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La gara
PREFAZIONE
1465 – VIGILIA DI BA…
17 FEBBRAIO 1600
STORIA DI UNA VERGINE…
1693: GRANDE CACCIA A
1805
GENNAIO 1808 - LA QU…
“ TA'TATA TA' ” (1827)
D-DAY, 1860
TESTAMENTO (1872)
24 AGOSTO 1942 – L’U…
MILANO, FERRAGOSTO 1943…
3 OTTOBRE 1943
IL CIELO HA UNA NUVOLA…
1951. UNA VOLTA, UN’…
16.3.78 - 13.5.81 ES…
23 NOVEMBRE 1980
PRECARIA ANNI 80
13 MAGGIO 1981
L'UNICO UOMO - 11/07…
POUF 1982
Mastronxo
IL VOLO DI MARIO
…LIQUOR DIVINO
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Una produzione

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La gara

Gara 14
STORIE DI STORIA
GIUGNO 2010
antologia per BraviAutori.it
A cura di Ser Stefano
Supervisione e aggiustamenti: BraviAutori.it
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

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PREFAZIONE



Un nero monolite si staglia in una desertica steppa terrestre.
Alcuni esseri, poco più che scimmie, lo studiano curiosi saltellando agitati intorno.
Cos'è successo da quel monolito nero a oggi?
Cosa ci ha trasformato in ciò che siamo?
La razza umana è stata forgiata da feroci battaglie, sangue versato e vite spezzate.
Da amori clandestini e amori impossibili, desiderati, anelati, persi.
Da uomini che hanno cambiato il volto del mondo e da grandi, indicibili, sbagli.
Da piccole ma significanti cose, da vite vissute e memorie mai dimenticate.
Il passato...
Un'eredità a tratti sognante, molte volte imbarazzante,
troppo spesso fatta di pagine che vorremmo cancellare.
Ma questo è ciò che ci ha condotti qui.
Queste sono le storie che diventano la Nostra storia...
Nell'arena di Gara 14, noi braviautori ci siamo gettati nella scrittura a viso aperto,
senza paura né timori, come sempre siamo abituati a fare.
Accettiamo ogni sfida e ogni Gara scrivendo ciò che sentiamo dentro
e regalando la nostra visione del mondo a tutti.
La vittoria è andata a Mastronxo che ha portato alla luce
una delle paure ricorrenti dell'Uomo moderno.
Una esordiente Jane90 si è piazzata, a sorpresa, seconda
raccontandoci una fuga avvenuta 300 anni fa.
Terzo classificato, un Arditoeufemismo in forma
che ci ha fatto tornare adolescenti innamorati.
Un immenso plauso va a tutti i condottieri di Gara 14,
per aver scritto col cuore e con l'anima.
A Tutti va il merito di aver riscritto, a proprio modo, una pagina della nostra Storia.
Ser Stefano


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Vecchiaziapatty
 

1465 – VIGILIA DI BATTAGLIA

      
 
Castello di Hay-les-Roses.
15 luglio, l’alba
                                        
Dal cammino di ronda Louis guarda la bruma diradarsi all’orizzonte. L’aria frizzante dà conforto, il contatto con la pietra scabra conferma la realtà di quell’istante. Il momento è arrivato.
       Hai paura? – chiede qualcuno alle sue spalle.
Louis si volta appena, senza trasalire. La voce è familiare.
       Di morire? No. Ma se mi catturano… 
       Non sei un vigliacco. Perciò temo di non vederti più. – Il vecchio gli assesta una pacca sulla spalla e abbozza un sorriso amaro. – Ma, a Dio piacendo, tornerai.
       Lo spero – replica Louis, voce grave da uomo e occhi fiduciosi di bambino.
       Non pensare a noi. Ricordati i miei insegnamenti. Serviranno.
       Tu non parli mai della guerra, eppure hai combattuto tutta la vita.
       Parlare della guerra? Non serve. Devi saperla fare, e basta. La guerra è solo sangue. Uccidere o morire, non c’è altra scelta. 
Louis fissa il padre di suo padre.
       Il tuo miglior soldato, grand–père?
       Ho avuto tanti buoni soldati.
       Il migliore, ti ho chiesto.
       Vuoi a tutti i costi essere il migliore? Finirai per non esserlo affatto. La persona più valorosa che ho conosciuto non pensava alla gloria, combattendo. 
       E a cosa allora?
       Alla Francia. Aveva una missione. Il suo ricordo morirà con me, nessuno ne canterà le gesta. Non era nobile. Era solo la tempra migliore che abbia conosciuto.
       Il nome, grand-père!
       Per seguirne l’esempio? Servi la causa della tua gente. Dimentica onori e plauso dell’esercito. 
       Ma quest’uomo…
       Ho forse detto che si trattava di un uomo? – sogghigna divertito Jean de Dunois, gustandosi lo sbalordimento sulla faccia del nipote. – E non guardarmi così! So di chi parlo.
       Non capisco… - afferma irritato e deluso Louis.
       C’era… Ah, fu davvero tanto tempo fa. Carlo non era ancora re. Avevamo una ragazzetta, nelle nostre fila. Una biondina, smunta e lacera. Veniva dalla campagna, mi capitò tra capo e collo, portata da Baudricourt. Tre volte l’aveva scacciata, ma quella tornava sempre. Sono mandata da Dio, devo parlare al Delfino! Alla fine Carlo pensò di non perderci nulla a darle udienza. Lei gli strappò l’incarico di scortare una spedizione militare. Così me la ritrovai fra i piedi. – Jean caccia indietro l’ombra di un sorriso. – Quando arrivò, niente fu più come prima.
       Una contadinella? È uno dei tuoi scherzi, grand-père? Vuoi esser divertente per distrarmi? – Louis ostenta sufficienza.
       Non mi hai chiesto chi ha servito meglio la nostra terra? E io te ne sto parlando. Lei combatté con noi solo pochi mesi, la sua fu una stagione bruciante, brevissima. Però riuscì là dove io avevo sputato sangue invano. Ridiede alle truppe nerbo, speranza. Integrità, anche. A tre giorni dal suo arrivo via dal campo le puttane e i dadi, e guai a sentire una bestemmia. Proibiti saccheggi e devastazioni. Due volte al giorno chiamava a raccolta i soldati intorno al suo stendardo. Li faceva pregare! Finite le orazioni, rieccola a sbraitare ordini a destra e a manca come un’ossessa. Sembrava che la vittoria fosse una sua faccenda personale. Lasciavo fare, era stato Carlo a ordinarmi di prenderla. Lo sai: l’esercito ha le sue superstizioni. Beh, da quando era arrivata lei, ogni cosa girava per il giusto verso. La Fortuna la seguiva, un alone di potenza sembrava crescerle attorno. Gli Inglesi invece cominciarono a infilare un errore dietro l’altro: annaspavano fra tattiche errate e malintesi. Non ti affezionare, Jean mi ripetevo. Questa, al primo vero attacco, cade. Spariva, sai, dentro quell’armatura troppo grande.
       Continua…
       Qualche settimana e mi sentivo più sicuro di lei che dei miei veterani. Sapeva sempre cosa fare, ogni consiglio si rivelava puntualmente la mossa decisiva.
       E come faceva?
       E chi lo sa? Circolavano dicerie… Le sentinelle giuravano d’averla vista più volte a tarda notte girare per l’accampamento parlando da sola, come in delirio. Se fosse a colloquio con demoni o angeli non te lo so dire. Ma se mi chiedi chi ci tirò fuori dai guai quando gli Inglesi ci pestavano sul cuore coi talloni allora ti rispondo: lei. Lei sola.
       Ah, grand-père, un’amazzone invasata come una profetessa… Meglio un grande condottiero, no?
       Allora non ci siamo capiti, ragazzo. Lei è stata il mio miglior soldato. Non parlo solo di carisma, di un braccio alzato con un vessillo bianco che fluttua al vento. Nel
mezzo di ogni mischia, lei c’era, chiaro? Tourelles, Jargeau, Patay, quanti esempi potrei farti…
       Morì in battaglia?
       No. Carlo dopo la corona la mise in disparte. Ma in fondo ormai lei voleva solo tornare in Lorena, a casa sua. I Borgognoni però tesero un’imboscata. Dovevo giungere in rinforzo, non arrivai in tempo. De Luxembourg la passò come ostaggio agli Inglesi. Carlo non alzò un dito per il riscatto.
       E poi?
       E poi gli Inglesi imbastirono una farsa di processo per disfarsene. L’eresia di sentirsi inviata da Dio la pagò sul rogo, a Rouen… - Il Conte chiude un istante gli occhi. Poi, volutamente brusco:
       Ma ora basta. Abbiamo fatto anche troppe chiacchiere. Tieni a mente chi sei e cosa sai fare, Louis.
Il Conte De Dunois si volta, ritorna velocemente sui suoi passi. Dentro sente il vuoto dell’abbraccio che voleva dare e ha trattenuto.
Louis respira a fondo, guarda il sole trafiggere la boscaglia all’orizzonte.
-     Il nome, grand-père, si può sapere o deve restare un tuo segreto? – grida infine all’indirizzo dell’altro, sempre più distante.
Mascella contratta e pugni stretti finché le nocche sbiancano, De Dunois allunga il passo, ancora elastico e scattante a dispetto degli anni. Vuole allontanarsi prima che Louis lo raggiunga.
Un vecchio soldato non ama farsi vedere con gli occhi lucidi.
Jehanne – grida al vento, senza voltarsi, cercando di confondere con una risata aspra la commozione che gli serra la gola con un nodo. - Si chiamava Jehanne.
 
 
 
 


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Hellies15

17 FEBBRAIO 1600

Campo de’ Fiori era gremita. Lo era sempre in certe occasioni, ma quella mattina si faticava persino a passare. Per Giuseppe e Antonio, in realtà, non era un gran problema: alti appena un metro e quaranta, si divertivano a sgattaiolare tra le gambe degli adulti per conquistare le prime file. Non volevano assolutamente perdersi lo spettacolo.
Si vociferava che questa volta sarebbe toccata ad un personaggio famoso. Un “filosofo” aveva detto loro la madre, ma probabilmente perfino lei non aveva idea di quale strano mestiere si trattasse. Ma a loro non importava chi sarebbe stato il protagonista dello spettacolo, bensì come esso si sarebbe svolto. Esistevano tanti modi per eseguire una pena capitale: la ghigliottina, la forca o anche il colpo secco di un boia con la propria ascia, ma i due ragazzi preferivano di gran lunga il rogo. Quella mattina sarebbero stati accontentati.
Con la consueta abilità si ritrovarono nel giro di pochi secondi a due passi dalla paglia ammucchiata attorno al palo di legno. Tra poco il condannato vi sarebbe stato legato. Tra poco lo spettacolo sarebbe cominciato.

Campo de’ Fiori era gremita. Giovanni Mocenigo era concentrato ad osservare il resto della piazza quando venne distratto da due marmocchi che sgusciarono tra le sue gambe per poi piazzarsi di fronte a lui. Poco più avanti tutto era pronto per l’esecuzione: era stato lasciato libero un corridoio per permettere alle guardie di portare il condannato fino al palo dove sarebbe stato legato.
Il nobile veneziano non si trovava lì per caso. Una settimana prima gli era arrivata a casa una lettera, contrassegnata dal simbolo della Santa Inquisizione. Si trattava di un invito ufficiale firmato direttamente dal cardinale Bellarmino, presidente del Tribunale che aveva emesso la sentenza. In essa lo si ringraziava: era stato grazie ad una sua denuncia se il processo contro Giordano Bruno era cominciato. Mocenigo ricordava perfettamente quel giorno. Era il 22 maggio 1592 quando aveva ordinato ai suoi servi di rinchiudere il filosofo in una stanza della sua villa, ed il giorno seguente, da buon cristiano, lo aveva accusato ufficialmente di sostenere teorie eretiche.
Non si era mai pentito della sua scelta: se Giordano Bruno, quel giorno, sarebbe morto arso vivo era a causa delle sue tesi blasfeme, quali l’inesistenza della trinità o la presenza di mondi infiniti; e, soprattutto, a causa della sua volontà di non abiurare. A Bruno era stata data l’opportunità di redimersi, ma non ne aveva approfittato. Pur di difendere le proprie idee sarebbe morto...ne valeva la pena? Mocenigo credeva di no: la materialità viene prima della spiritualità. Nel mondo sopravvive chi è più furbo e non chi è più onesto. L’onestà è una virtù che si può vantare nei confronti di sé stessi ma non nei confronti degli altri.
Non era mai stato un amante della violenza, per cui avrebbe volentieri evitato di assistere a quello spettacolo tanto straziante. Se si trovava lì, quel giorno, era perché lo doveva a Bruno. Il suo, infatti, era stato un tradimento. A fin di bene, ma pur sempre un tradimento. Lo aveva invitato a Venezia affinché gli insegnasse le arti mnemoniche, garantendogli protezione. Dopo nemmeno due mesi, invece, lo aveva accoltellato alle spalle e dato in pasto all’Inquisizione. Il fatto che a convincerlo ad effettuare quella scelta fossero stati i cento ducati d’oro pagatigli dal cardinale Bellarmino, nemico di Bruno già nel periodo precedente al suo esilio, dava a quel tradimento una luce ancora più fosca.
Ad un tratto il brusio sulla piazza cominciò a scemare, tanto da attirare la sua attenzione. Così lo vide: Giordano Bruno era completamente nudo, col corpo solcato dai segni delle frustate e da lividi di ogni genere, magro come un chiodo e con una mordacchia in bocca che snaturava oltremodo la sua espressione. Di fronte a quella visione Mocenigo sentì qualcosa muoversi dentro di lui. Provò a mantenere lo sguardo fermo e vitreo, ma non ci riuscì: le sue nuove emozioni pretesero un posto in prima fila e qualche lacrima cominciò a rigargli il volto. Quando i suoi occhi incontrarono quelli di Giordano Bruno, fermi ed sereni anche in quell’estrema circostanza, Mocenigo comprese la differenza di valore che sussisteva tra loro due: lui avrebbe continuato a vivere nella consapevolezza di non essere all’altezza della vita, mentre il filosofo sarebbe morto nella consapevolezza che vivere ripudiando le proprio idee significa non vivere alla propria altezza.

Campo de’ Fiori era gremita, e lui passava di lì per caso. Cesare Pisapia era solo un povero conciatore. Non sapeva leggere: gli occhi di suo figlio bastavano per entrambi. Non sapeva scrivere, ma col tempo aveva imparato a firmare con una splendida x. Una persona come lui era l’ultima ruota del carro: nessuno aveva interesse ad ascoltare le sue opinioni; anzi, nessuno pensava che lui ne avesse. E invece ne aveva, eccome! Ad esempio quel giorno una domanda gli frullava per la testa: “perché?”. Per quale motivo un uomo che non la pensa come la maggioranza delle persone dovrebbe essere condannato a morire in modo così brutale? Non sarebbe forse meglio sconfiggere le argomentazioni dissonanti con la forza delle parole anziché bruciarle assieme al suo sostenitore sperando che non ne rimanga traccia per i posteri? Perché la Chiesa che si proclama misericordiosa, che insegna ai suoi fedeli di porgere l’altra guancia, si spinge fino a compiere certe atrocità? Cesare Pisapia non conosceva le risposte a quelle domande. E nessuno glie le avrebbe date: era solo un povero conciatore.
Si allontanò dalla piazza quando la folla di persone accolse con un boato il lancio delle fiaccole sulla paglia, fiera di assistere a quell’atroce spettacolo in nome di un Dio che, senza saperlo, aveva abbandonato.


