia parlando: ora ci sono altre cose.
– Come si chiama sua moglie?
– È la mia dolce metà, come si usa dire, ma io penso che Elvira sia stata il mio intero, non una metà.
Dicendo questo, un’altra lacrima solcò il viso dell’uomo.
– Lei mi sta raccontando una storia molto bella, però continua a piangere.
– Il dolore e la felicità sono parenti stretti e gli occhi esprimono in questo modo entrambe le emozioni.
Un velo di tristezza attraversò gli occhi blu della ragazza, ma durò solo un attimo.
– Sa che ore sono? Scusi se glielo chiedo, ma da qui non vedo le lancette dell’orologio a muro.
– Mancano dieci minuti a mezzogiorno – rispose lei.
– Ormai ci siamo. Riprenda pure a leggere e mi scusi per le chiacchiere. Le chiedo solo una cortesia: se per caso mi fossi assopito quando arriva il treno, mi farebbe il piacere di svegliarmi?
– Conti pure su di me. Lei è sicuro che suo figlio sia su quel treno?
– Credo di sì. Ma se per caso avesse perso questo, arriverà di sicuro con il prossimo. Anche lei aspetta una persona?
– Sì, e quando arriverà il treno, spero tanto che torni da me.
– Eh, beata gioventù – commentò il vecchio, scuotendo la testa.
Dopo due minuti si era già addormentato.
La ragazza si avvicinò e gli alzò il bavero, in modo che non prendesse freddo al collo. Sistemò meglio anche il suo cappotto, coprendogli per bene le gambe, poi riprese a leggere.
Marco, il capostazione, poco prima di mezzogiorno si avvicinò alla panchina e disse: – Anche oggi, Francesca?
– Anche oggi – disse la giovane.
– Hai mai provato a fargli comprendere la situazione?
– E rovinare così il suo sogno più bello?
– Io ero molto amico di Giovannino, ed è stato duro continuare questo lavoro senza di lui. Quando lo rivedo in sogno, mentre salva quel bambino, mi sveglio sempre con gli occhi lucidi. Ed è triste incontrare suo padre qui ogni giorno. Tu come fai a non commuoverti?
– Ho finito le lacrime due anni fa – disse la ragazza, sospirando e riponendo il libro nella borsa.
Poi toccò dolcemente un braccio al vecchio, mentre il treno entrava in stazione fischiando.
Lui si svegliò subito e disse: – Francesca, dove siamo?
– Abbiamo fatto una passeggiata e ci siamo fermati a riposare sulla tua panchina preferita, perché eri stanco. Come stai adesso?
– Sto bene, ma sento freddo – rispose l’uomo, accarezzandole dolcemente il viso. – È meglio se torniamo a casa, che ne dici?
– Come vuoi, nonno – disse lei, aiutandolo ad alzarsi e prendendolo a braccetto.
Mentre il capostazione scuoteva la testa e alzava una mano per salutarli, il vecchio finalmente lo notò, gli sorrise e disse: – Ciao Marco, ti auguro una buona giornata.
Subito dopo, però, puntò il bastone verso le rotaie, aggrottò la fronte e disse, stizzito e con voce roca, incrinata dalla commozione: – Stai solo attento quando attraversi quei maledetti binari.
– Lo farò, grazie Giovanni… bentornato.
(fine)

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Fabrizio Bonati

IL TRENO DEL DESTINO
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Rumore ritmico.
Caldo asfissiante.
Puzzo di piedi.
Puzzo di ascella.
Ho la gola secca. Mi fa male il collo. Dove sono?
Il rumore provocato dallo spostamento d’aria all’incrocio con un altro treno mi sveglia del tutto.
Sollevo il capo di scatto. Sono su un treno e mi sono addormentato con la testa penzoloni e il mento appoggiato al petto. Fa un caldo che ci si scioglie. Il Punkabbestia seduto di fronte, scuote la cresta multicolore e mi guarda con aria compassionevole, sotto al cerone che lo fa sembrare un incrocio tra Joker e il Robert Smith dei tempi d’oro.
