BraviAutori.it


NO JAVASCRIPT
NO VOICE
leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
(usa CTRL +/- per ingrandire o ridurre il testo)
torna indietro  -  chiudi

Indice:
E
Regolamento delle Gare…
Ishramit
Mariovaldo
Stefyp
MattyManf
Marcello Rizza
Fausto Scatoli
Rugod79
Namio Intile
Alberto Marcolli
Andr60
sezione 13
una produzione
Sostieni la nostra p…

 

OEBPS/images/image0001.jpg 


presenta


In Paradiso si gioca tutto il tempo

e gli altri racconti


OEBPS/images/image0002.jpg 


ebook della Gara stagionale d'estate 2021


up Torna su

 

OEBPS/images/image0003.png 


Ebook della Gara letteraria stagionale d'estate 2021


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: Mani colorate al cielo - www.cantalavita.com


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


up Torna su

OEBPS/images/image0004.jpg 


Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara saranno pubblicati in un  ebook gratuito e a ogni ciclo di stagioni pubblicheremo un'antologia annuale.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



up Torna su

Ishramit

(vincitore della Gara d'estate, 2021)


In Paradiso si gioca tutto il tempo


Al Beato Ermanno di Reichenau.


XIV Secolo, Europa centrale. Il Monastero delle anime bambine del Purgatorio ha già una Regola propria ma è ancora sotto la giurisdizione dell'Ordine Cistercense.


Fiat misericordia tua, Domine, super nos,

quemadmodum speravimus in te.

In te, Domine, speravi:

non confundar in aeternum


Le ultime note del Te Deum risuonavano ancora nel piccolo coro del Monastero, ma già gli occhietti più giovani e impertinenti si erano puntati su di lui.

Alcuni non lo avevano nemmeno conosciuto, avevano soltanto sentito parlare del ragazzo storpio che il Priore aveva mandato a Parigi per studiare teologia. Altri si ricordavano di lui, ma stentavano a riconoscerlo, tanto si era fatta più matura e intelligente la sua espressione, più profonda la sua voce.

Il Priore aveva espressamente voluto che la preghiera si concludesse con il Te Deum in ringraziamento per il suo ritorno e per gli ottimi risultati che aveva conseguito: questo aveva fatto borbottare di perplessità più di uno dei monaci e bisbigliare eccitati parecchi ragazzini. Non riuscendo a convincere i novizi, come loro solito, per ottenere spiegazioni si erano gettati su ricostruzioni fantasiose dell'identità del nuovo venuto che cambiava di bocca in bocca, con sommo divertimento di chi la storia la conosceva ma preferiva aggiungere dettagli inverosimili, spesso con poca carità.

Non stupisce dunque che Philipp, questo era il nome del ragazzo, avesse catalizzato l'attenzione di tutti ora che nell'assemblea si era fatto silenzio. Non amava tuttavia quel genere di situazioni e preferì fare finta di niente. Con prudente lentezza si inginocchiò in un angolo appoggiandosi sulla gamba buona e rimase lì a pregare finché la maggior parte degli studenti e dei monaci non tornò alle opportune mansioni. Il vecchio Priore rideva sotto i baffi nel sentire i mormorii delusi di chi avrebbe voluto assistere a qualcosa di curioso o sensazionale ma, pian piano che la stanza si svuotava, nel suo cuore cresceva l'attesa di poter finalmente sentire cos'aveva da raccontare quel suo ragazzo che si era fatto tanto grande negli ultimi anni.

Qualcuno, però, sembrava più impaziente di lui.

Philipp se lo trovò davanti, con gli occhietti verdi puntati addosso. Il faccino pallido e spigoloso sembrava sul punto di essere inghiottito dalla tunica bianca fuori misura in cui era avvolto. Lo guardava con somma serietà, alzando leggermente il mento: anche inginocchiato il ragazzo era più alto di lui. Il nome del bimbo era Johann.

— Tu sei quello che ha studiato, vero?

— Io... — tentennò, sorpreso dal tono deciso del bimbo — Sono quello che è tornato oggi, sì...

— Quindi sai tutto?

— Non proprio... Ho appena iniziato a imparare — arrossì il monaco — Ma se vuoi chiedermi qualcosa... Forse posso aiutarti.

— Sai com'è il Paradiso? — domandò quindi il fanciullo, sgranando gli occhi eccitati.

— Il Paradiso... — mormorò con lieve imbarazzo, aggrappandosi al muro per tirarsi in piedi — È bello, no? È la vita eterna dei beati... Non ci sarà più la morte né la fatica, né qualsiasi cosa brutta.

— Questo lo so già — piagnucolò Johann, lasciando trasparire una certa frustrazione — Io ti ho chiesto com'è!

— Com'è...? — ripeté lentamente Philipp — Visione intuitiva et etiam faciali...

— Cosa?

— Scusami, cercavo di ricordare — disse, piegandosi timidamente sul bastone — Il Santo Padre Benedetto dodicesimo, che poi era anche un monaco del nostro Ordine... Pochi anni fa ha scritto sulla Visione Beatifica... Ecco, il Paradiso è la Visione Beatifica, la visione intuitiva di Dio, faccia a faccia con Gesù...

Si sentì punto dalla delusione vedendo il bimbo arricciare il naso e abbassare il capo. Voleva davvero essergli d'aiuto, ma non ci riusciva.

— Fratello, forse non so dirti quello che vuoi... — si scusò.

— Tu non sai niente del Paradiso — concluse Johann, con una punta di rabbia.

— Il fratello Philipp sa sicuramente molte cose sul Paradiso, soltanto non sa ancora come spiegarle a un bambino — intervenne la voce calda e profonda del Priore, che nel frattempo si era avvicinato — Fratello Johann, non è bene disturbare qualcuno mentre prega, nemmeno per fare domande così importanti.

— Perdonatemi, reverendo padre — la vocina si fece piccola piccola — Non si alzava mai e... Se faccio tardi il Maestro mi fa saltare il pasto.

— Vedi Johann — disse sornione il Priore, spettinandogli i capelli e sorridendo a Philipp — in Paradiso non potrai temere il digiuno, perché lì saremo tutti sazi a ogni ora, senza rischiare il mal di pancia per giunta.

Johann non commentò, si limitò ad alzare la testa verso il vecchio monaco.

— Com'è il Paradiso? La risposta di Philipp è la più sicura, fratellino, ha fatto bene a dirti delle parole con cui sapeva di non poter sbagliare. Ma il Paradiso è di più, no? Lo sai bene.

Il bimbo annuì.

— Non c'è niente di più della Visione Beatifica — lo corresse però Philipp — Vedere Dio, conoscerlo, amarlo... È già tutto, reverendo padre...

— Hai proprio ragione, fratello Philipp — consolò il suo timore con un largo sorriso — Quello è tutto e non c'è niente al di fuori di esso. Ma in esso ci sono molte cose che non sei capace di dire.

— Ad esempio? — domandò timidamente Philipp.

— Io so, Johann — continuò il Priore, abbassandosi all'altezza del bambino — Che in Paradiso si gioca tutto il tempo. Gesù bambino è il capo gioco e nessuno fa mai il prepotente. Il gioco non viene mai a noia e non ci si può far male, e non c'è nemmeno bisogno di far finta! Tutto ciò che si dice nel gioco, è per davvero.

Il volto di Johann si illuminò, ma non all'improvviso. Lentamente i suoi occhi diedero corpo alle parole che aveva sentito, e più grandi erano le cose che immaginava, più largo si faceva il suo sorriso.

— E si può giocare insieme, reverendo padre? — domandò ancora, con lo sguardo fisso sugli affreschi del soffitto — Si può giocare con quelli che sono già in Cielo?

— Certamente! Si starà sempre tutti insieme, senza darsi mai fastidio.

Il Priore aveva scorto però nel volto di Philipp un'ombra scura, non gli sembrava avesse gradito la risposta, perciò chiese a Johann di andare con gli altri e sostenne il ragazzo perché raggiungesse uno dei seggi del coro, e lì sedette di fianco a lui.

— Reverendo Padre, io non voglio andare in Paradiso per giocare. — mormorò, perplesso.

— Sei già troppo grande per giocare, fratello?

— La Regola... Gli insegnamenti dei padri... Ci insegnano tutti a non ricercare le distrazioni o il nostro piacere. Sarebbe assurdo che in Paradiso ci si distraesse dal Signore con il gioco, o che ci fosse una gioia che non sia Lui. Perché dice queste cose ai bambini?

— Se lo dico è perché lo credo — rispose l'anziano, senza apparire turbato dall'obiezione — E poi c'è una bambina che mi aspetta là ormai da tanto tempo, e ci siamo promessi che giocheremo insieme. Nostro Signore non vorrà certo privarmi della possibilità di mantenere una promessa.

— Padre, forse è meglio che me ne torni a pregare — disse Philipp, facendo per alzarsi. Evitava il suo sguardo.

— Non scappare fratello, consideralo un'opera di carità. Ascoltare le farneticazioni di un povero vecchio può essere un merito, e non implica condividere i suoi errori.

Philipp rimase a sedere:

— Spiegatemi allora — sbuffò — Come può il Signore volere che giochiamo, anziché pregare e dedicarci tutti a Lui.

— Si può giocare dedicandosi a Lui. Mentre studiavi, non lo facevi forse per il Signore?

— Certo, ma lo facevo per poterlo servire meglio, non perché mi piacesse studiare.

— Questo mi consola, figliolo, ma non lo facevi anche per conoscerlo? Non c'è forse in te il desiderio di vederlo già ora e di poterci parlare faccia a faccia?

— Sì, ma so che tutta la teologia del mondo non potrà darmi questo.

— Ma se la studi con umiltà può avvicinarti un po', può aprire la strada alla Grazia.

— Certo.

— E quindi hai giocato con quei libri. Io ti ho mandato a giocare sui libri e tu hai fatto il bravo bambino.

— Come? — chiese ancora, perplesso — Ho studiato, non ho giocato.

— Non lo sai perché i bambini giocano, fratellino? Non lo fanno certo per distrarsi, come chi gioca ai dadi nelle taverne mentre si stordisce con l'alcool. Ora che sei qui, e avrai molti bambini intorno a te, vorrei che tu li guardassi e iniziassi a capirli. A capire cosa fanno nei loro giochi.

— Non potete dirmelo?

Il Priore si lascio sfuggire una tenue risata.

— I loro giochi sono annunci, fratello Philipp. Anticipano la realizzazione di ciò che in loro c'è già in potenza, per questo giocano a fare i grandi, giocano a combattere il male e i cattivi, giocano a costruire le case, giocano a... Conoscere Dio. Come fai tu con i libri.

— Ma io sono già grande, quindi non ho più...

— Conosci già Dio? In maniera perfetta?

Philipp abbassò la testa.

— Tu non conosci Dio, fratello, e nemmeno io lo conosco. Non abbiamo ancora la visione beatifica di cui parlavi, eppure... Egli lascia che parliamo di lui, come se lo conoscessimo. Ti chiederà persino di insegnare a nome suo, insegnare cose che in fondo non sai! E dimmi se questo non è un gioco, un dolce gioco che annuncia il momento in cui lo vedremo faccia a faccia, e potremo parlare di lui senza timore di sbagliare, senza paura di parlare di un'ombra.

Philipp rimase colpito da quella visione. Si sentì all'improvviso molto piccolo e sciocco, e riconobbe nelle parole del vecchio una sapienza che lo umiliava. Stette in silenzio per un po', poi si accorse che qualcosa ancora non lo convinceva:

— Ma se il gioco è un annuncio di cose che saranno, come potete dire che in Paradiso si gioca ancora? In Paradiso avremo finito di crescere.

— È vero, ma questo non toglierà valore al nostro gioco. Semplicemente, in Cielo ogni cosa viene portata a compimento, e così ogni gioco cessa di essere finzione. Tu giochi nell'incertezza, parlando di Dio, allora giocherai nella certezza, e quello che dirai sarà vero, e ogni giorno dirai cose nuove, e saranno tutte vere. I bambini oggi giocano dicendo: "Facciamo che io ero..." e tutti continueranno a farlo là. Ma ciò che diremo sarà vero, perché saremo pienamente realizzati, tutto sarà compiuto. E non ci sarà più l'amarezza di accorgersi che in fondo siamo ancora piccoli e acerbi.

Nessun maestro della scuola gli aveva mai parlato in questi termini. Philipp rimase accanto al suo superiore con la testa bassa, cercando di mettere in ordine le cose di cui aveva sentito parlare, non ancora del tutto convinto. Il Priore lo lasciò fare per un po', poi gli tirò leggermente una manica.

— Bentornato, fratello. Sono contento che quel bimbo ci abbia dato l'occasione di parlare proprio di questo, c'è una cosa che devo darti da tanto tempo...

Mentre prendeva il bastone per alzarsi, Philipp scoprì nelle sue braccia un tremolio insolito. C'era qualcosa nella voce del superiore o nel suo sguardo che gli aveva messo in corpo una strana eccitazione, e così lo seguì senza dire una parola, impaziente quasi di raggiungere la sua cella. Si fermò davanti alla porta, così come voleva la Regola del Monastero, e nell'accorgersi il Priore si voltò e gli sorrise. La piccola cella era molto povera e spoglia, molto diversa da quelle di Parigi. C'erano solo un pagliericcio, una finestra, un crocifisso, davanti a questo un inginocchiatoio. Sul ripiano superiore dell'inginocchiatoio dei piccoli oggetti che da lontano si faceva fatica a distinguere. Il Priore ne prese uno e tornò da lui.

— Questo era tuo, vero? — domandò teneramente, tendendogli un rozzo pupazzo di legno. Si vedeva che era stato fatto da un bambino, le proporzioni erano strane e mancava di simmetria, tuttavia aveva un certo fascino che rivelava il talento acerbo dell'artista, specialmente nei dettagli del volto e nei due occhietti così insolitamente espressivi: sembravano guardare il mondo esterno con rimprovero. Il giocattolo aveva un grosso difetto: una gamba spezzata. E qualche graffio che rivelava un trattamento non molto attento da parte del proprietario.

— Io... — Philipp si scoprì mancare il fiato — Come hai... Come avete fatto a trovarlo?

— L'ho trovato e basta, devi averlo perso poco prima di partire.

— Non l'avevo perso. — ammise il ragazzo, con una punta di tristezza.

— Immagino che qualche tuo compagno lo abbia rotto mentre ci giocava, e che per rabbia tu lo abbia gettato via. Io però credo che sia ancora molto bello.