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Magasulla

STORIA DI UNA VERGINE E DI UN BICCHIERE DI VINO, ANNO DEL SIGNORE 1670

Liberamente ispirato a “Giovinetta con bicchiere di vino”,
quadro di Jan Vermee
Jacob De Laan, seduto in un angolo in ombra della vasta sala, riflette tristemente sulla situazione in cui si è venuto a trovare. L’incertezza lo sta tormentando mentre, il capo poggiato su una mano, sente crescere dentro di sé ansia e vergogna. Già da molte ore provava un tormento che non aveva voluto confidare certo al suo compare, quella trista figura di Pieter De Haak, cugino alla lontana dei Vogel e quindi di Jeanne, la beltà della quale lo aveva stregato. Proprio Pieter lo aveva condotto in quell’avventura, facendogli balenare un incontro amoroso, affermando che le sue arti adulatrici avrebbero sciolto le resistenze della cugina.
Ma proprio ora, che si trova al cospetto di quella giovane bellezza che tante notti ha popolato i suoi sogni, egli esita, si smarrisce. Di fronte all’oggetto amato, con la possibilità, anzi la “certezza” come affermava Pieter, di averla per sé, si proprio ora egli è preda di un sentimento di totale desolazione.
“Ma come ho potuto io, nobile ufficiale di sua maestà, penetrare qui, in questa casa dove molte volte sono entrato ospite onorato, ora lontani i genitori d’essa, con sotterfugi e immorali propositi?
Ma come mi ha costui convinto, questo perditempo e ruffiano come pochi, che si è avvalso di una lontana parentela per farci introdurre presso costei ?
Ma cosa mi ha trascinato qui, io uomo ricco e generoso, che con certo minor spesa dei cinquanta fiorini promessi a costui, avido manigoldo, avrei appagato le mie voglie amorose con le arti di un’amante esperta e discreta?.
Invece ora tremo al pensiero del giudizio di lei, una gran stanchezza mi spossa e, si, posso ben dirlo, non oso neppure guardarla!
Ma non posso non sentire le sciocche parole e le rozze smancerie che Pieter le rivolge al fine di sedurla, ah si, per me, che pur non guardandola, seppur vergognandomi, sento le voglie amorose e quel furor di passione che non mi da pace!”.
Accanto a Jeanne, Pieter, ha riempito un calice con il vino che il ricco mercante Vogel era solito offrire sul finire dei suoi pranzi, chiamandolo “Ispumante” e lo scaltro Pieter, non aveva mancato di notare tutta l’ eccitazione per codesto frizzante e profumato.
Proprio per questo lo ha versato per Jeanne e chinandosi verso di lei, ora le mormora parole di premura e desiderio
“Suvvia, dolce Jeanne, non rifiutare questo nettare degli dei che ho versato apposta per te, che arrosserà le tue morbide gote, facendo battere più forte il piccolo e morbido polso della tua mano, che sento già calda accanto alla mia.
Contro l’amore tu dunque hai tanto ritegno? Oh dolce cugina Jeanne, suvvia, apri il tuo cuore, comprendi la passione di questo onesto e nobile amico che se ha colpa è quella di voler ammirare le tue graziose fattezze, l’incantevole tuo sorriso. Oh dolce Jeanne il coraggio è nell’amore, la codardia è di chi non sa ascoltare i moti dell’animo innamorato!
Spezzeresti tu dunque la vita di questo gentiluomo che aspira solo a sfiorare con gentile ardore la bianca pelle del tuo esile collo? Oh con quanta generosità egli avrebbe voluto già da ora incorniciarlo con una preziosa collana di candide perle e se tu acconsentirai, oh dolce Jeanne, egli se ne farà premura.
Fai nascere dunque quel seducente sorriso che ha trafitto il cuore dell’amico mio e che nel suo desiderio vorrebbe sfiorare per sentire sulle tue labbra il sapore di questo splendido e frizzante vino d’Italia che ora ti offro dedicandolo alla tua giovinezza: non glielo negare amabile cugina, o so per certo che ne morirà”.
La giovine Jeanne ascolta attenta le parole di Peter: Ella,vestita con un ampio e vaporoso abito di raso rosso e dorato siede con superba modestia reggendo con grazia il calice di vino. Ella intende, lascia dire e sono i suoi occhi che si fanno via via più ridenti mentre così ella pensa: “Con quanto sciocche ed inutili smancerie, cugino Pieter, mi cingi.
Quanta fiducia tu riponi sia nella tua insulsa loquela sia in questo “nettare divino” che mi offri come se lo avessi trasformato in un magico filtro d’amore ? Così poco dunque tu valuti me e la mia verginità? Così tanta fiducia tu dunque riponi nella tua sciocca favella? Questo tuo insulso gioco di seduzione è degno di un povero e vile mezzano che tenta di adularmi per farmi cedere ad un uomo che neppure ha avuto l’animo e il coraggio di mostrarsi a me, e di chiedere ,inginocchiato ai miei piedi, il solo onore a cui può ambire, quello di baciarmi la mano. Ignobile codardo, non lo degnerò neppure di uno sguardo.
Ben peggio però è costui, che con la scusa di una lontana parentela si è sovente introdotto nella nostra casa a cene e banchetti, mangiando e bevendo senza ritegno, apprezzando soprattutto questo vino che ora mi offre. Questo sciocco vorrebbe farne un’arma di seduzione, per ceder ciò che più mi onora, gioia del mio futuro sposo, il mio candore e la mia purezza, doni di nozze i più preziosi.
Ah poveri allocchi! Ah quale sbaglio per voi, quando proprio questo vino generoso e frizzante scioglierà non la mia resistenza, ma la mia ira. Esso infatti rinvigorirà le mie membra, e certo frizzanti saranno le mie parole e certo ben serviti sarete entrambi.
Infatti proprio questo “nettare” mi darà forza e vigoria per chiamare ad alta voce i servi già pronti, insieme alla devota governante Catharina, custode non solo della casa ma anche del mio onore. Essi hanno l’ordine di scacciarvi fuori dalla casa con nodosi bastoni, mentre con dure e sprezzanti parole io vi farò conoscere sordidi e vili quali siete e certo nessuno più vi chiamerà gentiluomini.
E rido, ora rido, ora che alla fine siete, tu cugino avido macchinatore di intrighi e tu, vecchio abietto, tutti e due uniti nella vergogna.
E a voi signori spettatori, il mio sorriso si rivolge, a voi i miei occhi ridenti che già pregustano la desiderata vendetta.


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Jane90

1693: GRANDE CACCIA A CHARLESTOWN

Emma si portò una mano al grembo, scivolando contro un albero tra le fronde di un cespuglio scuro. Se avesse avuto i poteri per cui l’accusavano, certo non sarebbe rimasta lì da sola, al buio, sanguinando sulle foglie umide. Avrebbe invocato l’oscuro padrone che secondo loro serviva, facendo in modo che tutti loro provassero il dolore a cui l’avevano sottoposta.
Chiuse gli occhi ascoltando i lievi movimenti provenienti dal proprio ventre: ormai il rigonfiamento della sua pancia era troppo evidente per poter essere coperto dagli abiti.
- Il diavolo ha tentato questa figlia del Signore con le allettanti promesse del peccato!- aveva tuonato il prete quel mattino, al processo – Il demonio che porta in grembo ne è la prova - aveva poi assicurato rivolgendosi alla giuria composta dai cittadini più illustri di Charlestown – Di cos’altro abbiamo bisogno per affidare quest’anima perduta alle cure del nostro Signore?
Emma era legata su una sedia. Aveva alzato gli occhi verso suo padre: Egli le aveva rivolto uno sguardo freddo, duro, accusatorio, sufficiente a farle comprendere che lui non avrebbe fatto nulla per aiutarla. E così era stato.
Rabbrividì, per il freddo e per il ricordo delle ferite che le percorrevano il corpo, provocate dall’enorme spillo con cui il boia aveva esplorato la sua pelle alla ricerca del neo della strega.
Una fitta di dolore la scosse ed Emma si strinse la braccia attorno al corpo. Se il bambino fosse venuto al mondo, sarebbero stati perduti. Lei sarebbe stata impiccata in pubblica piazza, il bambino sarebbe stato gettato nel pozzo.
Emma pensò che le accuse erano in parte vere: colui che aveva generato quel bambino era realmente un demonio. Sedeva tra la giuria durante il processo, con suo padre: il notaio del paese, tra i cittadini più rispettati. Come un diavolo tentatore l’aveva attratta con le sue lusinghe, le aveva giurato il suo amore e le aveva fatto vane promesse poi rinnegate.
Non aveva fatto nulla per lei. Nemmeno quando l’avevano legata ad un palo posto al centro del tribunale o mentre la frusta le colpiva la schiena e gli aghi le ferivano la carne.
Emma non era abituata al dolore: dopo pochi minuti aveva gridato la sua confessione –Si! Sono una strega, aspetto il figlio del demonio, vi prego basta!
L’avevano slegata mentre il boia preparava la forca.
Improvvisamente, Emma aveva sentito il bambino scalciare, per la prima volta, e aveva avvertito una forza mai sperimentata prima –Si, è così.- aveva esclamato d’improvviso con voce profonda e roca – Sono l’amante del demonio, e i suoi poteri sono nelle mie mani! Lasciatemi!- come scottati, i due uomini l’avevano lasciata. Sbalordita dal successo, Emma si era voltata ed era corsa via, tra la folla che temeva di avvicinarla. Aveva sentito le maniche dello scamiciato strapparsi, ma aveva continuato a correre, senza fermarsi fino a quel momento.
Sentì gli ululati dei cani: gli abitanti di Charlestown avevano deciso di ispezionare la foresta. Presto l’avrebbero trovata: ciò fu sufficiente a ridarle le forze e si alzò, riprendendo a correre.
Si mosse rapida tra gli alberi. Ignorare le pressanti fitte al ventre era difficile, così come lo era fingere di non capire ciò che stava accadendo. Era presto, ma sapeva che non tutti i parti rispettavano le previsioni. Il bambino spingeva per nascere, ma lei non poteva smettere di correre.
Senza fermarsi iniziò a sussurrare, rivolgendo preghiere al proprio ventre e a Dio.
D’improvviso le immagini presero a confondersi nei suoi occhi ed iniziò a barcollare. Un liquido le colò tra le gambe e uno spasmo potente la fece cadere a terra.
- Cosa succede?
La voce di un uomo giunse da poco lontano ed Emma gemette di terrore, ma l’uomo parlò di nuovo –Emma… mi riconosci? Sono Edward, il mugnaio… - lei tento di rispondere, mettendo a fuoco il suo soccorritore: lui e sua moglie vivevano fuori da Charlestown ed erano considerati personaggi stravaganti –Emma, stai avendo un bambino. Non avere paura … - cercò di tranquillizzarla -Sta bene. So ciò che dico. Mia moglie ha partorito stamane e il bambino era… ma non il tuo, Emma. Lo sento muoversi, è vivo.
Il dolore era tanto forte che Emma non riusciva nemmeno a gridare. Continuò a emettere lievi gemiti, riuscendo a stento a seguire i suggerimenti dell’uomo.
Quando fu certa che nulla avrebbe potuto essere peggio di ciò che stava provando avvertì un’ultima travolgente fitta di dolore e sentì qualcosa spezzarsi dentro di sé. Gridò, cercando di strapparsi il dolore di dosso.
Esausta, seguì i movimenti di Edward: egli sollevò un fagottino sporco di sangue, che emise un lieve vagito agitando in aria le manine.
Emma si sentì come se si fosse liberata dalle catene che l’avevano tenuta legata al mondo dei vivi fino a quel momento – Lui è… - riuscì ad esalare, poi chiuse gli occhi con un ultimo esangue sorriso.
Edward avvolse il neonato nella propria camicia e chiuse gli occhi della giovane.
Fu il notaio a trovare il corpo della strega e tutti gli uomini del villaggio accorsero ad ammirarne le membra straziate.
Il parroco si fece largo tra la folla e si avvicinò, ma non aveva fatto che un passo che sobbalzò – Il neonato…- esalò, crollando in ginocchio – Il demone è fuggito…


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Muirne

1805

Il suono delle conversazioni non raggiungeva la saletta di Whyte's in cui Nicolas McNair, conte di Steaford, e suo cugino Marc Laston giocavano a carte.
«Parteciperete alla cena della signora Brenshaw? Siete l'ospite più atteso.» chiese il più giovane,osservando il colore intenso del Porto nel suo bicchiere di cristallo.
«Secondo la corrispondenza di domani sarò molto spiacente di non prendervi parte. Piuttosto che curarvi della mia vita sociale perché non pensate alla partita? La vostra abilità nel gioco non si è accresciuta e la vostra fortuna sembra diminuita!» rispose il conte, mentre un lampo di divertimento gli illuminava gli occhi verdi.
«Avete ragione, ci sono già troppe madri di figlie nubili a preoccuparsi dei vostri impegni! Perché non mi concedete la rivincita al libro delle scommesse? Cento sterline che sarete dalla Brenshaw sabato!» Laston non attese oltre e si avvicinò al registro, vera istituzione del circolo.
«É la sola voglia di perdere a farvi parlare così?» ironizzò McNair, verificando che le pieghe della cravatta rispondessero ai dettami di Lord Brummel, prima di raggiungere la sala principale.
«No, sarà la presenza della signorina Aileen Chapman a farmi vincere la scommessa!»
Il sabato successivo una breve fila di carrozze sostava davanti alla casa della signora Brenshaw: in dicembre la Stagione era solo un vago ricordo e la migliore società trascorreva nelle proprie dimore di campagna il Natale. Tuttavia la signora era soddisfatta della serata che era riuscita ad organizzare. Quasi tutti gli ospiti erano già arrivati quando una donna dalle fattezze orientali entrò nella sala: era una nuova conoscenza della padrona di casa, le sue origini indiane erano avvolte nel mistero e di lei si conosceva solo la capacità di spiare le vite altrui e leggerne il futuro, il che avrebbe fornito una fuga dal tedio e dalla monotonia dei soliti balli e partite di whist. Gli ospiti le avevano posto già molti quesiti e le discussioni sulle sue risposte enigmatiche erano accese quando la veggente si allontanò per raggiungere una giovane in disparte. «Siete la signorina Chapman,vero?» Aileen annuendo mosse i ricci scuri legati sul capo e lisciò pieghe inesistenti del suo abito chiaro stile impero. «Desideravo parlarvi: so che la vostra vita non è stata semplice ma ora dovrà cambiare...»
«Non capisco a cosa vi riferiate signora, ma vi ascolto»
«Vostra madre è una francese in un' Inghilterra in guerra contro la Francia. La buona società la guarda con sospetto e vi fa sedere in disparte ai ricevimenti a cui siete invitata.» Aileen non rispose, fissò gli occhi dorati dell'indiana con uno sguardo di sfida. Era vero, la sua famiglia era emarginata per la nazionalità della madre ma questo non aveva piegato il suo orgoglio inglese.
«Vi porto un messaggio della dama grigia.»
Solo allora la giovane parve stupita, la dama grigia era uno spirito che infestava le proprietà dei suoi avi paterni,si diceva che ogni matrimonio della famiglia fosse deciso da lei, che manifestava la sua volontà tramite avvenimenti inspiegabili. Aileen non sapeva se credere alla leggenda che con lei non si era mai concretizzata, malgrado tutta la famiglia ne assicurasse la veridicità. Ne aveva concluso di dover aspettare uno spirito ritardatario perché suo padre acconsentisse alla proposta di qualche giovane, finora tutte rifiutate. «La dama vuole che ti mostri questo.» Da una manica di pizzo nero la veggente trasse il disegno di una pantera. «Accetta la belva che verrà con il falco.» Così dicendo la misteriosa donna se ne andò, mentre Aileen scopriva che suo padre alle sue spalle aveva sentito tutto.
La signora Brenshaw aveva ormai perso le speranze quando il maggiordomo annunciò l'arrivo di Nicolas McNair, che venne quasi subito abilmente intercettato dal cugino.«Ero certo che le gaie conversazioni di stasera vi avrebbero attratto:potete scegliere tra il dibattito di Stanhope sulla vittoria di Trafalgar,le voci sulle avventure del duca di Harow con un'attrice e il monologo della signora Catsword sull'ultimo libro di Anne Radcliffe, ormai vecchio di quasi dieci anni. Ma forse preferite dirigervi casualmente in quell'angolo...» Fu così che i due cugini rinnovarono le presentazioni con i Chapman.
«Curiosa coincidenza signorina, quel disegno mi pare di averlo già visto!» disse Nicolas estraendo dalla tasca della marsina una tabacchiera di porcellana smaltata, sulla quale era riprodotta una pantera uguale all'illustrazione data dall'indiana. «Mi avevano detto che è un modello unico!» Aileen e la madre sbiancarono, mentre McNair rimuoveva dell'invisibile tabacco dalla manica con un fazzoletto. Il ricamo nella stoffa mostrava il suo stemma:un falco in volo su uno scudo. Il signor Chapman rammentò di averlo visto chiaramente sui biglietti personali del conte, il quale entrò subito nelle sue simpatie.
Alla fine della serata,tornando a casa nella carrozza del cugino, Marc ruppe il silenzio.«Mi dovete cento sterline! Sapevo che non avevate dimenticato quel bel visino dalla Stagione» Il fioco rumore di una risata trattenuta fu l'unica risposta.«La signora Brenshaw dice di aver iniziato una moda ospitando la veggente, anche i Chapman sembravano molto colpiti da quella donna. Nicolas, ditemi, vostra sorella non ha una cameriera identica a quell'indiana?»
«Vi dirò soltanto che dalla passata Stagione ho imparato che le magie bisogna saperle creare!»


