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Indice:
La gara
Prefazione
Nunzio Campanelli
Marino Maiorino
Lodovico
Patrizia Benetti
Antares
Monica Porta may bee
Licetti
Yendis
Carlocelenza
Scrittore97
Anto Pigy
Pardan
Freecora
Lorella15
Polly Russell
LeggEri
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Una produzione

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La gara

Gara 37
IL TRINOMIO FANTASTICO
MAGGIO 2013
antologia per BraviAutori.it
Da un’idea di Mastronxo e Ser Stefano
Copertina e Scelta delle Immagini: Ser Stefano
Impaginazione e Coppie di Parole: Mastronxo
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano Massimo Baglione per il supporto e gli Autori per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

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Prefazione

Rodari, ne “La Grammatica della Fantasia”, illustra una delle tecniche da lui utilizzate “per mettere in movimento parole e immagini”. La tecnica, chiamata binomio fantastico, consiste nel prendere a caso dal vocabolario due parole; dal semplice accostamento di queste due parole e dalla fantasia dell’autore, si svilupperà l’intera storia.
Ser e io abbiamo pensato di andare oltre, creando quello che chiameremmo “trinomio fantastico”.
È stata una Gara atipica, questa. E divertente, almeno per me.
Ammetto che non mi piace l’idea di gettare un qualunque Bando – anche se magari ben pensato e complesso – in pasto agli eventuali autori presenti, e attendere che i giochi si facciano da soli. Mi piace stare nella calca, sentire la polvere, gli spintoni, gli “evviva” e i “buuu” della folla. Il problema era dare una risposta a una delle domande più frequenti d’Italia, ovvero: “Come facciamo?”.
E per caso, come capita spesso per le buone trovate ma anche per le più grandi ed ignobili pecorate della storia (a chi legge la scelta), ci venne l’idea. Bum.
In una notte buia e senza stelle, una fitta corrispondenza di mail e messaggi privati sfarfallava nell’etere. Ser Stefano e Mastronxo dibattevano.
Questo è quello che è nato.
L’obiettivo era semplice e complicato al tempo stesso. Ciascun autore doveva prenotarsi un posto nel contest, urlando a squarciagola “Io Partecipo!”. Niente limiti di tempo per questa fase, se non la conclusione del contest medesimo. E poi, l’autore che si era buttato nell’arena non doveva fare altro che attendere. Attendere che gli venissero propinate le basi su cui fondare la propria opera, facendo decidere a quella mistica buona donna dall’udito sopraffino che si chiama Sorte.
A ciascuno dei partecipanti vennero offerte in dono, da parte della suddetta buona donna, aiutata dai due sovrascritti buoni uomini, una coppia di parole e un’immagine. Ogni elemento diverso per ciascun partecipante, nessuna possibilità di cambiare. O accetti, o rinunci. C’è a chi è andata bene, a chi male, chi ha preferito non tentare. Ma le idee, quelle, non sono mancate.
Ognuno ha il suo carattere, ognuno la sua testa. Qui sta la forza di questa Gara: trovare una via anche quando la via sembra non esserci, gettarsi nel surreale, nel fantascientifico, nel quotidiano o nell’autobiografico per risolvere l’enigma, per tessere un filo conduttore tra il parlato e il visivo, tra l’es e l’ego, tra il materiale e l’impalpabile, tra cane e gatto, tra…
BONG!
Ahia.
Va be’, buona letta a tutti.


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Nunzio Campanelli

Il Vaso di Pandora
Coppia di Parole: BAULE – SANGUE
Sentiva il fluire del sangue e il lento ritorno della vita nel suo corpo inerme.
Non ricordava niente, riusciva solo a collocarsi tra il genere umano.
Identità, provenienza, esperienze passate, aspirazioni future. Tutto ciò non esisteva più. Se mai fosse esistito.
Non rammentava da quanto tempo si trovava in quel posto. Comunque non riusciva nemmeno a definirlo quel posto, sapeva solo di essere lì, in qualche parte del mondo, e che era vivo.
Vivo? Era proprio sicuro? Magari quella era la morte, o almeno quello che c’era dopo la morte.
La morte non era la fine allora, poteva esserci ancora speranza per l’umanità. Speranza? Solo, immerso in un’oscurità assoluta, senza suoni e odori, senza memoria. Spaventoso, molto più di quanto si fosse mai pensato, molto più di quanto si fosse mai temuto.
Cos’era allora quella sensazione di calore che cresceva lenta dentro il suo corpo, se non il sangue. Non riusciva a pensare ad altro.
Provò a massaggiarsi la gamba con una mano, senza riuscirci, tentò allora di sollevare la testa rinunciandovi subito.
Una forma si materializzò nella sua mente, un contenitore di legno. Una bara? No, sembrava più una cassa, quasi fosse un mobile. Infine capì. Un baule.
Fu allora che udì quei battiti, come un pendolo che scandisce il tempo. Erano regolari, lenti, inesorabili. A ogni colpo seguiva un lungo silenzio che moltiplicava le attese del prossimo. Uscì da quella specie di gorgo concentrandosi sull’immagine del baule. Era di quelli con il coperchio incernierato che si ribaltava una volta aperto. C’era una serratura. E c’era la chiave. Vide se stesso afferrare il coperchio e tentare di sollevarlo, dopo aver girato la chiave, ma era troppo pesante.
Non riusciva ad aprirlo. Si stava arrendendo.
Sentì un brivido pervadergli il corpo, avvertì una vibrazione, una stranissima percezione ma non riusciva a capire cosa fosse. Tornò ad afferrare il coperchio del baule. Doveva riuscire. L’aprì.
In una frazione di secondo, ricordò tutto. E fu come morire. Una morte interminabile, unica compagna dei suoi pensieri per l’eternità.
Il viaggio, la frenata, lo stridio degli pneumatici, il contorcersi delle lamiere, la sua carne straziata, la sirena disperata, le facce sconvolte e affannate che si affollavano sopra di lui. E lei, dal viso bellissimo e spento solcato da lacrime generate dalla paura e alimentate dal dolore, lo sguardo perso nell’ultima promessa…
Poi l’oblio.
Infine il risveglio in un mondo nero e solitario e ora… Ora vedeva, sentiva, ma non poteva muoversi e parlare, non poteva chiedere niente a nessuno, e nessuno sembrava accorgersi di lui. Che ora aveva occhi per vedere e orecchie per sentire. E memoria per ricordare.
Si era sbagliato. Molto più spaventosa la vita che la morte. Se questa era la vita e quella di prima la morte.
Pensò che non avrebbe dovuto aprire quel baule, che i ricordi, a volte unica forza per tirare avanti, in altre circostanze possono trasformarsi in un peso insopportabile. Aveva scoperchiato il suo vaso di Pandora, ed era fuggita anche la speranza.
Un grido si propagò in lui dal profondo della coscienza fino a prendere corpo nella mente, fino a manifestarsi negli occhi con la potenza di un uragano e la violenza di un mare in tempesta. Solo, disteso sul letto di una stanza d’ospedale, circondato da strumentazioni, il silenzio interrotto unicamente da quel battito incessante: il lento, monotono, eterno respiro della macchina che consentiva il fluire del sangue.
Secondo posto


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Marino Maiorino

Sinestesia
Coppia di Parole: SILENZIO – AMMALARSI
«Silenzio, per cortesia». Il sussurro dell'infermiera fece acquietare i visitatori della stanza 32.
Il bambino non li sentiva. Disteso, con il viso rivolto alla finestra, il suo sguardo era perduto nello spettacolo della grande nebulosa gassosa a dritta della nave-colonia. Negli occhi quei colori rosso e giallo, e poi viola, porpora, e mattone, e il tenue azzurro che ancora avvolgeva qualche stella appena nata, dipingevano panorami fantasmagorici, che mai nessun umano era riuscito a penetrare in precedenza con tanta profondità.
Nella testa gli ronzava una sinfonia grandiosa che egli non aveva mai udito in vita sua. La bellezza del tutto era talmente sconvolgente che era rimasto a bocca aperta da quando lo avevano deposto sul lettino dell'ospedale, e non sembrava avere alcuna intenzione di riscuotersi da quello stato catatonico. In compenso, e per conforto della madre, sembrava stare meglio.
«Ma il dottore, sta arrivando?» La madre rivolse la domanda all'inserviente con un volto preoccupato: dopo la rapida accettazione quella era la prima addetta che avessero visto. C'era stato persino tempo perché i nonni e gli zii venissero a vedere cosa accadeva al piccolo.
Tommy era sempre stato un bimbo strano. Di un'intelligenza sconcertante e speciale, passava alle volte dei periodi di mutismo totale, totalmente assorto in contemplazione di qualcosa, non si sapeva cosa.
Il pediatra aveva minimizzato quei fenomeni come alcunché di passeggero, il bimbo non aveva un'età tale da far diagnosticare ciò che i suoi genitori più temevano: l'autismo.
Ma Tommy non era autistico. Quando il pediatra gli faceva i test di prassi il suo parere era sempre negativo: il bimbo era molto intelligente, alle volte un'estrema intelligenza si riscontra nei bimbi autistici, ma Tommy non soffriva assolutamente di quello.
«Il dottore è qui, non si preoccupi», rispose l'infermiera. «Sta arrivando col tecnico per la scansione cerebrale.»
«Una scansione cerebrale? Oh, no!» La donna portò le mani al viso e cominciò a singhiozzare: quelle parole confermavano tutti i suoi più atroci timori. Il marito l'abbracciò forte per confortarla.
L'infermiera le si fece accanto. «Signora, non faccia così! È solo un esame di routine, non ha niente di cui preoccuparsi!», ma la donna non riusciva a fermarsi e piangeva copiosamente. Il marito le accarezzava i capelli.
«Josh, non avrei dovuto farlo, non avrei dovuto spegnergli la radio, lo sai che ama tanto la musica!»
«Non fare così,» gli rispose lui, «prima o poi sarebbe accaduto, ma adesso è in buone mani, vedrai!»
Arrivò il dottore accompagnato dal tecnico. C'era troppa gente in quella stanza, ma bastò una paziente occhiata dello specialista per far uscire tutti. Solo i genitori di Tommy e l'infermiera rimasero a guardare il tecnico che adattava la calotta sui capelli ricci del bambino.
«Signori», esordì il medico, «è inutile che vi dica che impieghiamo questa macchina per solo scopo diagnostico. Potete stare certi che qualunque cosa troveremo nella mente del vostro bambino che esuli il suo stato psicofisico sarà opportunamente salvaguardata.»
I genitori annuirono meccanicamente: "Che cavolo di segreti credi che possiamo avere, che valgano più di nostro figlio?", pensò il papà.
Il dottore fece cenno al tecnico di accendere l'apparato. Il piccolo pad nella sua mano sinistra sfrigolò cercando di sintonizzarsi sulle onde cerebrali del bambino.
«Abbiamo una portante!», commentò finalmente il tecnico. «Ora sintonizzo audio, video e quant'altro...»
La sinfonia che era nella testa di Tommy esplose dal pad che non riusciva a coprire l'estensione audio dei toni e distorceva violentemente. I colori della nebulosa si riversarono nella stanza proiettati dall'estensore olografico, tutti si sentirono avvolti da un tepore che riconoscevano benissimo, sepolto nelle pieghe più intime della loro anima: era l'abbraccio di una mamma.
Il dottore fu il più pronto a reagire e chiuse la finestra, il silenzio e l'oscurità riempirono la stanza. Tommy si girò, e sbattè gli occhi con disappunto.
«Tommy,» chiese il dottore «puoi dirci cosa stavi vedendo?»
«Quelle stelle sono bebé! Quelle stelle stanno con la mamma!»
Il dottore non aveva mai visto un caso tanto profondo di sinestesia, e la sua diagnosi richiese del tempo, ma definitivamente Tommy non soffriva di autismo, nè si avviava a diventare autistico.
«Nella mente del vostro bambino», spiegò il medico, «i sensi sono inestricabilmente legati. Succede così che veda qualcosa, un colore, un oggetto, e durante l'elaborazione di quest'informazione si attivino parti del cervello dedicate alla percezione dei suoni o degli altri sensi.
«Nel caso del vostro bambino», proseguì «la sinestesia coinvolge addirittura gli affetti: mi ha detto che all'asilo hanno fatto vedere ai bambini la Grande Nebulosa di Orione e hanno spiegato loro che lì stanno nascendo nuove stelle. Non c'è bisogno che vi ricordi la sensazione che lo scanner cerebrale ci ha dato, e le sue parole subito dopo...»
«Dottore, ma è grave?» Come può una madre, che ha allevato fin dal proprio grembo un bambino, metabolizzare nel tempo della lettura di una diagnosi quello che la medicina ancora fatica a comprendere?
«No signora, la prego, Tommy sta bene! Certo, potrà avere difficoltà di apprendimento e dovrete fare attenzione a tutto ciò che metabolizza intellettualmente, ma non si sta ammalando. Quel giorno, lei spense la musica mentre Tommy era al buio, perciò ebbe una reazione tanto inconsueta: il suo universo è sempre attivo, un suono, un colore ci sono sempre, lui non si sente mai solo. Probabilmente ebbe un attacco di panico.
«Le difficoltà nel crescerlo verranno proprio dal fatto che se ode un suono e l'associa a qualcosa, vostro figlio lo fa a un livello più profondo, e così facendo il mondo rappresenta per lui un'esperienza più completa che per noi. Ma dovete invece vederla dal punto di vista delle potenzialità: se correttamente stimolato, Tommy potrà essere un artista meraviglioso o uno scienziato geniale!»
Un artista meraviglioso... uno scienziato geniale... La mamma si affacciò alla finestra che dava sui prati all'interno della nave-colonia. Tommy era lì disteso coi nonni e la Primavera di Vivaldi accompagnava nella sua testa quella splendida giornata di sole artificiale.
Primo posto