— Nessuno me l'ha rotto. — Philipp tirò su con il naso — Non sono stato capace di farlo bene, ho fatto la gamba troppo sottile e si è rotta. L'avevo gettato via per non vederlo più.

— Ma io l'ho trovato e mi è stato di grande consolazione. Grazie per averlo fatto.

Philipp continuò a fissare per un po' quel giocattolo poco più grande della sua mano, e ad accarezzarlo dolcemente, specialmente dove i graffi erano più profondi.

— Quando lo hai pensato, quando hai iniziato a farlo, era così che lo immaginavi? Questo pupazzo corrispondeva alla tua idea?

— Per niente... — sospirò il monachello — Di certo di gambe ne aveva due e... E doveva essere più bello anche tutto il resto.

— Ma se tu fossi ancora un bambino... Ti basterebbe dire: "facciamo che questo era un grande cavaliere" o un papà, o un monaco, o pure il Papa. E per tutto il gioco lo sarebbe stato, perfetto o no che fosse venuto.

— Immagino di sì.

— Ma ciò non toglie che quello sarebbe sempre rimasto un pezzo di legno senza vita. Una finzione, "Hanno bocca e non parlano"...

— Già. Non varrebbe nulla comunque.

— Non è così, Philipp. In questo oggetto hai nascosto un desiderio grande e buono: tu volevi fare qualcosa di bello. E l'hai fatto, anche se ancora non è compiuto. Ecco, in Paradiso il tuo gioco sarà compiuto, e questo pupazzo sarà esattamente come doveva essere. — il Priore vide brillare gli occhi del ragazzo mentre si alzavano verso di lui — Non sarà come l'avevi immaginato tu, perché sarà ancora migliore. E racconterai al Signore tante cose su di lui: "facciamo che questo era un grande cavaliere!" E lo sarà davvero. Non per finta, non nella fantasia. Davvero. Ogni parola del tuo gioco sarà compiuta. Io non credo che il Signore vorrà distruggere per sempre ciò che hai fatto con amore e bellezza, quindi non potrà che portarlo a compimento.

Philipp si appoggiò allo stipite della porta e si lasciò trascinare giù dal proprio peso, finendo seduto a terra. Lo sguardo assorto sul pupazzo.

— Quello che dite è molto strano, padre, ma sento che ha qualche senso. Anche se non penso che se questo pupazzo diventasse... Vivo? Sì, sarebbe bello se avesse una vita e potesse vedermi. Ma allora mi odierebbe, perché l'ho fatto male e perché l'ho gettato via. Non l'ho fatto con amore, perché Nostro Signore dovrebbe conservarlo?

— Il Signore lascia che la zizzania cresca insieme al grano, ma in Cielo porterà solo il grano. Non devi avere paura dei segni lasciati dai tuoi errori, quelli davvero evaporeranno come la finzione del gioco.

— Non avevo mai pensato che i giochi dei bambini potessero essere importanti. — Philipp continuava freneticamente a massaggiare il giocattolo, ormai con le lacrime agli occhi — Voi c'eravate, sapete qual era il gioco che volevo fare sempre.

— Sì, lo so. — rispose serio il Priore.

— Ma Dio non potrà portarlo a compimento. — singhiozzò Philipp, mentre il volto si bagnava di lacrime.

— Dopo quello che mi hanno fatto... — andò avanti, piagnucolando con rabbia — Per come mi hanno trattato... Mi hanno gettato via! — gridò, scagliando a terra il pupazzo. Si tirò sulla testa il cappuccio. Voleva sparire. Cercò di parlare piano, sperando segretamente che il superiore non sentisse. In realtà ne uscì un ruggito. — Non li vedrò in Paradiso, e non mi tratteranno come un figlio!

Quelle parole velenose lo disgustarono, se ne pentì subito e sperò di potersele rimangiare. Man mano che la rabbia lasciava il suo volto, veniva sostituita da un altrettanto paonazza vergogna. Si protese a terra, riprese il giocattolo e se lo strinse al petto.

— Non sei tu che lo decidi! — la vocina acuta ma malferma di Johann lo raggiunse dall'angolo del corridoio. Spuntò fuori e subito diventò tutto rosso.

Si guardarono sorpresi per qualche istante, il bimbo e i due monaci, e senza dire una parola Johann corse verso Philipp e gli si gettò al collo, stringendolo forte e facendogli cadere il cappuccio. Philipp, che ancora manteneva le abitudini e gli usi dell'altro monastero, guardò perplesso il superiore, che con un cenno sembrò quasi imporgli di ricambiare l'abbraccio.

— Io pregherò per tutta la vita perché i tuoi genitori possano venire in Paradiso, e perché tu possa fare la pace con loro! Il Paradiso è anche essere in pace con tutti, no? Gesù ha fatto la pace con San Pietro e San Paolo, e loro gli avevano fatto male!

— Per tutta la vita? — esclamò stupito Philipp, con la voce ancora nasale. Sentì Johann annuire sul suo petto, strofinando il volto sull'abito.

— Non c'è gioco più bello di questo... — mormorò il Priore, ammirando la scena.

— Senti... Ti chiami Johann, giusto? — disse finalmente Philipp, afferrandogli una spalla e spingendolo un po' per poterlo guardare negli occhi.

— Sì. — lo illuminò col suo sorriso.

— Io vorrei... Vorrei che prendessi questo. Ti piace?

Gli diede il pupazzo, e il bimbo lo ispezionò in tutti i modi prima di dare il suo verdetto.

— È un po' strano, ma è bello! Ti somiglia un po'... — Philipp abbassò lo sguardo, si sentiva giudicato da quegli occhi grandi. Anche Johann arrossì.

— In realtà io ho... Ho sentito, della gamba. — confessò — So che non dovevo ma...

— Non importa, sono contento — mormorò Philipp — Lo custodirai al posto mio? Ci giocherai? Io... Non ne sono più degno.

— Certo! — esclamò Johann, felice, poi guardò il Priore — Ma noi non possiamo tenere giocattoli come se fossero nostri.

— Hai ragione, fratello Johann — commentò soddisfatto il superiore — Vorrà dire che tutti potrete giocarci, ma tu puoi prenderti la responsabilità di custodirlo.

— Lo voglio fare, mi aiuterà a ricordare quello che ti ho promesso. — gongolò il bimbo.

— Johann, posso dirti una cosa? — sussurrò Philipp.

Quello annuì, allora il giovane monaco gli adagiò la testa sulla spalla.

— Guardarti negli occhi è come giocare alla visione beatifica. — gli disse nell'orecchio.

Johann scoppiò in una fragorosa risata.

— Ma allora non ti sei dimenticato come si fa! — esclamò.


(fine)



up Torna su

Mariovaldo


Il tormento della libertà


Quel volto lavorato dal tempo, era segnato dalle rughe verticali, profonde come cicatrici, scavate da insonnie ostinate e abituali. Gli occhi, di solito rivolti verso terra, avevano come dei lampi improvvisi e si accendevano di una luce del tutto particolare, quasi provenisse da un luogo accessibile a lui soltanto.

Chi lo incrociava, mercanti, artigiani, soldati, dame con le loro fantesche, tutta l'umanità che percorreva le stradine della città, alla vista del suo saio gli lasciava il passo accennando una riverenza. Molti sapevano cosa rappresentasse in realtà quel religioso e, appena fuori dalla portata del suo sguardo inquietante, si segnavano e proseguivano senza voltarsi, ben lieti di essere diretti in un luogo diverso da quello verso il quale si stava affrettando Ignatio de Elgovar, priore dei Domenicani e Inquisitore Provinciale.

Ignatio dedicò uno sguardo al parco che stava attraversando in quella tarda mattina di Ottobre. La luce era appena dorata, filtrata dalle ultime foglie dei platani; un leggero vento, fresco e pulito, spirava dalla campagna portandone i gradevoli profumi e tenendo invece lontani i sentori della umanità che si affollava in Siviglia.

L'Inquisitore fece un profondo respiro, assaporando tutta la bellezza dell'attimo, quasi che, prima di immergersi negli orrori ai quali il suo ufficio lo destinava, volesse rassicurarsi che Dio avesse davvero creato anche la Perfezione. Il suo volto tormentato, per un breve istante si spianò, lasciando spazio a un accenno di sorriso che subito disparve non appena varcato i portale della fortezza. Abbassò lo sguardo e proseguì con passo spedito, preceduto dai due religiosi che lo avevano atteso all'interno. A loro si unì un carceriere e il piccolo corteo silenzioso prese a scendere una stretta scalinata. In breve l'aria pulita e la calda luce autunnale furono un ricordo.

Incurante di gemiti, fetore e disperazione che permeavano la semioscurità del luogo, Ignatio meditava sull'incontro che avrebbe avuto luogo tra breve nella cella più appartata e profonda, e s'interrogava.

Era forse un turbamento, quello che agitava la sua coscienza di uomo risoluto e dalla fede granitica?

Da tempo, nelle notti insonni, il Demonio lo tormentava assumendo la sua forma più insidiosa, quella del dubbio. Sibilando parole di umanità e di ragionevolezza, il Tentatore gli sussurrava che Dio era misericordioso e forse lui, Ignatio de Elgovar, avrebbe dovuto coltivare anche quella virtù.

Ma il dovere era limpido, inequivocabile: salvare le anime attraverso la Confessione e la Penitenza, e se per adempiere a questa missione occorreva mortificare e sacrificare i corpi, ricettacoli di ogni nefandezza e peccato, quella era la volontà di Dio. L'ombra stessa del dubbio costituiva grave peccato del quale Ignatio aveva reso conto a fratello Ferdinando, il suo confessore che molto lo aveva aiutato nel corso dei loro colloqui giornalieri. "Compiere il proprio dovere, per quanto ripugnante potesse apparire, era il solo modo per scacciare il Demonio e vivere un'esistenza terrena degna di ricevere la ricompensa eterna", questo gli ripeteva fratello Ferdinando, guidandolo con fermezza nella lotta contro le forze del Male.

Il Priore era ancora immerso in questi pensieri quando il carceriere aprì una massiccia porta di quercia rinforzata in ferro e si scostò.

Sulla soglia, Ignatio si rivolse al suo piccolo seguito:

— Grazie, fratelli; ora richiudete e attendete, che nulla di quanto sarà detto o fatto in questo luogo venga mai risaputo. Vi chiamerò al momento opportuno.

La cella era ampia, silenziosa e buia, a eccezione del vago riflesso che giungeva dall'alto, dove un cunicolo protetto da una grata lasciava filtrare il minimo di aria indispensabile alla sopravvivenza. Il fetore era insopportabile, escrementi, urina, sangue, lacrime: tutte le possibili emanazioni di corpi sottoposti alle torture più feroci avevano lasciato negli anni una presenza solida, palpabile, che lentamente aveva impregnato persino la pietra incrostata di salnitro. Un lento stillare d'acqua in qualche andito nascosto, acuiva il tormento del disgraziato prigioniero che, incatenato alla parete, soffriva tra gli altri il tormento della sete. Di lui, unico occupante di quell'inferno terreno creato dagli uomini in nome di Dio Misericordioso, si intuiva la presenza, corpo abbandonato sopra un cumulo di paglia lurida.

— Figlio mio, sono qui per darti una buona notizia, esulta con me!

— Dunque vi siete convinti, mi ridarete la libertà!

La voce, un sussurro appena percettibile, era quella di Shem Abulafia, "conversos" di facciata e rabbino nel segreto del cuore.

Il priore fece una lunga pausa, sforzandosi di reprimere ogni sentimento di pietà. La sua vista si stava adattando alla penombra e ciò che gli occhi facevano giungere alla sua coscienza era difficilmente sopportabile. Colui che aveva sussurrato quelle parole di speranza, poco aveva della persona fiera, dallo sguardo penetrante, dal viso aperto e piacevole, che aveva incontrato la prima volta all'inizio di Settembre. Oltre un mese di prigionia, interrogatori, torture fisiche e morali, privazioni di cibo e di acqua lo avevano profondamente, irreversibilmente, trasformato.

Quando riprese a parlare, l'Inquisitore evitò di guardare negli occhi il prigioniero.

— Noi abbiamo rinunciato alla tua confessione. Non serve più, almeno nel tuo caso. Rabbino Shem, figlio diletto, presto, domani stesso, ti sarà data la libertà dalla sofferenza, dalla paura e da questo mondo terreno. Tu morirai e la tua anima, mondata dal fuoco, si presenterà alla misericordia di Dio.

— Dunque avete deciso che sono colpevole e nulla mi salverà dalla vostra caritatevole morte, è così?

— Noi siamo certi, per le numerose testimonianze giurate dinnanzi a Dio, che tu, pur avendo fatto pubblica abiura della tua fede, in segreto hai continuato a esercitare le tue funzioni di rabbino, qui a Siviglia. Il tuo abominevole peccato di apostasia è provato. Sappiamo che è stato l'amore per tua moglie e i tuoi figli a condurti a ciò, ma i tuoi motivi non ti rendono meno colpevole agli occhi di Dio onnipotente e ai nostri.

Il tono di voce di Ignatio si fece meno severo, quasi dolce, mentre finalmente guardava il prigioniero negli occhi:

— Noi siamo simili, figlio caro. Siamo entrambi uomini di fede e per la nostra fede siamo disposti a soffrire sino a dare la nostra vita. Io provo per te una sincera compassione e soffro per i tuoi patimenti: quale magnifico uomo di Dio, del vero Dio, avresti potuto essere se soltanto nelle tue vene non scorresse il sangue di Giuda e nella tua anima non albergasse il veleno di chi ha crocifisso Nostro Signore!

— La vostra pietà è falsa, come falso è il vostro re e falso il vostro salvatore. Quando abiurai ricevendo il battesimo, mi fu garantito che io stesso e la mia famiglia saremmo stati considerati degni di rispetto e protetti dalle leggi di Sua Maestà Cattolica. Ma proprio come cattolico, ora io sono accusato di apostasia e morirò, mentre i veri Ebrei, coloro che ancora frequentano la sinagoga e professano apertamente la nostra fede, sono considerati non credenti e quindi immuni dall'accusa. La vostra fu solo una trappola nella quale siamo caduti in molti, ma come è vero che esiste la giustizia di Dio, la sua spada vi colpirà e vi schiaccerà.

Pareva che le ultime frasi, pronunciate con veemenza, avessero esaurito le forze del condannato, che abbassò il capo e stette immobile, ansimante, ripiegato su sé stesso come a conservare al suo interno, con quel poco di vita che restava, tutta la sua rabbia e il suo dolore.