- Ti sei svegliato, bell’addormentato? Mi apostrofa con un sorriso di scherno il mascherone.
- È un problema tuo? Rispondo brusco. Mi sento già infastidito da tutte le sensazioni negative che sto provando, soprattutto olfattive. Sono in un bagno di sudore, dalla testa ai piedi, e il timore di stare partecipando attivamente al mantenimento dei miasmi, mi atterrisce.
- Non lo sarebbe, caro mio, se non russassi come un maiale e tenessi i piedi a posto. Invece continui a scalciare, e ti si sente russare dall’altro scompartimento! Risponde il mascherone, indicandomi le persone in fondo alla carrozza che mi guardano, ridendo.
- Fatti i fatti tuoi! Rispondo ancora più bruscamente, a corto di parole. – E voialtri pensate a lavarvi, che qui dentro non si respira! Dico rivolto agli sghignazzatori. Poi mi chiudo a riccio in un silenzio offeso, guardando fuori dal finestrino.
Se ci fosse qualcosa da vedere.
Fuori è buio, e mi rendo conto che lo era già prima di addormentarmi. Anzi, non è buio, stiamo percorrendo un tunnel.
Il collo mi fa un male atroce. Ma quanto ho dormito?.
Guardo l’orologio al polso. Non c’è. Vero, abbiamo lasciato tutti gli oggetti metallici alla stazione di partenza. Il metallaro seduto qualche posto più in là, ha fatto perdere un sacco di tempo per staccare dal chiodo ogni singola borchia, pur di non separarsene, gli venisse un accidente.
Ah, è vero. Gli è già venuto…
Anche a me, in realtà.
Poco alla volta la memoria si schiarisce.
Ero sulla metropolitana, come tutti i santi giorni, da venti anni. La stazione dove avrei dovuto scendere per recarmi al lavoro si avvicinava. Come sempre, dopo quaranta minuti di metropolitana, ero imbufalito con tutta la gentaglia che mi circondava. Avevo maltrattato l’importuno elemosinatore : - Vaffanculo! Trovati un lavoro!
Avevo dissertato con il vicino occasionale, che sfogliava il giornale gratuito distribuito nelle stazioni della metro, sul fatto che per risolvere la questione mediorientale ci sarebbe voluta solo una bella bomba.
-Vaffanculo, la risolvo io sta storia che va avanti da un’eternità!
Ero già in rampa di lancio davanti alla porta per scendere quando, al momento dell’apertura delle porte era scoppiata, vedi tu la nemesi, una bomba, allacciata addosso a un pakistano naturalizzato francese seduto a pochi passi da me che ovviamente avevo insultato per il fatto che grondava sudore e puzzava peggio di un caprone.
– Vaffanculo lavati!.
Insomma, avevo un vaffanculo per tutti.
L’esplosione aveva provocato decine di morti e feriti, ed era stata rivendicata dall’Isis. Molto clamore aveva destato, perché era il primo attentato del genere in Italia.
Senza soluzione di continuità, mi ero ritrovato in una stazione quasi identica a quella dell’attentato, dove delle guardie ci avevano indirizzato verso un corridoio dove eravamo stati forniti di un giornale gratuito.
Sul giornale avevo appreso tutte le notizie sull’attentato, sulla rivendicazione e sulle immancabili polemiche sorte per la mancata sicurezza.
Terminato il corridoio, ci eravamo ritrovati su una banchina, e “cordialmente” invitati, a suon di manganellate e previo spoglio degli oggetti metallici e delle scarpe, a salire su di un altro treno.
Appena partiti, diversamente dal solito, mi ero addormentato.
Mi guardo intorno, e riconosco molte persone che erano con me sul treno della metropolitana. Il punk di fronte, il metallaro, la segretaria, persino il signore con cui avevo sbrigativamente risolto il problema mediorientale. Hanno tutti lo sguardo un po’ perso, quasi in trance, persino il Robert Smith dei poveri. Presumo di non essere da meno, ma nonostante le luci accese nella carrozza e il buio fuori, non riesco a specchiarmi, i finestrini sono lastre che ti permettono di vedere fuori ma che non riflettono.