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Ludo78

GENNAIO 1808 - LA QUINTA

L’ultima nota era stata scritta. Finalmente!
Aveva iniziato a lavorarci già ai tempi della Terza sinfonia, una gestazione lunga e travagliata.
Il tema principale di quest'ultimo movimento, in do maggiore, che Ludwig aveva nuovamente esposto in fortissimo, rappresentava una vera e propria vittoria dell'ottimismo sulla crudeltà del destino. Eppure il padre di quelle note se ne stava lì, con le mani tra i capelli arruffati e la fronte corrugata da pentagrammi vuoti e minacciosi.
Il suo occhio cadde sul quadernetto, in bilico nell’angolo della scrivania. D’istinto, con un colpo di mano come quando agitava con folle maestria la sua bacchetta, Ludwig lo fece cadere; vederlo gli ricordava che era costretto ad utilizzarlo per comunicare con amici e parenti. Lo guardò precipitare per godersi l’ennesima, sadica, pugnalata nel costatare che non ne avvertiva minimamente l’impatto con il pavimento.
Il dolore gli implodeva nel petto: non poteva confidare a nessuno il suo problema perché nessuno avrebbe affidato qualcosa da comporre ad un musicista sordo. Eppure la sua musica continuava a far battere mani e a palpitare cuori. Il preconcetto è un’atavica sciagura che feconda l’ignoranza insita nella conformazione umana.
Perché proprio a lui?
Eppure le cannonate delle truppe francesi di Napoleone dell’undici maggio, le aveva sentite così forte da doversi rifugiare in cantina con due guanciali schiacciati contro le orecchie. I suoni forti gli provocavano un fastidio atroce! Qualche luminare gli avrebbe spiegato che questi erano i sintomi del fenomeno del recruitment che, per ironia della sorte, non fa sentire i suoni di intensità normale, ma provoca un fastidio oltre norma per i suoni forti. La sua sordità era già grave: a soli 39 anni, tra lui e il mondo si era già alzato il muro del silenzio.
Non avvertiva né voci né suoni e riusciva appena ad udire ciò che suonava stringendo tra i denti una bacchetta di legno, poggiata sulla cassa di risonanza del pianoforte.
Ludwig digrignò i denti in una smorfia di disgusto, gli restava in bocca quel retrogusto amarognolo del legno.
Poi, il suo sguardo arrossato fu rapito da quei fogli spiegazzati e pieni di note che stavano lì, davanti a lui, come una donna seminuda che lancia il suo silenzioso invito ad essere amata.
Così, il musicista, non si arrese al suo senso rapito per sempre dalla malattia. Cominciò a leggere con la mente la musica che aveva appena finito di scrivere.
Il primo movimento, Allegro con brio, era forse la pagina più celebre e drammatica che lui avesse mai scritto: tema di quattro note, il destino che bussa alla porta. Ludwig sentì chiaramente il toc toc del fato, lo sentì vibrare nelle sue vene che divennero corde.
Il secondo movimento, Andante con moto, era in la bemolle maggiore, che introduceva un clima di distensione, anche se non mancavano la reminiscenza ritmica del motivo iniziale della sinfonia.
Per la prima volta nella storia della musica gli ultimi due movimenti della sinfonia erano uniti fra loro senza soluzione di continuità.
Il tema principale del terzo movimento, che a differenza del solito non aveva intitolato Scherzo, di nuovo in do minore, lo aveva esposto in fortissimo e riprendeva, variandolo, il motivo iniziale del primo movimento.
Nella sezione centrale, in tonalità maggiore, violoncelli e contrabbassi all'unisono si lanciavano in spericolati passaggi virtuosistici.
Archi come ali impazzite premevano lì, nel suo petto, facendogli udire ogni piccola sfumatura di quella sinfonia, sangue del suo sangue.
A questa sezione seguiva la ripresa, in cui il tema iniziale questa volta era esposto piano, per sfociare in un ponte modulante che conduce direttamente al Finale, Allegro.
La sua fronte si distese come il mare calmo della sera. Ludwig si abbandonò a quella allegria: il destino infausto ne usciva vinto.
Non tutto era perduto; lui, la musica, poteva continuare a sentirla con le orecchie dell’anima. E la musica era tutto ciò che gli bastava sentire, come il battito del cuore, per ricordarsi che era vivo.
Dieci anni dopo, proprio a causa della sua sordità, gli avrebbero revocata la podestà sul nipote Karl, ma nessuno sarebbe mai riuscito a privarlo della sua adorata musica.
Così, Ludwig, dedicò tutta la sua vita all’eccellente genio artistico che lo aiutò a superare la sua sordità, facendola quasi diventare una dote da supereroe: un valore aggiunto che gli permetteva di sentire ciò che sfuggiva a chi non era audioleso.
Il pianoforte, infondo, non ha bisogno delle orecchie, pensò tra sé Ludwig, mentre riordinava i fogli della sua Quinta sinfonia!


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Gigliola

“ TA'TATA TA' ” (1827)

In questa notte, al chiaro di luna, in quella tenue luce che mi illumina, mi rivolgo a te, mia amata Elisa, mentre ti immagino appassionata nel tuo cuore e sulla mia pelle.
Quanto avrei voluto in questi anni che le tue delicate mani bussando impazienti alla mia porta, mi avessero riportato dalle tenebre alla folle spensieratezza di un tempo. Mi riferisco a quei momenti della mia pur patetica infanzia e giovinezza in cui quasi per magia riuscivo a sentirmi in un'altra orbita, in un mondo paradisiaco, nonostante la confusione, i contrasti familiari e le punizioni di mio padre, se dopo dieci ore di studio non avevo ancora imparato la lezione al puntino. Ma non posso essere certo di una tua avventata visita, pur essendo completamente chiuso in questa mia casa, prigioniero da qualche anno. Vivo nell'incubo della mia austera sordità.
Ogni tanto mi illudo, sogno che sei venuta fuggitiva a trovarmi, ed il mio cuore batte le percussioni, la mia mente si inonda dell'euforico canto di violoncelli e violini e l'orchestra suona la sua, la mia pastorale sinfonia.
Soltanto tu, eroica, avresti potuto salvarmi da quel bussare alla porta che mi ossessionava, quel “tàtata tà” che mi ha sempre perseguitato. Da bambino quel ritmo lo eseguivo io martoriando la porta, mentre chiedevo clemenza a mio padre perché mi lasciasse uscire da quella stanza in cui non c'era altro, che quell'odioso strumento dentato. Avevo fame, sete, bisognini, voglia di baci e carezze della mamma, coccole di cui i miei fratellini godevano a dismisura. Da giovane, mi iniziarono a venire periodicamente delle dissenterie insostenibili, ed allora erano gli altri a bussare perché liberassi il posto.
Col passare del tempo, la mia situazione si aggravò. Finì per chiudermi sempre più in me stesso e tra le mura di casa mia. Fu in uno di questi episodi, forse il più grave, che un caro amico venne a trovarmi. Disperato al suono del fatidico “tàtata tà”, convinto nel mio delirio che fosse la morte a bussare alla mia porta, che fossero i miei ultimi minuti di vita, balzai sul letto saltando e cantando per scongiurare quello scheletro con la falce a lasciarmi completare la mia opera. Non avevo ancora detto la mia su quel mondo infame che mi circondava e allo stesso tempo su quell'amore universale che pervadeva nelle mie viscere per il mio prossimo.
Pare che dopo un'ora il mio amico riuscì, scavalcando una finestra ad entrare, costringendomi con forza brutale a restare calmo. E come ogni evento fatale o emozionante della mia vita, tradussi quell'episodio scrivendolo. Stavolta, non limitandomi ad un singolo fraseggiare, ma bensì ad un allucinatorio, delirante ritmo maniacale. Trentaquattro anni avevo, un vecchietto ormai, e ora che siamo nel 1827, arrivato a cinquantasei primavere, pur chiedendomi se vedrò ancora una volta nascere i fiori nel mio giardino, o questa mia lettera è il segno dei miei addii, provo ancora quell'energia vitale dentro di me.
Però, è strana la vita: odiavo a morte quei tasti bianchi e neri che dovevano farmi diventare, secondo mio padre, un bambino prodigio. Quello strumento che era il mio carceriere diventò per me, non riesco ancora oggi a capire per quale meccanismo perverso, l'oggetto delle mie lusinghe, delle mie passioni, dei miei amori mai contraccambiati. E dicono che ogni volta che sono seduto di fronte a lui il mio sguardo, il mio viso si trasforma, quasi col mio strimpellare uno spirito dell'Aldilà si prendesse possesso della mia anima.
Ora la mia opera è finita. Non sento più nessun “tàtata tà”, ma in cuor mio so che la morte busserà a breve prepotente sulla mia porta. Non riuscirò ad ascoltarla se non nelle mie viscere, come da allora non sono riuscito a godermi il vivo ascolto della mia musica.
Nonostante il mio sciagurato destino, ho composto un inno alla gioia, testimone di quell'amore che provo per l'umanità e che nella mia diabolica sordità mi fa sperare in tempi migliori anche se non li vedrò, in quel giorno in cui il mondo aprirà quell'udito che sente ma non ascolta, quel momento in cui tutti senza distinzione di razza, di classe si sentiranno fratelli in comunione. Quell'amore universale per ogni essere vivente che io, pur essendo sordo e pur non avendolo mai ricevuto, ascolto incessante nelle mie budella, quelle budella che mi hanno fatto tanto penare e che trasformo in suoni che mai potrò ascoltare. Quel sentimento profondo che sento per la mia amata, per Elisa, per te.


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Enzo Milano

D-DAY, 1860


Una volta erano la spina dorsale del 13° Reggimento Lucania, Fanteria di Linea Nazionale dell’esercito borbonico. Ora erano solo degli spettri, a difendere un fortino svenduto da tempo.
Il tenente Buttà, spalle a un caseggiato in prossimità della spiaggia, fucile ad avancarica tra le mani e sciabola Briquet al fianco, scosse il capo. «Stanno sbarcando, il loro obiettivo era questo… altro che Palermo.»
Il cadetto Anfora, accanto a lui, sudava. «Pirati, questo sono! Distruggeranno ogni cosa, quei figghi di bottana
La rabbia del giovane era comprensibile e giustificata ma il tenente, grado più alto rimasto di stanza a Marsala, non aveva nulla per estinguerla. Poteva solo sperare di canalizzarla in quello che sarebbe comunque stato un massacro.
Guardò i pochi uomini rimasti, asserragliati alla meglio per fronteggiare il nemico. I pirati. Trovò particolarmente consone alcune definizioni udite.
Briganti… chi lo era davvero?
*** *** ***
I due piroscafi all’assalto si divisero. Il primo puntò direttamente terra, arenandosi pur di facilitare lo sbarco. Centinaia di uomini di diverse nazionalità, divise e senza alcuna organizzazione, si lanciarono allo sbaraglio sulla battigia, sparando con i moschetti. Fumo, puzza di bruciato, urla. Primi caduti da entrambi gli schieramenti.
Dalla seconda imbarcazione, invece, partirono piccole scialuppe a remi, cariche di soldati a giubbe rosse. Silenziosi e concentrati, come il loro generale esigeva.
«La prima ondata permetterà ai tuoi Cacciatori delle Alpi di sfondare.»
Quello che per i locali era il comandante dei pirati, un uomo dalla barba folta, la pelle raggrinzita e abbronzata, e due profondi occhi di ghiaccio, annuì. «Sfondare è un termine eccessivo, Nino. Se portiamo dalla nostra parte il popolo, non ci sarà neanche bisogno di trasformare in una cloaca queste terre.»
«Le tue parole sono eretiche, maggior generale. Qui o si fa l’Italia, o si muore.»
Il comandante ebbe un sorriso triste, osservando lo schieramento delle navi alleate e non sul mare cristallino. L’unico vero scontro, quello sulla spiaggia, non gli interessava affatto.
*** *** ***
«Avanti! Avanti!» urlava a squarciagola il tenente Buttà.
Il campo di battaglia era il caos, una spiaggia su cui molte, troppe volte aveva preso il sole lui stesso. Un luogo di pace e serenità, trasformato in un circo sanguinario.
Quell’orda di barbari aveva la fame negli occhi, poteva vederla bene. Una luce di forza e malvagità che i suoi uomini non avrebbero mai potuto affrontare.
Incrociò la sciabola con un corsaro, scintille come stelle cadenti. Il borbonico parò a destra, poi a sinistra, infine affondò dritto al ventre. La lama fuoriuscì dalla schiena dell’avversario, scuro sangue a imbrattare la fine sabbia.
Con una pedata allontanò il cadavere, liberando l’arma. Fece un rapido trecentosessanta gradi per controllare la situazione.
Il cadetto Anfora, baionetta in una mano e sciabola nell’altra, combatteva con la bava alla bocca. Di tutto il gruppo, forse lui era l’unico ad avere la stessa sete di morte dei pirati. Ne trafisse uno alla gola mentre, con un rapido gioco di gambe e gomiti, ne atterrò un altro, finendolo subito con la spada.
Un colpo di moschetto, di spalle, pose fine alla sua personale guerra. L’ultimo sguardo lucido che riuscì a indirizzare, era pregno di significato per il suo superiore.
Nuove urla dal mare, il tenente voltò la testa spaesato. Le scialuppe erano giunte a riva. Le camicie rosse, i professionisti, calarono sul territorio siciliano come avvoltoi sulle carcasse.
*** *** ***
Il maggior generale camminava scuro in volto sulla spiaggia, ora in silenzio. La tempesta non era conclusa, si era solo trasferita tra le viuzze della cittadina, dove già si udivano le urla di gente innocente. Uomini, donne, vecchi e bambini.
Nessuna distinzione.
Al suo fianco, il fido Nino Bixio. «Non puoi evitarlo, lo sai. Ogni esercito ha bisogno di rifocillarsi, di arricchirsi, di… saccheggiare il nemico sconfitto. E’ necessario per il morale delle prossime battaglie.»
Giuseppe Garibaldi annuì, si fermò. Ai suoi piedi un ufficiale borbonico ferito a morte. Boccheggiava, tentava di dire qualcosa.
Senza sapere il perché, si inginocchiò nella sabbia rivoltata.
«Quando arriverete dai miei… dai miei superiori, che si sono venduti all’invasore,» sputacchiò un misto di bava e sangue. «Scannateli senza nessuna pietà… come avete fatto qui oggi… e dite loro…»
Garibaldi socchiuse gli occhi, strinse le labbra.
«Dite loro che il tenente Buttà e la sua compagnia, veri picciotti, ha… hanno… sempre fatto il loro fo-fottutissimo dovere… a memoria dei posteri.»
Il soldato smise di combattere tirando un ultimo, lungo respiro. Garibaldi si risollevò, schiena al sole. Deglutì amaro.
«Nessuna memoria, tenente. Non finché la storia la scriveranno i vincitori.»
Marsala, poco distante, stava bruciando.
Per l’Italia.