— Veri ebrei oramai ne sono rimasti pochi nel regno, e presto non ne rimarrà nessuno, ma io non ho voluto udire le tue bestemmie, fratello caro. Comprendo, anche se non posso perdonare. Ma quello stesso Dio che tu hai invocato come vendicatore potrebbe invece rivelarsi più misericordioso di quanto noi uomini possiamo essere. A volte la porta dell'inferno si riapre, a volte la Luce chiama a sé un peccatore che seguendola trova la salvezza eterna.

L'inquisitore si avviò verso la porta e bussò per richiamare il carceriere, ma prima di uscire, come ripensando a qualcosa, si voltò verso il rabbino.

— Altri doveri mi attendono. Ora ti farò togliere le catene, e riceverai cibo e acqua, voglio che tu possa trascorrere le tue ultime ore in modo più consono a un essere umano che sta per raggiungere la Grazia di Dio. E rammenta, la Sua misericordia e la Sua luce potrebbero giungere sino a te.

Restato solo, Shem meditava sull'incontro col priore. Era stranamente calmo, come se la certezza della morte imminente l'avesse liberato dall'ansia e dalla paura. La sua mente razionale, plasmata alla sottigliezza da secoli di sfide per la sopravvivenza in un mondo ostile, gli diceva che qualcosa nelle parole dell'inquisitore non era ciò che sembrava. Quelle frasi insistite sulla Misericordia, sulla Luce e sulla porta dell'inferno... la porta!

Ora rammentava un particolare. Il carceriere era venuto a togliere le catene dai suoi polsi, gli aveva lasciato una ciotola di cibo e una di acqua, poi uscendo aveva ovviamente chiuso la porta. Ma il rumore era stato diverso dal solito. Si avvicinò, malfermo sulle gambe e vide, tra il pesante battente e la parete, un barlume di luce.

La Luce!

Incredulo, provò a spingere. La porta si mosse e il barlume di luce si rivelò essere il vago chiarore di un corridoio.

Un passo: era fuori dalla cella, fuori dall'inferno. Non ancora, si corresse, tutto quell'edificio era l'inferno, solo se fosse uscito da lì ne sarebbe stato davvero fuori. Non era possibile, mai nessuno, a quanto si diceva, era fuggito da quella prigione. Ma cosa rischiava a provare?

"La luce chiama a sé un peccatore", questo aveva detto l'Inquisitore. E se la porta si era davvero aperta, perché non seguire ancora le sue parole? Shem si avviò a fatica lungo il corridoio.

Aveva camminato per pochi passi, quando udì un sommesso parlottio che accompagnava due persone che si avvicinavano. Si guardò intorno disperato. La fuga era già terminata?

Si trovava oltre una svolta ad angolo retto, dove il buio era profondo. I passi si avvicinavano e con essi il riflesso di un lume. Presto sarebbe stato visto, la sua speranza dissolta.

Nel muro scoprì una rientranza, in essa, a tentoni, individuò una porticina. La spinse. La porta si aprì e vi sgusciò dentro senza richiuderla, non ne avrebbe avuto il tempo. I due uomini passarono davanti alla rientranza e il suono dei loro passi si affievolì.

Shem attese qualche minuto, mentre il ritmo del suo cuore rallentava e il respiro si faceva meno affannoso. Stava per ritornare sul corridoio, quando udì avvicinarsi altre persone. Evidentemente quel percorso era frequentato, da quella parte non aveva possibilità di fuga. Forse poteva tentare di proseguire in quel passaggio secondario. Chiuse la porticina e si inoltrò in quello che pareva uno stretto cunicolo che subito lo portò ai piedi di una ripida scala a chiocciola. Shem era sicuro che la sua cella si trovasse nel sottosuolo, quindi salire andava bene, pensò. Gradino dopo gradino, il buio si andava attenuando e dopo alcuni giri completi, il rabbino si trovò dinnanzi a una stretta feritoia dalla quale entrava la luce del sole, oramai basso sull'orizzonte. Era più di un mese che non vedeva il sole; quei pochi raggi gli diedero una gioia immensa e gli aprirono il cuore alla speranza. Speranza che si fece ancora più concreta quando i suoi occhi, abituati all'oscurità, iniziarono a vedere ciò che si scorgeva dalla feritoia: i campi, gli alberi, le colline. Conosceva quel panorama, era stato spesso in quella campagna con sua moglie e i suoi figli. Una fitta di nostalgia lo attraversò e lo fece quasi lacrimare. Forse sarebbe riuscito a rivederli, dopotutto.

Si riscosse, occorreva tutta la sua freddezza se voleva uscire da lì. Ora sapeva che si trovava all'interno del muro ovest della fortezza, quello che dava sull'aperta campagna e la libertà.

L'euforia di quella scoperta fu frenata subito da una considerazione ovvia: lui si trovava ancora all'interno, la libertà era all'esterno e forse, beffardamente, quando pareva a portata di mano, non sarebbe mai stata raggiunta. Eppure, ragionò, se quel passaggio portava alle mura, una ragione doveva esserci.

E la ragione gli apparve dopo pochi passi: una porta, verso l'esterno. Ma si sarebbe aperta?

Quasi tremando per l'emozione Shem si avvicinò. La verità gli apparve quasi subito, incredibile ma reale. La porta doveva essere un'uscita segreta, e come tale era chiusa solo dall'interno, con un pesante chiavistello di ferro, ma senza serratura. Evidentemente, ragionò, era stata predisposta per una fuga d'emergenza, e nella fretta di una fuga, non ci sarebbe stato il tempo di cercare una chiave.

La speranza gli esplose nel cuore: la vita, la libertà, tutto ciò che amava era lì, a pochi passi, bastava un ultimo sforzo e più nulla lo avrebbe potuto fermare,

Shem radunò le sue forze, togliere quel chiavistello arrugginito e pesante non sarebbe stato facile e infatti il suo corpo martoriato gli urlò tutto il suo dolore mentre, facendo forza sulle gambe, con le mani tirava a sé quell'ultimo ostacolo verso la libertà.

Nell'ansia e nella concentrazione dello sforzo che l'attendeva, Shem non fece caso al grasso che era stato dato al chiavistello, che infatti si aprì di colpo. Shem perse l'equilibrio e urtò violentemente la testa sull'angolo di una pietra. Crollando sulla porta, il suo peso la fece aprire e il rabbino riuscì a scorgere la luce che inondava i campi: libero, pensò con gioia mentre il dolore lo invadeva e le forze lo abbandonavano, facendogli perdere i sensi.

Non fece a tempo a udire il rumore e il vocio di un gruppo di uomini che si stava avvicinando.


I gendarmi caricarono il rabbino sul carro, gli misero ai polsi e alle caviglie delle pesanti catene, poi lasciarono rispettosamente il passo all'Inquisitore che si stava avvicinando.

Ignatio de Elgovar accarezzò amorevolmente il capo insanguinato del rabbino che aveva appena ripreso conoscenza. Le rughe del suo volto s'incurvarono in un sorriso mentre gli si rivolgeva in tono di bonario rimprovero:

— Figlio mio, Dio non ti ha aperto la porta dell'inferno e non ti ha guidato verso la Luce. Noi lo abbiamo fatto e ti stavamo aspettando. Ma tu per poco riuscivi a fuggire andando incontro a sorella Morte senza alcuna purificazione —, aggiunse l'inquisitore guardando la ferita del rabbino — ma Dio, che ama anche l'ultima delle sue pecorelle smarrite, è misericordioso e non te l'ha permesso. Ora ti porteremo dove finalmente il fuoco ti darà quella libertà che tanto desideri.


(fine)



up Torna su

Stefyp


Lui non risponderà


Elena spegne il telefono e se lo infila in tasca. Lui non ha risposto neanche stavolta. Sperava rispondesse, anzi ne era quasi sicura. Gli ha lasciato talmente tanti messaggi in segreteria, che almeno una risposta pensava di meritarsela.

— L'hai chiamato di nuovo? Dovrebbe esserti chiaro, ormai, che non ti risponderà.

— Deve farlo. Io devo parlare con lui!

— Ma lui non vuole parlare con te. Te l'ho detto un milione di volte, lascialo perdere.

— Magari lo farà la prossima volta.

— No, non risponderà, come non ti ha risposto le migliaia di altre volte da stamattina.

— Ma ieri mi ha salutato. Quando l'ho visto alla fermata dell'autobus mi ha salutato con un sorriso — mormora Elena con un fil di voce.

— Non ti ha salutato con un sorriso, ha alzato gli occhi a cielo e si è voltato per non vederti.

Elena sa bene che è questa la realtà. Lui non la vuole più e non serve a niente che lei continui a tormentarlo.

Si sciacqua le mani, quand'è così agitata diventano calde e sudate.

Lo specchio del bagno le rimanda l'immagine di un volto tirato e pallido, con gli occhi arrossati e i capelli spettinati.

Non vuole piangere, non adesso.

Si trascina verso la cucina, in frigorifero ci dev'essere ancora del dolce alla crema.

— Non ce n'è più. Te lo sei mangiato stamattina, non ricordi?

Sì, se lo ricorda, ma ne aveva lasciato ancora una piccola porzione.

— Che hai finito dopo pranzo. E non t'azzardare a prendere il pacco di biscotti al cioccolato.

— Ne mangio solo uno, ne ho bisogno.

— No, non ne hai bisogno. Lo so io di cosa avresti bisogno. Ma tanto è inutile che io parli ancora, non ascolti una sola parola di quel che dico.

Elena addenta un biscotto, ne ha bisogno veramente, ne ha bisogno per tenere insieme i pezzi della sua vita, che sente sbriciolarsi ogni giorno di più. Ne ha bisogno per riempirsi di qualcosa e sentirsi meno vuota. Perché qualcosa è meglio del niente che la circonda, che la inghiotte, che la possiede.

Ora che i biscotti sono finiti e non c'è altro nella dispensa si sente meglio.

— Mi faccio una doccia, poi riprovo. A quest'ora sarà a casa e mi risponderà di sicuro.

Il ronzio del telefono la fa sussultare. — È lui. — Il respiro le manca quasi, mentre estrae il cellulare dalla tasca. È un messaggio di sua sorella che le ricorda la cena a casa dei genitori per il giorno dopo. — Sì, va bene — risponde infastidita. Non ha voglia di andare a quella cena, ma sa che se non ci andrà sua madre comincerà a tormentarla.

Trattiene il telefono tra le mani, lo guarda a lungo. Se ne sta lì sul suo palmo fermo, muto, invitante.

La tentazione di fare di nuovo quel numero è immensa. Sente un formicolio alle dita che non si placherà fino a che lei non avrà schiacciato quei maledetti tasti.

Elena trattiene il respiro, il silenzio intorno a lei sembra incoraggiante. Se tutto tace allora la telefonata potrà essere fatta.

Accende lo schermo, non deve cercate il numero, è già lì pronto.

È libero, ma non risponde nessuno, lo lascia suonare finché non si inserisce la segreteria. — Eppure è online — sospira. Un messaggio sarebbe inutile, lui ha bloccato il suo numero tempo fa.

Lascia cadere il telefono quasi fosse rovente.

Adesso sì che si metterà a piangere, sente già le lacrime scorrerle sulle guance.

— L'hai chiamato di nuovo! Ti avevo detto di non farlo, non hai neanche aspettato di esserti fatta la doccia.

Elena boccheggia, quella casa la opprime. Quella solitudine la opprime. Vorrebbe qualcuno con cui parlare, qualcuno di reale che la distragga almeno un po' e che le impedisca di pensare sempre e solo a lui.

Sa bene che non dovrebbe stare da sola, dovrebbe farsi degli amici, trovarsi un'occupazione, uscire di casa. Ci ha provato un'infinità di volte, ma è inutile.

Nessuno la può aiutare, perché nessuno la può capire.

La sua terapeuta non fa altro che parlare, parlare, parlare! Parole che le entrano dentro ed escono come fossero vento. Nulla di quello che si sente dire cambia la sostanza della cosa: lei vuole lui e lui non c'è.

— Dai più spazio alla parte razionale di te — le raccomanda ultimamente. "Parte razionale" così l'ha definita la dottoressa. Quella voce che l'accompagna ogni momento e le suggerisce quel che dovrebbe o non dovrebbe fare e la sfinisce di consigli e ammonimenti, tranne poi sparire nel nulla, lasciandola sola e fragile, incapace di resistere alle tentazioni.

Elena esce di casa senza sapere dove andare. Una strada vale l'altra. Svolta prima a destra poi a sinistra, poi ancora a destra…

Deve aver appena smesso di piovere, l'aria sa ancora di umido e il profumo di asfalto bagnato le entra dentro. Le è sempre piaciuto quel profumo, le ricorda un tempo, secoli fa, quando loro due insieme correvano sotto la pioggia tenendosi per mano…

— Smettila di pensare ancora a lui. Ti fai solo del male.

È l'ora di cena e la gente tutt'intorno corre frettolosa e indaffarata.

I tavolini fuori dai locali sono tutti occupati. Il vociare allegro e spensierato le riempie la testa e le stringe il cuore. Elena li invidia, chissà che darebbe per essere come loro: libera da tutto quello che la opprime, libera da lui.

— No, cara mia, non mi inganni. Non stai gironzolando a caso qua e là. Sai benissimo dove stai andando. Torna indietro, ti prego. Non andare di nuovo sotto casa sua!

— Non sto andando da lui, è un caso che io mi sia ritrovata da queste parti.

— Non mentire, lo sai che con me non lo puoi fare. Stai andando da lui. Devo ricordarti cosa ha minacciato di fare se provi a suonare ancora al suo citofono?

— Non chiamerà la polizia, non lo farà veramente e poi stamattina mi ha sorriso alla fermata dell'autobus…

— Non ti ha sorriso… Non suonare. Almeno per questa volta.

Mancano pochi passi a quel portone, quel maledetto portone nero, davanti al quale ha passato ore e ore con il dito attaccato al pulsante del suo campanello, decisa a trovare il coraggio di andare via per poi cedere, sempre.

Eccola ancora lì con il dito sollevato, è il quinto bottone, lo troverebbe anche a occhi chiusi.

Il silenzio le sembra promettente, nessun rumore, nessuna voce, niente che le impedisca di farlo.

E suona infatti, suona una, due, tre, infinite volte.

Elena si accascia sul marciapiede con la testa fra le mani. Il portone non si è aperto, lui non ha risposto, lui non risponderà neanche questa volta.

Sta cominciando di nuovo a piovere, le prime gocce d'acqua fanno brillare la strada e il profumo della pioggia le entra dentro…


(fine)



up Torna su

MattyManf


Sorriso di rondine


I

— Ci credereste? Una rondine mi ha spaventato!