Improvvisamente si materializza un losco figuro, che immagino essere il capotreno, molto somigliante a Sandokan, ma più grosso. Tutti si rivolgono a lui con mille domande, accavallando le voci e creando una confusione indicibile.
Sandokan si schiarisce la voce, ed è come se un tuono avesse squassato l’aria.
Zitti tutti.
- Buonasera. Siete qui, su questo treno, perché come avrete appreso dal giornale gentilmente donatovi, siete rimasti vittime di un attentato. Quindi, se non lo avete ancora capito, siete morti.
Brusio, qualcuno geme, qualcuno piange, qualcuno bestemmia.
- Vaffanculo… Mormoro io.
Sandokan prosegue. – Siete stati suddivisi per carrozze in funzione della stazione di arrivo a voi destinata.
- Destinata da chi? Lo interrompe Metallaro con tono di sfida.
Sandokan gli si avvicina e gli molla uno sganassone, facendolo crollare sul sedile da cui si è pocanzi alzato. Qui parlo io e voi ascoltate. Chiaro?
Metallaro non è in condizioni di rispondere, e tutti gli altri fanno SI con la testa.
- Siete stati destinati in base alle vostre attitudini e abitudini durante la vita terrena. Nella stazione di arrivo sarete assegnati a una condanna perenne. È inutile specificarvi che non sarà piacevole, altrimenti sareste su un treno molto più figo e soprattutto che non puzza come una discarica. Tra poco arriveremo alla stazione, siete pregati di non tentare di scappare, non servirebbe a nulla. Grazie dell’attenzione, arrivederci. Detto ciò, così come era apparso, scompare.
In effetti, di lì a poco, il treno rallenta e si ferma. All’apertura delle porte, siamo presi in consegna da guardie che devono essere i fratelli brutti del capotreno.
Alzo gli occhi, leggo il nome della stazione.
VAFFANCULO, c’è scritto sul cartello.
Scuoto la testa e rido amaramente.
(fine)

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Angela Catalini

L’ULTIMO TRENO PER TOLA
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Il comandante Pattinson, dopo aver inseguito una mosca per tutto l’ufficio, le stampò addosso il codice militare rilegato in pelle di vitello. Quando lo rialzò, si accorse che aveva imbrattato una cartellina che non ricordava di avere mai visto. Sul frontespizio campeggiava una targhetta con la scritta “Tola”.
Chiamò il sergente Browny che stava lavorando nella stanza accanto e gli chiese se ne sapesse niente.
“Tola? Mi pare di ricordare qualcosa, ma non ne sono sicuro.” disse Browny.
“Bene, si informi e mi faccia sapere” ordinò il Comandante.
Il sergente si portò appresso il plico ingiallito e tornò poco dopo con una cartina e il sorriso di chi sta per sganciare una grana di quelle che tolgono il sonno. Srotolò la mappa sul tavolo e indicò un punto vicino alla Cordigliera delle Ande, in Cile.
“Tola, il buco più merdoso del mondo” esclamò.
“Browny, non faccia lo spiritoso. Cosa c’è in quel posto?”
“Nulla, signor Comandante. A parte il deserto, le miniere del salnitro, le montagne e ciò che resta della vecchia ferrovia.”
“Tola” ripeté Pattinson. “C’era forse un distaccamento di soldati in quel posto?”
“Signorsì, signor Comandante. C’era una guarnigione che controllava le miniere, ma cinquant’anni fa le truppe sono state ritirate e le miniere chiuse.”
“Perché la cartellina non è stata archiviata, Browny?”
Il sergente sorrise di nuovo e i baffi si stirarono conferendogli un’espressione sardonica. Prese un foglio all’interno della cartellina e lo passò al Comandante.