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Lodovico

Sleep Controller
Coppia di Parole: DORMIRE – FORESTA
Un anno prima.
L’uomo si svegliò. Si sentiva riposato come non gli capitava più da mesi. Si voltò. La sua donna era lì, al suo fianco. Bella nei suoi lunghi capelli scuri. Gli occhi chiusi e il respiro pesante. Finalmente.
Infilò i piedi nelle pantofole e si alzò dal vecchio letto che lo salutò con un lieve cigolio. Lei non si era svegliata.
Lo sguardo si perse fuori dal vetro della finestra. Aveva piovuto nella notte. Una goccia di pioggia lo stava fissando, ferma sulla foglia verde che la faceva sembrare ancora più trasparente. Iniziò a rotolare in avanti lentamente e poi giù, verso la terra, in un umido suicidio.
Poche ore e sarebbero tornati alla vita di tutti i giorni, ma con il ricordo, ben impresso nella mente, di quel luogo. La loro salvezza, il loro ultimo legame a quell’esistenza altrimenti insopportabile.
Dietro le sue spalle una voce assonnata, ma dolcissima lo chiamò: «Giorgio, buongiorno».
Il giorno precedente.
«Recenti studi clinici hanno evidenziato che il numero ottimale di ore di sonno, che si credeva essere di cinque, può essere diminuito a quattro e mezza senza conseguenze sulla salute generale. Pertanto il M.E.C. (Ministero per la Efficienza del Cittadino) ha preso la decisione che, da lunedì, lo Sleep Controller di tutti noi sarà tarato in questo senso.Nei giorni festivi le ore di sonno saranno comunque mantenute cinque e mezza. Noi della redazione e la dirigenza del nostro quotidiano desideriamo ringraziare il Governo e il M.E.C. per darci la possibilità di aumentare ancora la nostra efficienza».
Giorgio appallottolò il giornale e lo gettò nell’angolo più lontano della stanza. Ancora mezz’ora in meno di sonno. Li avrebbero uccisi tutti. Il Governo Centrale aveva deciso che il tempo passato a dormire era tutto tempo perso, in cui i cittadini non lavoravano, non consumavano, non guardavano la pubblicità in televisione. Sentì la lieve scossa. Il suo Sleep Controller impiantato sotto la pelle del collo lo avvisava che non era tempo di dormire. Mosse il braccio in alto. «Sono sveglio, bastardi» disse sottovoce con rabbia. La scossa sparì. Tra dieci minuti si sarebbe ripetuta tutta la scena, fino all’ora del riposo. Se non avesse mosso qualche parte del corpo la scarica elettrica sarebbe diventata sempre più forte.
Non avrebbe resistito molto, come non avevano resistito in tanti. Il numero di suicidi era aumentato in modo esponenziale, ma il Governo non permetteva che queste statistiche venissero pubblicate. Solo i suoi amici del gruppo dissidente “No control” le conoscevano.
Il campanello lo distrasse dai suoi pensieri. Carlo entrò sorridente e si sedette sulla poltrona senza che nessuno glielo avesse permesso.
- Ho notizie interessanti, Giorgio, ti piacerebbe farti una bella dormita?
- Mi stai prendendo in giro, Carlo, hai letto i giornali?
- Certo, ma ho trovato un posto dove lo Sleep Controller non funziona.
- Impossibile, si collega alla rete cellulare e, se si tenta di schermarlo, produce una scossa continua e fortissima.
Carlo si versò una generosa dose di Cognac e ostentò un sorriso che, negli ultimi mesi, non appariva mai sul suo viso.
- Ho parlato con un tecnico del M.E.C. che si è occupato dello sviluppo del software di controllo. Mi ha detto che, se si trova un luogo coperto dalla rete, ma al limite del segnale, il sistema rileva lo Sleep Controller ma quest’ultimo non è in grado di ricevere l’impulso che induce la scossa. E questo posto l’ho trovato. E’ fuori città, nella foresta che porta verso i monti, e la fortuna ha voluto che in quel luogo ci fosse una vecchia casa abbandonata. Ci sono stato ieri e ho dormito tutta la notte. Nessuna scossa. Niente.
- Fantastico, ci posso andare anch’io?
- Certo, ma mi raccomando, non lo deve sapere nessuno al di fuori di noi di “No control” perciò fai attenzione.
La lieve scarica elettrica s’irradiò dal collo, Giorgio quasi non la sentì.
Ieri.
Due ore di cammino sono sempre molte, ma ne vale la pena, pensò Giorgio. Finalmente avevano ottenuto due giorni di permesso dal lavoro e potevano godersi il riposo nella casa della foresta. Carlo, in quei giorni, non l’avrebbe occupata. La terra polverosa del sentiero faceva piccoli sbuffi quando Giorgio e sua moglie la calpestavano. Ancora per poco, le nuvole grigie che li sovrastavano promettevano pioggia, ma a loro non importava. Il giorno seguente sarebbe stato lo stesso radioso.
Oggi.
Lo sguardo si perse fuori dal vetro della finestra. Aveva piovuto nella notte. Una goccia di pioggia lo stava fissando, ferma sulla foglia verde che la faceva sembrare ancora più trasparente. Iniziò a rotolare in avanti lentamente e poi giù, verso la terra, in un umido suicidio.
La sua lacrima, contemporaneamente, cadde sul pavimento. La scarica elettrica diventava sempre più forte, ma Giorgio non si mosse. Riflessa nei vetri semitrasparenti della finestra una figura dai lunghi capelli scuri penzolava da una trave del tetto spiovente. La corda che la sorreggeva per il collo pareva una collana che la rendeva ancora più bella. Non aveva resistito alla notte insonne e alla perdita di speranza. Al di là degli alberi, sopra la montagna, una gigantesca antenna, come sorta dalle viscere della terra, incombeva come una mannaia sulla sua vita distrutta. Il collo bruciava. Ma Giorgio non si mosse.


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Patrizia Benetti

Solidarietà
Coppia di Parole: DOPOBARBA – COMPRENDERE
Da quando Elisa fu aggredita, quella notte maledetta, non riuscì ad essere più la stessa. Uno sconosciuto le aveva inflitto una violenza fisica e mentale che non sarebbe più riuscita a scordare. Le era costato caro il ritorno dalla discoteca.
Ci vuole tempo”, le disse il dottore con un sorriso paterno dipinto sulle labbra.
Già”, gli rispose secca.
Elisa lo mise in imbarazzo. Non era certo colpa di quel poveretto se un’ombra nella notte le si è palesata sotto forma di un essere massiccio e disgustoso.
Si sentiva strana, ferita, disillusa. In ospedale l’avevano imbottita di ansiolitici e sonniferi, ma lei viveva in preda a incubi e allucinazioni. Sognava continuamente quel mostro, l’odore acre della sua pelle, sentiva echeggiare le sue risa colme di divertito disprezzo. Non era riuscita a vederlo in faccia, ma rammentava la sua figura alta e massiccia, le sue mani grandi e ruvide.
Ora stava giornate intere rintanata nella sua stanza.
Olga, la dirimpettaia, le fu di grande conforto. Abitava in quello stabile da un paio di mesi ma ad Elisa sembrava di conoscerla da sempre.
Bussava tre volte e poi pigiava una volta il dito sul campanello. Era il loro segnale. Solo allora la ragazza poteva aprire tranquilla e la vicina compariva con quel suo fare buffo e divertito.
Le portava dolci squisiti, piccoli capolavori dal profumo invitante. Se non ci fosse stata Olga. Era una portatrice sana d’allegria. Quando aveva tempo si tratteneva un po’ a fare compagnia a Elisa. Preparava un tè dolce e bollente in cui annegavano biscotti squisiti e parlavano del più e del meno.
In verità Elisa si limitava ad ascoltare la vicina che parlava delle sue lunghe e stressanti giornate lavorative, con le esagerazioni e l’ironia che rendevano le sue storie esilaranti. Riusciva così a strappare un sorriso alla sua povera amica.
Il primo fine settimana di aprile Olga decise di andare in gita col suo ragazzo. Era cominciata la bella stagione e ne approfittavano per trascorrere il week-end a Roma.
Tornerò presto, non temere”, si affrettò a dire a Elisa, vedendola impaurita.
Certo. Divertitevi!”, esclamò lei fingendosi felice. Non voleva farla sentire in colpa, né esserle di peso.
Era venerdì sera. Tre toc toc e poi uno squillo. La ragazza corse ad aprire pensando che Olga fosse venuta a salutarla prima della partenza, ma sobbalzò per la sorpresa. Si ritrovò davanti uno sconosciuto. Era terrorizzata e fece per chiudergli la porta in faccia, ma lui disse: “Scusa… sono il ragazzo di Olga”.
Lei tirò un sospiro di sollievo. L’uomo aveva un dolce tra le mani e le sorrideva timidamente. “Non so come scusarmi…”, replicò imbarazzato.
Non preoccuparti. Va tutto bene”, lo rincuorò.
E’ un semifreddo. Dobbiamo metterlo in frigorifero. Ordine della cuoca”.
Il sorriso di quel giovane era contagioso. Si recarono in cucina. Lui aveva una figura alta e robusta. Quegli stivaletti gialli… L’odore acre della pelle… Quel dopobarba dozzinale che aveva addosso lo rendeva disgustosamente riconoscibile. Elisa era ripiombata in quell’incubo orribile. Lui avanzava con fare minaccioso e lei tentò la fuga. Quando fu oltre la soglia di casa, vide comparire Olga.
Che c’è, piccola mia?”, le chiese stringendola fra le braccia.
Scappiamo! Lui è in casa!”, esclamò allarmata la giovane vittima.
Ma la vicina rise e la trascinò di nuovo dentro. “Quanto sei stupido, Diego!”, disse brusca al suo uomo.
Che succede?”, Replicò Elisa esterrefatta.
Quel balordo si caccia sempre nei guai. Perciò, devi comprendere, vogliamo sparire al più presto!”, esclamò sarcastica la dirimpettaia. Quindi andò a prendere i contanti e il braccialetto d’oro che la poveretta custodiva nel comò, mentre l’aggressore la scaraventò con forza inaudita contro una parete, ponendo così fine alla sua tribolata esistenza.
Terzo Posto