— Una rondine? — chiese la signora Hutson mescolando le carte — Che assurdità…

— Invece è così! Me ne stavo di sopra nella vostra comodissima poltrona.

— Quella di fianco alla finestra? — domandò lei distribuendo la mano.

— Precisamente! Dicevo, ero tutto assorto nella lettura quando un'angoscia inspiegabile mi prende. Avete presente la sensazione di essere spiato? Quella! Insomma, alzo gli occhi ma nel salotto sono solo…

— Oh, bella! E vi sorprende? — esclamò guardando le sue carte — Siete l'unico cliente della Pigna Scarlatta, io ero qua di sotto…

— E io e il colonnello siamo appena arrivati! — aggiunse un ometto allegro dalla barba rossa.

In tutto, contando gli stivali incrostati e il berretto non faceva un metro e un braccio, ma Gregory Hutson si gongolava per quel dito di cui superava la sua signora. Un mignolo per la precisione, di gnomo ovviamente.

— Insomma, signori Hutson, — borbottò il colonnello afferrando il suo mazzetto — nemmeno una mano e il forestiero è già avvilito! Gli avrete mica giocato un trucchetto da lepracauni?

— Ma no, — la gnometta sorrise aggiustandosi gli occhiali — il signor Crepazi mi raccontava il fatto curioso che gli è accaduto. Ci credereste? Una rondine l'ha spaventato!

Le ciglia cespugliose del colonnello si incresparono.

— Una… rondine?


—Sì! Sto leggendo, mi sento osservato, ma alzo gli occhi e sono solo. Faccio per ricalarmi tra le pagine… e lo sento! Lo stridere di quell'uccelletto inquietante!

— Inquietante? — domandò la signora Huston aprendo il gioco — Ma se hanno un cinguettio così melodioso!

— No! Non fatevi ingannare. Non l'avete mai sentito quel garrito odioso che ficcano tra una nota e l'altra? Uno non ci fa caso, ma c'è! Un graffio che stride e rompe l'idillio!

— Ah, ho capito! — esclamò il signor Hutson raccogliendo la presa, — Non è frequente, ma qualche volta, se mi appisolo sotto al nido, mi sveglia!

— Bisognerebbe addestrarle allora! — scherzò la moglie.

— Giovanotto, — il colonnello posò la sua carta lentamente, come se avesse un significato preciso — basta uno stridio a sconvolgervi?

— No. O meglio, quello mi ha fatto saltare. Lo strano è dopo. Sento un colpo di ali, son convinto che la bestiaccia se ne sia andata… e invece è là. Sul davanzale. Mi fissa coi suoi occhi vitrei e mi sfida col suo sorriso appuntito!

— Oh, quest'è il colmo, — esclamò il colonnello — come fa un becco a sorridere!

— Può invece! Io li vedo continuamente! — commentò puntigliosa la signora Hutson.

— Tsk! A voi gnomi pare che ogni bestiola che stia in un pugno abbia qualcosa da dire. Un giorno mi racconterete che pure un sasso vi ha sorriso!

— Ah sì, colonnello? Badate che il signor Crepazi è umano quanto voi. Poi, se siete qua per offendere la mia cricca, potete tornare a casa e fare un bel solitario!


—Non si crucci, signor Crepazi, — bisbigliò Gregory Hutson — sono vent'anni che fanno così. Meglio eh, sennò toccherebbe a me!

Lui annuì.

— Non so dirvi perché, ma sono convinto che mi sorridesse. Saranno stati gli occhi, o un picchiettio della testolina.

Mise giù una carta, non quella giusta.

— Sono bestiole intelligenti, si vede da quanto ci tengono alla famiglia… e alle origini. Pensate, — le manine della signora Hutson raccolsero un'altra presa — volano miglia e miglia per il mondo, ma alla fine tornano qui. A ricostruire il loro nido, a nascere dove nacquero. Non è tenero?

Le sopracciglia del colonnello sobbalzarono.

— Come vi pare, — sbottò — ma se è così che questo vuole giocare, tanto vale che vi pigliate pure i quattro punti che abbiamo arrabattato! Ma chi vi ha insegnato?

— Io, — esclamò la signora — ieri. Ci ha visto giocare e mi è sembrata una buona idea invitarlo alle nostre partite. Suvvia, colonnello, siate ospitale! Viene dal Continente.

— Davvero? Che parte?

— Trigilda, — rispose Crepazi — sulla costa di Meridia.

— Ah, sono pure io di laggiù! Che vi porta tra le campagne sperdute e piovose di Vespria? Per me fu la mia sposa, gli dèi l'abbiano in grazia.

— A me tocca attendere un notaio…

— Di recente, — spiegò la signora Hutson, — suo zio è venuto a mancare. È qui per l'eredità.

Il colonnello aggrottò la fronte.

— Mai sentito di un Crepazi qui a Moorville.

— Gale Irundeen. Era il fratello di mia madre, aveva un podere nella brughiera.

Il colonnello ci pensò su.

— Mai sentito. Voi?

Greg scosse il campo — Mai, ma non è strano. A voi spilungoni piace invecchiare lontano da tutti!

— In ogni caso, — aggiunse Carpazi sperando che la giocata fosse buona — ci penserà il notaio a indicarmi la strada.

— Ah, — tossì il colonnello — vi ha detto lui d'aspettarlo qua?

— Sì.

— Ma 'sto zio, l'avete mai visto? Che so, da piccolo…

— No.

— Immagino sia stato il notaio a scrivervi. Vi ha detto che vi tocca?

— No, dove volete arrivare?

Il volto del colonnello si accartocciò.

— Per me è una sòla. — sentenziò truce.

— Come vi permettete! — il giovanotto scattò in piedi, — È con la benedizione di mia madre che sono partito, volete forse insinuare che sia tanto folle da non sapere se ha o no un fratello?

— Per carità! — si scusò l'uomo raccogliendo avido le carte, — Ma la settantina l'ho passata e di sòle un po' ne ho viste. Si chiede al pollo di fare un bel viaggio, gli si fanno firmare le carte indicando un rudere fuori mano e si intascano le tasse di successione. Mica uno solo è finito in gattabuia così!

Crepazi divenne paonazzo.

— Sapete cosa? Mi è passata la voglia!

Le sue carte scorsero sul tavolo.

— Ma no! Dove andate? Il colonnello voleva solo mettervi in guardia! — esclamò riconciliante la signora Hutson.

— C'è riuscito! Prendetevi i quattro punticini che ho arrabattato.

Si avviò alle scale, ma sul primo gradinò esitò.

— Gradirei cenare in camera.


Quando i passi al piano di sopra si quietarono, Gregory guardò serio la moglie e l'amico.

— In camera, — mormorò — dove siamo? Al palazzo del governatore?

— Piantala Greg! Anche voi colonnello, se perdo l'unico cliente del mese per colpa vostra, in inverno dovrete trovarvi un'altra locanda dove trincare e perdere a carte.

— Che? Ma c'è solo la Pigna a Moorville!

— Appunto.


II

Il giovanotto tornò alla poltrona, ma non si accomodò. Sull'attenti controllava che al davanzale non ci fossero pennuti in vena di scherzi. Oltre i vetri la sera calava sui tetti di Moorville. Erano una ventina, non di più. Attorno, solo le gobbe spelacchiate della brughiera e qualche boschetto rinsecchito. Una delle macchie che vedeva, forse, era la proprietà di suo zio.

Chi si credeva di essere il colonnello per mettere in dubbio che esistesse? Però, un po'strano lo era. Stava là da due giorni e il notaio non s'era fatto vivo. Non una lettera, non un messaggio. D'altro canto, lo avevano avvisato che laggiù la burocrazia non era moderna ed efficiente come nel Continente.


Si concentrò sul paesino. Era il tramonto e già le finestre si rabbuiavano, qualcuno stanco si trascinava verso casa, ma era da un pezzo che le ruote dei carri avevano smesso di scricchiolare. Dal piano di sotto saliva un vociare brioso. Almeno alla Pigna Scarlatta un po' di vita c'era. Gli sembrava impossibile che a Moorville vivessero davvero così.

A Trigilda la notte era viva, pulsante, squisitamente imprevedibile. Ogni sera nelle taverne si vedeva gente nuova. Capita quando si ha un porto sotto casa. Gli mancavano le lanterne delle strade, i litigi dei marinai, le dame ben vestite della piazza grande, le sgualdrine ammiccanti dai vicoli bui e perfino le facce torve dei lestofanti.

Insomma, era là da due sere e già gli sembrava una condanna.


Sobbalzò!

Un pipistrello era sfrecciato tagliando la finestra. No, un momento… non zigzagava maldestro… Era una rondine! Di sicuro gli aveva sorriso.

Mentre il buio inghiottiva il cortile la vide sparire sotto al pergolato.

Si precipitò alla porta!

Nella sala di sotto lo guardarono tutti, ma nessuno si alzò.


Alla luce della lanterna la seggiola sgangherata proiettava un'ombra deforme. A furia di appisolarcisi su, Greg l'aveva ridotta male. Il nido doveva essere da qualche parte sotto alla pertica. Perché d'un tratto voleva trovarlo?

— Ignazio Crepazi? — chiamò una voce gentile.

Nella penombra si intuiva una figura sottile. La mantella e il cappuccio ne limavano i bordi, ma era chiaro si trattasse di una donna.

— Mi conoscete?

— No, ma non è difficile riconoscere un forestiero qui a Moorville.

Ignazio puntò la lanterna su di lei.

— Siete in maschera!

— Sì, mi attendono a un ballo, ma prima ci tenevo a incontrarla.

— Allora un po'di baldoria si fa in questo mortorio! Un momento, sarete mica…

— Evee Swall, notaia del signor Irundeen. Vi prego di perdonarmi per l'attesa. Ma, sghignazzate?

— No, è solo che… La vostra maschera! Nera, col naso appuntito e la piuma all'in su. Sarete mica una rondine?

— Mi trovate ridicola?

— No! Solo che una rondine mi ha sorriso e…

Si interruppe.

Sotto gli zigomi rigidi della maschera, le labbra delicate sorridevano, ma gli occhi che lo fissavano erano perplessi.

— Sembrate annoiato. In effetti, giocare a carte alla Pigna non sembra il vostro genere di serata. Vi andrebbe di accompagnarmi?

— Non ho né costume, né invito.

— Mi farete da cavaliere e il costume vi sta addosso: siete un forestiero!

Lei sorrise, ma stavolta anche con gli occhi.

— Quand'è così…

— Spegnete la lanterna, la luna sta sorgendo. Non vorrete mica andare a piedi!

— Siete in carrozza? — chiese estinguendo lo stoppino.

— Sbrigatevi, o tarderemo!


Fuori dall'abitacolo, il plenilunio vestiva la brughiera d'argento. Ignazio non capiva quanta strada avessero percorso o verso dove, ma quando la carrozza si arrestò, quasi se l'aspettava di vedere il profilo malandato di un rudere emergere dalla notte.

— Non vi piace?

— Mi aspettavo un salone, o un giardino.

— Casa Irundeen li ha entrambi.

— Un momento, è quella la proprietà di mio zio?

— Sì. — rispose lei sorridendo.

— Ed è là il ballo?

— Come disposto da vostro zio!

I denti di Evee luccicavano candidi, ma Ignazio riusciva a pensare soltanto alle parole del colonnello.

— Immagino debba versare la tassa di successione. — accennò disinvolto.

— Non serve, vostro zio sistemò la cosa facendo testamento.

— Davvero? Non c'è altro da saldare?

Evee strinse le labbra.

— Volete pagarmi per forza, devo forse offendermi?

— Che? No! Non intendevo…

— Allora smettetela e rilassatevi. Vostro zio vorrebbe così.


Più Ignazio si avvicinava al casolare e meno gli sembrava abitabile. Il tetto era crollato e dalle finestre rotte sporgevano tronchi e rami intrecciati da corde. Qua e là, dove le pareti erano crollate, si era rimediato con fango e sassi. Dove le tegole erano cadute, era ammassata la paglia. Eppure, dalle finestre del pian terreno baluginavano luci e nell'aria vibravano la musica dei violini e il canto delle fanciulle.

Evee gli prese la mano e assieme varcarono la soglia.

Nell'altissimo colonnato dei pilastri spogli si impigliavano brandelli di pavimenti e dai monconi dei corridoi penzolavano le poche scale ancora integre. In alto si affacciava la luna, tra le candele in basso danzavano le maschere.


L'aria frullò.

Il mantello di Evee era caduto lasciando Ignazio senza fiato.

Tra salotti privati e bordelli di donne ne aveva viste molte e negli atteggiamenti più scomposti.

Ma lei… Lei era diversa.

Dai bordi della maschera appuntita spuntavano ciuffi di piume nere. I capelli corvini erano acconciati a caschetto, ma due lunghe ciocche pendevano sulla schiena scalando in una V capovolta. Una mantella di piume lucide le copriva le spalle, ma da là in poi non la vestiva che il plenilunio.

— Oh, è quel genere di festa…

Lei lo zittì stringendogli la mano e tirandola lo invitò ad avanzare.


Gli uomini erano pochi e con maschere rosse, ma ovunque posasse lo sguardo vedeva donne vestite di piume con maschere nere dal naso aguzzo. Giovani, mature, qualche vecchia, perfino una o due adolescenti.

Nessuna era nuda quanto Evee. Tutte, intonando un'aria melodiosa e sognante, volteggiavano attorno al recinto di fango e paglia che occupava il centro della rovina. Una distesa di ciottoli scuri poco più grandi di un pugno lo colmava. In mezzo stava disteso un tipo grassoccio. Nessun fuoco lo illuminava. Bastava la notte.

Evee vi salì con un saltello, poi divaricò le gambe e raddrizzò la schiena lasciando che la V dei suoi capelli ricadesse nell'aria senza vento. L'uomo sotto di lei non batté ciglio.


Il canto si sopì.


—Sorelle, — intonò gioiosa — fratelli e compagni di schiusa!


Ignazio sentì il bisogno di allontanarsi, ma le danze, stringendosi sul nido, lo intrappolavano.


Siam qui riuniti in questa notte di plenilunio —, continuò lei, — per realizzare le ultime volontà del nostro dipartito genesiarca Gale, che ebbe il privilegio di svilupparsi nel siero vermiglio schiudendosi uomo e fertile. A lui noi tutti volgiamo un saluto.

Le donne guardarono il cielo e mentre le loro gole tremolavano gonfie, esalarono un cinguettio sommesso ma dolce. Subito un pigolare simile, ma più sottile gli fece eco dagli anfratti del rudere. Centinaia di rondini stavano piangendo.