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Arianna

TESTAMENTO (1872)

Io, spirito anonimo, dichiaro di aver persuaso una medium, durante una seduta spiritica, a prestarsi come tramite per la scrittura automatica del mio testamento morale.
La sua mano ha scritto tutto ciò che avevo da dire ai posteri. L’ho incaricata di consegnare il testamento a una scrittrice che potesse rielaborarlo e diffonderlo. Quindi, che lei non sia perseguitata per apologia di reato. Questo scritto è solo una testimonianza di un tempo in cui gli ideali erano ragione di vita e di morte.
Sono nato nel 1872 e morto all’età di ventuno anni, in Francia, condannato a morte, decapitato dalla lama della ghigliottina. Il mio nome è un dettaglio irrilevante, ma qualcuno mi riconoscerà e sarà pervaso dal brivido del passato, dove le menti non erano offuscate, ma illuminate da un ideale.
L’idea era il nostro nutrimento. Uno scrittore diffondeva una soluzione al problema della fame: mangiare i bambini.
Le ingiustizie che vedevo intorno a me portarono il mio pensiero a condividere la dottrina anarchica. Credevo alla fine di ciò che vedevo ogni giorno: lo sfruttamento, la prevaricazione, la miseria di tanti e la ricchezza di pochi. Credevo alla vita come strada per arrivare al compimento della rivoluzione, che avrebbe portato alla ricostruzione di un mondo diverso, in cui i valori sarebbero stati la solidarietà, la fratellanza, l’abolizione dell’autorità e della proprietà. Tutti avremmo lavorato secondo le proprie attitudini. Sarebbero scomparse le attività parassitarie. Nessun politico a governare, perché ci saremmo autogestiti, né autorità a difendere i cittadini perché sarebbero stati responsabili, con un lavoro che permetteva una vita dignitosa; non più furti né violenze generate dal bisogno economico. Abolizione delle autorità parassitarie, quindi anche gli ecclesiastici parassiti delle anime perse deboli e bisognose di conforto non più necessario, sarebbero scomparsi. Abolizione della famiglia e del matrimonio: l’amore non è eterno, non prendiamoci in giro. La donna non avrebbe più avuto bisogno di prostituirsi legalmente a un marito, ma avrebbe avuto dignità e un lavoro, facoltà di pensare e vivere allo stesso livello del suo passato defunto carceriere. Non più delitti passionali, i più diffusi. L’amore non è proprietà, l’amore è libero.
La strada per giungere alla meta poteva essere pacifista, con la dissuasione verbale e la diffusione di scritti. Accanto a questa c’era quella che utilizzava l’odio e la morte per arrivare all’amore finale.
Ero un ragazzo mite, tranquillo. Ho abbracciato la linea pacifista.
Ma un fatto stravolse la mia vita. Ebbi l’impressione di essermi addormentato e di stare sognando. Riuscii a capire, dopo poco, di essere in uno stato di trance, trasportato da un’entità invisibile in una dimensione parallela, dove potevo vedere cosa sarebbe accaduto nel futuro. L’incresciosa visione di ragazzi che si sparavano per un gioco dove si rincorreva un pallone mi fece quasi morire. Una palla sarebbe diventata questione di vita o di morte? L’entità mi sorrideva e annuiva. Riaprii gli occhi, disteso sul mio letto, con brividi di sudore che mi bagnavano il corpo. La mia stanza spoglia e semplice mi sembrò paradisiaca, al confronto di ciò che avevo visto.
Non era possibile … Ma lo avevo visto. Il futuro non poteva essere modificato.
La rabbia mi riscaldò e mi asciugò gli abiti.
Da quel giorno dedicai molto tempo allo studio della chimica. Nella mia mente era stampata l’immagine di un ragazzo morto perché un altro gli aveva sparato per quel gioco dove si prendeva a calci una palla… Costruivo le mie bombe, e piangendo, dicevo: - Stronzi, vi farò vedere io cosa sa fare un ragazzo della sua vita.
Ora dico, nel mio testamento: lasciate una traccia di voi, sia anche una frase scritta su un muro, o un albero piantato per gioco. Non sparite nella massa.
L’8 novembre 1892 depositai la mia ultima creazione fuori una miniera. Era un gesto di rivolta contro lo sfruttamento cui erano sottoposti i minatori. Ma gli eventi ebbero un corso imprevisto: la bomba fu trovata prima dell’esplosione e portata in un commissariato. Lì esplose e ci fu una strage: saltarono in aria diverse persone, i frammenti dei loro corpi si unirono alla polvere delle macerie. Lo stabile non crollò grazie alla biblioteca che era al piano di sopra: il peso dei libri era più forte dell’esplosione.
Non fui arrestato per questo incidente, non c’erano tracce che portavano a me.
Trascorsero due anni. Noi non usavamo diplomazia per arrivare alla meta. Un mio compagno fu giustiziato, ed io mi sentii in dovere di rispondere a quest’atto. Gettai una bomba fuori un bel locale. Morirono molte persone ed io fui arrestato e condannato a morte.
Noi non ci pentivamo. Eravamo fieri delle nostre azioni. Le nostre ultime parole erano sempre: non rinnego. Così, al di sopra dei miei occhi chiusi, all’età di ventuno anni, la lama della ghigliottina è scivolata rapida sul mio collo.
Dopo la mia morte, ho rincontrato l’entità che mi aveva permesso di dare uno sguardo al futuro. Sorridendo, mi fece vedere ancora più in là. L’anno 2012 era passato; il mondo si era rinnovato, tutti erano felici, come io avevo immaginato accadesse dopo la rivoluzione. Il calendario Maya si era fermato a quell’anno perché sarebbe iniziato un nuovo ciclo, con il risveglio della connessione e dell’amore universale, dopo il transito di Venere sul Sole.


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Robbstark85

24 AGOSTO 1942 – L’ULTIMA CARICA

“Colonnello, dia un’occhiata”; la giovane vedetta gli si accostò con il suo baio e gli passò il binocolo. “Maledizione, se continuano con questo tiro di mortai, non esisterà nemmeno più la dannata quota 213.5…” Quindi passandosi brevemente la mano guantata sui favoriti, diede uno sguardo dietro di sé ai suoi uomini. Vide volti esausti, e cercando di guardarli negli occhi si rese conto che questi li abbassavamo, quasi con vergogna. “Sergente, dia ordine agli uomini di smontare. Prepariamo un quadrato e ci accampiamo.” Il suo consigliere si avvicinò e gli sussurrò: “Signore, qui siamo allo scoperto.” “Lo so caporale, ma gli uomini non ce la fanno più. Se domani vogliamo combattere i soldati devono potersi reggere in piedi.
“Tenente, è sveglio?” “Sì soldato, adesso lo sono” fece con uno sbuffo rassegnato. “Mi scusi, abbiamo ricevuto l’ordine di verificare un carro di fieno, una pattuglia ha detto di aver visto un riflesso metallico.” Si avvicinò con calma alla sua Giulietta, l’unica cosa rimasta dell’eredità del patrimonio di famiglia; era una splendida cavalla nera, dal temperamento focoso. Le accarezzò dolcemente la testa e la sentì nitrire come se pregustasse una bella galoppata notturna. Poi partirono salutando gli addetti alla mitragliatrice che stavamo palesemente lottando per restare svegli. Là non c’erano luci, ma per fortuna la luna piena emanava un lucore perlaceo che rischiarava il cammino. Non che ci fosse molto da vedere, erano in mezzo ad un campo di girasoli, ma il caporale era nervoso. Si avvicinarono cautamente al carro da due direzioni diverse; il tenente sollevò la torcia schermata ma subito non vide nulla, poi fu attratto da una nota di colore che nel giallo vagamente grigiastro del campo risaltava come una macchia di sangue. La sua mente ci mise un attimo per capire che ciò che stava fissando era un elmetto e osservò quasi con distaccato stupore il caporale puntare il fucile, togliere la sicura e centrare alla testa il russo. Poi esplose il caos.
Da tutto attorno a loro emersero figure spettrali che cominciarono a fare fuoco con i parabellum; di fianco a lui il sergente fu sbalzato di sella da una raffica, mentre il caporale urlava nella sua direzione di dare l’allarme. La scarica di adrenalina fu così forte che piantò in profondità gli speroni nella sua cavalla rischiando di disarcionarsi, ma riuscì a tenere le redini e spiccare il galoppo verso il campo, urlando nel frastuono di colpi che i russi erano arrivati.
“Colonnello, presto siamo attaccati”, il panico nella voce della recluta fece da contraltare alla voce salda che gli rispose: “Lo so.” Il giovane soldato rimase pietrificato vedendo il suo colonnello che si era vestito con l’uniforme da parata ed ora si cingeva alla cintura la sciabola. “Il Savoia deve caricare”, fu la sua laconica risposta.
La cavalla sembrava divertirsi, ma il tenente si accorse che cominciava ad avere il fiatone, aveva forzato troppo l’andatura. Quando vide una colonna di compagni allontanarsi dal campo pensò di essere arrivato tardi e che era tutto finito, poi vide le espressioni dei suoi compagni. C’era una luce strana nei loro occhi, un misto di orgoglio e disperazione, che lo spinse ad una determinazione nuova. Si accorse che tutto lo squadrone stava cambiando direzione, come avevano provato tante volte sul terreno di esercitazione, sentì uno squillo di tromba e un ordine gridato con forza e furore: Sciabl-mano. Quasi senza accorgersene la sua mano aveva trovato l’impugnatura della spada e l’aveva alzata davanti a sé, imitato da tutti i cavalieri attorno a sé. Nella notte le sciabole sembravano brillare in una scia che si stava dirigendo verso il fianco sinistro del nemico, come un fiume in piena. Senza quasi accorgersi urlò di gioia “Savoia” con un brivido lungo la schiena, quando udì chiaramente un secondo grido ancora più possente del precedente levarsi dagli animi di tutti: Caricat! Ebbe il tempo di guardare negli occhi l’espressione sbalordita di un russo prima di decapitarlo, perfino Giulietta scartò sbuffando quando il sangue li raggiunse. Al termine della corsa vide molti che non ce l’avevano fatta; il maggiore si girò con un’espressione seria sul volto, incontrò i loro sguardi e dopo un muto discorso, girò il cavallo e ricominciò a cavalcare, prendendo una granata dalla giberna e lanciandola con forza verso le trincee nemiche. La seconda carica si svolse per il tenente come al rallentatore: vede se stesso strappare la sicura ad una granata e lanciarla al centro di un nugolo di mitragliatrici, vede la bocca aperta di un nemico mentre gli pianta la sciabola nella spalla, sentendo al contempo un dolore bruciante al fianco e alla gamba, e poi tutto ad un tratto si sente stanchissimo quando vede le luci del campo, avverte la coscienza sfuggirgli fra le dita. Per un attimo tutto il mondo resta cristallizzato, con le urla del terzo squadrone mentre i russi si ritirano. Poi Giulietta scivola a terra, le zampe anteriori spezzate, riuscendo in qualche modo a frenare la caduta. Trascinandosi bocconi di fianco alla cavalla, il tenente si accascia al suolo tenendosi una mano sul fianco. Poi mette una mano sul petto della cavalla, sentendo il suo cuore pulsare sempre più piano e le culla dolcemente il muso fra le mani. Di fianco a lui il colonnello lo guarda con occhi lucidi con lo stendardo del Savoia in mano, che lui chiede con un filo di voce di poter baciare. Con le sue ultime forze gira il volto e vede tanti suoi compagni caduti e stretti vicino ai loro cavalli, mentre i sopravvissuti schierati con le sciabole abbassate li salutano a modo loro, con tre squilli di tromba che si ripercuotono nella sua anima, i volti commossi ma fieri. Poi si gira a incontrare gli occhi di Giulietta, che si stanno velando, e in un flash rivede il sorriso di sua moglie, la vede accarezzare i lisci capelli della figlia, l’espressione seria del padre che diventa un sorriso di orgoglio. Poi chiude gli occhi insieme con quelli della sua Giulietta.