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Antares

Occhi di Bambina
Coppia di Parole: DENTE – BOTTIGLIA
Le telecamere non inquadrano questi posti, i giornalisti non si spingono a guardare gli scenari che affronto. Loro rimangono al campo base, a rompere le scatole ai soldati e, un po’ meno, agli ufficiali. Domande idiote ovviamente. Mi piacerebbe sputar loro in faccia uno per uno, volentieri e anche più volte. Ma per fortuna mia, e loro, io non sono mai al campo base. Qualcuno, di rado, prende il coraggio a due mani, e quatto quatto se ne va nei quartieri bonificati, intervistando con il suo stupido interprete i sopravvissuti, i poveracci, sperando, o costruendo chissà quali dichiarazioni. La guerra fa schifo, è questa l’unica dichiarazione possibile.
Ma è la mia vita, da troppi anni in prima linea, con la mia squadra, primo a intervenire e primo ad andarsene quando inizia il lavoro dei politici. Altra categoria che non posso sopportare. Quello che i giornalisti non mostrano, i politici, per tutta sicurezza, lo nascondono, lo dissimulano, lo stravolgono. È meglio che il mondo non sappia, che non veda quello che vedo io.
- Ti abbiamo presa alla fine, eh?
Una ragazza poco più che ventenne è stesa davanti a me. Un cecchino. Abbiamo rischiato tanto per catturarla, ci provavamo e ci sfuggiva da mesi. Zittisco il mio compagno che ancora continua a insultarla.
Fa caldo in questa mimetica, non lo sopporto, non mi ci sono mai abituato, non ci si abitua mai.
La ragazza è inerme, boccheggia. Con una pallottola nel polmone, già è tanto se ancora respira. Ha gli occhi azzurri di una bambina.
All’angolo della bocca scorre una scia di sangue; poco più in là, a terra, distinguo un dente.
In calcio la raggiunge alle costole e mugola dal dolore. Mi infurio.
- Fuori di qui! Verificate il perimetro.
Mi slaccio l’elmetto. In questa stanza fa troppo caldo.
Guardo gli altri uscire di soppiatto e allontanarsi furtivi. Sto infrangendo non so quanti regolamenti. Non importa.
Lei è lì. Rantola.
Una ragazza come tante, mi sembra anche bella. I lunghi capelli castani sono sciolti e sparsi a terra, sul suo giubbotto nero, sui suoi occhi chiarissimi. Il suo fucile è dall’altra parte della stanza, con il treppiedi montato, forse ancora carico. Una folata d’aria sfoglia le pagine di un quaderno, lì accanto. Righe fitte, disegni, un fiore che sorride.
Le faccio bere un sorso d’acqua. Non mi chiedo neppure cosa mi spinga a farlo.
Il contenuto della bottiglia si colora di rosso.
Lei tossisce, quasi si affoga, poi mi guarda con un’espressione che non saprei definire. Uno sguardo in quegli occhi chiarissimi che mi penetra il cranio.
- Io aspettavo… aspettavo da molto questo momento. Del resto sono un cecchino, aspettare fa parte del mio lavoro.
A cosa vale questo sforzo? Se cerca scuse non ne ha bisogno: siamo in guerra. E non voglio sapere niente di lei. Eppure non dico nulla, non la fermo. Mi sento contorcere le budella.
- Sono nata su un campo di battaglia e lì sono cresciuta. Esplosioni, sirene e urla sono state la mia ninna nanna. Sono curda …
Curda. Conosco la loro tragedia, massacrati ai confini tra l’Iran e la Turchia, quasi in piena Europa. Tutti la conoscono e la ignorano. Non siamo mai intervenuti con la solita scusa dei diritti fondamentali dell’uomo o la necessità primaria della democrazia. Non scherziamo. Certo non si fa guerra in certi posti. Sono questioni da politici.
- Ogni mattina mi svegliavo e scoprivo che qualcun altro della mia famiglia o dei miei amici era morto.
Tossisce ancora, sputa sangue.
Non voglio sapere la sua storia, non ho bisogno delle sue spiegazioni, non ha bisogno del mio perdono.
- I governi del mondo hanno chiuso gli occhi di fronte al nostro dramma. La mia gente era divisa tra stati troppo potenti, troppo importanti, perché qualcuno si degnasse di andare a vedere cosa accadeva. Poi ho iniziato a combattere, ero piccola, non avevo altra strada per sopravvivere … e sono diventata un mercenario, sono diventata un cecchino.
Ancora un colpo di tosse. Ancora un fiotto di sangue.
- Nascosta, da lontano osservavo tutto attraverso il mirino. Finalmente potevo vedere la guerra non da dentro, ma da fuori, da osservatrice. Guardavo la brutalità e la stupidità della razza umana. E aspettavo… per ore, muscoli immobili, fiato leggero, e poi …
- … one shot, one kill!
Le mie uniche parole sono una conferma. Forse una condanna. Dovrei dire altro, non dovrei dire nulla, sono inebetito davanti a lei.
Odio i cecchini, sì anche loro. Ne ho presi tanti. A Sarajevo ho dovuto liberare un’intera strada da decine di loro. La strada che portava all’ospedale. Donne, anziani, sparavano a chiunque cercasse di raggiungere il soccorso. E bambini, quanti bambini hanno ammazzato. La guerra si fa contro qualcuno, a qualcuno si deve sparare, anche ai bambini. Non sono soldati, ma potrebbero diventarlo. Filosofia meschina.
Poi c’erano i bastardi che non sparavano per uccidere. Non come lei, “one shot, one kill”. Alcuni sparavano per ferire. Poi aspettavano che altra gente arrivasse per aiutare il disgraziato caduto. Quindi ammazzavano tutti.
- Ho tradito me stessa e il mio popolo. Nel nome della vendetta, della rabbia ho venduto il mio corpo, la mia mano e i miei occhi. Ho venduto la mia anima.
Bel momento per pentirsi, è tardi ragazzina. Lo penso, ma non lo dico. C’è qualcosa nei suoi occhi che riesce a sfondare la mia corazza di soldato, indurita da anni di addestramento e di guerra, guerra vera.
- Io aspettavo. Ora lo so: non aspettavo per uccidere qualcuno. Aspettavo che qualcuno uccidesse me.
Non sento più il caldo asfissiante di prima.
- Aspettavo te.
Non chiedermelo.
- Ti prego… liberami da tutto questo!
Ho già in pugno la mia Beretta.
Carico il colpo.
Che sto facendo? È disarmata, è inerme, è un prigioniero … è una ragazzina.
Sorride. Sputa sangue, e sorride. I suoi occhi luccicano.
Punto. Dito sul grilletto.
Non sento neppure lo sparo.
Fa freddo ora, freddo dentro.
Indosso l’elmetto e guardo ancora i suoi occhi azzurri.
Richiamo gli uomini. Abbandono la zona.
Sono svuotato di tutto.
La guerra fa schifo.


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Monica Porta may bee

L’Insolito Colore del Cielo
Coppia di Parole: FANTASMA – MAIALE
Spensero le torce. L'alba rischiarava il paesaggio di luce rosa intorno, ma era solo l'insolito colore del cielo a dare l'illusione di fresco, l'aria già tiepida annunciava una giornata calda sull'isola.
«Manca poco» Francesca ruppe il silenzio senza fermarsi.
L'uomo le fissò i capelli biondi raccolti in una morbida coda di cavallo e rabbrividì. Camminavano soli su uno sterrato di campagna da tre ore. Cercavano un maiale. Non erano le aberranti deposizioni dei malcapitati che avevano subìto le sue incursioni notturne a colpirlo. Mutilazioni di bestiame, devastazioni, la rabbia degli allevatori coinvolti facevano parte della normalità di fronte a una minaccia animale. No, c'era qualcos'altro a rendere inquietante il quadro delle indagini. Questo maiale agiva senza lasciare impronte sul terreno. Di più, svaniva di notte sotto gli occhi della gente. Considerando attendibili le testimonianze rese, stavano inseguendo un autentico fantasma. L'animale a cui davano la caccia aveva il manto nero tipico di un maiale autoctono ma era più massiccio di quelli presenti sull'isola. Poco sopra l'occhio destro, una grande macchia bianca lo distingueva subito dagli altri. Gli isolani la chiamavano il marchio dell’oblio. Era il segno delle tenebre, citando un'antica leggenda. Narrava le gesta orride di una bestia assassina, intelligente quanto un uomo, che agiva soltanto nelle notti di cielo sereno. Scaltra come una volpe, non uccideva mai per mangiare. Amava solo fare a pezzi le sue prede lasciandole agonizzare nel proprio sangue.
«Qualcosa ancora mi sfugge» Matteo sollevò lo sguardo a fissarla «se il maiale attacca solo di notte come fa la gente a dire che scompare? Il buio cela molto più del giorno».
«Giusto, ma per le impronte?».
«Quelle non ci sono».
«E perciò…»
Il sottotenente scosse la testa. «Niente da fare, ho già verificato. La polizza assicurativa sul bestiame offre un'inezia come risarcimento, considerando le stime di mercato. Le famiglie coinvolte non avrebbero avuto interesse a inscenare un massacro».
«Non ci rimane quindi che pensare al fantasma!» ora la voce di Francesca era allegra.
L'uomo non reagì «poco… quanto?» le chiese fermandosi a riprendere fiato. Voleva imporre il tono, rimarcare il suo ruolo di comando, invece gli uscì solo un rantolo di voce a ricordargli chi era: Matteo Silvani, sottotenente lucchese, cittadino, appena trasferitosi sull'isola.
«Mezz'ora alla meta» Francesca ignorò la sosta del suo compagno proseguendo nella marcia mentre l’uomo mimava una smorfia cattiva dietro le sue spalle, troppo stanco persino per ribattere. Lei dovette percepirlo perché si girò fermando il passo. Ripose le braccia lungo i fianchi e lo fissò. Il suo sguardo non prometteva nulla di buono. «Oh, d'accordo, solo quindici minuti!» gli concesse invece serrando le labbra.
Si sedettero su una roccia. «Ripetimi perché non potevamo arrivarci in macchina» Silvani nel chiedere si massaggiò la caviglia destra dolorante.
«La prossima volta gli telefono» scherzò Francesca « su, su! Non muore nessuno per un po’ di ginnastica. Senza contare che le Gole di Tiberio sono il solo punto d'acqua in quest'area. Spero di sorprenderlo mentre si disseta».
«Così… tu non credi alla leggenda!».
Stavolta lei sorrise «In effetti» il sorriso della donna si allargò «no!».
Francesca era conosciuta come la miglior guida locale di fauna autoctona, veterinaria in servizio attivo nel parco dei Nebrodi «Solo perché ci credono i mei conterranei non significa che sia possibile né tantomeno probabile e poi» scosse la testa riflettendo «… ma prima di tutto dobbiamo catturarlo vivo».
L'ufficiale la guardò. L'espressione del volto e la postura del corpo snello dentro l'uniforme azzurra gli dicevano chiaramente che non avrebbe più parlato. Aveva una teoria che non voleva ancora condividere con lui, pensò Matteo.
Un rumore costrinse l’uomo a girarsi. Puntò l’arma; l'indice teso al grilletto. Il maiale nero che cercavano da giorni li stava fissando. Matteo mantenne la posizione. Gambe divaricate a terra, mani unite a dirigere la sua pistola d'ordinanza, lo sguardo fisso negli occhi della bestia, era pronto a tutto per fermarlo.
Fu allora che accadde l'imprevedibile. Lo videro voltarsi e soffiare potenti sbuffi sul terreno.
«Ma guarda tu che…» sibilò Matteo non perdendolo di vista.
«Ecco come fa, è quasi incredibile» lo interruppe Francesca «non lo uccida!» gli intimò estraendo la siringa di narcotico e avvicinandosi con calma. Modulò la voce a fischio. L'animale scalpitò ma restò al suo posto, il suono sembrava piacergli. Si mosse solo quando vide l'ago. Lo scatto veloce in avanti, la furia dentro gli occhi e la potenza della sua massa muscolare impedirono a Matteo di mirare alle zampe. Uomo e animale caddero a terra. Il sangue ormai sgorgava copioso dal ginocchio destro del poliziotto che strinse i denti voltando lo sguardo intorno a sé. Poco distante da lui, anche Francesca era stata coinvolta nella colluttazione e giaceva inerme. Ormai terrorizzato, l'ufficiale cercò a tentoni l'arma persa nello scontro. Il maiale puntò di nuovo, ora le zampe lo colpivano al torace. L'odore putrido del suo fiato gli alitava addosso. Matteo flesse le gambe. La spinta sortì l'effetto desiderato caracollando l'animale a poca distanza da lui. Non era ancora finita. Prese la mira. Due colpi in rapida successione lo centrarono all'addome, la bestia ricadde su se stessa. Il terzo sparo, di precisione, lo colpì in fronte. Dalla macchia bianca non apparvero fantasmi, come raccontavano alcuni, ma solo un fumo grigio, e l'animale stramazzò al suolo.
«Noo!» la donna ancora a terra si era ripresa dal brusco atterraggio e ora fissava incredula il morto «era addestrato, ma non l'ha visto?».
Matteo non le rispose. Rimase a terra recuperando il fiato perso, una settimana di ferie non gli sarebbe bastata per dimenticare l'accaduto.