Ignazio inorridì. Ora che la Luna era alta, ogni sasso si rivelava pieno di un liquido bluastro e in ciascuno un omuncolo acerbo si dimenava. Peggio ancora di quel muto esultare di embrioni, era il viso terreo di Gale Irundeen che nudo e morto lo scrutava da quel nido maledetto. Poco più su, Evee euforica invitava la folla ad accalcarsi.

Ignazio sentì i festanti stringersi su di lui ma, sopraffatto dallo stupore e dal panico, si lasciò spingere tra le uova brulicanti.

— Cos… cosa c'entro io? Lasciatemi in pace! — strillò.


—Gale generò molto —, spiegò Evee afferrandosi la maschera — e dal suo seme germogliò una gemma rara. Non pura, ma testimone di ciò che le Rondini Primeve abbandonandoci ci donarono. Tale era tua madre, — con un tonfo secco la maschera cadde al suolo — tale sono io.

Ignazio strillò.

Il volto di Evee era attraente, sensuale, irresistibile. Eppure un particolare lo rendeva ripugnante, grottesco, sbagliato.

Il naso!

Dove gli zigomi si stringevano una struttura rigida sbucava dalla pelle.

Un aguzzo becco d'alabastro sporgeva laddove il setto sarebbe cominciato.

— Mostro! Come osi paragonarti a mia madre! Lei è sana e ben formata!

— Davvero? — domandò melliflua — Vivete sulle coste di Meridia, no? Scommetto che in mare non s'immerge mai oltre le spalle.

— Ha il terrore di annegare!

— Mh… e come mai d'inverno non siede mai ai lati del caminetto?

— Il calore le porta la febbre! Ma, insomma, ci spiate!

— Assolutamente no! È solo che io faccio lo stesso. Il cerone si crepa, il trucco cade. Nel nido un becco porta prestigio, ma il mondo non ricorda i Primi Giorni. Là fuori non siamo che mostri.

— Non includetemi!

— Suvvia, notaste voi stesso l'affinità. Vedete le rondini sorridere, no? — sotto il becco di Evee luccicava un sorriso perfido.

Il sorriso di una rondine.


Che il banchetto inizi! — annunciò lei.

I colli delle presenti si gonfiarono, ma anziché un canto melodioso, ne uscì un gracchiare sordo e cupo. Il subdolo garrito che Ignazio detestava da sempre. Lo stesso orrido verso che a sua madre, sgridandolo, sfuggiva.


Beccherò per prima!

La testa di Evee piombò giù, il suo becco sprofondò nel torace di Gale Irundeen e ne emerse pregno di sangue. Sulla punta era infilzato un brandello e appena lo spinse attraverso la membrana di una delle uova, l'embrione gioioso cominciò a nutrirsene.

— Era vivo? — strillò Ignazio — Mio zio era vivo!

Cercò di dimenarsi, ma molte braccia lo trattennero.

Mentre le altre imitavano il suo gesto con le maschere, Evee strisciò su di lui.

— Ti sembro un'assassina? No… Gale era morto, ma al suo ultimo gemito, ho implorato la Fulgida Notte di avvilupparlo e preservarlo per noi. Perché si spegnesse laddove fu deposto.

— È stregoneria!

— No, lasciate i Maligni e i loro patti all'Inferno. Negromanzia se mai, ma giusto un tocco. In fondo, noi Rondini non ne siamo forse un simbolo? La vita e la rinascita che si rincorrono in eterno. Torniamo a generare dove nascemmo, a morire dove morirono.

Evee si distese su di lui. Mentre le sue mani soffici gli sbottonavano la camicia, dalla stoffa dei calzoni trapelava il suo tepore.

Era un mostro, eppure i suoi occhi lo ammaliavano e il suo corpo macchiato di sangue accendeva istinti che nessun'altra mai gli aveva suscitato.

— Non vergognatevi, non avete mai giaciuto con qualcuno della nostra razza, è normale che mi desideriate! È un ciclo, Ignazio. L'uovo vermiglio si schiuse a Trigilda, ma è qui che tua madre lo depose.

— Uovo vermiglio? — ansimò impanicato.

— Vedi le altre? Sono Rondini, ma troppo lontane dal ceppo primevo e i loro compagni… gente comune. Le loro uova sono scure, non schiuderanno che femmine come loro. In noi, invece, scorre il sangue puro dei genesiarchi!

— Non… Non capisco. — sussurrò lui sentendosi mancare.

C'era qualcosa nell'aria, o forse nella luce della luna, o nel profumo inebriate del mostro la cui carne bramava più di ogni altra cosa.

Il becco macchiato di sangue gli si posò tra gli occhi.

— Non devi, — sussurrò lei — siamo animali. Da qui in poi basterà l'istinto… e la notte.

Un calore avvolgente gli assalì i sensi più dolci.

Ogni luce si spense.

Al panico si sostituì la foga.

L'appagamento.

La pace.


III

— Colonnello, a che pensate? — domandò la signora Hutson stringendo le sue carte.

Era una giornata buona di inizio autunno e sotto la pergola ancora si stava bene.

— Niente. Ho visto una rondine e mi è tornato in mente quel giovanotto, Crepazi. S'è più fatto vivo?

— Ah, che tipo… Sono stata due giorni interi senza vederlo.

— Due! Avete avvisato i gendarmi?

— Ma no, il bagaglio era in camera. Poi, mi aveva pagato la caparra.

Il colonnello sbuffò concedendo la presa.

— Intendevo, se gli fosse successo qualcosa? Dovremmo cercarlo.

— Colonnello! Sempre in cerca di una missione, eh? Godetevi la pensione, per gli dèi! Comunque, all'alba è tornato, ha preso le sue cose e ha saldato. Aveva fretta, diceva di doversi imbarcare per il Continente.

— Sul serio? E l'eredità?

— Gliel'ho chiesto, ma ha fatto spallucce.

— Lo dicevo che era una sòla! — esclamò sorridendo sotto i baffoni.

— Buffo però… Ad aspettarlo c'erano una carrozza e una ragazza.

— Una ragazza? Carina?

— Forse, ma aveva un ché di disturbante. Pensate che portava in grembo un cestino e dentro, avvolto tra le coperte, credo ci tenesse un uovo.

— Un uovo?

— Non sono sicura. Quando ho sbirciato mi ha lanciato un'occhiataccia… Però sembrava proprio un uovo col guscio rosso. Bestie che le fanno così non ne conosco.

— Chissà… So che i bracconieri ci tirano su bei gruzzoli da certe uova rare. Ma insomma, chi è?

— Boh! Non l'ho mai vista prima a Moorville. Una così l'avrei sicuramente notata. Contate che è da quando m'ha guardato storto che non riesco a togliermi dalla testa il suo modo inquietante di sorridere.

— Perché, come sorride?

La signora Hutson posò le carte sul tavolo e sospirò enigmatica.

— Come una rondine.


(fine)



up Torna su

Marcello Rizza


Nocturnalia


Le Ossa sono il sacro lascito che dimostra come, prima dell'Uomo, il Lupus Mimesis avesse sviluppato competenze superiori: organizzazione sociale, comunicazione complessa, spiritualità. Imparò a imitare tutte le specie che intendeva avvicinare per guadagnarne la fiducia e sfamarsene, compresa una particolare scimmia. Scelse infine di perfezionare la capacità di mimesi per nascondersi dalla stessa scimmia che diventava intelligente e superpredatrice. La stessa straordinaria arena in cui cacciavano le due specie consentiva al Sapiens una sorprendente varietà di mosse, e sebbene il Mimesis fosse più evoluto, e con la singolare capacità di mutazione, il Sapiens avrebbe fatto del rivale ciò che ha fatto ai Neanderthal, ai Soloensis e ai Denisova.


Kovacs Adam (Feroce Sacerdote pro tempore) — Ermeneutica delle ossa. 1928


Sei qui, lo sento. Sei nascosta da giorni in questa enorme villa dove mi hanno confinato. E mi osservi. E mi ascolti. Mi ascolti e non rispondi. Ti provoco e… niente. Mi studi. Stai aspettando il Nocturnalia.


— Iva, vieni fuori... sono sette anni che ti aspetto. Mi sono anche agghindato, con classe. Non nasconderti: giochiamo alla guerra. Iva!


C'è che quando mi monta la rabbia ti cerco. Con la sicumera che mi è possibile ti chiamo e sono parole a vuoto. Come siamo diversi Iva. I pochi e rozzi umani che mi conoscono, e ai quali non posso mostrarmi nelle vesti di Feroce Sacerdote, mi definiscono dandy. È una descrizione che mi racconta, che mi lusinga, che a te non appartiene. La figura ottocentesca alla Wilde spetta a chi ama cogliere la nota stonata nell'atteggiamento bohémien, nel polsino consumato coi gemelli in oro, nel bottone saltato alla camicia di raso o in una cultura e filosofia non sorretta dalla conoscenza. E tu sei tutta una nota stonata, sorella e sposa. Hai scelto di essere una selvaggia.


Quelle persone, che pensano di conoscermi, si spingerebbero oltre se mi vedessero col monocolo a bulinare ossa o nell'intimità della metamorfosi. La mia classe nei movimenti felpati le spaventerebbe, userebbero altri modelli per definirmi, certamente non dandy. È nella fase della trasformazione, quando ancora sono nelle sembianze antropiche e già si forma il lupo, che mi piaccio, che raggiungo la bellezza allo stato dell'arte.


Come ora, nudo con un lungo foulard rosa che scende fino al pube e parzialmente copre la peluria folta che arriva fino all'ombelico e mi marchia come diverso e perfetto. So che mi stai osservando, e allora chiudo gli occhi e mi tocco a darmi piacere fino a che sono in tempo, perché tra poco con le zampe sarà impossibile, perché tra poco sarà guerra. Mi tocco e ti sogno, ti sogno e ti desidero, ti desidero e mi amo, mi amo e nell'apoteosi ti dedico il seme e l'entusiasmo animale mentre il capolavoro del mio corpo straordinario muta. Già vedo accorciarsi la fronte e pronunciarsi a muso l'ossatura della mandibola e del naso. Sono bello, bellissimo, c'è luce e febbre nei miei occhi.


— Iva: Vieni fuori! Ti svelerò il segreto delle ossa, l'hai sempre desiderato.


Ho studiato a fondo le ossa oracolari, sorella e sposa, e nessuna vaticina una situazione come questa. Sto per affrontarti da pari, qui nella mia arena. Certo, dovevamo essere facce da copertina, con il nostro destino già scritto nelle consuetudini. E invece siamo speciali, come non avremmo dovuto essere, tu per essere assassina e io perché non posso morire. Ed eccoci al dunque. Le esche sono pronte, non sanno di esserlo e pensano di poterti sfidare. Le ho disposte in ogni stanza che accede alla sala da ballo.


Quante cose che non conosci. Ti chiedevi il perché ti fossero vietati alcuni insegnamenti di storia e religione, il motivo per cui le femmine ricevono un'istruzione parziale. Sei sempre stata una contestatrice, una testa calda. Ricordo bene quando Padre m'istruiva per diventare la guida spirituale della nostra specie, per prendere il suo posto. Mi portava nel laboratorio e mi faceva esercitare su ossa di canis lupus, e quando consumavo lame di selce per incidervi la nostra storia, erano morsi feroci quelli che subivo quando sbagliavo. Cosa ne sai tu?


— Padre, perché non usiamo la penna e la car…— e mi morsicava per insegnarmi a non bestemmiare.


— Lupo, avrai la responsabilità di preservare e tramandare la nostra storia. Si fa così da 100.000 anni e non sarai tu a cambiare ciò che è stabilito per legge


— Sorella! Ti sto aspettando: Che motivo c'è di attendere la mezzanotte per giocare?


Tu non le hai mai viste, sei una femmina, impura. Ti sei sempre chiesta cosa riportassero le lunghe ossa oracolari. In quelle è trascritta la storia privata e sconosciuta dei licantropi, anche se ciò che è raccontato va interpretato, come i tarocchi per gli incivili. Se tu fossi in grado di tenere tra le zampe un libro ti mostrerei lo studio che ho scritto l'anno scorso su quei fossili.


"Sarà fortunato il bambino-lupo che nascerà nel Nocturnalia?", così è inciso nell'antica lingua sopra una di queste arcaiche ossa.


Quando nascemmo, deludemmo il migliaio di sopravvissuti della nostra specie. Ogni sette anni si riunivano tutti sotto la rupe magiara per celebrare il Nocturnalia, per accogliere i nuovi membri della comunità. Noi, adorata sorella, ostile sposa e implacabile nemica, non fummo bambini-lupo fortunati. Ne converrai, quel parto fu una sventura.


— Sei una portatrice di disgrazia, sposa mia. Però hai delle zampe stupende.


Niente da fare: non rispondi. La buona sorte quella notte scelse altre rupi, lontane dalla patria, dai nascosti e privati luoghi di caccia nella foresta di Nagykovacsi. Ti è stato nascosto che siamo venuti alla luce otto ore dopo, quando già albeggiava, quando la luna piena era un sbiadito ricordo. Un segno infausto. E siamo nati gemelli, come mai era accaduto prima. Ma poi cos'è la fortuna, se non un mito? Ciò che accadde è dovuto alla superstizione della linea di sangue, alla paura di morire e di estinguerci, angoscia che non dovremmo provare, ma suscitare.


Padre decise che saremmo stati amanti, oltre che fratelli, per sempre uniti nel "sacro" vincolo del matrimonio. Da subito ti diede il suffisso ungherese di appartenenza, quella costola fonetica scopiazzata dalla Genesi che sottomette la femmina. Io Kovacs Adam e tu Kovacs Adam-né Iva, la sposa di Adam, già dal nome soggiogata. Ma crescendo presi coscienza di te e compresi quanto la sorte mi favorì benevola: tu eri la più bella lupa mai vista prima dalla nostra specie.


E ora sono qui, nella Phillip Island, dall'altra parte del mondo. Sono l'unico abitante, la nostra razza ha dato fondo a tutti i propri averi per farmi "sparire", per proteggermi da te. Mi hanno confinato in questa splendida ed enorme villa costruita apposta per la loro guida spirituale. Ma che se ne faranno, poi, di un sacerdote così lontano da ciò che accade nella nostra comunità, impossibilitato a officiare sotto la rupe?