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Manuela

MILANO, FERRAGOSTO 1943 – SUL TERRAZZO AZZURRO

Si doveva nascondere. E si doveva nascondere bene altrimenti lo avrebbero trovato facilmente. Erano veloci quei due e non poteva nemmeno scappare perché lo avrebbero trovato ancora prima.
Il sole splendeva alto nel cielo e Stefano era sudato, affannato, stanco. Però non sentiva la stanchezza, non sentiva nient’altro che la necessità urgente di trovare un nascondiglio.
Il grande palazzo, squarciato dai bombardamenti, era unito alla sua casa da un ampio terrazzo fino a due giorni prima piastrellato d’azzurro e che ora appariva come il vestito di un arlecchino malconcio e povero, cucito con soli due colori: il grigio della calce e della polvere e l’azzurro splendente delle mattonelle rimaste a terra. Quel posto non dava molte possibilità di fuga, ma ne offriva tante per non farsi trovare. Stava per scadere il tempo e Stefano si rifugiò su un rialzo sospeso nel vuoto.
Sapeva che lo stavano cercando, che lo avrebbero cercato dappertutto e a ogni rumore sobbalzava e il fiato gli diventava corto.
Si accovacciò a terra e rimase in silenzio.
Nelle orecchie sentiva ancora la sirena che due giorni prima aveva annunciato l'arrivo delle bombe, sentiva ancora le grida delle persone che correvano apparentemente senza meta, sentiva ancora le voci a lui familiari che lo chiamavano. Si era rifugiato con loro nello scantinato della sua casa e non riusciva a stare fermo e zitto mentre tutti gli facevano cenno di tacere e di non muoversi. Poi, dopo ore che gli erano sembrate eterne, di nuovo l'urlo della sirena, per il cessato allarme. Appena fuori, Stefano era rimasto senza parole e senza più tanta voglia di muoversi. Polvere e cumuli di macerie e roghi e schegge roventi che cadevano dal cielo giallastro e opaco, tintinnando. Aveva storto il naso e si era messo una mano davanti alla bocca, gli sembrava che qualcuno avesse cucinato quintali di cibo e li avesse lasciati sul fuoco, fino a farli bruciare. Camminava e inciampava su cocci e mattoni e vetri e rami spezzati; inciampava sulla strada sventrata e fumante, sulle rotaie del tram arricciate come stelle filanti. Non riconosceva più il suo quartiere stravolto. Si era accorto di aver paura, lui, che non si spaventava mai di niente.
Un brivido lo distolse e provò vergogna. Pensò a Caterina: se lei, così forte e determinata, lo avesse visto in quel momento, non l’avrebbe mai più degnato di uno sguardo. Era bella Caterina, era dolce sotto quella scorza dura e sprezzante. Si sarebbe fatto avanti con lei, ci avrebbe almeno provato. Pensò anche agli altri e sorrise all’idea che erano ancora lì, tutti insieme. No, basta, si stava distraendo troppo e non se lo poteva permettere.
Sentiva passi intorno a sé, rumori sordi e pesanti di chi continuava a correre sopra e sotto, dentro e fuori, su per i gradini friabili, fino al solaio. Era arrivato il momento di uscire, solo un attimo ancora. Si alzò in piedi e sentì due blocchi di pietra al posto delle gambe. Era rimasto accucciato e immobile troppo a lungo. Vide uno dei due appoggiarsi alla parete annerita dal fumo e poi lo vide proseguire oltre, salire su verso il piano superiore. Prese coraggio. Forse l’altro era rimasto di guardia, ma doveva rischiare. Salì sulla trave che univa il rialzo alle scale e scese giù in fretta. Percorse il vialetto, si concentrò sulla corsa e sulle gambe. Aprì la porta con più forza di quanta ne fosse necessaria e si trovò sul terrazzo arlecchino, immerso nella luce e nel calore di un pomeriggio di agosto. Quei due gli stavano correndo dietro. Lui, però, era in vantaggio. Anche tutti gli altri erano lì e lo guardavano. Mancavano pochi metri. Gli inseguitori gridavano e correvano come pazzi ma non lo avrebbero fermato, non questa volta. Stefano continuò, rischiando di cadere sui detriti e le macerie; arrivò fino alla colonna, la colpì con il palmo aperto della mano e con tutta la voce che aveva in corpo gridò: — Tana, libera tutti!
Appoggiò le mani sulle ginocchia e riprese fiato, poi si voltò verso Caterina e lei gli sorrise.


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Titty Terzano

3 OTTOBRE 1943


(In ricordo di nonna Maria)
Nelle prime ore di quella domenica, 3 ottobre 1943, con mare mosso e cielo carico di nuvole scure, gli Alleati sbarcarono nella piccola città marinara, dove viveva il ventenne Francesco con la sua famiglia: papà Filippo, ferroviere; mamma Costanza, sarta; e la sorella sedicenne Maria.
Dopo anni di fame e miseria, la generosità dei soldati angloamericani suscitò speranza negli animi della popolazione. Distribuivano carne ‘beaf’ in scatola, prosciutto, ottimo pane in abbondanza; cioccolata, caramelle e ‘gum’ per i bambini; sigarette a volontà per gli adulti.
Francesco e la sua famiglia erano felici dell’arrivo di quegli ‘angeli armati’, in missione per liberare definitivamente la loro cittadina dai nazifascisti; ma si rendevano conto che la guerra sarebbe continuata ancora per chissà quanto, tra carri armati, spari, bombe, incendi, sangue e morte. Oltre a ciò, la famiglia notò che alcuni tra i soldati dello sbarco erano avventurieri senza scrupoli, viziosi e molto irrispettosi verso il gentil sesso: militari neri, gialli, bianchi, addirittura ‘con la gonna’, bussavano ubriachi ai portoni, anche in pieno giorno, ululando con importuna frenesia: “Signorine! Signorine!”
Queste constatazioni spinsero Filippo e la sua famiglia alla decisione di lasciare la città: una mattina di quell’ottobre, all’alba, si trasferirono nella piccola ma accogliente casa di campagna che possedevano. Lì sarebbero stati più al sicuro e la terra li avrebbe aiutati a sfamarsi, come nei passati anni di guerra.
Un giorno a papà Filippo venne una gran febbre. Francesco si offrì di andare in bicicletta fino alla città per comprare le medicine. Il padre, dopo tante insistenze, aveva ceduto alla proposta.
Francesco stava montando sulla bicicletta, quando alle spalle udì la voce di sua sorella Maria:
“Posso venire con te? Ho raccattato un po’ di uova. Potremmo venderle e guadagnare qualche dollaro.”
“Non se ne parla neanche,” rispose Francesco in tono perentorio. “Se ti accadesse qualcosa, sarei io il responsabile.”
“Ti prego, portami con te!”
Maria riuscì a convincere Francesco: si sedette davanti a lui sulla bicicletta, con il panierino delle uova sottobraccio e il gatto, di nome Rosso, nel cestino sul manubrio. La ragazza non si separava mai dal suo fulvo micione tigrato.
Mentre attraversavano allegramente i prati su cui si snodava la stradicciola sabbiosa, all’improvviso, nelle più immediate vicinanze del bosco, un giovane di carnagione molto olivastra sbucò da dietro un albero: era un soldato della truppa inglese e, come altri dello sbarco, dall’aspetto simile al suo, indossava una specie di asciugamano bianco attorcigliato sul capo. Francesco frenò bruscamente la bicicletta.
Quattro paia di occhi restarono sospesi nell’attimo: quelli mori di Francesco, diffidenti e sulla difensiva; quelli azzurri di Maria, lucidi al tempo stesso per timore e curiosità; quelli blu zaffiro dello straniero, dalla misteriosa pacatezza; e quelli verdi di Rosso, guardinghi e sornioni.
“My name is Ravi,” parlò il giovane soldato, spezzando il silenzio.
Francesco e Maria non lo capivano: erano rimasti seduti sulla bicicletta e lo fissavano muti, con aria interrogativa. Rosso saltò giù dal cestino e, con la coda dritta, s’incamminò nell’erba verso il giovane in divisa. Maria, preoccupata per la sorte del suo amico felino, lo richiamava a gran voce:
“Rosso, torna qui!”
Intanto il gatto era arrivato vicino al soldato che, con grande sorpresa dei due fratelli, lo aveva preso in braccio per accarezzarlo; il gattone gradiva le coccole e si prodigava in sonore fusa. A quel punto Francesco scese dalla bicicletta e cominciò ad avvicinarsi allo straniero. Maria fece lo stesso, pochi passi indietro.
“Io sono Francesco. Lei è mia sorella Maria.”
“My name is Ravi,” ripeté sorridendo il giovane soldato, giungendo le mani sotto il mento in segno di saluto.
In quel mentre, Francesco vide che Ravi aveva un brutto taglio appena sotto il ginocchio destro: il sangue fuoriusciva da una larga fessura orizzontale sui pantaloni mimetici. I due fratelli decisero di accompagnare lo straniero alla loro casa di campagna.
Papà Filippo, febbricitante, accolse Ravi con gentilezza. Mamma Costanza si adoperò subito per medicargli la ferita. Mandarono a chiamare lo zio Nicola che sapeva parlare inglese, poiché per diversi anni aveva lavorato in America. E così seppero che Ravi aveva ventidue anni, era indiano di Delhi. Quando gli Inglesi lo avevano arruolato per combattere nel vecchio continente, il giovane non aveva disertato affinché sua madre, vedova, ricevesse un buon gruzzolo di monete: erano molto poveri; lui era il maggiore di cinque sorelle e tre fratelli. La storia del ragazzo indiano commosse tutti. Filippo e Costanza vollero ospitarlo nel vicino capanno finché la ferita non fosse guarita.
La Seconda guerra mondiale finì nel 1945. Ravi poté tornare in India, ma non dimenticò mai la famiglia italiana che si era presa cura di lui. Francesco era diventato suo grande amico: si scrissero sempre; si rividero varie volte nel corso degli anni. Alla fine, lasciarono in eredità ai loro discendenti la memoria affettuosa di quella forte amicizia, come e più di un tesoro d’inestimabile valore.


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Tetsu

IL CIELO HA UNA NUVOLA IN PIU'.

1944, ITALIA
Il rombo cupo e sordo dei bombardieri piombava spietato come un falco sulle basse case in pietra. Le sirene echeggiavano dai megafoni svegliando il paese di soprassalto, una scarica di adrenalina percorse i corpi ancora intorpiditi degli abitanti mentre tutti correvano affannosi verso i rifugi sotterranei preoccupandosi solo d'afferrare i bambini più piccoli e nient'altro, tutto rimaneva nelle case scoperte al fuoco aereo.
Nei campi militari i soldati, preparati ed abituati ai raid nemici, erano già pronti ai posti di combattimento.
In pochi minuti la pioggia omicida di bombe e proiettili infuocati si abbatté su tutta la zona.
All'esplosione precedeva il fischio lungo e terribile dello sgancio che lasciava i rifugiati in un attesa atroce che poteva significare vita o morte, nella totale impotenza.
All'offensiva rispondeva la contraerea con una fitta scarica di proiettili che difficilmente andavano a segno. Di notte lo spettacolo era quasi pirotecnico. Le deflagrazioni illuminavano tutta l'azione di un rosso sgargiante sollevando un gran polverone che s'alzava come una densa e opaca nebbia d'autunno.

Nei bunker i bambini giocavano ad urlare con le mani a tappare le orecchie, in quel frastuono le loro voci non potevano essere udite, il loro non era baccano.
I grandi si facevano forza stringendosi a sé l'uno con l'altro ognuno con gli occhi lucidi e una strana sensazione d'angoscia in gola, ogni attimo poteva essere l'ultimo.
La morte non faceva poi così paura assuefattasi nei cadaveri seminati sui campi, nei bombardamenti notturni, nelle epidemie, nella fame, nei vestiti intrisi di sangue, nel cielo e nel mare.
L'attacco durò tutta la notte.
L'alba si levò prepotente all'orizzonte stendendo un velo di tetra serenità.
I primi raggi illuminarono i cadaveri e le macerie mentre una leggera brezza sollevava ancora una coltre di polvere. Dai rifugi uscirono come zombi i sopravvissuti ormai avvezzi al dolore delle perdite. Mesti e silenziosi gli uomini cominciarono ad accatastare i corpi pallidi e senza vita mentre altri cercarono tra i ruderi. C'era chi ritrovava un parente ma nessuno versava una sola lacrima.
Le carcasse venivano spogliate di tutto quello che avevano di interessante, si recuperavano scarpe, camicie, intimo e pantaloni che poi venivano ridistribuiti.
La puzza nauseabonda dei corpi dilaniati si allargava in fretta attirando predatori naturali che però sarebbero potuti diventare egli stessi il pasto del giorno.
In breve tutte le vittime furono accatastate e date alle fiamme come se si trattasse di semplice sterpaglia. L'odore di morte si tramutò ben presto in ripugnanti esalazioni di pelle e peli bruciati dove una volta al mattino il profumo di pane cotto a legna svegliava le genti.
Le donne cominciarono a cucinare in grossi pentoloni di rame le vettovaglie che periodicamente i soldati rifornivano.
In questa atmosfera i bambini si svegliavano ancora giocosi e allegri circondati da un aria irrespirabile. In mancanza di giochi veri si accontentavano di quello che trovano, così si divertivano a fare la guerra con i resti di un uomo o le componenti di un ordigno inesploso.
La guerra era ormai persa e ci si preoccupava di quando i soldati alleati sarebbero venuti a rastrellare gli ultimi rimasti. Gli esseri viventi facevano più paura delle bombe ma quando i crampi della fame ti assalgono e la tua casa è stata rasa al suolo il futuro è un fattore trascurabile.
I volti erano sporchi di nero e scavati fino alle ossa, anch'esse smunte e fragili.
La psiche di questa gente era ormai del tutto compromessa dal terrore delle bombe, dal loro fischiare, dal tuono di un aereo a bassa quota, nelle loro vibrazioni, dal gemito di chi muore e dalle urla dei feriti. L'impotenza verso il proprio destino e la propria vita, il non poter scegliere, la mancanza di prospettive e di gioie vere.
Quando un uomo dimentica il significato della parola felicità la vita perde tutto il suo essere e lì comincia una sopravvivenza forzata del corpo senza di fatto un anima.

Ma tra quelle macerie un giovane ragazzo, ormai quasi uomo, restava seduto in disparte silenzioso e pensante, guardando il cielo. Osservava le nuvole viaggiare in giro per il mondo, mutarsi e scomparire così come gli uccelli sempre liberi e alti.
Dentro di se sognava di alzarsi in volo e guardare il mondo da talmente in alto da non riuscire a distinguere le persone e le case, niente confini o fili spinati, niente muri o carri armati.
Dall'alto sognava grandi distese verdi e altipiani rocciosi, le vette dipinte di bianco con tutta la loro vegetazione incontaminata. Correva a perdifiato, solo, per i sentieri serpeggianti fino ad addormentarsi sotto un abete tutto bianco.
Così s'addormentava veramente, tra le macerie, con le mani sporche dietro la nuca e continuava i suoi viaggi in un sogno leggero senza che i crampi allo stomaco riuscissero a destarlo.
Finché un giorno la debolezza non lo lasciò viaggiare per l'eternità.