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Licetti

La Lite
Coppia di Parole: BUGIA – ESPLODERE
“… Ti amo.”
Lei si gira, con movenze eleganti che stonano con la situazione. L’ennesima discussione animata per stress, noia o non so che altro. Lei si prende cura di sé davanti allo specchio in un sabato sera dove l’uscita in discoteca o altro locale alla moda è fuori luogo, dato che nevica da stamattina. Indossa una leggera vestaglia di seta su un babydoll che lascia intravvedere le sue curve da F1 di trentenne in carriera, che le riunioni in streaming se le passa sempre in palestra.
I suoi occhi hanno un fondo di luccicore, ma non credo che sia voglia di piangere. È sicuramente solo il collirio che utilizza dopo essersi tolta le lenti corneali.
Siamo sposati da quasi dieci ani, uniti solo da sesso e fantasie erotiche. Non abbiamo né cani né gatti né bambini. Abitiamo in una casa che sembra – e costa tanto quanto- un castello. Le nostre professioni ci permettono svaghi e viaggi e la sera spesso apriamo l’ultimo best-seller consigliato da qualche amica invece di chiacchierare. Abbiamo amici, sì, ma sono tutti, o quasi, ex compagni di scuola o colleghi o vicini di casa interessati.
Lei mi guarda e attende una reazione. Io non ho voglia di sorriderle, né di abbassare le mie difese. Non voglio compromessi. Non cedo.
So che quello che mi ha appena detto non è vero. Lo ha fatto solo per toccare il mio lato debole, per aprirsi un varco nella mia compassione e ottenere il mio perdono. Ormai la conosco, ma devo mettere un punto fermo e dare uno stop definitivo. Non posso fargliela passare liscia.
I suoi occhioni non mi ammorbidiranno. No. Devo resistere. Resisterle.
Se siamo a questo punto non è solo colpa delle sue libertà, di quelle che si prende nei tanti viaggi d’affari per meeting, fiere ed eventi vari. Lei forse nemmeno pensa che io lo sappia, che me l’abbiano già detto, o anche fatto notare.
Il mio silenzio è distruttivo per me e un lasciapassare per lei. Logora solo me in apparenza. Lei riesce a tenersi solo la preoccupazione di riuscire a scappare. Ci riuscirà bene, perché la sua via di fuga non è la Salerno Reggio. I tanti parenti la coccolano, come se tutto dipendesse da me, dal mio comportamento.
Sono io l’uomo, ma sono stufo di esserlo a queste condizioni. Devo fare tutto, decidere tutto, essere responsabile di tutto.
E lei, lei nemmeno mi guarda prima di chiudere la luce, o la porta dietro di sé.
Siamo come estranei eppure viviamo nella stessa reggia. Ci sono così tante stanze che nemmeno le usiamo tutte. Voglio riempirle! Di vita, di persone o anche di cose. Delle mie, delle sue, di quelle poche che condividiamo! Voglio avere uno spazio, un punto, in comune, da cui ripartire!
Cominciamo con una carezza? No?
Allora: “proprio come mia madre!!!!!”
E allora perché non te ne torni da lei?” La sua voce mi colpisce come la mazza da golf sulla pallina alla prima buca.
Impossibile! Non sono malato come lei e in quell’ospizio nel quale tu l’hai voluta relegare non mi vogliono proprio vedere. Nemmeno in cartolina!”
Ti ricordo che questa casa è mia…”
Nostra, cara, nostra. Non si ricorda nemmeno che la siamo intestata a entrambi al 50% proprio per non creare problemi. Lei non lo rammenta. Mai in queste occasioni. E allora che faccio?
Saresti capace di mettermi su una strada?”
Sì, e anche senza macchina, finanziata con i miei risparmi.”
Smettila!”
“Comincia tu, che tanto poi so che cedi…”
Questa volta è diverso!”
Non ti credo, ma sto facendo partire il timer. Vediamo se ce la fai entro il minuto.”
Stronza, bastarda. Sa benissimo che le sfide mi eccitano ancora di più.
Continuiamo a battibeccarci attraverso la porta a vetro del suo studio. Vedo la luce, le ombre della sua silhouette. E mi viene un desiderio, una voglia….
E invece sono già oltre la porta a vetro. Dannata mania di non chiudersi mai a chiave!
No, non può finire come sempre: devo resistere. Resisterleee!!!!!!!!!


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Yendis

La Vacanza
Coppia di Parole: URLARE – TEMPO
Bru si svegliò urlando.
Era sudato marcio, come tutte le altre volte in cui, per sfuggire a quel solito, maledetto incubo, la sua mente lo aveva riportato bruscamente allo stato di veglia.
Non ricordava quasi nulla del sogno quando si risvegliava, tranne la parte finale: lui che camminava da solo lungo un ponte e l’acqua che si faceva improvvisamente scura e ostile. Allora si metteva a correre, urlando terrorizzato, mentre il cielo si riempiva di sangue e prendeva fuoco.
Tempo, doveva darsi del tempo, glielo dicevano tutti, il tempo lo avrebbe aiutato a dimenticare e lo avrebbe liberato da quell’orribile senso di angoscia che lo pervadeva da mesi.
Dal giorno della tragedia, non aveva avuto più pace e nemmeno il lavoro, protratto oltre ogni limite, riusciva a anestetizzarlo. L’immagine terrificante dei corpi devastati dei suoi genitori gli si parava davanti senza preavviso, qualunque cosa stesse facendo.
Si vestì rapidamente, incurante della pelle ancora umida per la doccia. Aveva fretta di uscire per prendere un po’ d’aria fresca e mettersi qualcosa nello stomaco. Non viveva più con la moglie e l’idea di prepararsi la colazione lo intristiva, il bar sotto casa aveva in qualche modo risolto il problema. Con Karen avevano provato a rimanere insieme dopo la tragedia ma i loro occhi avevano paura anche solo di incrociarsi e, tra le stanze vuote, lo smarrimento dell’uno ingigantiva incontrando quello dell’altro.
In ufficio lo accolsero con quella cortesia esagerata che usavano da quando aveva ripreso il lavoro,cosa che lo irritava profondamente e che lo induceva a isolarsi ulteriormente. Si barricò nel suo studio e prese a concentrarsi sulla preparazione del primo appuntamento della giornata. Aveva appena incominciato quando Helen, la segretaria dell’agenzia, annunciandosi con un leggero bussare, gli portò il caffè.
Un paio di battute cordiali a cui Bru rispose con fredda gentilezza. Si stupiva che lei non percepisse l’odio profondo e irreversibile che provava nei suoi confronti, l’avrebbe licenziata da tempo se avesse potuto, anche se sapeva che quello che era successo non era colpa sua. Sostenuto dallo psicologo, dopo interminabili sedute, aveva razionalmente accettato la conclusione che nessuno fosse responsabile di quel tragico incidente.
Ma nel profondo del suo cuore il verdetto era inoppugnabile. Era stata Helen ad invitarli a passare quell’ultimo, dannato week-end di febbraio nel suo cottage di montagna. Erano tutti ottimi sciatori e Karen era rimasta entusiasta della proposta. Anche Bru aveva gradito l’opportunità di passare un paio di giorni lontano da casa, da quando era nato Michael non avevano avuto occasioni per starsene tranquilli senza i bambini.
Se solo Helen non li avesse ospitati, se solo loro avessero rifiutato…
La telefonata era arrivata che si erano alzati da poco. La giornata si preannunciava bellissima e avevano deciso di fare ancora qualche discesa con gli amici nella mattinata, per ripartire poi nel pomeriggio. Il giorno prima avevano sciato su una neve perfetta e si erano rilassati come da tempo non succedeva.
Avevano lasciato la baita con furia e quasi senza spiegare, lasciando Helen e il marito attoniti. Mentre Bru tagliava tutte le curve, spingendo la macchina al massimo e schiacciando il clacson con violenza, Karen continuava isterica a chiedergli di ripeterle cosa gli aveva detto il poliziotto, che forse lui non aveva capito bene.
Quand’erano arrivati davanti alla casa dei suoi genitori, ogni dubbio si era immediatamente dileguato. La gente che curiosava, la polizia, i pompieri. E quel silenzio agghiacciante dentro casa. E poi le urla strazianti di Karen mentre veniva accompagnata fuori da qualcuno.
La polizia aveva ricostruito, con ragionevole approssimazione, la perversa dinamica dei fatti.
Quella mattina, Nonno Karl, ancora in pigiama, come sua abitudine si stava preparando il caffè. L’alba era appena spuntata e in casa tutti dormivano. Aveva dato le spalle ai fornelli per un attimo, forse per controllare l’ora, forse per prendere la tazzina, e una fiamma bastarda gli aveva lambito la cintura aperta e penzolante della vestaglia.
Non se ne era accorto subito, Dio come rallentano i riflessi nei vecchi!
In preda al panico quando aveva visto il fuoco avvolgergli le braccia, era corso in camera da letto a cercare aiuto. Con tutta probabilità, la madre di Bru si era svegliata di soprassalto e si era trovata davanti una torcia umana che urlava. Non aveva pensato di buttargli una coperta addosso per soffocare il fuoco, o forse, un po’ impedita nei movimenti a causa dell’artrite , non era riuscita a reagire. Suo marito era caduto vicino al letto e il fuoco si era propagato in un attimo. Nonna Kathy non aveva fatto in tempo nemmeno ad alzarsi.
Le urla avevano verosimilmente svegliato Laurie, la sua adorata primogenita. Aveva visto i nonni bruciare? Cosa aveva potuto pensare di fare la sua piccola bambina a soli sei anni? Di certo aveva fatto scendere dal lettino suo fratello, che di anni non ne aveva nemmeno due. E poi, forse, aveva provato ad aprire la porta di casa per scappare fuori, senza riuscirci per via delle serrature vecchie e complicate; forse aveva gridato chiedendo aiuto ma i nonni vivevano in una villetta e i vicini, che dormivano ancora, non l’avevano sentita. Laurie, forse, aveva anche aperto una finestra ma l’inferriata, installata da poco per demoralizzare i sempre più numerosi ladri, aveva impedito la sua fuga. Forse, forse, forse.
Mentre lui dormiva con sua moglie in casa d’altri, la loro figlia, spaventata e abbandonata da tutti, si era rifugiata in bagno con il piccolo Michael e lo aveva protetto fino all’ultimo, da quella bambina brava e responsabile che le dicevano sempre che doveva essere.
Li avevano trovati abbracciati sotto il lavandino, dove il fumo li aveva raggiunti e uccisi prima che i pompieri fossero riusciti ad entrare.
La giornata era stata pesante, pesantissima, Bru aveva anche cenato con un cliente ed era molto tardi.
Si chiuse in casa, stanco morto ma mai abbastanza, lo sapeva bene, da sperare di piombare in un sonno senza sogni. Si spogliò, consapevole che l’incubo stava solo aspettando che si infilasse a letto, pronto a ghermirlo non appena si fosse addormentato.
Era solo questione di tempo.
Sentiva già l’urlo salirgli in gola.
Vincitore “Premio della Critica”