I contatti con gli umani sono ridotti al minimo, e quei pochi mi vedono di sfuggita una volta al mese, quando da Norfolk arrivano per mare i viveri e ciò che mi occorre. A volte i nostri simili mi fanno avere anche il superfluo per farmi sopportare la dorata prigionia. Come la settimana scorsa, quando è sbarcata un'auto meravigliosa, esempio di tecnologia italiana.


— Beato te, nostra guida e Feroce Sacerdote. Si dice che raggiunga i 120 chilometri orari! — mi ha detto Abel quando l'ha sbarcata.


— Ti odio quando non mi parli.


No, non ti odio. È qualcos'altro.


Hanno organizzato un viaggio per portarmela che sarà costato quanto quel gioiello. Una Isotta Fraschini, in un'isola dove l'unico tratto percorribile su ruote misura 180 metri dal porticciolo all'ingresso della villa. Se solo avessero ricordato di portarmi il carburante… Ma è splendida e l'ho fatta mettere al centro della sala da ballo, illuminata da candelabri che scendono dal soffitto. E poi ho tutto ciò che mi occorre. Bulini in selce e le ossa dei nuovi morti, tele e pennelli per dipingere, le salsicce da annaffiare col Tokaji, abiti freschi di seta per affrontare il fastidioso caldo di queste latitudini straniere. E molto altro, col patto di restare nascosto per il resto della mia vita. O quasi.


Sei mesi prima del Nocturnalia, ogni sette anni, arrivava la delegazione a prendermi per portarmi da te, per concepire. Ora lo sai anche tu che il viaggio in mare dura due mesi, e in quei momenti non pensavo ad altro che alle tue zampe nervose e scure, lucide come il tuo sesso che propaga feromoni che sanno di bosco. E poi finalmente t'incontravo, e già da lontano il tuo odore mi procurava una perdurante erezione.


Ti possedevo, secondo le usanze della specie, innamorato e rancoroso; lupo e schiavo, per natura e indole, della mia idea fissa e assillante. Facevamo l'amore, o almeno, io lo facevo. Con il collare di ferro, le splendide zampe legate, il morso al muso, ti prendevo come volevo per tre giorni continui. E poi mi riportavano qui sull'isola, perché tu non individuassi il mio rifugio e io potessi rimanere al riparo dalla tua vendetta. Mi dicono che i licantropi nati da noi siano forti e in salute. Non li ho mai conosciuti e mi risulta che, al momento del parto, li abbiano nascosti alla tua vista per timore che li uccidessi, nell'impeto del tuo odio.


— Come stanno i nostri figli? Mi si dice che sei una madre amorevole.


Eppure, quando ancora nulla si era compiuto tra noi, ti opponesti al rito nuziale: come hai potuto? Ricordo ancora le tue empie parole.


— Non mi congiungerò mai con Adam, Padre. Mi sono innamorata di Farkas. Non m'importa delle tradizioni


Mancavano pochi mesi ai sette anni, maturi per sposarci e, per la prima volta, procreare in tempo per il Nocturnalia: non dovevi, maledizione! Non potevi. Non eravamo più bambini-lupo già da quattro anni, il mio membro fremeva, e attendevo da troppo tempo di possederti. Tormentato da una ossessione, eri mia per legge e volere famigliare. Mia perché ti amavo e mi umiliavi. Nei giorni successivi Farkas sparì, lo mandammo in Africa e a te dicemmo che si era trasferito in America.


— Sai, il tuo Farkas l'ho ucciso e col suo sangue ci ho fatto un dolce. Il migliore che abbia mai preparato.


Sorrido mentre mento. L'avrei ucciso volentieri, ma eravamo troppo pochi per permetterci di rinunciare a seme fertile dei nostri simili. Tu provasti a fuggire per raggiungerlo. Ti catturarono, ti incatenarono ai fermi della cella del castello, e al momento giusto, dopo una grottesca cerimonia nuziale, l'anello al collo anziché sull'anulare, davanti a Padre ti godetti in quanto mia proprietà. Poi ti liberarono.


Da quel giorno decidesti di restare per sempre lupa. Dell'umano, mantenesti solamente la parola.


Sapevi che non avrei resistito altri sette anni per averti, eri soltanto mia e l'odore del tuo sesso inquinava i miei sogni. Anch'io passavo più tempo di prima come lupo, e ti cercavo contro le regole, già futuro sacerdote al posto di Padre, già inosservante del nostro culto, della regola dei sette anni, ma riuscivi a farmi desistere. Mi vedevi voglioso, tormentato, febbrile di passione; con quella tua voce di cristallo, con quello sguardo inespressivo da animale, e gli occhi scintillanti d'odio, mi ripetevi "Quando vuoi".


Quelle due paroline continuano ad assillarmi, le ho anche incise in un osso che tengo in camera da letto, dentro una bacheca, sopra un cuscino di seta rossa. "Quando vuoi". Sapevo che era un'infida minaccia. Eppure un giorno usasti le stesse ambigue parole per attrarmi, ti avvicinasti lupa in calore, mi mostrasti le modellate terga e sentii forte quell'odore irresistibile di spezie, funghi e foglie macere. Guardasti verso la cella dove ci siamo "sposati", ammiccasti irresistibile e mi dicesti:


— Quando vuoi.


Mi occorrevano tre ore per trasformarmi lupo e attesi con una frenesia che non conoscevo ancora. Ma poi, lo sai bene infida belva, in quella segreta dove mi avevi invitato, venne rinvenuto il corpo senza vita di Padre, azzannato a morte, e poi ancora dilaniato quando già era andato. Non avrai certamente pensato che la nostra razza, e che io, potessimo perdonarti, vero? Non tanto per la morte in sé, per il parricidio, quanto per il "lupicidio" in una comunità sull'orlo dell'estinzione. L'avevi ucciso e sbranato nella sua forma umana, impedendo i suoi funerali in terra consacrata e il vaticinio sulle sue ossa. Lui, il nostro capo spirituale, il Feroce Sacerdote, così umiliato da te.


— Non me ne importa nulla di Padre. Ma tu puntavi a me, lo so. Illusa.


Padre mi ha morso troppe volte per poterlo ricordare con affetto.


L'anno scorso mi è arrivato un dispaccio, come in guerra. Eri riuscita a fuggire. Mi raccomandavano assoluta riservatezza, il minor contatto possibile con chiunque, mi ricordavano l'importanza della missione. Non doveva morire nessuno della nostra specie. Mi dissero che al prossimo Nocturnalia non avrei partecipato, convinti che tu avresti approfittato dell'evento per uccidermi. E invece sto partecipando, anche se non sotto la rupe magiara. Adam e Iva, stasera, dopo sette lunghissimi anni, così lontani dal luogo e dallo spirito della celebrazione. E sarà guerra, eccitante come fare l'amore.


Guardo il foulard rosa a terra, ormai inutile, la trasformazione è completata. Sono pronto. Non so come hai fatto a evadere. Ne sono certo, ti sei imbarcata clandestina sulla nave che trasportava la Isotta Fraschini. Quando tre giorni fa ho trovato Macchia sbranato e straziato ho subito riconosciuto il tuo stile. Mi sono infiammato, ho provato quel gran meraviglioso brivido che mescola passione e pericolo. Finalmente qui, con me, per sempre, qualsiasi cosa accada.


— Dove ti sei nascosta in questi giorni? Parlami!


Quest'isola è piccola, ho provato a cacciarti, ho annusato, ma sei abile a nasconderti, risoluta a rivelarti al Nocturnalia, alla mezzanotte. Mancano cinque minuti e ho spalancato tutte le porte e le finestre, ho ridotto l'illuminazione a sparute candele e ho ripreso le sembianze della nascita. Non ti deluderò, ho organizzato un piccolo comitato di benvenuto. Ho assoldato da Norfolk dieci uomini, discendenti degli ammutinati del Bounty, che ti stanno aspettando armati fino ai denti.


Li ucciderai tutti, non m'importa di loro. Infine mi raggiungerai. Già sento gli spari e l'odore di cordite, le urla delle esche umane che inutilmente ti affrontano. Ti stai avvicinando, lo sento. Mi acquatto dietro la Isotta Fraschini, piscio su una ruota perché voglio che tu senta forte il mio odore. Sono pronto a scattare veloce e micidiale. Spero di riuscire a ferirti, per catturarti, per costringerti a me. E finalmente possederti in ogni momento. Forse moriremo entrambi.


Ora c'è silenzio. Mi arriva l'odore di bosco prima della tua voce di cristallo.


— Ciao Kovacs Iva-né Adam. Ma quanto parli. Giochiamo qui o in camera da letto? Cominciamo?


Colgo il tuo insolente significato rivolto a Me, alla tua Guida Spirituale, a tuo Fratello, a tuo Marito, e prima di flettere i muscoli, con ferocia, con quelle parole che volevo dirti da tempo, ti accolgo:


— Quando vuoi.


(fine)



up Torna su

Fausto Scatoli


Poco prima dell'aurora


Repubblica di Vanuatu, 1980


Poco prima dell'aurora, Makal andò nel retro della capanna a recuperare il necessario. Lo sgabuzzino, come lo definiva lui stesso, non era molto ampio ma conteneva di tutto; ora però gli serviva solo la pagaia. Inutilizzata, come la canoa, dalla morte del gemello, avvenuta pochi mesi prima e ancora non elaborata del tutto.

Doveva assolutamente parlare con Awari per sfogarsi, cercare di capire.

Andò verso la spiaggia, tolse il telo che copriva la piccola imbarcazione e la trascinò in acqua. Si fermò a scrutare l'oceano e dopo un sospiro entrò nella canoa e diede alcuni colpi di pagaia.

Con fare lento si spinse verso il largo, fermandosi quando si accorse che, volgendo lo sguardo all'indietro, oltre alla sua Tanna si scorgevano Erromango e le isole accanto.


Il sole era sorto da poco e illuminava in maniera dolce l'orizzonte. Makal si guardò intorno e prese a emettere alcuni versi a distanza di pochi secondi.

Meno di un minuto dopo scorse una forma conosciuta avvicinarsi. Awari, di certo.

Il delfino si erse a fianco della canoa e parlò: — Era ora ti facessi vivo, ti aspetto da tempo.

Sul volto cupo del ragazzo apparve l'ombra di un sorriso: — Ho bisogno di te, Awari.

— Dimmi, Makal, farò tutto quel che posso, per te — passò sotto la barca ed emerse dall'altro lato.

Il giovane attese qualche istante prima di parlare, quasi stesse cercando le parole giuste.

— Ho sognato mio fratello Lekek.

— Che c'è di strano, si sognano spesso le persone care che non ci sono più.

— Continuo a sognarlo, Awari, quasi ogni notte ed è sempre lo stesso sogno. Mi sta torturando.

— Forse ti senti in colpa, per questo stai male. Ma non potevi fare nulla, non c'eri quando è successo.

— Appunto, avrei dovuto esserci e invece ero rimasto a casa. Dovevo andare con lui, sarebbe cambiato tutto.

— Può darsi — ribatté il delfino, — ma può anche darsi di no, non puoi saperlo.

Makal rimase un poco in silenzio, poi riprese: — È come se mi avessero strappato parte del corpo e dell'anima, è un dolore costante.

— Se ti lasci penetrare da questo dolore starai sempre peggio, ti divorerà. Prova invece a entrarci tu, diventane parte e tutto si acquieterà. Ci vuole tempo ma avviene.

— Grazie, Awari, ci proverò. Tornerò presto a trovarti.

— Ti aspetto — rispose il delfino, poi s'immerse dirigendosi dalla parte opposta.

Per qualche minuto si udì solo il rumore delle lievi onde. Il giovane cominciò a pagaiare verso l'isola, con calma.


Avvicinandosi a riva, Makal rivisse quel giorno per l'ennesima volta, come sempre senza filtri d'alcun genere ma con un carico d'angoscia pronto a debordare in ogni istante. Non si nascondeva nulla, e questo era un punto di forza e debolezza al contempo.


— Questo è un giorno eccezionale, fratello, siamo un paese indipendente. Liberi, senza più alcun giogo inglese o francese — disse Lekek, — andiamo a festeggiare a Isangel, di sicuro c'è baldoria.

Makal alzò il capo dalla branda volgendosi verso di lui. Occhi assonnati provarono a scrutarlo per poi richiudersi. — Uff… sempre a far baldoria, tu. Dobbiamo andare a pesca, ricordalo, stanotte. È la luna giusta.

— Ma è un'occasione unica, non arriverà un altro giorno simile…

— Oh sì, tra un anno esatto ci sarà la festa. E così ogni altro anno, vedrai.

— Certo, Makal, ma non sarà mai più così. Io vado, tu rimani pure — concluse avviandosi all'uscita.

— Lekek!

— Che c'è, vuoi venire? Ti aspetto.

— No, voglio sapere come ci vai. La barca potrebbe servirmi.

Un sorriso apparve sul volto del ragazzo: — Tranquillo, taglio attraverso il bosco e vado a piedi. Sono poche miglia. Ci vediamo stasera per la pesca.

— Stai attento, mi raccomando.

— Sì, sì…— rispose e uscì sghignazzando. Si fermò sul retro e aprì lo sgabuzzino cercando con gli occhi. E trovò. I suoi piedi erano abituati alla terra e al mare, ma un paio di scarpe in tela, da ginnastica, gli sarebbero state utili. Le calzò e partì.


Il sole era tramontato da un po' e si avvicinava l'ora in cui dovevano uscire per la pesca, ma di Lekek ancora non c'era traccia e cominciava a preoccuparsi sul serio. Anche se, in contemporanea, dentro di sé lo insultava definendolo un fannullone, uno che voleva sempre e solo divertirsi.

Barca e attrezzi erano ormai pronti, mancava solo suo fratello per completare l'opera.

Ma dov'era rimasto? O era davvero successo qualcosa? Il timore di un incidente gli era giunto alcune ore prima, quando si era sentito attraversare da un brivido, seguito da un dolore acuto svanito in pochi istanti.

La risposta giunse a breve, quando sentì chiamare il suo nome: — Makal… Makal…

Dal folto degli alberi uscirono alcune persone. Riconobbe i suoi vecchi concittadini di Isangel, ebbe un tuffo al cuore e non riuscì ad andare loro incontro. Rimase immobile, in attesa del dramma che, puntualmente, arrivò.

Una volta di fronte a lui, Warao, sciamano del villaggio, si inginocchiò e depositò ai suoi piedi le scarpe di Lekek, mezze rotte. Si rialzò e lo guardò in viso, un viso stravolto, di una persona incapace di parlare. Quasi di respirare, in quel momento.

— Sono stati i maiali selvatici. Probabilmente è caduto e lo hanno assalito, poi sono arrivati i ratti. È rimasto poco, di lui.