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Gloria

1951. UNA VOLTA, UN’ESTATE

Sì, nessuno ci crederebbe adesso, ma anch’io sono stata felice. Fu nell’estate del ’51, solo quell’estate, né prima né dopo.
A Fiera di Primiero, da Roma, si arrivava dopo una notte di treno e poi con una corriera. Un viaggio avventuroso in tempi in cui l’Autostrada del Sole non esisteva. Quell’anno vi andai ai primi di luglio con mia madre. Il paese era piccolo, un gruppetto di case, un vecchio centro storico, un torrente: il Cismon. Il tutto ai piedi delle Pale di San Martino, ma niente a che vedere con l’omonimo paese, molto rinomato e alla moda.
Dovevamo trascorrerci parecchie settimane: mia madre, incinta, aveva bisogno di aria fresca e riposo. La gravidanza annunciata mi aveva colto alla sprovvista. Consideravo la mamma, a più di quarant’anni, “vecchia” e non riuscivo ad abituarmi all’idea. Comunque facevo di tutto per aiutarla, coccolarla e non sentirmi defraudata del ruolo di figlia unica.
Avevo quindici anni, ero stata promossa in prima liceo. A Roma frequentavo una scuola femminile di suore. Ero una ragazza tranquilla e devota.
L’albergo, a conduzione familiare, oltre a noi aveva pochi ospiti: qualche straniero, due famiglie con bambini; nessuno della mia età. Il paesaggio, i luoghi, l’ospitalità erano piacevoli, l’aria pura metteva appetito.
Dopo un po’ di giorni arrivò Bruno. Era il nipote degli albergatori. Studiava a Trento, d’estate tornava al paese e lavorava con gli zii. Un ragazzone di vent’anni alto e biondo, esperto di montagna, che si prestava a far da guida nelle escursioni o il quarto a tennis e persino a canasta. Ai miei occhi era bello come un attore. Subito mi presi una gran cotta che cercavo di nascondere dietro un libro o tuffandomi nel lavoro ai ferri del corredino.
Mi trattava come una bambina, ne avevo l’ingenuità, non i sentimenti. Mi tirava la coda di cavallo quando passavo, e mi trattava da pigrona nelle gite. La sera dopo cena metteva sul piatto del grande radiogrammofono dei settantotto giri vecchi e graffiati, niente mambi alla Perez Prado, poi mi sfidava in interminabili partite di carte.
I giorni passavano senza che li contassi, in fretta, col batticuore nel vederlo al mattino, nel salutarlo alla sera, per poi sognarlo tutta la notte. Cosa sognassi non lo ricordo, certo sogni confusi: a scuola, con le mie compagne, l’amore era una cosa immaginata, letta nei romanzi, mai provata e senz’altro da rimandare a dopo. Non avevo alcuna esperienza né civetteria.
Bruno doveva averlo capito, ma continuava come se niente fosse.
Eppure non soffrivo. La felicità era qualcuno cui pensare, consisteva nella sua compagnia, nelle risate, nel tocco della sua mano quando, casualmente, mi sfiorava.
Poi una sera la mia mano rimase nella sua. Abbassai gli occhi, arrossii e risposi alla stretta. Due sere dopo mi baciò.
Fu la mia prima volta, ero talmente frastornata che se me l’avesse chiesto gli avrei concesso molto di più.
Ma non ci furono richieste, neanche dichiarazioni. Solo altri baci rubati, nel giardino, in cui esalavo l’anima.
Il giorno prima della nostra partenza mi chiese: “Tornerai?”
“Sì”, risposi, “Per Natale, mi insegnerai a sciare”.
Avevamo preso un impegno. Partii senza rimpianti, sicura di me stessa e di lui. Cominciammo a scriverci.
Guido vide la luce nel novembre di quell’anno, subito dopo il Polesine. Fu un autunno tristissimo che mi portò un fratello mongoloide, così lo definirono in quei tempi meno corretti.
Non tornammo più a Fiera di Primiero, le lettere si diradarono poi cessarono. Morì due anni dopo sulle Pale di San Martino.
Tutto cambiò, la nostra famiglia non fu mai più la stessa: con un senso di disfatta gravitava attorno al problema che le era piombato addosso.
Finii gli studi, ebbi altre storie. Non mi sono mai sposata. Quando qualcuno frequentava casa si rendeva conto di quale sarebbe stata la mia dote, quale l’eredità.
Mano a mano che gli anni passavano Guido era sempre più impegnativo, i miei sempre più stanchi. Era mio dovere aiutarli, e ormai mi ero rassegnata.
Guido è sopravvissuto per due anni ai genitori, per essere un down ha avuto una lunga vita: quasi trentacinque anni. Adesso che non c’è più, a volte mi manca.
Sono stata felice solo un’estate, quella del ’51, prima che lui nascesse, quando ancora avevo tutta la vita davanti e me la immaginavo tutta diversa.


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Arditoeufemismo

16.3.78 - 13.5.81 ESTREMI COMPRESI

la mia storia tra la Storia
Era un giorno di marzo, di quei giorni di una primavera che non esiste più. Villa Borghese si trasformava in un tappeto variopinto di amanti, che sdraiati sui prati, si scambiavano effusioni e intimità rubate. E io avevo il cuore gonfio di gioia. Viaggiavo leggero tre metri sopra al cielo. Allora ignoravo questo luogo comune, ma era proprio così che mi sentivo. Al mio Ciao bianco avevo “accroccato” un sellino lungo perché muoversi in compagnia è più bello. E quel 16 marzo era stupendo. Seduta dietro me c’eri tu. Che mi avevi detto si. Che mi avevi baciato. E sorriso. E a me girava la testa. Finalmente te. Ti avevo sognata, desiderata, anelata. Ti avevo rincorso in ogni festa, ero partito per la settimana bianca della scuola soltanto perché c’eri tu. Mi piaceva come ti muovevi, mi piaceva il modo in cui parlavi con quell’accento romano sporcato dalle tue origini genovesi. Mi piaceva la tua camminata a paperina e mi piacevano le efelidi che ornavano il tuo bel viso. Mi piaceva come ridevano la tua bocca e i tuoi occhi insieme. Mi piaceva il tuo entusiasmo. La tua gioventù e la tua saggezza donna. Poco prima di ridiscendere da Monte Mario, mentre dal centro dove si trovava la nostra scuola guadagnavamo le nostre case vicine, fermai il Ciao. Ti guardai e ti chiesi – Me lo dai un altro bacio? – tu mi rispondesti sorridente – Ancheddue! – lo dicesti raddoppiando le consonanti in un modo solo tuo. Che io amai da subito. Poi riprendemmo il viaggio ma un caos insolito per quel quartiere ricco e silenzioso ci sorprese. Polizia, gente, grida, sirene. – Ch’è successo? Hanno rapito Moro, hanno ammazzato tutta la sua scorta!
Eravamo all’imbocco di via Mario Fani. Di colpo quella primavera, quel 16 Marzo 1978, sembrò inverno. La nostra storia iniziava così. Probabilmente proprio mentre finiva la vita di Ricci, di Leonardi, di Rivera, di Zizzi e Iozzino. Uomini e ragazzi, alcuni poco più grandi di noi. Ma la storia passa e i vivi dimenticano. Specialmente se si hanno sedici anni. Specialmente se hai una ragazza da urlo che ti ama. E che ami. Da impazzire. Ci sono stati anni belli e viaggi e feste, c’è stato lo studio e la maturità. E venne un maggio caldo ed eravamo in Prati. Stavamo litigando quando una donna urlò – Hanno sparato al Papa. - Per un attimo ci guardammo poi le nostre misere contingenze furono più grandi del mondo intorno. Abbassasti il tono e mi dicesti – Siamo troppo giovani, sono troppo giovane. Ho voglia di vivere e di divertirmi. Ho voglia di scoprire altro. Di fare altre esperienze. Non sono pronta a legarmi per sempre.- Sapevo che avevi ragione. E piangere e implorarti non avrebbe cambiato nulla. E poi io ero un uomo e gli uomini non piangono. E ti ho visto salire sul bus e guardarmi dal grande vetro posteriore. E ti ho visto andare via. Senza dirti ciao. Immobile e triste. Ti ho amato. Mi hai insegnato l’amore con la A maiuscola. E lo capii proprio mentre l’Odio colpiva l’Amore con una pistola, a due passi da noi, in Piazza San Pietro. Era il 13 Maggio 1981. La fine della nostra storia.


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Michele

23 NOVEMBRE 1980

Le coperte volarono via e prima che toccassero terra ero già alla finestra, la cercai con lo sguardo, si lei era lì. Mi fiondai giù per le scale, quasi cadendo. In cucina mi fermai vicino al tavolo di legno con una lunga scivolata. L’odore di latte caldo mi riempì le narici, la mamma stava preparando la colazione. “mamma mamma rondinella è tornata”,”lo so è primavera” rispose lei sorridendo mentre imburrava una fetta biscottata. Rifeci le scale due a due. Oltre la finestra della mia cameretta, i vecchi tetti del paese tappezzavano parte della collina come uno straccio rammentato creando un intrigo di vicoli e stradine dove era facile nascondersi quando giocavamo. I comignoli come guardiani addormentati stavano lì a testimoniare che sotto quei tetti c’era la vita. Le rondini, rapite da uno strano ritmo, volteggiavano intorno al bianco campanile della chiesa che spiccava in un cielo azzurro e senza nuvole. Il cinguettare felice degli uccelli giungeva fin giù nella valle e forse anche oltre. Una di loro, rondinella, aveva deciso di nidificare proprio sotto il cornicione di casa mia a pochi metri dalla finestra. Ne ero affascinata, affascinata solo come può essere una bambina di otto anni che scopre le meraviglie del mondo. Rondinella da qualche anno tornava puntuale portando con sé la primavera. Ero contenta ma ignara che nel mio cuore la primavera non sarebbe più tornata.
Quando Il gigante cattivo arrivò, rondinella era già andata via da un po’, il nido fuori dalla finestra era vuoto e triste. Dai comignoli ormai svegli salivano fili di fumo che alimentavano un cielo nero. Dietro le finestre illuminate ombre tremule si apprestavano a vivere le ultime ore di quella domenica di fine Novembre. Nell’aria fredda aleggiava una calma insolita mista a un senso di attesa. I più anziani, soppesando il cielo, mormoravano che probabilmente durante la notte avrebbe nevicato. Io non pensavo alla neve, tutti i miei pensieri erano concentrati sul Natale, che da lì a un mese sarebbe esploso nei suoi tradizionali canti natalizi, nelle colorate illuminazioni, e in profumati dolci ma soprattutto nei regali da scartare sotto l’albero. Ero assorta nei miei pensieri di bambina quando poco prima delle otto la vita di migliaia di persone si compresse in novanta secondi, per alcuni furono gli ultimi della propria vita per altri l’inizio dell’inferno. Io ricordo il buio, un forte boato e una mano invisibile che mandava all’aria la mia camera. Urlai finché due braccia forti mi afferrarono, riconobbi mio padre e mi strinsi a lui. Ricordo anche l’aria satura di polvere e il freddo ma sopratutto le grida della gente, che ripetevano in un tormentato ritornello sempre la stessa parola “Terremoto, Terremoto”. L’ultima cosa che ricordo di quella notte fu la neve che cominciò a cadere.
Alle prime luci dell’alba uomini più simili a spettri si aggiravano tra le macerie. I più forti, tra pianti e disperazione, aiutavano i più deboli in una gara contro il tempo già persa. Il paese non esisteva più, al suo posto una distesa di macerie, il gigante aveva calpestato tutto. Solo un mostro cattivo poteva compiere uno scempio simile. Nei giorni successivi ci accampammo alla meglio, chi in auto chi in camion, qualcuno aveva delle tende.
“Mamma ora come facciamo senza la nostra casa?”, una lacrima scese sul viso di lei, “faremo come rondinella, ce ne andremo per un po’ e poi torneremo a costruire la nostra casa”, finì la frase in un pianto convulso e io mi strinsi a lei. Le cose non andarono così, non tornai a vivere al mio paese, non vidi mai più rondinella, la vita quella notte svoltò ad angolo prospettandomi nuove strade tutte in salita. Oggi porto dentro di me un marchio indelebile e la speranza per migliaia di persone che un giorno possano tornare a casa e che nel mio cuore torni la primavera.
Terremo Irpinia: 23 Novembre 1980
280.000 sfollati
8.848 feriti
2.914 morti.


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Pamelas

PRECARIA ANNI 80

La strada scorreva dinanzi ai suoi occhi dritta, nera, uniforme e regolare come le campagne che tagliava nel mezzo di un centro indefinito. Ma Cinzia, semi affondata sul sedile anteriore della punto verde della sua collega, tutta intenta a pensare in quale punto della graduatoria permanente si trovasse il suo nome, non se la sentiva affatto di porsi domande sull’ordine dell’Universo. Quando era stanca di osservare le auto scorrere, mentre la linea grigia del guardrail la ipnotizzava, osservava la campagna punteggiata di papaveri rossi. D’un tratto, come presa da un improvviso pensiero, rivolse lo sguardo verso il fondo dell’auto, osservò i suoi piedi fin dove lo permetteva la scollatura della scarpa “finalmente è giunta la bella stagione- pensò- niente più calze, niente più problemi di calze smagliate”. Sospirò. La punto verde aveva appena oltrepassato un distributore di benzina.
“A cosa pensi?” le chiese la collega sentendola sospirare.
“Penso che mi mancano ancora 10 punti” rispose Cinzia soprappensiero.
“ Per la raccolta dei punti premio? Sei a buon punto, a me ne mancano ancora 40”
“Eh! – esclamò l’altra con sorpresa- ma cosa hai capito, non parlavo di quei punti”
“Ah no? E allora?” chiese l’amica voltandosi verso di lei.
“Parlavo del mio punteggio in graduatoria, mi mancano 10 punti per arrivare a 100” precisò incrociando le gambe con aria sconsolata.
“E che fai con 100 punti il numero tondo?”
“Sì, il numero tondo" replicò Cinzia volgendosi nuovamente verso la campagna, poi guardando l’amica “è il mio numero fortunato”.
“Ah! Allora, se è il tuo numero fortunato, io ti auguro di averla prima l’immissione in ruolo, per raggiungere il tuo cento dovresti aspettare il 1989, cioè altri due anni”
Cinzia guardò la strada, la sua collega, di nuovo la strada, passò il braccio dietro il sedile della conducente.
“Da domani non viaggeremo più insieme” disse con indifferenza.
“Sei sicura? Hai telefonato a quella che stai sostituendo? Ritorna? Non ha preso un altro po’ di convalescenza?”. Cinzia non rispose, lo sguardo fisso sulla campagna, aveva notato un gregge di pecore,le piacevano le pecore, temeva sempre che il pastore le maltrattasse. Pensava di avere i capelli crespi come il mantello delle pecore, per questo quando era ancora fidanzata con suo marito gli chiedeva sempre di accarezzarle la testa. Adesso lui non la toccava quasi più.
“Beh! Allora? Hai chiamato o no?”
Cinzia intrecciò le mani sulle sue gambe, tornò a guardarsi i piedi “No, no” disse con tono incerto.
“Perché no, chissà magari ti riconfermano, viaggiare in due è meno faticoso e poi ricominciare tutto daccapo, un’altra scuola, un’altra strada, no, no, speriamo proprio di no”.
Cinzia guardò l’amica, una donna sempre sorridente, se non fosse stato per quelle spalle un po’ troppo larghe, sarebbe sembrata più snella, forse aveva scelto di tingere i capelli rosso fuoco allo scopo di attrarre gli uomini. Suo marito l’aveva trovata seducente. Forse anche lei avrebbe dovuto ravvivare il colore dei suoi capelli. “Macché" pensò "dovrei cambiare gli interessi del suo mutuo, dovrei”. Si sentì improvvisamente triste, stanca, avrebbe voluto tornare a casa e staccare il telefono, quel telefono al quale era legata come le innamorate in attesa dell’amato.
Cinzia era stanca di attendere quel trillo, sollevare la cornetta, ascoltare una voce anonima che le dava indicazioni per raggiungere la scuola, che le diceva per quanti giorni avrebbe lavorato. Era come se qualcuno decidesse la sua vita, l’organizzazione del suo tempo, quante preoccupazioni in meno o in più avrebbe avuto quel mese. “Le cose vanno sempre peggio- pensava- non cambiano mai, sono piatte come questa pianura”. Guardò ancora la strada che scorreva dinanzi e lei, da domani ne avrebbe percorsa un’altra, ma era abituata al cambiamento, non la sconcertava più. Quello che la sconcertava era invece un pensiero che talvolta le giungeva all’improvviso, come se fosse il sottofondo nascosto in cui vagava la sua mente, l’idea di aver sbagliato. Un’idea imprecisa, che non si rivolgeva verso qualcosa in particolare, toccando ora quella o tal altra situazione. Cinzia allora allontanava subito da sé quel senso di impotenza ricercando i colpevoli a cui attribuire la causa di quel malessere e ne trovava tanti, ma quel sottofondo di paura che la sorprendeva con lo sguardo perso nel vuoto non l’abbandonava mai: ed era quella la sua sconfitta più grande. “E’ colpa mia” pensava “ci deve essere in me qualcosa che non va” guardò la sua collega volgendo interamente il viso verso di lei, voleva dominare tutta la sua attenzione, se avesse potuto si sarebbe messa davanti all’auto, fuori dal tempo, fuori dalla strada “rispondimi sinceramente – le disse con fermezza- trovi che in me ci sia qualcosa di sbagliato?”. Claudia corrugò la fronte, sorridendo ambiguamente.
“Lo vuoi proprio sapere?” le chiese.
“Sì”
“Beh, ecco… una cosa ci sarebbe…”
“Allora dai dimmelo, voglio saperlo” chiese Cinzia in tono ansioso senza distogliere lo sguardo da lei. Claudia si mise a ridere “I tuoi capelli- rispose dandole un colpetto sulle ginocchia- il colore dei tuoi capelli”. Cinzia la fissò incredula per un istante ma subito dopo cominciò a ridere e socchiuse gli occhi, il viso rivolto alla strada che scorreva uniforme e silenziosa innanzi a sé, come il nastro di una cassetta che si riavvolge su se stessa.