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Carlocelenza

Alla Luce della Luna
Coppia di Parole: AMORE – DEPOSITO
Ennesimo trasloco, spero sia l'ultimo, ormai ne conto troppi, l'unico vantaggio dato dal numero è che sono diventato un vero esperto.
Tutte le cose di casa sono in ordine, ognuna dentro la sua scatola, ammonticchiate in file ordinate, numerate e contraddistinte per colore, lungo le pareti svuotate da quadri, specchi e armadi.
Resta solo il magazzino nel sottoscala.
Non ci vado da anni, le ginocchia mi fanno male a scendere fin sotto.
Con un sospiro prendo la chiave e vado. La porta scricchiola nell'aprirsi e dalla cornice una nuvoletta di polvere piove fin sopra il mio avambraccio.
So che mi farà male, ma mi guardo attorno e riconosco.
L'ingranditore russo che avevo comprato a Roma per pochi soldi, tutta l'attrezzatura da sviluppo e stampa, le bacinelle annerite dai sali d'argento, anni e anni di fotografie in bianco e nero volutamente dimenticate in scatoloni polverosi.
Mi sembra di guardare dentro la mia testa e sinceramente non so se voglio farlo. Sono tentato di fare un passo indietro per uscire e chiudermi tutto alle spalle, anche il bello che c'è mi farà male, figuriamoci il resto.
Ho ancora la mano sulla porta, spingo ancora un po' spalancandola e capeggiando entro.
Perchè mi faccio una cosa del genere?
Credo che nessuno lo sappia, ma alla fine, ripercorrere strade che non si possono dimenticare, lo facciamo tutti.
Tolgo i coperchi di cartone svelando panorami e luoghi, svegliando ricordi sorprendenti, meravigliandomi di quel che sapevo fare, scatola dopo scatola, ma so che alla fine ti troverò.
Non voglio farlo eppure so che lo sto facendo, avrei voluto allontanarti per sempre ma non ci sono mai riuscito, ho saputo solo nasconderti, ma so che sei lì e rivedrò il tuo sguardo, il tuo corpo e quelle foto alla luce della luna.
Si la scatola è quella, la riconosco, un contenitore di metallo per biscotti, i bordi appena arrugginiti, i vecchi ghirigori dorati un po' sbiaditi sotto la polvere.
Perchè il cuore accelera? Quelle immagini hanno quasi quaranta anni, tu forse non ci sei nemmeno più.
Apro il coperchio e comincio a guardare le foto della Toscana, i pomeriggi al mare, il tuo naso dantesco che sapevo far sparire coi giochi d'ombra, le tue lunghe gambe e quella foto maledetta.
Sono le due di notte di tanti anni fa, a casa dormono tutti. Mi alzo dal letto senza far rumore, raccolgo i vestiti da terra e a piedi nudi attraverso la stanza col cuore che accelera i battiti. Appoggio la mano sulla maniglia e lentamente la spingo in basso in un gesto provato mille volte, nessun cigolio, i cardini ben oliati girano senza sforzo e la porta si apre. Se mi prendono con le mani nel sacco, cioè di fronte alla porta coi vestiti in mano, ho la scusa pronta. Spesso mi alzo di notte, dormo poco, dico che volevo camminare un po' e non volevo svegliarli, ma l'appuntamento va in fumo.
Fino alla porta di casa tutto bene, la richiudo alle mie spalle con la chiave nella serratura come per aprire, poi quando è chiusa mollo lentamente la chiave e il chiavistello scorre nella sua fessura, sempre ben oliata, senza fare scatti.
Mi vesto in fretta sul pianerottolo deserto e scendo in garage. Apro silenziosamente la porta basculante, che ha richiesto parecchie attenzioni per diventare silenziosa e apro la portiera della macchina, quella di mio padre.
L'orologio segna le due e un quarto, fra cinque minuti sarà qui.
Accendo una sigaretta aspettando appoggiato alla macchina che arrivi il momento.
La ferrovia corre proprio davanti a casa, tra poco passerà il Milano Lecce, eccolo, sento le vibrazioni sotto i piedi, è ora di accendere il motore.
Salgo in auto e con la mano fissa sulla chiave di accensione aspetto lo sferragliare del treno.
Appena arriva accendo il motore, tiro fuori la macchina dal garage, faccio cento metri e mi fermo.
A piedi torno indietro a chiudere e quasi di corsa risalgo a bordo e riparto.
Lei mi aspetta, appena vedrà le luci dell'auto farà come ho fatto io e scenderà di sotto, il padre fa la notte, la madre quando dorme dorme.
Abbiamo progettato tutto assieme, ho oliato anche le sue porte.
Perchè di notte?
Perchè si.
Un deposito di mattonelle abbandonato da anni, la nostra meta.
È maggio, il cielo è sereno e c'è la luna piena.
Infilo la macchina nel capannone, metto il cambio in prima, stendiamo i sedili e ci saltiamo addosso.
La luce della luna le tinge i seni d'azzurro, la sua pelle profuma come grano tra le mani, quello che sto facendo con lei non vale la bellezza di quel che vedo.
Più tardi, mentre lei fuma tenendo la sigaretta fuori del finestrino, prendo la reflex e le chiedo di restare immobile per qualche secondo. L'ho fatto tante altre volte ma questa è come se sapessi che sarà l'ultima.
Ci siamo persi di vista, città diverse e nessuna voglia di rivedersi, ma ti ho tenuta con me.
Eri bella ma non eri per me, tu lo sapevi già, io no.
Ti ho amato? Non lo so. Dopo di te ho amato ancora? Non lo so.
Calmare il cuore, respirare profondamente e rilassarsi, dopo tanti anni ancora mi confondi.
Ti ho portato nel cuore per tanto tempo, pensavo di aver dimenticato ma so che non lo farò mai, come potrei, ero io a guardare la tua pelle quella notte, erano i miei occhi e da allora non sono cambiati.


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Scrittore97

Era Solo un Serpente Poco Velenoso
Coppia di Parole: NASO – SERPENTE
Mi ricordo che quando avevo dieci anni, io e altri miei compagni, andavamo fuori città con le bici, ovviamente senza che i nostri genitori lo sapessero, e passavamo il tempo, di solito ci fermavamo nei campi incolti, dove si trovava la liquirizia e la sradicavamo letteralmente dal terreno, per pulirla e assaporare la dolcezza della natura.
Molte volte ci sedevamo su una grande roccia, e masticavamo come forsennati quella radice, poi parlavamo e iniziavamo a fare gli stupidi in giochi fanciulleschi, che adesso mi sembrano fin troppo infantili.
Ma le nostre giornate non erano sempre le stesse, a volte ci fermavamo a giocare a calcio nel cortile abbandonato di un asilo, scavalcavamo la recinzione e giocavamo fino ad arrivare stanchi morti a casa e quanto ne passavamo di avventure vere e inventate in quel luogo che mi è rimasto caro.
Proprio lì un giorno un mio compagno iniziò a scherzare dicendo che vi era un fantasma, io dal principio capii che era solo uno scherzo, ma i miei compagni un po’ più creduloni iniziarono a credergli, io non dicevo la mia per non rovinare il divertimento.
Quando giungeva la sera, facevamo il giro del caseggiato, per constatare se veramente vi fosse quel fantomatico “fantasma”, ma ovviamente non trovammo nulla.
Il mio compagno che aveva messo in piedi quella commedia, non voleva rinunciare tanto facilmente, e disse che addirittura in quel posto era morto un bambino, e che il suo spirito vagasse lì senza una meta, ma la cosa non prese, almeno non subito.
Un giorno nel nostro posto arrivarono i cugini del mio amico, e insieme a loro fecero un piano per spaventarci, riuscirono ad entrare dentro all’asilo, e vicino ad una finestra misero la sagoma di un bambino.
Noi arrivata la sera iniziammo il nostro solito giro, e appena vedemmo quella sagoma, tutti scappammo come forsennati, scavalcammo e partimmo per le nostre case a razzo con la bici, mentre chi aveva progettato il tutto, rideva.
Il giorno dopo vidi che il mio amico che rimuoveva la sagoma, e capii che non c’era nessun fantasma, ma solo i tentativi di fare spaventare noi ragazzi.
Io ne parlai con il resto del gruppo estraniando il colpevole, e insieme ordimmo una controffensiva come si suol dire:
c’era una zona dell’asilo che era tutta erba e prati pieni di immondizia, noi mettemmo insieme dei soldi, per comprare dei serpenti di gomma, il nostro amico aveva un grandissimo terrore per quelle creature, e noi avremmo pagato l’affronto in modo degno.
Al centro di questo prato, vi era un albero di pigne, un giorno dichiarai di voler costruire una casa sull’albero, la cosa andò ai voti, e tutti furono favorevoli, anche perché era tutto compreso in un piano.
Stavamo cercando di fare qualcosa nell’albero, io finsi che dovevo andare a cercare delle assi e dei chiodi, e pian piano tutti i miei amici mi seguirono, rimase solo il ragazzo di cui ci volevamo vendicare.
Andammo a casa mia prendemmo i serpenti, e da fuori la recinzione iniziammo a gettare serpenti, tutto intorno all’albero, ci postammo lì a osservare il nostro amico che da sopra l’albero stava cercando di togliere dei rami che ostacolavano il nostro fine.
Quando finì stava per scendere, ma gli occhi gli sfavillarono appena vide ciò che c’era sotto i suoi piedi, urlò e iniziò ad arrampicarsi sull’albero, iniziò a dare sfogo alle corde vocali, maledicendo i rettili e invocando aiuto.
Rimanemmo mezz’ora a guardarlo lì sopra che si teneva stretto all’albero e guardava il cielo per non guardare giù.
Appena capimmo che lo scherzo era bello finché durava poco, entrammo con un salto e iniziammo a ridere di lui, facendogli vedere che erano dei serpenti di gomma.
Il nostro amico saltò giù, e se la prese con noi, non vedemmo più per una settimana circa.
Un mese dopo questo episodio andammo al bosco vicino la mia città, in cerca di funghi, ovviamente prima di mangiarli li avremmo fatti vedere da mio nonno che ne capiva.
Il mio amico che aveva subito il nostro scherzo si allontanò dal gruppo, perché aveva visto qualcosa muoversi tra i cespugli vicini, gli era sicuramente sembrato qualche animaletto della foresta, ma la sua fu un’amara sorpresa.
Superato il cespuglio, vide per terra un serpente, al primo impatto ebbe paura, ma poi pensò che fosse un altro scherzo, quindi afferrò sicuro di se la creatura, e la portò ridendo vicino al viso.
Il serpente irritato si mosse, ma lui credeva che fosse meccanizzato e continuava a ridere, a un certo punto l’animale con uno scatto dà un morso al naso del mio amico.
Noi ci accorgiamo dell’assenza del ragazzo quando sentiamo delle urla di dolore provenire da dietro di noi, ci precipitiamo in direzione degli strilli, e vediamo un serpente che scappava via nel folto del bosco, e il nostro amico con le mani al naso che strillava e diceva che sarebbe morto.
Spaventati, ci precipitiamo al paese, andammo a casa del mio amico e dicemmo cos’era successo alla madre, che preoccupata prende la macchina e porta il figlio all’ospedale.
Noi il giorno dopo ancora scossi vediamo arrivare il nostro amico con un grande cerotto sul naso, e con un’aria afflitta, noi ci accalchiamo per sapere cos’era successo e lui ci risponde mesto dicendo che sarebbe morto.
Tutti ci stupiamo e scoppiamo quasi in lacrime, ma poi si mette a ridere e dice :- non è vero stupidi, era solo un serpente poco velenoso, mi hanno fatto una puntura e tutto è passato, solo che mi rimarranno come ricordo delle macchie scure che mi ricorderanno la mia imprudenza.