Voleva chiedere ma non uscivano parole, anche la lingua pareva paralizzata.

Warao comprese: — Lo ha trovato Suamin mentre rientrava, è lui che ci ha avvisati. Era poco lontano dal villaggio e se vuoi domattina andiamo insieme per l'ultimo saluto prima della pira.

Stordito, incredulo, sperduto, il ragazzo si avviò lentamente verso il mare e si sedette sul bagnasciuga, guardando l'orizzonte infinito.

Rimase così per qualche tempo e quando si alzò per tornare alla capanna vide che non c'era più nessuno. Prese le scarpe del fratello, le mise nello sgabuzzino ed entrò, lasciando finalmente scorrere le lacrime.


Giunto a riva, Makal tirò in secco la canoa e si diresse verso la capanna dove aveva vissuto col gemello gli ultimi cinque anni, dopo che avevano abbandonato il villaggio. Rimise la pagaia nello sgabuzzino e si accorse che qualcuno si stava avvicinando. C'erano voci soffuse e rumore di passi.

Guardò verso il sentiero che usciva dal boschetto e vide Lisin e la figlia Lalal che procedevano verso di lui. Non aveva voglia di vedere nessuno.

Le due donne sorridevano e, una volta di fronte a lui, l'ovvia domanda posta da Lisin fu: — Come stai, Makal?

Gli mancava pure la voglia di rispondere, di dialogare con altri esseri umani, ma si fece forza e scosse la testa: — Non bene, non bene.

— Ci vuole tempo, lo sai, e credo che sarebbe meglio per te venire al villaggio. Daren ha bisogno di una mano per mettere i tetti in lamiera alle capanne, saresti molto utile. E ti aiuterebbe a superare il trauma.

Il giovane la fissò senza rispondere e intervenne Lalal: — Saremmo felici di ospitarti, Makal, davvero felici.

Sapeva che la ragazza aveva un debole per lui, o forse per Lekek, visto che erano uguali, ma il gemello non c'era più, era rimasto solo. E non aveva voglia di niente. O quasi.

— Ci penserò — ribatté, — ma sapete che preferiamo… preferisco la natura. I tetti di lamiera arroventano l'interno, di giorno, non per niente uso ancora frasche e foglie.

La donna lo guardò con fare amorevole: — Lo so, e so che siete venuti qui anche per questo motivo, però ti consiglio di tentare. Male che vada te ne torni qua.

— Ci penserò — ripeté volgendo lo sguardo verso il mare, — ora, scusate, devo preparare gli attrezzi per la pesca di stasera. Salutatemi tutti, anche i miei genitori, se li vedete.

Un poco affranta, Lisin abbassò il capo e convenne che era ora di lasciarlo. Lo vedeva macerare nel dolore costante e le spiaceva, ma non poteva fare più di quanto tentato.

Makal s'incamminò verso la barca e si fermò nel sentire una mano toccargli il braccio.

Un tocco leggero, dolce. Gli ricordava… no, nessun ricordo.

— Ti aspetto, Makal, ti aspetto — gli disse Lalal lasciandolo.

Era un tocco d'amore.


— Prima di andarsene Lalal mi ha toccato il braccio e io ho avuto una sensazione strana e ho pensato a mio fratello.

— Quasi ogni cosa ti fa pensare a lui — ribatté Awari, — non so quanto sia positivo, questo.

— È vero, lo vedo ovunque, mi pare di sentirne la voce e quando lo sogno mi sorride e sembra chiamarmi. Devo andare da lui e so che tu mi ci puoi portare.

— Sei matto? Significa morire, sai? Nel regno di là si va solo in quel modo. Torna a casa e riposati, Makal.

Il giovane non rispose e prese a pagaiare verso riva.


— Non verrà, vero, madre?

Lisin scosse lentamente il capo e abbracciò la figlia baciandole il viso. Le loro lacrime si fusero. — No, Lalal, non verrà.


Che fosse rimasto fuori a pesca o avesse dormito nella capanna, si trovavano sempre alla medesima ora, ma ogni incontro con Awari si concludeva allo stesso modo: Makal diceva di voler andare dal fratello e chiedeva l'aiuto dell'amico delfino.

Che un giorno arrivò.

— Ho parlato con Alasi e…

— Il tuo maestro? — lo interruppe il ragazzo.

— Sì. Ha acconsentito a soddisfare il tuo desiderio, ma a una condizione: dovrai venire con me nel profondo. Te la senti?

Il tremito che percorse Makal era composto da tante emozioni eruttate all'improvviso da dentro. Si sporse dalla canoa e baciò il muso di Awari: — Sì, sì…


Il giorno dopo, poco prima dell'aurora, uscì dalla capanna e si recò allo sgabuzzino. Prese la pagaia e scrutò fino a quando vide le scarpe di Lekek. Le portò alla canoa, scese in acqua e pagaiò verso il largo.

Bastò un solo richiamo e Awari comparve. Non era solo.

— Awari…

— Makal, prima di portarti con me volevo presentarti la mia compagna, Eneni.

— Ciao Makal, Awari mi parla spesso di te. Sei certo di ciò che vuoi?

Bastò un cenno del capo in assenso.

— Allora scendi in acqua e aggrappati a me — intervenne Awari, — non sarà semplice ma neppure doloroso, visto che il desiderio viene dal cuore.

Il giovane prese le scarpe del fratello, si gettò in mare e disse: — Devo portargliele, le ha scordate qui.

I due delfini si guardarono un istante, poi emisero un verso simile a una risatina. Anche Makal sorrise: — Andiamo, mi sta aspettando.

Si aggrappò alla pinna di Awari che dolcemente s'inabissò.


Non seppe quanto tempo rimase sott'acqua, gli pareva di respirare normalmente. Forse erano passati pochi secondi, forse ore, quando vide una luce sul fondo dell'oceano.

Awari vi si diresse e Makal si accorse che dentro la luce c'era Lekek che, sorridente, gli tendeva le mani. Raggiunto Lekek, Makal si staccò dal delfino e porse le scarpe al fratello.

Questi le prese e lui venne invaso da dolore violento che subito si trasformò in gioia. Prima fu il buio e infine la luce avvolse entrambi, svanendo poco a poco.

— Ora siete di nuovo insieme e non temete, il vostro amore rimarrà segreto — disse Awari.

Con calma si allontanò, seguito da Eneni. Ora non aveva più un amico umano, doveva trovarne un altro.


Lisin e Lalal vagavano nei dintorni della capanna di Makal da un po', chiamando il suo nome senza risultato. La ragazza scorse una canoa che la marea stava spingendo verso riva.

— Mamma…

La donna le si avvicinò e la vide a sua volta. Capirono entrambe e il pianto venne spontaneo.


Nelle notti successive, Lalal sognò spesso un delfino che le diceva di volerle parlare, così una mattina si mise su quella che era stata la canoa di Makal e pagaiò verso il largo. Non era ancora l'aurora.


(fine)



up Torna su

Rugod79


Hey, Giuvà


"Mi ha lasciato... m'ha lasciato perché è na zoccola"

Giovanni 'o fetaciato percorreva lento via Toledo in direzione Piazza del Plebiscito indifferente alla frenesia che la partita Italia-Inghilterra, finale degli Europei 2021, suscitava nella gente tutta raccolta attorno agli schermi;

e poi credetemi, non l'aveva lasciato perché era una zoccola.

"No, no, m'ha lasciato perché so brutto"

Già questo era più probabile: Giovanni non era proprio Brad Pitt, forse gli avrebbe somigliato solo se l'attore avesse avuto un incidente di macchina mortale e fosse poi caduto in una vasca d'acido.

Aveva i capelli biondiccio paglia sporca, radi e finissimi, occhi piccoli e naso adunco ed era chiamato '"o fetaciato" a causa dell'alito pestilenziale dovuto a una cattiva igiene orale e a una naturale predisposizione alla carie.

Giunse lento, strisciando i piedi sul basalto della strada, nel momento in cui l'Inghilterra si portò in vantaggio, a una famosa gelateria, dove prese un cono piccolo fragola e limone (era comunque luglio, faceva caldo, non giudicatelo per i suoi gusti!) e si mise a mangiarlo continuando a rimuginare e a camminare.

"Sì, m'ha lasciato perché non so vestire!"

Be', effettivamente uscire in ciabatte, con una canotta bianca della salute e un pantaloncino lercio non era proprio da modello D&G e condire il tutto con un impermeabile grigio da ispettore Clousoe non aiutava di certo, ma non era questo il motivo vero della loro rottura;

in realtà Giovanni con questa ragazza non c'era mai stato! Manuela era una ragazza neo assunta in una banca di via Verdi, nella quale il nostro Giovanni era guardia giurata. Dopo qualche giorno, Manuela era uscita a fumare una sigaretta e i due avevano preso a parlare di tempo, europei, vacanze, vaccini, covidsperiamofiniscapresto, poi la ragazza l'aveva invitato a prendere un panino lì vicino.

"Te volevo bene, Manuè"

diceva con gli occhi piccoli gonfi di lacrime Giovanni, mentre ormai aveva raggiunto la grande piazza con i re di Napoli che restavano impotenti a prendersi pallonate dai ragazzini.

"..E tu ne volevi a me".

Macché, quella Maniela era pure fidanzata!

Giovanni, come molte persone sole, aveva scambiato gentilezza con interesse, tutto qui, un errore comune; inoltre, rimanga fra noi, come poteva una ragazza come Manuela, bella, con occhi grandi e capelli ricci biondi e un sorriso che avrebbe fatto intenerire pure Satana, mettersi con Giovanni 'o fetaciato?

Quando Giovanni giunse al mare, il boato della gente annunciò il pareggio dell'Italia, ma a lui non importò. Gli squillò il cellulare, era sua madre.

"Dove stai?"

"Sto camminando, mammà "

"Mica stai chiamando un'altra volta a quella, a mamma? Non capisci che nun te vò?"

"No, mammà non sto chiamando, sto vedendo la partita"

"Io ti voglio bene Giuvà, nisciuno te vò bene comme mamma tua"

"Lo so"

E chiuse la chiamata. Sul display apparve l'elenco delle chiamate senza risposta

Manuela (19).

Non si era ancora tolto il vizio, il nostro eroe.

Sì, perché poi, dopo quel famoso panino in pausa pranzo, lei, incautamente, gli aveva dato il suo numero. Giovanni, da quel giorno, aveva chiamato tutti i giorni per due settimane chiedendo invano di rivedersi. Aveva passato due settimane a fantasticare:

"la porto allo zoo, all'acquario, le darò un bacio a Margellina sotto la luna come nelle canzoni!, la porto a mangiare fuori, poi al mare a Mappatella"

Sì, come no, al massimo le seghe si poteva fare Giovanni e tutto ciò durò finché Manuela, preoccupata, non mandò avanti Arturo, il suo ragazzo, alto e ben messo, moro e con alito profumato, che lo aspettò fuori casa. Appena Giovanni, in divisa da guardia giurata, uscì per andare a lavoro, fu intercettato e riempito di botte. Arturo gli ruppe il naso adunco e due costole.

"Cosi la finisci di scassare il cazzo! La finisci o devo romperti pure la testa, omm e merda!"

"Sì, giuro, la finisco!"

Che promesse da marinaio che fece il povero Giovanni 'o fetaciato che due giorni dopo riprese a chiamare. Pure sul lavoro si metteva fuori dalla banca, ma sempre in linea visiva con la postazione di Manuela per non perderla di vista

"Ti amo"

le diceva sempre, scandendo il labiale affinché lei lo vedesse e capisse, finché, per questa questione non fu pure licenziato.

Non biasimate i suoi capi, la situazione s'era fatta insostenibile sul serio.

Tornando a noi, Giovanni continuava a camminare, lento e strisciando i piedi, ma inesorabile come la sfiga di essere nato così, fino agli hotel del lungomare, fino al castello. Si fermò qui per parecchio tempo, finché non cominciarono i rigori.

"Ma perché io non posso avere l'amore? Perché non posso baciare una ragazza? "

Era una domanda troppo difficile a cui rispondere, manco il saggio dei più saggi potrebbe rispondere a sta domanda. Lui così riprese a camminare lento finché arrivò ai ristoranti belli, quelli rivolti al mare, quelli dove lui l'avrebbe portata. Qui un gruppo di ragazzi stava guardando gli ultimi rigori ed esplose di gioia alla parata di Donnarumma. L'Italia era campione d'Europa dopo più di sessant'anni! Tutti esultavano, un ragazzo con gli occhiali, una ragazza grassoccia, un ragazzo ben messo dall'alto profumato e una ragazza con occhi stupendi e i capelli ricci con una bandiera dipinta sulla guancia e un sorriso che inteneriva Satana che però si spense quando lo vide. Occhi negli occhi, Giovanni 'o fetaciato sorrise dolce e disse:

'ti amo"

stavolta ad alta voce perché lei sentisse e mise una mano nell' impermeabile tirando fuori una 9:21 con matricola abrasa.

"Ma sei una zoccola"

poi puntò al seno e fece fuoco. "BANG"

Manuela cadde come un sacco in terra, fece un rantolo, ebbe un sussulto, ma non perse la sua bellezza mentre la morte la veniva a prendere; attorno fu il panico, molti fuggirono mischiandosi alla folla festante e indifferente, altri si gettarono verso di lui con rabbia.

Giovanni chiuse gli occhi e fece entrare l'aria salmastra nelle narici.

Allargò le braccia come Gesù Cristo e fece cadere la pistola e attese a occhi chiusi e sognanti le botte della folla e le sirene della polizia


(fine)



up Torna su

Namio Intile


Procol Harum


La luce penetrò nella feritoia della Procol Harum e dilagò all'interno tingendo l'abitacolo di una tonalità opalescente di celeste.

— Dove diavolo siamo finiti? Domandò Keith Reid preoccupato, e provò a consultare la strumentazione che aveva intorno.

— Raggi Gamma! — Urlò Jezahel mentre le sue dita sottili danzavano sui pannelli del Progrock.

— Voglio sapere ora dove siamo — la incalzò Keith con nervosa insistenza.

— Un orizzonte degli eventi… — mormorò Jethro Tull sconvolto.

Da quando erano state ritrovate, sepolte negli oceani ghiacciati di Fleetwood Mac, microscopica luna di Urano, le sonde ELP, come le Sirene che avevano rapito Nettuno, erano servite agli esseri umani per viaggiare nella galassia,

Nessuno sapeva spiegare come potessero funzionare, però funzionavano. Si attivavano in modo automatico quando i tre sedili erano occupati contemporaneamente, nel modo in cui erano state programmate forse un eone prima dalla razza sconosciuta che le aveva progettate: la PFM.