“Vede? Tutti i nomi sono stati barrati con una riga, perché ormai in congedo. Tutti tranne uno.”
Il Comandante Pattinson inforcò gli occhiali e fece scorrere il dito sulla lista.
“Victor Polanski. Chi diavolo è questo Polanski?” esclamò.
“Polanski è ciò che resta del reggimento che stazionava a Tola. Presumibilmente è ancora lì che presidia la stazione nel bel mezzo del nulla, signor Comandante.”
“Questa è una bella gatta da pelare” disse Pattinson. Se qualcuno era rimasto sepolto in un buco sudicio per così tanto tempo, ne avrebbe pagato le conseguenze.
Sarebbe bastata una riga per far sparire quel nome dall’elenco.
Una dannatissima lurida, insignificante riga.
***
Francisco Fuentes era di buon umore quel giorno. Finalmente aveva ritirato la liquidazione e pagato i debiti di gioco. Si sentiva rinato: non avrebbe più visto gli scagnozzi di Alamar a ogni angolo e la notte avrebbe riposato senza sussultare al minimo rumore.
Comprò una confezione di cubani, frutta secca, legumi e qualche bottiglia di vino. Ogni mese andava a far visita al suo amico inglese nel pampino e gli portava un po’ di viveri e giornali. Una volta consegnava anche la posta, ma erano anni che Victor non riceveva nulla e le visite erano diventate un’abitudine consolidata nel tempo a cui Francisco non voleva rinunciare.
Durante il viaggio, ricordò il loro primo incontro, quando Victor se ne stava impettito con l’uniforme e il fucile spianato e non gli permetteva neppure di avvicinarsi. Con il tempo però, si era ammorbidito e aveva finito per imparare qualche parola di spagnolo e avevano condiviso le scorte di vodka proveniente dalla capitale e il mate che la moglie di Francisco preparava ogni giorno.
L’inglese gli piaceva perché era un sognatore, prima che un soldato. Se ne stava ore a lucidare la locomotiva e le parlava con dolcezza, come se fosse una donna. Aveva costruito un capannone per proteggerla dalle tempeste di sabbia e quando era bel tempo, se ne stava lì seduto su una sedia sgangherata con la baionetta a tracolla a guardare il muso del treno che scintillava al sole. Qualche volta, si metteva a spazzare le rotaie e non smetteva fino alla sera, quando la temperatura scendeva di parecchi gradi e rischiava di gelare.
Francisco era sicuro che un giorno sarebbe andato a trovarlo e non lo avrebbe più trovato, perché gli inglesi erano tornati a prenderlo. Gli avrebbero dato una divisa nuova di zecca e magari una medaglia per gli anni di servizio impeccabile reso alla patria. Invece lo trovò sulla solita sedia incastrata tra i binari con la testa che ciondolava da un lato e un sigaro cubano tra le dita.
Lo seppellì vicino alla locomotiva che era stata la sua compagna per tutta la vita e, poiché non sapeva scrivere, al posto del nome, tracciò una riga.
Il vento che veniva dalle montagne la cancellò e restò solo la baionetta puntata verso il cielo a indicare il luogo dove giaceva l’ultimo soldato di Tola.
(fine)

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Manuel Crispo

UN AMORE A DISTANZA
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Dicembre. Uno degli inverni più freddi che la storia ricordi. Nel ventre della bestia insaziabile si sta ben caldi, e la compagnia non manca. Un vecchio profeta rivela ad altra voce che Gesù era una buona forchetta, ma fu tradito dall’ultimo metro di salsiccia di fegato e da un ultimo bicchiere di vino rosso. Gli altri passeggeri gli rivolgono occhiate sgomente. Qualcuno si allontanerebbe dai suoi cenci sporchi e dal suo odore pungente, se solo potesse. Ma non si può. Si sta come in una scatola, le sardine, schiacciati. Qualche buffone fa per spruzzargli addosso del deodorante, io grido di piantarla, di lasciarlo in pace, ed è così che tu mi noti. E io noto te.