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Stefy71

13 MAGGIO 1981


Gloria si trovava nella piazza festosa e colma di gente, turisti e fedeli si accalcavano dietro di lei con una gioia e un entusiasmo che la sorprese e la commosse.
Era il 13 maggio del 1981. Si era avvicinata il più possibile alle transenne che avrebbero dovuto allontanare la curiosità della folla dall’arrivo del Papa.
Pochi minuti dopo essere entrato in piazza San Pietro sulla sua Papamobile, Gloria avvertì una strana sensazione. Erano gli “anticipi del futuro” come li chiamava lei, la percezione certa e precisa che qualcosa di terribile stesse accadendo.
Nella sua mente si materializzò l’immagine di una pistola, l’odore della polvere da sparo, il corpo riverso del Pontefice.
La gente gridava, invocava il Papa Karol Wojtyla, allungava le mani per toccarlo eppure il suo cuore si fermò. Le sue sensazioni non l’avevano mai tradita.
Cominciò a guardarsi intorno con aria circospetta, sperò che si trattasse solo di un presentimento dovuto all’emozione di essere li eppure sapeva di non sbagliare.
All’improvviso vide il luccichio di un oggetto metallico, con il cuore in gola si avvicinò il più possibile all’uomo che aveva in mano una pistola, i suoi sospetti divennero realtà.
Gridò con quanto più fiato aveva in gola ma le sue urla si confusero con le grida dei fedeli. Poi vide esattamente ciò che la sua mente già le aveva anticipato.
Udì due spari, si girò verso Wojtyla, lo vide accasciarsi ed essere subito soccorso. Un gran trambusto, la gente che urlava. Il tempo di cercare l’uomo che si era allontanato a passo sostenuto.
Gloria lo seguì correndo e facendosi largo tra la folla. La rabbia prese il posto della paura. Voleva bloccarlo, doveva agire e in fretta. Scoprì di avere un’energia e un coraggio di cui ignorava l’esistenza.
L’uomo cercò di raggiungere il colonnato di Piazza San Pietro per uscire dalla piazza e mettersi in salvo ma venne costretto a fermarsi da alcuni poliziotti che cercavano di tenere a bada gli astanti e di non far allontanare nessuno. Si girò rapidamente per continuare la sua folle corsa ma nel movimento repentino si trovò di fronte lei. I due si scontrarono bruscamente. I loro occhi si incrociarono in un silenzio giudicante, nell’urto la pistola scivolò a terra. L’uomo riprese a correre, Gloria lo seguì, urlò e stavolta le sue grida insieme alla corsa sospetta attirarono l’attenzione delle forze dell’ordine che lo bloccarono arrestandolo.
Gloria respirò. Non sapeva ancora nulla sulle condizioni del Papa, se era morto o se era riuscito a sopravvivere. Solo il giorno dopo seppe che dopo un delicato intervento Wojtyla si era salvato e che il suo aggressore era stato arrestato.
Era stata lei pensò! Se non fosse intervenuta forse quell’uomo sarebbe stato libero di commettere altre atrocità. Si sentì sollevata.
Poi chiuse gli occhi, era troppo stanca. Le emozioni provate erano troppe per lei che doveva metabolizzarle, farle sue, accoglierle, accettarle perché avrebbero accompagnato e influenzato il suo futuro.
Si assopì leggermente e altre immagini accompagnarono il suo sonno turbato.
Quegli occhi non li avrebbe dimenticati mai.
Era il 13 maggio del 1981 e Gloria aveva solamente 10 anni.


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Bludoor

L'UNICO UOMO - 11/07/1982



Un urlo risuonò all'improvviso nella calda campagna pugliese. Proveniva da una villetta isolata, immersa tra gli ulivi secolari e delimitata su ogni lato da un muretto a secco.
Da giorni il canto dei grilli era disturbato da un ripetitivo ticchettio, interrotto saltuariamente da brevi silenzi o imprecazioni irripetibili.
Sotto il portico un ampio tavolo con tante risme di fogli ed una Lettera 22, posta davanti ad un ragazzo sulla trentina, magro, con i capelli biondi ricci e la barba incolta.
Alla sua sinistra un enorme cartone pieno di fogli appallottolati, scritti a macchina o scarabocchiati a penna.
- Ho finito! - urlò ancora Giorgio, con voce rotta dall'emozione, alternando gridolini di gioia a lacrime liberatorie.
- Ho finito! - continuava a ripetere ossessivamente. Da un mese si era isolato in quel villino immerso nella campagna per seguire la sua ispirazione letteraria, dicendo a tutti di dover andare in campeggio.
Gli amici erano tutti eccitati dai Mondiali di calcio in Spagna e non avevano fatto troppo caso alle sue spiegazioni ambigue. Erano convinti che quest'anno che l'Italia avrebbe potuto finalmente vincere i mondiali, dopo il quarto posto conquistato in Argentina. O almeno ci speravano, come sempre. Poveri illusi - li aveva più volte derisi Giorgio - Con questa squadra è già un miracolo se superiamo il primo turno! - aveva pronosticato ridendo. - Ma avete visto chi gioca nelle altre squadre? Platinì, Rumenigge, Boniek, Zico, Falcão, Maradona...
Con la scusa di volerlo salutare prima della partenza, erano comunque riusciti a costringerlo ad assistere almeno all'esordio spagnolo della nazionale di Bearzot. Uno scialbo 0-0 con la Polonia, che aveva messo a tacere tutte le loro velleità, costringendoli a riconoscere le scarse potenzialità della squadra italiana.
Giorgio non era mai stato un grande amante del calcio e quel primo risultato deludente aveva rafforzato la sua intenzione di dedicare i mesi estivi a qualcosa di più interessante.
Scrivere un romanzo era da sempre il suo sogno inconfessato, e finalmente stava lentamente prendendo forma. Una storia ambientata in una società postatomica, in cui il protagonista di colpo si rende conto di essere rimasto l'unico uomo sulla terra e si aggira per le strade deserte cercando di capire cosa sia successo a tutti gli altri esseri umani. Una trama forse non molto originale, giocata molto sulle sensazioni e i pensieri del protagonista, sulla sua disperata solitudine, senza scene d'azione, con una narrazione sempre in bilico fra realtà e sogno.
Non era stato facile riuscire a calarsi pienamente nel personaggio, inventare un soggetto credibile che non fosse l'ennesimo remake de L'ultimo uomo sulla terra. Per questo si era isolato totalmente dal mondo esterno, a parte qualche veloce corsa in paese per rinnovare le provviste alimentari.
Il mucchio scomposto di fogli appallottolati che straripava dallo scatolone era la prova evidente dei tanti tentativi andati a vuoto... delle notti insonni passate davanti al foglio bianco.
Giorgio scriveva prima le scene a penna, cancellando, riscrivendo, ampliando... poi ribatteva tutto a macchina, cercando di dare una forma decente allo scritto.
Adesso finalmente il suo romanzo era pronto, poteva tornare nel mondo civile.
Riportò dentro la sua preziosa Lettera 22, insieme insieme al dattiloscritto ed alle risme avanzate, sprangando la porta per bene.
Poi entrò nella sua 500 ed un rumore strano, una specie di singhiozzo, accolse freddamente i suoi vani tentativi di mettere in moto. Riprovò più volte, prima di arrendersi all'amara realtà: aveva dimenticato i fari accesi e la batteria si era scaricata.
- Devo tornare a piedi - pensò tristemente, mentre si avviava a passo lento per il carraro ancora assolato. Erano circa le cinque del pomeriggio e forse avrebbe fatto in tempo a tornare a casa, telefonare al suo elettrauto e andare a riprendere la macchina prima del tramonto.
Il bordo della strada, solo a tratti asfaltata, era costeggiato da papaveri e altri fiori colorati. Camminò per quasi un'ora, giungendo infine al ponte sulla ferrovia che segnava l'inizio del paese.
Cercò di calcolare che giorno fosse; per concentrarsi solo sulla sua storia non aveva più tenuto il conto del tempo. Probabilmente domenica: le serrande dei negozi erano tutte abbassate. Per strada non incontrò nessuno, né uomini, né macchine. Tutto era deserto, forse per la calura.
Solo da qualche tapparella filtrava la luce intermittente di un televisore acceso.
Su molti balconi c'erano bandiere tricolori, forse un residuo dei recenti mondiali.
Giorgio se ne era completamente dimenticato; chissà chi aveva vinto alla fine...
Rientrò nel suo piccolo appartamento e si precipitò verso il telefono a disco. Aveva le mani sudate, e dovette riprovare più volte prima di riuscire a comporre la giusta sequenza di numeri.
Chiamò l'officina, chiamò casa dell'elettrauto. Nessuna risposta.
Provò a telefonare ad altri amici e parenti. Niente. Sembrava che tutti fossero improvvisamente spariti. L'ansia cresceva dentro di lui. Per un istante si sentì solo, come il personaggio del suo romanzo, gli sembrò di rivivere le scene descritte nel suo libro.
Solo autosuggestione - pensò - e troppa stanchezza accumulata.
Aprì il rubinetto della doccia, desideroso di un po' di refrigerio. Tagliò la barba ispida, riassumendo sembianze umane e poi si stese sul divano, addormentandosi quasi istantaneamente.
Dormì per un tempo indefinito, poi all'improvviso fu svegliato da grida di gioia e dal suono assordante dei clacson delle macchine.
Si affacciò sul balcone, vedendo sfilare un carosello di macchine con le bandiere tricolore.
Un dubbio atroce passò rapido nella sua mente e corse ad accendere il televisore.
Qualche istante e le immagini in bianco e nero si materializzarono sullo schermo e riuscì ad udire la voce commossa di Nando Martellini che ripeteva tre volte “Campioni del mondo”.
L'Italia aveva appena vinto il suo terzo mondiale... e Giorgio era l'unico uomo a non essersene accorto.


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Vit

POUF 1982

Una domenica pomeriggio di giugno insieme a mio padre sono andato al cinema a vedere Fracchia e la Belva Umana con Paolo Villaggio in seconda visione.
E' il 1982, i Mondiali di calcio sono appena iniziati.
Nel film c'è il protagonista che viene scambiato per un pericoloso criminale e da lì gli succedono un sacco di casini, finché muore e va all'inferno risucchiato da un pouf.
Usciamo dal cinema e dico: papà, mi prendi un pouf? Mio padre dice che dobbiamo sentire la mamma. La mamma esita un po', poi dice: va bene.
Così io e mio padre andiamo a prendere il pouf dal mobiliere vicino a casa. Mio padre si presenta e dice al mobiliere, che è una donna: vorrei vedere i pouf. Allora la mobiliera ci porta davanti a delle cose che non sono quelle che pensiamo di vedere e mio padre dice: mmh ma sono pouf? Sì, forse lei intende (fa l'aria rassegnata) i pouf di Fantozzi. E io: sì sì quelli! Allora ci accompagna verso i pouf come quelli di Fantozzi, che in realtà, ci dice la mobiliera, si chiamano Poltrona Sacco. Che poi, vabè, c'entra sempre Paolo Villaggio, però io sto per dire che è Fracchia, non Fantozzi, ma non ho il coraggio.
Arriviamo davanti ai pouf di Fantozzi, o meglio, a uno scaffale con dentro delle specie di teli ripiegati. La mobiliera ci guarda in silenzio, come a dire: eccoli, i vostri pouf, cosa credevate. E mio padre dice: ah. Con l'aria da martire che sta dimostrando infinita pazienza e che è lì lì per allargare le braccia, la mobiliera dice: vanno riempiti con il polistirolo. E noi: aaah. E il polistirolo dov'è? Chiedo io deluso, che non vedevo l'ora di uscire abbracciato a un pouf. La martire dice che il polistirolo dobbiamo andarlo a prendere da un'altra parte, che loro non lo vendono. Ah. Senta, s'informa mio padre, nero c'è? Lei controlla e dice: guardi, è proprio l'unico colore che manca, però se vuole c'è blu scuro, grigio scuro, mmh, più antracite, direi, che grigio scuro (mentre dice “a-n-t-r-a-c-i-t-e” scandendo bene le lettere, si volta a guardarci). No no, dice mio padre, nero nero. Eh, dice sconsolatissima la mobiliera, allora devo ordinarglielo. Ok, quando arriverà? Chiede mio padre, preoccupato. Tra un paio di settimane, risponde la mobiliera con un ghigno. Torniamo a casa un po' delusi, ma almeno tra due settimane avrò il pouf!
Passo quelle due settimane a fare due cose: guardare le partite dei mondiali e giocare a Subbuteo con mio cugino. Va a finire che intanto l'Italia arriva in finale non si sa come, fuori l'Argentina, fuori il Brasile, vabè, fuori la Polonia che a quel punto ci mancherebbe altro e via, in finale con la Germania.
Un paio di giorni prima della finale scadono le due settimane di attesa. Mio padre telefona per sapere se il pouf è arrivato. Ancora no, gli dice la mobiliera, ancora un paio di giorni. Dopo due giorni è la mobiliera a chiamare. E' arrivato il pouf!
Arriviamo al negozio. Ci salutiamo. La mobiliera fa: venite che vi faccio vedere le istruzioni. Mio padre la guarda insospettito. Sì, dice lei, non è mica così semplice, dovete prendere il polistirolo giusto, come questo, poi dovete essere in due a riempire il pouf, che da soli escono tutte le palline. Ma quanto devo prenderne di polistirolo? Chiede mio padre. Dunque, dice la mobiliera, guardiamo sulle istruzioni. Oh guarda, fa ridacchiando, c'è scritto 0,30 metri cubi. E mio padre: eh sì, ma non dice il peso, solo i metri cubi? Eh sì, fa lei. Ah beh, mente mio padre, non c'è problema. E usciamo. Con la confezione sotto braccio, felice ma un po' perplesso per la questione dei metri cubi, sbircio mio padre che sta tentando di calcolare a quanti chili? etti? quintali? equivalgano 0,30 metri cubi di polistirolo. Senza aver risolto il mistero della conversione matematica, arriviamo al negozio dove vendono il polistirolo. Vediamo i sacchi, che sono enormi, più alti di mio padre. Lui ne prende uno e nota con sollievo che c'è scritta la quantità: 0,30 metri cubi. Bene. Poi però leggiamo che sul saccone c'è scritto:
PERLINE ADDITIVATE DI POLISTIRENE ESPANSO VERGINE A DENSITA' DEFINITA PER CALCESTRUZZO LEGGERO ED ISOLANTE.
Nessun cenno a pouf o cose simili. Decidiamo che va bene lo stesso. Usciamo trionfanti. Tra due ore inizia la finale, la guarderò sprofondato nel pouf!
Appena in casa urlo di gioia e iniziamo a riempire il pouf sotto gli occhi preoccupati di mia madre che, appoggiata alla porta della cucina, già è posseduta da visioni apocalittiche di palline che schizzano ovunque. Nella troppa foga, in effetti, ne rovesciamo a centinaia. Bisognerebbe coordinarsi bene, ma figurati, il sacco è talmente grande che risulta indomabile e io continuo a muovere il telo e a girarmi verso la tv, che sta per iniziare la finale. Allora mia mamma rassegnata fa: ci penso io. E sostituisce mio padre, ma dopo due secondi escono tutte le palline anche a lei, fa un urletto, sta per imprecare, ma alla fine ride e ridiamo tutti e intanto la partita inizia e io dico: è iniziata! Ma ci stiamo mettendo troppo a riempire il pouf, che tra risate e scambi di ruolo e palline che escono e che vanno raccolte subito se no poi è un disastro, insomma, passiamo quasi tutta la partita attorno al pouf e sentiamo solo le urla del telecronista e ogni tanto ci voltiamo per guardare cosa succede. Sbagliano un rigore, fanno un gol, due, tre, un altro che tanto ormai chissenefrega, poi urla di festa attorno a un telo nero e a palline di polistirolo che corrono impazzite di gioia e festeggiano con noi. Poi, finalmente, il pouf è pieno, mi tuffo sopra, ci sprofondo dentro e non la smetto più di ridere e vedo le braccia di mio padre tese verso di me.