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Anto Pigy

I Divoratori
Coppia di Parole: CACCIARE – ELEGANTONI
L'ora è arrivata, compagni. È tempo di dare inizio alla caccia! – Disse Bo facendo lampeggiare il suo unico occhio nero. Alle sue parole, un mormorio confuso si alzò, prima leggero, poi sempre più alto. Lui si erse in tutta la sua grandezza, spaziando con lo sguardo a destra e a sinistra. Più di tutto, a far placare gli animi fu lo sfregio che attraversava la sua orbita vuota. La cicatrice, che sembrava galleggiare sui lineamenti, soffusa di un tenue pallore rossastro, faceva ricordare il loro perenne destino di sconfitti.
È il momento di portare la nostra vendetta!
L’arringa non sortiva molto effetto, eppure nel cuore di Gap qualcosa si era smosso, tanto da procurargli un leggero malessere.
Di Bo tutti avevano timore e rispetto assieme. Gap lo ammirava, anche se non credeva che si fosse fatto catturare apposta dai Divoratori, come raccontava. Eppure la sua storia aveva molti lati oscuri e misteriosi, perché i Divoratori cacciavano solo per uccidere. Lui, invece, era stato fatto prigioniero ed era riuscito a tornare, con quella brutta ferita a ricordare a tutti la sua storia e il suo eroismo. Lui, più di ogni altro, aveva subito l’onta della sconfitta e aveva evitato la morte per un soffio.
Gap guardò Bo e gli uscì: – Viva la caccia! – Tutti lo guardarono straniti. Gap cercava sempre di non attirare l’attenzione, alle riunioni si sedeva in disparte, e ora, dal suo posto nelle ultime file, se ne veniva fuori con quell’esclamazione. – Basta! È ora di fare qualcosa! Io sono stanco di scappare, di essere sempre braccato e di vivere nel terrore.
E bravo il nostro ragazzo! – Urlò di rimando Bo, pestando a terra con veemenza. – Ascoltatelo!
Un tempo percorrevamo le vie in pace, negli occhi il riflesso del sole, il calore della luce a scaldarci e la pioggia a rinfrescarci. Guardateci adesso! – Sentiva di non potersi più fermare, aveva una rabbia dentro di sé di cui non si era mai reso conto. – Credevo di poter sopportare tutto questo, di poter accettare che dopo l’arrivo dei Divoratori nulla sarebbe più stato come prima. – Fece una pausa. – E così sarà, per sempre. Non possiamo tornare indietro, possiamo solo guardare avanti. – Tirò un sospiro. – Ma cosa ci rimane? Vogliamo vivere rintanati per sempre? Uscire solo di notte sperando che questo ci mantenga in vita? Quelli non se ne andranno! E noi…, noi non potremmo sconfiggerli. Ma possiamo comBATTERLIIII! – L’ultima parola schizzò fuori dalla sua gola come un ululato.
Sììììì! – Urlò anche Bo.
Gli altri si agitarono sui loro posti, ondeggiavano un po’ di qua un po’ di là a disagio, guardandosi di sottecchi. Poi a due a due cominciarono a parlottare tra loro. Scuotevano la testa, con sempre più insistenza, le voci si alzavano pian piano. Gap rimaneva attonito, sgonfiato come un palloncino a cui avevano tolto l’aria.
In un gruppo, qualcuno cominciò a battere sul tronco. I suoi amici lo imitarono subito, cadenzando il ritmo, e a poco a poco anche gli altri si unirono. Un suono di rivolta echeggiò nel bosco dove erano riuniti: un rombo potente, penetrante, nel silenzio.
Quando il boato si fermò, Bo con un ghigno di soddisfazione espose il piano.
Scelsero la domenica per agire. Il giorno in cui i Divoratori si riunivano insieme nelle piazze, ma anche quello più pericoloso, perché molti lo sceglievano per dar loro la caccia. Il giorno in cui abbandonavano le loro case e si inoltravano invisibili nel bosco, per stanarli con i cani. Ma oggi non li avrebbero trovati, tremanti di paura, nossignore. Oggi erano loro a cacciare.
Bo raccontava sempre che si era fatto prendere per studiarli e per capire quali erano i loro punti deboli. Era stato catturato una mattina di sole. Ogni tanto si svegliava ancora con il terrore di essere rinchiuso nella gabbia dove l'avevano gettato incuranti.
Non sapeva perché i Divoratori non lo avevano ucciso subito, probabilmente l'avevano preso per studiarlo, ma lui faceva lo stesso con loro. Li aveva esaminati con attenzione.
La domenica era il giorno perfetto per agire. Tra le sbarre della sua gabbia aveva a lungo osservato il ripetersi dei loro rituali in quel giorno particolare. I Divoratori si agghindavano con cura, con vesti tenute da parte per quel giorno, vesti pregiate, fatte a mano, ricamate dalle donne e ricche di particolari e di inserti. Le usavano e subito le riponevano per non rovinarle. I Divoratori partivano impettiti, fieri nei loro abiti, come se quello status di elegantoni servisse a dimostrare a sé stessi e a gli altri il loro potere.
Ma ora era arrivato il momento della vendetta. Gap e gli altri erano pronti, avevano fatto addirittura una dieta particolare per tutta la settimana. Si tenevano nascosti al riparo dal fogliame, attendendo il segnale di Bo, divisi in piccoli gruppetti. La tattica del “mordi e fuggi” era l’unica che poteva dare loro la possibilità di colpire e dileguarsi.
Gap era molto nervoso. Nervoso, ma eccitato. Pregustava la rivincita e il suo personale riscatto, per tutte le volte che prima di uscire aveva dovuto guardarsi attorno, attento ad ogni minimo rumore e odore, per tutte le volte che non aveva visto tornare i suoi amici.
Eccoli. Il suono delle campane precedeva la loro uscita dalla chiesa, tutti compatti. Come ogni domenica avevano indossato i vestiti migliori, quelli di stoffa preziosa, dai colori ora tenui ora carichi, che si alzavano seguendo il vento, che cadevano morbidi e ben disegnati sulle spalle e sul corpo.
Gap non aspettò oltre. Non poteva attendere. Dal ramo in cui era appostato, spiccò il volo distendendo le sue ali nere e seguendo la brezza. Il segnale di Bo giunse subito dopo, nel momento in cui i Divoratori erano al centro della spaziosa piazza, lontani dai ripari. Dietro di sé Gap sentiva lo spostamento d'aria di tutte le ali che planavano nel giorno della loro rivincita.
Scelse con cura i suoi obiettivi. Fu con un dannato sollievo che Gap si liberò di quello che il suo intestino era riuscito a trattenere per tutti quei giorni. Le scariche si librarono nell’aria, descrivendo scuri archi acrobatici. Poi si schiantarono con uno splendido ciafff addosso al primo bersaglio.
E così gli altri dietro di lui. Una scarica, una virata, un altro passaggio, un'altra scarica. Veloci, più veloci, ogni momento avvicinava il pericolo. Si sentivano urla sempre più alte, mano a mano che scagliavano tutti i loro proiettili; un fuggi-fuggi generale, verso i ripari lontani.
Ogni ciaff una vendetta, ogni urlo una vittoria.
Ciaff… ciaciaff… ciaff… ciaff…ciaciaff…
Terzo posto


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Pardan

Ritorno a Pico
Coppia di Parole: VULCANO – MIELE
Dai, fa’ un bel sorriso, su!
Lo sai che non sopporto queste cose – sbuffò Roberto, irritato.
Un attimo solo, che ti costa?
Giuliana fece un passo indietro per inquadrare meglio il marito, appoggiato al corrimano del traghetto. Peccato che l’imponente cima di Pico, alle sue spalle, fosse come sempre avvolta dalle nuvole.
Ecco, ho finito, non ci voleva tanto, no?
A casa aveva una foto di vent’anni prima: stessa inquadratura, stesso soggetto. Però allora aveva usato una Nikon analogica, e l’immagine era conservata in un album con la copertina rigida. “Azzorre, estate 1993” aveva scritto in bella grafia sulla targhetta adesiva, ora un po’ sbiadita.
Il motore del traghetto scoppiettava rumorosamente affrontando le onde dell’Atlantico. Il braccio di mare tra Faial e l’isola di Pico, col suo celebre vulcano, era di pochi chilometri, ed era piacevole godersi sul ponte le goccioline salate portate dal vento.
Roberto accese l’ennesima sigaretta, le mani a coppa a proteggere la fiamma dell’accendino.
Ricordi quella pensione a Madalena? Come si chiamava?
Che ne so? Sei tu che ricordi tutti i nomi” rispose Roberto con indifferenza soffiando il fumo in direzione del vento.
Giuliana non aveva intenzione di arrendersi. Aveva voluto ripetere il viaggio di nozze di vent’anni prima. Sentiva che era giusto, lo dovevano fare, ne avevano entrambi bisogno. Miriam ora era all’università, erano rimasti loro due. Due cortesi sconosciuti che dividevano il bagno, la tavola, il letto. Non poteva bastare.
Ecco, mi è tornato in mente: “Tia Lena”. Ci sono stata chiusa dentro con la febbre alta per due giorni.
Sembra che tu lo faccia apposta ad ammalarti nei posti più strani, avevo dovuto girare tutta Madalena per cercare una farmacia, e poi spiegare in inglese che volevo un antibiotico per il tuo mal di gola.
Dor de garganta – ridacchiò Giuliana, mentre scendevano dal traghetto – Però gli azzorrani sono tanto gentili, il tassista mi aveva portato un vasetto di miele fatto in casa da suo padre, ti ricordi? Era buonissimo, e così profumato!
Roberto intanto controllava sull’iPhone la direzione da prendere, come se ci fosse il rischio di perdersi: il grande cono del vulcano incombeva su di loro, e la strada si snodava tra il blu intenso dell’oceano e i filari di viti che prosperavano sulla fertile terra vulcanica. Giuliana si morse le labbra per evitare commenti, e sistemò meglio lo zainetto sulle spalle.
Il cielo era attraversato da nuvoloni scuri, veloci; probabilmente nel pomeriggio ci sarebbe stato uno di quegli improvvisi scrosci di pioggia caratteristici del clima atlantico. Per il momento il sole che dardeggiava tra le nuvole era molto caldo.
C’erano già parecchi bagnanti sul bordo delle piscine naturali create dalla colata lavica lungo la costa. La bassa profondità dell’acqua e il riverbero della roccia nera permettevano di bagnarsi senza lottare con le onde e il freddo dell’oceano.
Vent’anni prima avevano potuto solo ammirare quella splendida spiaggia, stavolta no, erano attrezzati: si sdraiarono in costume sui teli da bagno, sperando che il sole rimanesse almeno per qualche ora. Giuliana era orgogliosa della sua figura ancora snella, ci teneva, lei, andava in palestra; Roberto si era un po’ appesantito sui fianchi: a lui piaceva mangiare, e mangiare bene.
Giuliana chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dalla brezza profumata di sale. Quando la mano di Roberto, calda e un po’ sudata, cercò la sua, la donna sentì un’emozione che non aveva più provato da tanto tempo.
Pochi minuti dopo dovettero fuggire di corsa sotto una pioggia battente e gelida. Si infilarono in una trattoria di Madalena, ridendo come ragazzini. Ordinarono zuppa di verdura e delle saporite triglie arrostite, insieme al vino locale. Roberto chiacchierava contento, scherzava in portoghese con il gestore della trattoria, dava indicazioni in inglese a una coppia di norvegesi al tavolo vicino, era di nuovo la persona estroversa e brillante che l’aveva fatta innamorare anni prima.
Giuliana si sentiva un po’ stordita, forse per il vino. Da bambina il fuoco la attirava: quando le braci del caminetto erano quasi spente, si accoccolava da un lato e iniziava a soffiare. Dopo un po’ le girava la testa, ma la vista delle fiamme che all’improvviso tornavano a guizzare come una cosa viva la ripagava della fatica. Curioso come quel ricordo così lontano le fosse tornato alla mente in quel momento.
La sera in albergo parlarono a lungo: progetti di viaggi che forse avrebbero fatto o forse no, il barbecue da sistemare in giardino, un nuovo cane da adottare. Fare l’amore fu la conclusione naturale di quella giornata. Le mani scorrevano sulla pelle con un’avidità nuova, le carezze date e ricevute provocavano brividi di desiderio. Si volevano di nuovo, si cercavano, non per abitudine ma per incontrarsi, per completarsi.
Prima di addormentarsi abbracciata al suo compagno, Giuliana si disse che aveva fatto la scelta giusta. Magari domani, a casa, le vecchie abitudini sarebbero tornate, ma per ora il fuoco era di nuovo acceso, e se lo voleva godere fino in fondo.