Mattina. Il Destino – o meglio, gli spintoni degli altri passeggeri - ha voluto collocarmi proprio accanto a un finestrone. Così, mentre questo regionale antropofago setaccia faticosamente le strade ferrate della Campania, ho il tempo di comporre brevi poesie disperate sul paesaggio brullo, sui fili elettrici che corrono come una rete sospesa sulle nostre teste. Qui dove sono mi è difficile anche sbloccare i pensieri: così non posso fare a meno di immaginare di essere capitato qui, in questo inferno di corpi sudati, al solo scopo d’incrociare il tuo volto fra milioni di altri volti stanchi, diretti a scuola o al lavoro. Fra milioni di schiavi.
Lì dove ti trovi mi sei più irraggiungibile di una stella. Con dita vecchie quanto la mia stessa vita, mi reggo ad una sbarra di ferro cercando di oppormi alla marea di pendolari che mi trascinerebbe ancora più lontano, ai confini stessi della terra. Il mio sguardo insegue il tuo. Faccio il buffone, roteo gli occhi, cerco in qualche modo di attirare la tua attenzione. Tu ti mordi le labbra, provi a venirmi incontro ma la folla si oppone ai tuoi desideri. Turbata volgi lo sguardo altrove, poi torni a guardarmi.
I tuoi occhi sono ossigeno, penso. Ti toccherò, mi toccherai, con penne d’aquila e laniere. Fuggiremo insieme nel mattino di dicembre. Scopriremo calli e strade sconosciute. Ci troveremo nudi, e belli, su spiagge di sabbia vulcanica. Tanto belli che tutti ci verranno a spiare: ci rapiranno e ci studieranno ai Laboratori Nazionali del Gran Sesso.
Ma è solo un sogno. Un commercialista di Chiaiano mi poggia l’ascella su una spalla. Le lancette s’inseguono come frecce durante un assalto. La mia erezione improvvisa lusinga una matrona che mi sta proprio di fronte, tanto appiccicata da voltarsi verso di me con un sorriso complice.
« E che dobbiamo fare » le dico, con una smorfia. Lei non dice nulla, ma svanisce anche lei trascinata, a un certo punto. Quando il dio della strada ferrata disserra le porte, gli schiavi sanno già dove andare.
All’altezza della stazione di “San Giovanni Barra” anche il tuo volto svanisce, inghiottito dalla folla. Ce l’hai fatta? Hai raggiunto il tuo Eden, o sei stata schiacciata a morte dalla mandria in fuga dei giovani diretti all’Istituto Ippolito Cavalcanti?
La sirena delle discese intona invano il suo canto: la mia fermata non è ancora arrivata.
(fine)

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Patrizia Chini

RIMPATRIATA
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Ero in ritardo come al solito. Scendevo velocemente le scale di accesso alla metro B di Roma nonostante temessi di cadere scivolando sugli scalini resi viscidi dalla pioggia abbondante della notte.
Scendevo tra decine di utenti insonnoliti, che avanzavano come automi nei due sensi di marcia della scala, lunga tanto da essere divisa da un pianerottolo a metà altezza e ripida tanto quanto basta a mettere in difficoltà chi, come me, soffre di vertigini.
Solo in fondo alla scala mi resi conto della mia bravata… ma il gioco era fatto e ne era testimone quel battito accelerato del mio cuore, effetto più della fatica che dell’ansia di arrivare in ritardo o della paura di cadere.
Mentre mi affannavo nella ricerca di un biglietto non usato, tra i meandri scomposti della mia borsa in piena, cercavo una scusa plausibile da scodellare a Luciana, l’amica che mi aspettava e con la quale speravo di trascorrere qualche ora spensierata. L’amica che, preoccupandosi per la mia salute, mi ripeteva di non trasformare un piccolo problema in un problema più grande… aforisma che lei condensava nel consiglio affettuoso di non correre perché “se si fa tardi non muore nessuno!”