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Mastronxo

1986. EROI DIMENTICATI

Guardava la gigantesca nube nera innalzarsi dalla base della costruzione e crescere come un fungo marcio, infetto. Il mostro di ceneri e frammenti allungava i propri arti bombati e indecenti a colpire il cielo arancione, sofferente e tremante per le alte temperature che lo ferivano e lo facevano gemere con crepiti sinistri e trattenuti.
Lui non pensava.
A niente. Perché non c’era niente cui pensare, e ogni pensiero sarebbe stato superfluo, ridicolo. Ingiusto. Si poteva soltanto guardare. Pregare, forse. Ma, quella, non era roba per lui.
Figlio di puttana, disse alla bestia oscura e soffocante che voleva distruggere il cielo. Sei un grosso, terribile bastardo figlio di cane. Strinse i pugni e i suoi denti scricchiolarono l’uno contro l’altro. Muscoli tesi e disperati gli affiorarono alla base del collo. Perché non muori, cane?
Sapeva perché non moriva. Perché quello che doveva morire era lui, il
«… sergente Vorobjov!» lo chiamò di nuovo la voce.
Vorobjov non si voltò, non smise di guardare il Demonio negli occhi, perché sapeva che, se si fosse distratto, quel porco l’avrebbe sopraffatto e allora tutto il lavoro di quei tre giorni sarebbe stato inutile. Vide un piccolo insetto olivastro ronzare rabbioso a lato di Satana, a una quota di una cinquantina di piedi. Trasportava un grosso contenitore metallico in cui era contenuta una miscela di silice, sabbia e boro, che avrebbe dovuto spegnere l’incendio e placare la fame della Creatura. Avrebbe.
Da giorni, una quantità di insetti metallici di produzione russa ronzavano attorno a un incendio che sembrava indomabile, furioso. Eterno. Da giorni, lui e i suoi compagni lottavano contro un…
«…sergente Vorobjov, il boss mi ha chiamato di nuovo», continuò la voce alle sue spalle.
Senza distogliere gli occhi dalla nube, sentì un sibilo piatto e arrochito, che poi si accorse provenire dalla propria bocca, chiedere:«Cosa gli hai detto, Chrystyč.»
«Bè…», Vorobjov avvertì un sorriso trattenuto nelle parole del compagno. «Mi ha ordinato ancora che dobbiamo fare il cambio turno. Ha detto che ci arresta, se non lo rispettiamo...» sentì che Chrystyč si schiariva la voce, forse per soffocare una risata. «Io… bè io gli ho detto che l’ordine può metterselo in mezzo alle natiche.»
Vorobjov si voltò verso il ragazzo. Nonostante il soldato Chrystyč fosse stanco morto, era paonazzo in viso e i suoi occhi brillavano. Nel vederlo così, non poté trattenere uno sbuffo, parodia della propria squillante risata di un secolo prima. Il ragazzo, come in attesa di quel segnale, gettò all’indietro la testa e fece esplodere un tuono dai polmoni così potente da coprire per un attimo i rotori degli elicotteri sopra le loro teste. Poi, diede le spalle al sergente e si incamminò verso il Kamov che li attendeva sornione poco distante, coi motori accesi.
Vorobjov lo guardò allontanarsi nella spessa coltre di polveri, ceneri e
(radiazioni)
sostanze tossiche. Forse, Chrystyč era giovane e forte abbastanza da sopravvivere. Le sue vie aeree erano ancora vigorose, e di emorragie non ne aveva avute. Era un bravo ragazzo, si sarebbe meritato di vivere. Quando gli aveva proposto di non effettuare il cambio turno con le altre squadre, per evitare che anche altri soccorritori rimanessero contaminati, non aveva neanche abbassato lo sguardo. Aveva invece sorriso, di quel suo sorriso splendido e vivo che gli ricordava tanto…
Tossì. Sospirò. Il diaframma si contrasse di nuovo. Sputò sangue.
Estrasse, tremante, una fotografia in bianco e nero dal taschino della mimetica, un piccolo rettangolo sgualcito ai bordi e un po’ stropicciato. La piccola Miliya. Come somigliava alla madre, in quella foto. Sarebbe diventata bella quanto lei, forse di più. Quando cominciò a pensare che non avrebbe mai più potuto vederla, che non l’avrebbe mai sentita dire papà, che non l’avrebbe mai più potuta guardare dormire nel suo lettino con le coperte rosa con le api, strinse il pezzo di carta plastificata nel pugno e lo fece cadere a terra, nella sabbia nera, malata. Morta.
Camminando piano verso l’elicottero, si lasciava alle spalle il suo passato. Ogni passo era una martellata ai chiodi che bloccavano le porte del suo futuro, una putrida colata di cemento e mattoni sulla botola che conduceva alla felicità del suo avvenire pieno di abbracci e carezze e risate. E Miliya.
Quando il Kamov decollò, instabile e lento come sollevato dalla mano di un burattinaio inesperto, guardò attraverso le lacrime la Peste Nera salutarlo trionfante, mentre si ergeva dalle ceneri del reattore numero quattro della centrale nucleare di Chernobyl, deridendo lui e i suoi compagni che non avevano più né una storia, né un libro su cui scriverla.
Nota dell’autore.
I soccorritori russi impegnati nelle prime operazioni di soccorso non furono avvisati del rischio che correvano per l’esposizione alle radiazioni. Se ne accorsero pochi giorni dopo, a loro spese.
Si ricordano le vittime dell'elicottero precipitato durante una manovra per domare l’incendio del reattore. L’equipaggio era composto da quattro giovani piloti: Volodymyr Kostjantynovyč Vorobjov, Oleksandr Jevhenovič Junhkind, Leonid Ivanonovyč Chrystyč e Mykola Oleksandrovič Hanžuk.


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Giacomo mass

IL VOLO DI MARIO

(ANNO 1989)


“Saranno state le undici di mattina, le undici e mezza al massimo, signor Commissario. Di solito non apro mai a quell’ora perché suonano sempre quelli che cercano di venderti cose che non ti servono. Poi mi sono detta che potrebbe anche essere una raccomandata e, siccome mi stavo preparando per uscire a fare la spesa, ho aperto.
Secondo me avrà avuto sui sessant’anni, capelli candidi ben pettinati ed un viso pallido e triste, solcato da rughe profonde. Disse di chiamarsi Mario Zanini mi pare e, per la verità, non aveva l’aria di chi vuole venderti qualcosa. Era rasato di fresco e profumava di dopobarba. Era anche vestito a modo suo elegante, con la sciarpa bianca al collo, ma si vedeva che il cappotto che indossava era troppo largo e liso. Lo ricordo nero, bordato di pelliccia e lungo fino alle caviglie, diciamo di taglio passato di moda da molto tempo.
Si è scusato sforzandosi di sorridere e prima che gli chiedessi cosa volesse mi ha raccontato che durante la guerra, il nostro appartamento era stato casa sua. Mi ha detto che quel giorno d’inverno del ’44 era il suo tredicesimo compleanno e la mamma l’aveva mandato dagli zii in campagna a prendere delle uova, perché in città non si trovava più niente. E gli zii non vollero che tornasse indietro perché si era fatto tardi e temevano i bombardamenti.
Mi ha fatto subito una buona impressione e gli ho chiesto se gradiva un caffè, non ha voluto prendere nemmeno un bicchiere d’acqua.
L’ho pregato di accomodarsi sul divano ma è rimasto in piedi, non voleva recarmi disturbo. Mi ha raccontato che quando era tornato il giorno dopo, ha trovato il palazzo sventrato da una bomba ed i genitori non c’erano più. Erano rimasti ad attenderlo, unici in tutto il caseggiato, nonostante le urla metalliche della sirena.
A questo punto, signor Commissario, ha estratto un fazzoletto da tasca e con la scusa di pulire gli occhiali, si è asciugato gli occhi. Mi ha chiesto di vedere la cameretta di mio figlio, perché sosteneva che era la sua, prima di andare a vivere dagli zii.
Io mi vergognavo un po’ perché il letto di Tommaso era ancora da rifare, ma mi ha supplicato e mi ha fatto tenerezza.
Poi ha aperto la grande finestra che dà sul cortile interno, dove ci sono tutte le auto parcheggiate, diceva che da lì udiva i compagni giocare, ma non poteva affacciarsi per via delle leggi razziali. Ma di notte, quando i genitori dormivano la spalancava, saliva sul davanzale e volava. Mi ha detto proprio così signor Commissario, che volava. Io pensavo che dicesse così, tanto per dire, invece era serio.
Mi sono distratta un attimo ed è salito sul davanzale, aveva appoggiato la sedia contro la finestra. L’ho visto di spalle, con le braccia aperte. Ho lanciato un urlo, ma prima che riuscissi a fare qualcosa aveva spiccato il salto.
Lo so che non mi crede, Commissario, anch’io faccio fatica a credere, ma ho proprio visto con i miei occhi che volava. Come volano le rondini.”


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Barbara G

…LIQUOR DIVINO

Seguimi, Edgardo. Osserva con attenzione queste piante: sono equilibrate ed i loro grappoli tondi e pieni annunciano un buon raccolto.
Comprendi l’importanza della potatura che ti ho insegnato?
Falcino in mano, studia bene il fusto: se ha rimesso capi o rami inutili rimonda benraso, sin alla cavazza. Sali quindi sul traverso dove la vite è accomodata a formare la tirella che nell’autunno hai vendemmiato. Governa i nuovi capi e tirali similmente piegati a quella parte. Poi è tutto uno speronare e rimondare.
Mio nonno diceva: « Chi la vite impoverisce, colla vite s’arricchisce. Perché se così la vite non tratti, eccola in pochi anni alzarsi e l’abbondanza di capi, tutti tirati e messi ad uva, smungono la pianta del nativo umore.
Il villano ignorante osservando tali viti dice che un lampo le ha tirato dentro, ma questo è il guadagno di chi non monda il più e non sperona il necessario ».
Quando misi a terra queste piantarelle, i villani ridevano.
Chi lo avrebbe detto che sulle sabbie del mare sarebbe cresciuto un vino così profumato, fine e discreto?”
Incamminato con Edgardo lungo il prezioso vigneto di Casa d’Este, Innocenzo non riesce a trattenere la soddisfazione e rimira quelle piante, radicate a piede franco sulle sabbie delle dune del delta del Po.
“ Finito codesto giro, faremo una cavalcata nel bosco. Ho l’autorizzazione del Duca per riferire sui capi della selvaggina. Forse vuole organizzare una battuta di caccia con i parenti francesi ”
“ Dimmi Innocenzo, hai mai incontrato Madama Renata? “
“ Sì, l’ho vista, una sola volta ed in quell’occasione mi ha chiesto della “sua” uva, che continua a chiamare la Côte-d'Or.
Non capisco perché insiste a dire uva d’oro, quando è nera.
Per noi resta uva Fortana, uva forte, di grande giovamento per la salute ”
“ Chissà, forse Renata vuole ricordarci che il vitigno proviene dalla Borgogna, la sua terra ”
“ Dai retta a me, Edgardo: moglie e buoi dei paesi tuoi ”
“ Io, invece, la capisco. Mi ha raccontato la lavandaia di corte, che lo ha sentito dire dalla sarta dei marchesi Bentivoglio, che le nozze di Renata con Ercole d’Este, nella Sainte-Chapelle di Parigi, sono state memorabili, celebrate con lo sfarzo degno di una casa reale.
Ma quando gli sposi giunsero a Ferrara (era il 1° dicembre 1529) noi abbiamo atteso più di un mese per festeggiare. E che cosa abbiamo fatto? Una semplice cena in Castello. Ferrara non sarà mai all’altezza di Parigi ”
“ Può essere come dici tu, Innocenzo. Per me Madama Renata resta una donna cocciuta, come lo era sua madre, Anna di Bretagna, indipendente e spregiudicata e le sue frequentazioni sono un vero problema: aiutata dalla governante Michelle, ospita di continuo stranieri in odor d’inquisizione.
Persino Giovanni Calvino è riuscito ad entrare in Ferrara: a corte tutti sanno del loro incontro nella Delizia del Belriguardo ”
“ Sì, d’accordo, però con la sua dote Madama Renata ci ha donato quest’Uva d'oro, che tutta la Romagna ci invidia. E noi abbiamo lavoro e onore assicurato ogni stagione dell’anno.
Non c’è pranzo o cena di riguardo in cui non sia servito il vin del Bosco e non c’è dissapore di palazzo che esso non riesca a pareggiare: timorati del Papa o riformati calvinisti, cardinali o capitani di ventura, una volta a tavola e coi calici ben forniti, tutti si ritrovano a parlar la stessa lingua ”
“ Su questo hai ragione, Edgardo, e a parlar di vino mi si è mosso l’appetito.
Perché non ci fermiamo alla locanda dei monaci? E’ di strada prima di arrivare al boscone ”
I due rettori della tenuta marina di Casa Estense si dirigono, motivati, all’Abbazia di Pomposa.
“ Salve, fra’ Girolamo. Siamo di passaggio per conto del Duca Ercole d’Este.
Chiediamo ospitalità. Per ciascuno di noi basterà un buon piatto di selvaggina da piuma, una bottiglia di Fortana ed un giaciglio di ristoro ”
“ Devoti servitori del Duca, non dimenticate il motto dell’uomo savio: ‘Tre uve produce la vite: la prima è del piacere; la seconda dell’ubriachezza, e l’ultima è della pazzia’ ”
“ Orsù Girolamo, se nel poema dell’Ariosto il vino è detto miglior che il nettare e la manna, possiamo noi vanificar la sua celebrazione?
E’ il nome stesso che non ci condanna, essendo vieppiù … liquor divino ”
“ Non era Rodomonte usato al vino,
perché la legge sua lo vieta e danna:
e poi che lo gustò, liquor divino gli par , miglior che ' l nettare o la manna;
e riprendendo il rito saracino, gran tazze e pieni fiaschi ne tracanna.
Fece i l buon vino, ch'andò spesso intorno, girare il capo a tutti come un torno.


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Le opere inserite nel formato ODT (LibreOffice, OpenOffice), DOCX (Word), ePUB (Electronic Pubblication) e TXT saranno trasformate in pagine HTML e saranno udibili grazie a una voce automatica che leggerà il testo. Questa funzione è molto utile per i non vedenti.
Per tutti gli utenti (anche non iscritti) e per tutti gli autori che vogliono inserire una loro prima opera, il portale BraviAutori.it è totalmente gratuito!
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