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Freecora

Avatar
Coppia di Parole: DIVANO – CONDANNARE
Giacomo è scompostamente accasciato sul divano. Il portatile acceso, sul tavolino di fronte, rimanda l'ingrandimento dell'avatar più spettacolare che l'abbia mai colpito.
E' così che sceglie le sue vittime. Dall'immagine che scelgono di associare al proprio profilo.
Il nick non rivela spesso note personali, le informazioni della scheda di accompagnamento sono quasi sempre inventate, invece, la parte grafica, visuale, è come un contatto intimo. Le donne scelgono sempre qualcosa di significativo, che rimandi alla loro persona, o al loro lato più intimo. Le più disinibite sfoggiavano anche particolari più spregiudicati, ovviamente legati al sesso.
La settimana prima aveva chattato con quella che si era poi rivelata una dodicenne sboccata e molto maliziosa. Un nick provocante, magniFica, un avatar erotico, il primo piano di un capezzolo con piercing, e la dichiarazione, tra le informazioni, di godere nell'essere guardata mentre si masturbava, specialmente all'apice dell'orgasmo. Quando aveva compreso che erano tutte fanfaronate di una bambina, una monella travestita da squillo, era troppo tardi. Gli restava l'amaro in bocca per quell'erezione persa, appena lei aveva acceso la cam. E non era neppure puntata al suo viso.
Ma questa volta sarebbe stato molto diverso. Avrebbe trovato il modo di farle rivelare l'età, nonostante fosse già intrigato, si sarebbe assicurato di non essere da galera, prima di mostrarle la propria voglia sfrenata.
Ma era diverso anche dalle volte precendenti precedenti. Quelle che non erano state cantonate. Quelle in cui aveva irretito la donna giusta, che accettava di masturbarsi in video o, ancora meglio, al telefono.
La voce per Giacomo era un afrodisiaco potente.
Ricordava ancora una certa LadyGoduria, capace di farlo venire con un "Eccomi" sussurrato rocamente. Era convinto che non fosse molto giovane, doveva avere almeno 45 anni, ma riusciva a fargli fare la figura del ragazzino frettoloso.
Non si vergognava certo di questa sua abitudine, ma non forniva alcun elemento in grado di identificarlo. Nè cercava di incontrare le ragazze addescate in chat. Per lui era eccitante il gioco di seduzione con la sconosciuta. Portarla a essere disinibita e sfrontata. Non le voleva minorenni, non era certo un pedofilo, anzi gli piacevano senza complessi e sicure di sé. Rarissime volte l'avevano fregato, ma aveva chiuso la video-chat, appena il fisico ne accertava l’immaturità.
Non era un maniaco. Forse.
Condannare i suoi bisogni, chiamarli perversioni, per essere gentili, era molto comodo, per chi, come la sua ex, non voleva comprenderlo. Non a fondo.
Ma coloro che lo conoscevano davvero, capivano.
Certo quel lato di sé lo rivelava a pochi intimi, anzi pochissimi. Tra cui anche qualche collega, di entrambi i sessi, che avevano finito per condividere il suo divertimento. Anzi si erano anche incrociati in qualche stanza delle chat piccanti. Anche se aveva sempre preferito non avere rapporti virtuali con chi poteva incontrare di persona. Era un suo tabù.
E ora c’era quell’occhio a guardarlo. Non ne conosceva la voce, ancora. Non aveva informazioni aggiuntive nel profilo. Solo l’avatar e il nick, thornyRose. Ma già si sentiva irretito.
Aveva scelto come immagine quella che poteva anche essere la foto del suo occhio, ma l’azzurro tanto nitido, la perfetta simmetria tra le pagliuzze marroni e quelle grigie, gli davano da pensare. E poi quel riflesso assurdo, come di una finestra, rendeva il suo sospetto di fotomontaggio, una certezza.
Quell’iride turchese però l’aveva catturato.
Lo arrapava più della voce di qualunque altra donna.
Non aveva rivelato nulla di sé, neppure nella notte di chiacchiere appena conclusa. Ma non poteva essere un uomo. E tanto gli bastava.
Non riusciva ancora a fantasticare su di lei, prima doveva togliere qualche spina a quella rosa delicata. Perché era troppo femminile per non essere meravigliosa.
Deve saperne di più. Altrimenti non potrà masturbarsi al suo pensiero. Anche se quell’occhio lo ispira già abbastanza. Da tenerlo costantemente rigido, ma non da spingere la sua mano nei boxer…
Eccola. Il nick è di nuovo attivo.
Ciao Rose. Ti aspettavo.”
Lo so Giacomo.”
Leggere il suo nome lo lascia interdetto. Non le aveva detto nulla di sé, non avrebbe comunque usato quello vero.
Hai ancora il divano azzurro polvere?”
In un attimo le incertezze svaniscono. Riconosce la foto e comprende anche il significato del nick.
Pensavo non ti piacessero certe perversioni!” L’ultima parola la scrive in un formato diverso, nel tentativo di riportarle alla memoria disprezzo e delusione.
Le cose cambiano. E tu sei una certezza.”
Giacomo non sa che fare.
Come spiegarle che non riesce a chiacchierare con lei. La desidera ancora, ma non virtualmente. In un attimo le immagini dei tre anni insieme gli affollano la mente. Non solo le discussioni e i litigi, ma soprattutto i baci, i sorrisi complici, gli orgasmi vissuti proprio su quel divano.
Come spiegarle il perché delle sue perversioni, quanto è collegato a lei, alla sua ritrosia. Al suo non rivelarsi mai completamente. Al suo rifiuto di volerlo conoscere in profondità.
Come spiegarle che ha paura di amarla ancora.


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Lorella15

Il Vecchio e Il Bambino
Coppia di Parole: FUNGO – CARESTIA
Nonno, mi aiuti con i compiti? Cosa vuol dire Carestia?
Carestia è quando non c'è abbastanza cibo per tutti. Vedi Alberto, mica da per tutto si va al supermercato a fare la spesa, ci sono dei posti dove puoi mangiare solo quello che produci e allora se il raccolto va male perché non piove oppure piove troppo, è carestia. Oppure gli insetti possono essere causa di carestia, perché attaccano le coltivazioni e le distruggono, oppure possono mangiare le riserve accumulate. Anche l'uomo stesso può essere causa di carestia, affamare le persone è un modo per tenerle sotto controllo.
Come nonno, cosa vuoi dire?
Il vecchio Pietro non rispose. Aveva impiegato molti anni a cercare di dimenticare, ma non c'era riuscito. Alcuni suoi compagni, al contrario, avevano impiegato la loro vita a raccontare quello che succedeva nei campi di concentramento. "Perché nessuno dimentichi", dicevano. Invece Pietro voleva dimenticare, avrebbe voluto che una cimosa fosse passata a cancellare i ricordi, le umiliazioni, il dolore. Invece era rimasto tutto lì, ben nascosto tra lo stomaco e il cuore, ma bastava una parola, un odore, un accento tedesco perché tutto tornasse nella sua testa. Allora cercava di isolarsi, si chiudeva in un silenzio che solo pochi capivano. Nonostante fossero passati cinquant'anni a volte tornavano anche gli attacchi di panico. Una sete d'aria che lo prendeva alla gola. Come un pesce fuori dall'acqua, boccheggiava alla ricerca della salvezza. E i ricordi si sbobinavano, come in un vecchio film in bianco e nero, accompagnati dallo sferragliare del treno, l'inizio dell'incubo.
Li avevano ammassati in un vagone del bestiame, uno sull'altro, costretti a giacere fra i propri escrementi, senza acqua né cibo per tutto viaggio. A Bolzano il vagone si era fermato accanto alla manifattura del tabacco e le operaie, con delle pertiche, avevano cercato di passare ai prigionieri del cibo. Erano alimenti raccolti nei campi, soprattutto mele. A lui toccò un fungo, un prataiolo che arrivò tra le sue mani, completamente spappolato. Quei giorni di viaggio furono solo un assaggio della fame e delle umiliazioni che li attendevano.
All'ingresso del campo furono contati come bestie, ogni uomo che passava sotto l'arco dell'ingresso riceveva una botta con un lungo bastone. Nel piazzale degli appelli, la prima visione fu quella di una fila di uomini impiccati, la sorte di chi non rispettava le regole.
Una volta denudati, furono perquisiti in tutto il corpo, anche nelle cavità più intime. Ancora erano uomini forti, dignitosi e l'umiliazione fu tanta. Coloro che avevano nascosto qualcosa, furono bastonati a morte.
Furono portati nel bagno e costretti a radersi l'un l'altro in tutto il corpo, infine lavati con degli idranti, prima con l'acqua gelida poi con quella bollita, ustionando la pelle che si riempì di vesciche.
Con uno straccio bagnato di benzolo legato a un bastone fecero la disinfezione, sfregandolo in tutto il corpo. Dopo una notte completamente nudi passata fuori al freddo, furono distribuiti dei vestiti, a chi un paio di mutande, a chi una camicia. Pietro fu fortunato, gli toccò una camicia di lana lunga fino alle ginocchia.
Da quel momento ogni giorno fu una battaglia non solo per sfuggire alle persecuzioni delle SS ma anche per non perdere quel minimo di dignità che ancora conservavano. L'intento del campo era quello di spersonalizzare, non c'erano nomi ma numeri tatuati sull'avambraccio, dovevano solo ubbidire ciecamente, dimenticare di essere umani.
Venne assegnato a un lavoro meno massacrante degli altri. Doveva fare delle buche per conservare le patate dal freddo e ricoprirle di paglia. Già il fatto che questo succedeva vicino al campo, fu una fortuna. La maggior parte era costretta a lavorare lontano, percorrere chilometri nel gelo invernale con gli zoccoli di legno ai piedi. Era una tortura. I piedi si gelavano, spesso gli zoccoli scivolavano nel ghiaccio o restavano impaludati nel fango, scatenando l'ira delle SS che aizzavano i cani. I loro adorati cani, tanto era il rispetto per loro quanto il disprezzo per i prigionieri.
Un episodio che sembrava dimenticato, affiorò alla mente di Pietro. Un cerbiatto si era avvicinato al reticolato per entrare nel campo, la guardia staccò la corrente per evitare che il povero animale restasse fulminato e lo stesso fece per farlo uscire. Alcuni giorni dopo la stessa guardia strappò il berretto a un prigioniero e lo gettò sul filo spinato, obbligando il poveretto a riprenderlo. Ma per lui non staccò la corrente, facendolo fulminare da una scarica.
Il corpo deperiva ogni giorno a causa della scarsa alimentazione, e nonostante si sforzassero di restare lucidi, era sempre maggiore la voglia di lasciarsi andare. Oramai tutti camminavano con gli occhi a terra, non solo per sottomissione, ma soprattutto nella speranza di poter raccogliere qualcosa da mangiare. Ecco la carestia voluta dall'uomo, piccolo Alberto. Forse un giorno questo vecchio riuscirà a raccontarti queste cose. A raccontarti del tunnel del non ritorno. Non sapevano cosa c'era dopo il tunnel, sapevano solo che nessuno ritornava. Solo dopo la liberazione seppero che la galleria conduceva a dei laboratori dove venivano fatti esperimenti su cavie umane.
Uomini e donne vivisezionate mentre erano ancora in vita, congelati per testare le tute per gli avieri. Virus inoculati su bambini stremati dalla fame e dalla fatica, per studiarne la reazione e la cura.
Quando riuscirà a raccontare tutto questo, solo allora riuscirà ad annientare i fantasmi che affollano la sua mente. Forse proprio questo bambino così curioso di sapere, troverà la chiave per liberare dalle sue ombre questo vecchio silenzioso.
Nonno, mi senti? Stai bene? Dai aiutami a finire che poi giochiamo a carte!