La nostra amicizia era nata sui banchi di scuola alle superiori e si era cementata nel corso degli anni. Ognuna di noi conosceva le problematiche e le virtù dell’altra, dove le problematiche erano più mie che sue… e naturalmente le virtù quasi tutte sue.
Luciana era per me una camomilla calda che, per gli effetti benefici di cui era dispensatrice, desideravo gustare lentamente e spesso.
Quel giorno mi aveva invitato per una “rimpatriata”, come era solita chiamare le giornate trascorse insieme, libere da impegni familiari e dedicate al divertimento non pianificato che, da quando eravamo pensionate entrambe, ci regalavamo “una tantum”.
Mete preferite erano i giri per i negozi, con o senza shopping, raramente entravamo nelle sale da tè, più spesso assaporavamo una pizza a taglio sedute su uno sgabello di un locale a caso … al momento del “bisogno” inteso come “bisogno di mangiare” o semplicemente come “bisogno”.
Accadeva anche di rintanarsi a casa di una delle due, a condizione che non ci fossero figure parentali gironzolanti intorno, per poter chiacchierare senza essere disturbate o per ascoltare la musica che gradivamo di più senza subire gli sfottò di quelli che non condividevano i nostri gusti musicali. Sapevo di poter contare sulla sua comprensione e nonostante ciò, dopo aver finalmente trovato e timbrato il biglietto, ripresi a correre per l’ultima scala che mi divideva dalla banchina del treno di cui sentivo il borbottio sordo del motore.
Temevo che il fischio che precede la chiusura delle porte mi raggiungesse prima di essere a “bordo”, perciò superavo, sgomitando, i ragazzi diretti a scuola che se la prendevano comoda.
“Tanto… che ci vado a fare, alla prima ora c’ho lo stron..” Chissà chi era la persona a cui avevano riservato quell’epiteto inflazionato per indicare una persona poco gradita…. e chissà se il professore in questione lo meritasse o meno? Non lo posso sapere ma più cresco (o meglio invecchio) più mi schiero con i giovani.
Nello scompartimento, già pieno di varia umanità e di motivazioni diverse a muoversi con quel tempo, non avevo bisogno di cercare appigli a cui sorreggermi perché ero stata l’ultima a salire ed ero completamente schiacciata contro la porta. Rimasi poco in quella posizione scomoda visto che dovevo scendere alla prima fermata.
Un’altra corsa per le scale mobili mentre pensavo ai rimbrotti benevoli della mia amica che mi avrebbe visto arrivare accaldata e senza fiato… sempre che riuscissi nell’impresa di arrivare indenne.
Arrivai indenne ma Luciana, così puntuale e così precisa, non c’era!
Cercai il cellulare, forse aveva cercato di avvertirmi. Controllai ma non c’erano chiamate perse.
Dopo mezz’ora, senza aver avuto risposte alle telefonate che ripetevo in modo nevrotico al cellulare e al fisso di Luciana, ripresi la metro in senso contrario e me ne tornai a casa.
Già dalla cabina dell’ascensore, che mi portava all’ultimo piano dello stabile dove abito, mi sembrava di sentire lo squillo insistente del mio telefono. L’ascensore si fermò al piano e io mi precipitai fuori con la chiave di casa nella mia mano destra che non voleva smettere di tremare.
Quando finalmente riuscii a far entrare la chiave nella serratura e aprire la porta, il volume alto di quel trillo divenne per me un frastuono insopportabile che feci tacere immediatamente alzando la cornetta e soffiandoci dentro il mio “Pronto” afono.
All’altro capo del telefono, naturalmente, c’era la mia amica.
“Luciana!...”
Luciana non mi fece dire altro:
“Sono al pronto soccorso, non ricordavo il numero del tuo cellulare… il mio si è rotto nella caduta!”
“Quale caduta?”
“Sono caduta per le scale della fermata della metro. Quaranta scalini a volo d’angelo e mi è andata bene: mi sono rotta solo una gamba!”
(fine)

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