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Polly Russell

Terra Uno
Coppia di Parole: MICROSCOPIO – LUCE
Il discorso del Lord gracchiò nella cabina dell'incursore Lucas Delgado. Con un gesto spostò il droide sessuale dal proprio pene e si sollevò sui gomiti. Impiegò qualche istante ad abituare gli occhi alla luce, per posarli sulla testa bionda di una Marylin Monroe ai piedi del letto.
Il caffè riempì la tazza nella nicchia alimentare sulla parete, «vieni qui.»
Il droide scivolò sulle ginocchia e avvolse di nuovo il sesso del soldato in morbide labbra al silicone.
«Quanto tempo abbiamo?»
«Sei minuti.»
«Voltati. Sai come mi piace.»
Il droide sorrise appoggiando il capo sul guanciale. Il sedere perfetto, plasmato sulle misure di un'attrice morta da cinquecento anni, offerto alla sua lussuria.
«Fammi credere che ti piaccia.»
Nella sala Maggiore i sessantamila fanti non avevano tolto lo sguardo dal pavimento, un ginocchio a terra e il pensiero ovunque, fuorché in quella stazione orbitante. Lontano dalle parole biascicate di chi disponeva delle loro vite.
L'immagine tridimensionale del Reggente li sovrastava, enorme. L'aria satura delle sue parole vuote sulla causa e il dovere, lontano milioni di chilometri.
«Non la finiva più! Credi che li faccia tutte le mattine o li registri? I discorsi.»
Lucas guardò il commilitone, «è abbastanza pazzo da farlo tutti i giorni.»
«Possono sentirti.»
Con uno scatto Lucas arpionò l'altro schiacciandolo sulla parete. «Tra poco, pezzo di merda, scenderemo su Terra Uno, e saremo costretti a massacrarne degli abitanti. Se mi mettono in isolamento mi fanno un favore.»
Con entrambe le mani, dopo averlo lasciato, si stirò le inesistenti pieghe della casacca, «non sono entrato nell'esercito per ammazzare chi non può difendersi.»
«Non sono dei poveri innocenti, nelle prime missioni di pace hanno assalito i militari e li...»
Lucas lo interruppe, «si, si. Li hanno mangiati. La storia dei soldato-burger la so.»
Due colleghi li superarono ridendo, «muovetevi signorine, o finirete ancora in fondo alla classifica!»
La mano di Delgado cercò la pistola e quella del suo amico, la sua. «Lascia stare, Kaine ci gode a provocarti.»
Durante la discesa su Terra Uno l'esoscheletro avvolse il torace e gli arti dei soldati, Lucas avvertì un lieve formicolio quando gli induttori di movimento si interfacciarono ai suoi nervi dagli spinotti epidermici. Spostò le dita di una mano e le strinse per controllarne l'efficenza.
I nove quintali della sua armatura si mossero, quasi leggeri nell'erba alta e schermate viola si susseguivano sull'impianto oculare in cerca di ribelli. L'aria fresca gli pizzicò il viso e per un istante pensò di disfarsi del respiratore, fregandosene delle direttive, come se il suo corpo fosse abituato all'aria del pianeta d'origine.
Era talmente sbagliato che un mondo tanto florido fosse in mano ai neo-primitivi, superstiti dei disgeli. Mentre loro erano costipati in stazioni orbitanti superaffollate. Questo almeno, era il pensiero indotto che gli ronzava in testa da che aveva memoria.
Il quadrante da ispezionare era vasto ma quasi disabitato.
Nelle colonne adunche alla sua destra riconobbe lo scheletro di un palazzo. Avvolto e vinto da un verde tanto vivido, da sembrare innaturale. Dal prato svettavano, come costole ricurve, i resti di altre costruzioni. Brandelli di muro appesi, come carne marcia.
La ragazzina aveva gli occhi della fame e le ginocchia della strada. Lo guardava da quello che la vegetazione aveva risparmiato di un pavimento.
"ribelle femmina, ore tre"
Dagli avambracci metallici sibilarono due fucili al plasma. La ragazzina roteò davanti a se un antico microscopio, strappando un sorriso al soldato.
"Terminare"
Lucas sollevò il puntatore, due colpi esplosero non lontano, poi altri, mentre la schermata del suo impianto riportava i risultati della missione.
Martini: sette.
Kaine: ventuno.
Come al solito sarebbe stato Kaine a ricevere la gratifica. Sollevò i puntatori, anche se la "ribelle femmina" gli sembrava solo una bambina.
Avrebbe voluto essere come Kaine. Immune ai sensi di colpa, col solo scopo di crogiolarsi nel primo posto della classifica mattatori.
Un sibilo lo catapultò fuori dalle proprie elucubrazioni e lo costrinse a voltarsi. Non ci riuscì.
Girò la testa, mentre il liquido nero degli ingranaggi sgorgava a fiotti dai tubi recisi dell'esoscheletro.
La ragazzina sorrise mentre dal vetro del suo microscopio rotto, indirizzava un raggio solare sul lubrificante in caduta.
Una donna fuggì da dietro le sue gambe. In mano il bisturi laser, rubato chissà dove, con cui aveva reciso i tubi.
Sollevò la piccola che le strinse le braccia al collo e iniziò a correre.
«Computer sgancio totale, sblocca gli induttori di movimento.» Saltò giù dalle sponde plantari e un secondo più tardi il suo esoscheletro era in fiamme.
Kaine era vicino e i suoi colpi in successione più rumorosi.
Le due ribelli dovevano essere lontane, al contrario dei suoi commilitoni.
Sfiorò l'erba con le dita e la sensazione di freschezza lo bloccò. Rimase fermo, un ginocchio a terra e le mani fra i fili verdi. Chiuse gli occhi mentre un sorriso gli sollevò gli angoli della bocca. Affondò le mani nell'erba, nel terreno. Scavò con le dita beandosi dei piccoli brividi che la terra fredda gli regalava, schiacciandosi sotto le sue unghie per la prima volta.
Non pensò a quello che stava facendo, il raziocinio non era tra le sue priorità in quel momento e si tolse la tuta. Se la lasciò scivolare addosso, sfilò gli stivali e tirò via dalle gambe la divisa.
L'aria era fresca, allargò le braccia e iniziò a camminare.
Quando aprì gli occhi, qualche istante dopo incontrò quelli delle due fuggitive, ancora abbracciate l'una all'altra.
Sembravano divertite. La piccola lo indicò anche, sghignazzando dietro al vuoto lasciato dagli incisivi.
La montagna all'orizzonte cullava il sole nascente e pareva abbracciarlo per non lasciarlo andare. Mentre il rosa dell'aura abbracciava le due donne. Tranquille. Mai aveva visto alba più bella. Mai Terra Uno gli parve tanto vero.
Un flash viola lo informò dell'imminente arrivo del resto della squadra. Le sagome di tre esoscheletri baluginarono nel suo impianto oculare, sovrapponendosi alla realtà.
Si girò ma non ebbe il tempo di gridare.
Due globuli gialli saettarono dalla carcassa del palazzo. Lucas riuscì a vederli intrecciarsi, il tempo di battere le ciglia e le due neo-primitive vennero falciate.
«No!»
Insieme al suo grido una parabola di liquido rosso rubino si perse nell'aria.
Kaine: ventitré.
Il numero lampeggiò davanti ai suoi occhi qualche secondo, poi riuscì a intravedere il primo dei militari. Quello che aveva sparato, avvicinarsi a grandi passi.
«Non è vero! Kaine fermati, non sono pericolosi. Fermati!»
Corse verso la truppa. Non sentiva i rovi pungerli i piedi e sferzagli le cosce, né il cuore che pareva scoppiargli nel petto.
Non udì il puntatore sollevarsi, né l'ordine del computer che lo riconosceva come ribelle.
Quando il globo giallo esplose riuscì solo a chiudere gli occhi.
Una schermata viola lampeggiò due volte dall'impianto oculare da cui nessuno poteva più vedere.
Kaine: ventiquattro.


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LeggEri

Il Lupo Nero
Coppia di Parole: BERE – PELI
Guidavo lenta, la pioggia scrosciava contro il parabrezza e a fatica riuscivo a intravedere la carreggiata. Gli alberi si piegavano cupi nella notte, trasformando la strada in un’oscura galleria.
Dovrebbe esserci una svolta verso il lago. Eccola!” gridò Laura agitandomi un braccio davanti alla faccia. Curvai alla cieca, e l’auto traballò passando dall’asfalto allo sterrato.
Non potevamo fare due chiacchiere in un normale pub di città?” chiesi aumentando invano la velocità dei tergicristalli.
Dicono che al Lupo Nero facciano una scura da paura. Dobbiamo provarla assolutamente” esclamò Laura agitando un volantino. Lei e le sue micro birrerie.
Per ora da paura è stato il viaggio per arrivare qui” mormorai.
Un lampo illuminò la boscaglia: il tratturo proseguiva alcune centinaia di metri. Una piccola costruzione si stagliava sullo specchio buio del lago.
Eccolo, visto? Non è stato poi così terribile!
Entrai nel piccolo cortile e accostai alla porta principale.
Ma è tutto buio. Sei sicura non sia giorno di chiusura?”
Certo. Il Lupo Nero chiude solo una sera al mese, mica saremo così sfigate.” Laura armeggiò cercando l’ombrello “Vedrai, quando avremo davanti due belle mezze ti dimenticherai di tutta quest’acqua.”
Afferrai il volantino e l’osservai. Il locale, fotografato in una bella giornata estiva, aveva un aspetto ben più invitante. L’insegna rappresentava un grosso lupo che ululava sulla riva del lago.
Scendemmo dall’auto e, strette sotto l’ombrello, raggiungemmo il porticato cercando di evitare le pozze enormi che si aprivano nel cortile.
Laura spinse il portone, che non si spostò di un millimetro.
Sembra chiuso”
Te l’avevo detto che non c’era luce alle finestre” borbottai.
Tornammo in auto grondanti pioggia.
Laura prese il volantino, accese la luce interna e lesse a voce alta.
Chiuso mercoledì 27 marzo, giovedì 25 aprile, sabato 25 maggio, domenica 23 giugno”
Ma che razza di giorni di chiusura sono?”
Boh. Comunque abbiamo svelato il mistero: oggi è il 25 maggio”
Allora siamo proprio sfigate”
Scoppiammo a ridere e avviai il motore. La mia vecchia Punto mandò una specie di latrato, sobbalzò e si spense.
Che succede?”
Girai ancora la chiave, ma il cruscotto restò buio e silenzioso.
Succede che la mia macchina è un rottame. Mi presti il cellulare che chiamo casa?”
E il tuo che fine ha fatto?” chiese Laura frugando nella borsa.
Scarico, come al solito” ridacchiai.
Laura rovesciò la borsa sul sedile: fra fogli, penne e monete il cellulare non c’era.
Credo che al Lupo Nero saranno costretti ad accoglierci. Almeno il tempo di una telefonata”
Suonammo il campanello a lungo, finché sulla soglia non comparve un ragazzone moro che ci osservò sospettoso.
Questa sera il locale è chiuso”
Lo sappiamo, abbiamo solo bisogno di fare una telefonata”
Non posso farvi entrare”
Il ragazzo sembrava nervoso, saltellava da un piede all’altro.
Per favore! Solo un minuto. Siamo rimaste in panne.”
Con un gesto brusco ci fece strada fino a un telefono appeso a lato del bancone.
Afferrai la cornetta e cominciai a fare il numero: era un vecchio apparecchio, di quelli con la rotella.
Visto che siamo qui, non ci fai provare la vostra birra? “ chiese Laura.
Oggi è chiusura” ripeté il giovane.
Dai, solo un sorso!”
Il ragazzo sbuffò e riempì un boccale di birra scura.
Pronto!” rispose mio marito al telefono.
Buona, ma cos’è questa roba?” sputacchiò Laura.
Siamo rimaste bloccate con la macchina, ci vieni a prendere?”
Che schifo, ci sono dei peli nella birra!”
Poi un ululato coprì ogni altro suono, anche i tuoni che esplodevano nel cielo.
La birreria sul lago ha cambiato nome. Ora si chiama “I tre lupi”.
Serviamo ottimi brunch e, oltre alla scura, anche birra chiara e rossa.
Naturalmente nelle sere di luna piena il locale è chiuso.


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