E non c'era modo di ingannarle, né più né meno che impressioni di settembre, loro partivano quando i tre membri dell'equipaggio avevano preso posto.

I fisici discutevano di brane, di multiversi, di worm holes, di delirium, arzigogolate teorie che erano tentativi di spiegare razionalmente la comunicazione e la coesistenza di diverse dimensioni dello spazio-tempo in un solo tempo e in un solo spazio; ma nessuno poteva con certezza affermare come le sonde ELP si muovessero, né perché.

— Non ci siamo ancora dentro —  sussurrò Jezahel, che diventò d'una tonalità più bianca del pallido, e alimentò la speranza dei suoi compagni di viaggio.

— Attiviamo il programma di fuga della capsula di discesa — suggerì Jethro Tull, con la voce d'un flauto dolce, e roteò gli occhi in cerca dell'approvazione dei compagni.

— Se abbandoniamo la nave madre perderemo la sicurezza di ritornare alla base Led Zeppelin — obiettò Jezahel. — E moriremo comunque.

— Ti sbagli. Le statistiche della Corporazione Clash indicano una piccola percentuale di attivazione del programma di ritorno anche nella capsula di discesa… In caso di imprevisti non pronosticabili le direttive della Corporazione consigliano di abbandonare la nave madre e di rifugiarsi in quella sussidiaria — la contraddisse Jethro Tull, nel disperato tentativo di offrire una percentuale accettabile di rischio ai suoi compagni e a sé stesso.

— Quali sono le reali probabilità di tornare se lasciamo la nave madre? — Chiese Keith Reid.

— Due per cento — replicò Jezahel, stordita e confusa.

— E se rimanessimo?

— Se la nave madre non rientra tra dieci minuti le possibilità di sopravvivenza sono pari a zero.

Il viaggio delle sonde ELP era imprevedibile nella destinazione oltre che nella durata. Nonostante ciò, nel corso di parecchie decadi, erano partite migliaia di missioni. All'inizio erano andati via i migliori e con le migliori intenzioni, ma col tempo gli equipaggi erano stati selezionati con criteri sempre meno rigorosi.

Infine, trascorso quasi un secolo da quella prima partenza, agli Eroi dei primi viaggi si erano sostituiti dei semplici avventurieri in cerca di ricchezza e fama a qualsiasi costo in un punto qualsiasi della galassia. I rischi per chi partiva erano enormi perché i viaggi potevano terminare nei pressi di una stella trasformatasi in gigante rossa, o in un campo di detriti, o disintegrarsi dentro un corpo celeste qualsiasi. O qualcosa poteva andar storto nella discesa su di un pianeta o in mille e mille altre eventualità. Non era insolito neanche che la nave madre ripartisse troppo presto abbandonando la sonda di discesa e il suo equipaggio. Molti uomini e donne avevano fatto quella fine e una nave fantasma era ritornata a Led Zeppelin vuota. Di contro poteva capitare di riportare sulla Terra inimmaginabili tesori scientifici e tecnologici in modo da risolvere per sempre la situazione economica propria e dei propri discendenti.

Ma mai era capitato di riaffiorare nei pressi di un buco nero.

— Quanto tempo ancora ci rimane? — Keith interrogò Jezahel.

— Cinque minuti, poi l'orizzonte degli eventi ci attrarrà in modo irreversibile e non avremo altra speranza che la discesa nelle sue viscere.

— Allora aspetteremo l'ultimo istante prima di rifugiarci nella capsula di discesa e di sganciarla dalla nave madre. Ridurremo così i rischi al minimo: forse la razza PFM conosceva già il Buco Nero e la nave tornerà di sicuro indietro all'ultimo momento. Tenetevi pronti! — Ordinò Keith Reid.

La donna si alzò dal suo posto e si arrampicò sulla scaletta che conduceva all'unità gemella.

— Manca un minuto —  mormorò Jezahel mentre Jethro Tull prendeva posto accanto a lei. — Ti aspettiamo, Keith.

— Solo un attimo, finisco di raccogliere questi dati sull'orizzonte degli eventi. Varranno pure qualcosa per qualcuno queste informazioni e noi siamo qui unicamente per il denaro.

— Il denaro non vale la tua vita — lo supplicò Jezahel.

Il denaro purtroppo è il prezzo della vita di tutti noi, balenò in un lampo a Keith.

E Jezahel aveva appena terminato quella frase quando la nave madre si separò dalla capsula di discesa.

— Keith — urlò Jezahel. — Keith — gridò con quanto fiato aveva in corpo, mentre la capsula sussidiaria con lei dentro veniva catapultata nell'orizzonte degli eventi.

Il consiglio direttivo della Corporazione Clash lo interrogò a lungo. In quasi dieci decadi di viaggi non era mai accaduto che una nave ELP si fermasse nei pressi di un orizzonte degli eventi. E mai era accaduto che la capsula di discesa si separasse automaticamente dalla nave madre e fosse impiegata come una sonda a perdere. Il consiglio pertanto arrivò alla conclusione che se l'equipaggio fosse rimasto all'interno della nave madre si sarebbe salvato ed emanò le opportune linee guida per il futuro. Nessuna colpa venne addebitata all'unico superstite.

Keith Reid tornò alla sua vita che visse agiatamente grazie al copyright sui dati dell'orizzonte degli eventi. Non partecipò ad alcuna altra missione lotteria con le navi ELP. Perché in fondo quelle sonde rappresentavano proprio questo: una lotteria, con la vita come posta e la ricchezza come palio.

Negli anni seguenti gli capitò spesso di riguardare le registrazioni di quel lungo momento, del momento del distacco delle due navi, e sentì mille, centomila, un milione di volte l'urlo di Jezahel che pronunziava il suo nome mentre gli tendeva le braccia in un ultimo infinito abbraccio.

— Babe, I'm gonna leave you — mormorò, mentre un filo di lacrime gli solcavano le gote.

Keith visse a lungo dopo quel viaggio, ma Jezahel sarebbe vissuta in eterno e non sarebbe mai invecchiata. Sarebbe rimasta là, ai confini dell'orizzonte degli eventi, ad urlare terrorizzata il suo nome, cristallizzata in quell'infinito istante, in quell'addio doloroso che sarebbe durato quanto l'universo stesso.

E quando lui sarebbe morto da secoli, da millenni, da eoni, Jezahel, sua moglie, avrebbe continuato ad amarlo e a maledirlo, ferma in quel medesimo istante lungo quanto l'eternità.


(fine)



up Torna su

Alberto Marcolli


Incantesimo d'aprile


A Varese piove da giorni, senza tregua. I varesini sopportano a fatica i capricci della primavera e giurano che sono state le carovane del Luna Park a trasportare in città questa gelida pioggia d'aprile. Quell'accampamento rumoroso di ottovolanti, autoscontri e labirinti popolati da streghe e vampiri, che ogni anno approda al piazzale della fiera, sul lungolago della Schiranna.

Io non credo alle chiacchiere dei miei concittadini, ma di certo oggi non potrò andare al lavoro in bicicletta. Pazienza. Per una volta prenderò l'autobus, scordandomi che, fino a pochi mesi fa, abitavo in centro e per arrivarci mi sarebbe bastato deviare sotto i portici di Via Matteotti.

Purtroppo, dopo il fallimento del mio matrimonio, ho dovuto trasferirmi in un appartamentino di periferia, sperando di ripescare, nella bonaccia della solitudine, uno scampolo di fiducia nel mio prossimo, e con essa riconquistare la mia voglia di vivere.

Non salgo su un autobus dagli anni della scuola. Come allora lo trovo pieno all'inverosimile, ma non sono più allenata a districarmi nella confusione, tra persone indecise che si urtano imbarazzate, ombrelli fradici accostati incautamente alle gambe del malcapitato vicino, e la solita signora di una certa età che si fa largo, spingendo e sbraitando, tra mugugni infastiditi.

Alla fermata successiva si libera un posto e riesco a sedermi. Attraverso i vetri appannati osservo, disorientata, le facciate dei palazzi, le vie alberate, la marea di esseri umani pigiati sui marciapiedi, le automobili bloccate in lunghe code irrequiete… da qui la città appare distante, ovattata, irreale.

Mi riporta al presente una brusca frenata, seguita dal coro di protesta dei viaggiatori, e mi accorgo che il passeggero seduto di fronte a me è cambiato.

Mantiene lo sguardo abbassato, quasi volesse nascondersi agli occhi altrui. Avrà una quarantina d'anni, forse meno, è magro e piuttosto alto, a giudicare dalla lunghezza delle sue gambe. Ha un aspetto elegante. Indossa un paio di pantaloni neri e anche la camicia è di colore scuro, per il poco che intravedo sotto l'impermeabile beige. Porta i capelli corti, leggermente brizzolati sulle tempie. Il viso è abbronzato, ma, osservandolo meglio, si rivela turbato, sofferente, affaticato.

Sono imbarazzata. Malgrado ciò non so allontanare lo sguardo dai suoi lineamenti garbati. C'è qualcosa d'insolito in lui, lo percepisco. Forse tra persone infelici è più facile intendersi. La sua tranquillità esteriore sta lanciando un grido disperato d'aiuto che solo io riesco a cogliere, come se il suo mondo gli sia diventato all'improvviso estraneo, arido, incapace di distoglierlo dai suoi cupi pensieri.

Stringe nervosamente una valigetta di pelle bruna, e noto due anelli d'oro al suo anulare sinistro.

Alzo lo sguardo e incrocio il suo. Lo vedo affranto, impaurito, solo, rannicchiato in fondo a due grandi occhi verdi.


"Che grande amore dev'essere stato!" — mi sorprendo a pensare. Chissà com'era lei, com'era il suono della sua voce, il colore dei suoi occhi, l'allegria del suo sorriso, la dolcezza delle sue carezze… che dolore immenso dev'essere stato perderla, e com'è amara quella sensazione di vuoto assoluto che ti resta dentro, quando, in un baleno, il destino malvagio ti strappa dalle mani un amore, il tuo amore. A volte tutto accade in un lampo, e non si ha nemmeno il tempo di dirsi addio, di stringersi per un'ultima volta!


Piove ancora, sempre più forte. Per un breve momento sono distratta dall'agitarsi scomposto di alcuni passeggeri, e quando riprendo la mia posizione, l'uomo non è più seduto di fronte a me.

Lo cerco tra la gente in piedi, davanti all'uscita.

Lo vedo!

Ritrovo per un istante i suoi occhi verdi fissi nei miei, che mi regalano l'inaspettata dolcezza di un sorriso: un lampo che ha la forza di cambiarmi la vita!

Le porte si richiudono. L'autobus riparte e osservo la sua figura che lentamente scompare sotto la pioggia.

Resto lì, sola, con il cuore gonfio di malinconia, eppure so che la mia tristezza lentamente svanirà.


(fine)



up Torna su

Andr60


Sogni d'immunità


Era da diverse notti che non riusciva ad avere un sonno tranquillo, cosa strana per uno come lui che si addormentava come un sasso appena poggiata la testa sul cuscino.

Faceva anche strani sogni, spesso sconfinanti in incubi. Ad esempio, due settimane prima aveva sognato di fare colazione; tutto come sempre, la ciotola di latte, i cereali croccanti che lo riportavano all'infanzia... ma a un tratto, dentro la ciotola scorgeva delle cose che si muovevano. Quelle cose, subito dopo, diventavano riconoscibili: vermicelli, per l'esattezza larve di mosca, una roba proprio schifosa. Si era svegliato di soprassalto, tutto sudato e con lo stomaco sottosopra. Quel giorno aveva fatto un sacco di errori e i colleghi — lavorava in un grande magazzino, al settore vendite —  lo avevano ripreso più volte.

Un'altra volta aveva sognato di svegliarsi a causa della sensazione di bagnato nelle lenzuola: alzatosi dal letto e dopo averle rivoltate, aveva visto della macchie di sangue. Aveva tolto completamente sia lenzuola che coperta, per scoprire un grosso pitone raggomitolato in fondo al letto, con la testa fracassata. Anche allora si svegliò d'improvviso, senza riuscire ad addormentarsi più.

Preoccupato, andò dal suo medico il quale lo rassicurò: — Non si allarmi, ci sono periodi nei quali, a causa di fastidi, pensieri cupi, preoccupazioni lavorative o sentimentali, non si riesce ad avere un sonno ristoratore. Prenda questo farmaco per tre giorni e vedrà che le passa tutto.

Quella notte, effettivamente riuscì a dormire senza incubi, anche se il "sonno ristoratore" era decisamente un'altra cosa; purtroppo quel farmaco lo rimbambiva per tutto il giorno, e alla fine si alzava al mattino ancora più stanco di quando era andato a dormire la sera prima.

Decise così di tentare la sorte, e non prese l'ultima dose del sonnifero; il sogno-incubo che fece fu molto più strano di tutti quelli che aveva fatto fino a quel momento.

Sognò di essere in una prateria sferzata dal vento; il tempo volgeva al brutto, si sentivano tuoni in lontananza. Improvvisamente, cominciarono i fulmini, dapprima lontani poi sempre più vicini. Iniziò a correre, ma i lampi sembravano avercela con lui, e dovette correre a zig-zag per scansarli, finché uno non lo colpì alla schiena, facendolo crollare violentemente a terra.

Rimessosi in piedi, si toccò la fronte: sentì un buco, riusciva a infilarci il dito indice!

Il sogno era stato talmente vivido che si svegliò toccandosi subito la fronte: no, per fortuna era un falso allarme, nessun fulmine gli aveva fatto un terzo occhio…

Però, a quel punto era davvero preoccupato. E se il suo cervello stesse cercando di avvertirlo di qualcosa? Forse erano elaborazioni inconsce, informazioni che non affioravano alla mente vigile ma che rimanevano appena sotto la superficie, in attesa, pronte a tornare a galla appena i meccanismi di auto-difesa si allentavano nel sonno. Aveva letto anni prima Freud e Jung, sapeva delle loro teorie anche se non lo avevano mai convinto completamente. Su una cosa però concordava con quegli studiosi: la mente conscia era solo una minima parte della mente complessiva, frutto dell'interazione tra il cervello individuale e l'ambiente circostante.

Una sera, al bar, un amico lo invitò a giocare a ping pong; di malavoglia accettò, non particolarmente ansioso di fare brutta figura, come sempre. Sul punteggio a proprio favore di quattro a zero cominciò a rendersi conto che qualcosa non andava o, meglio, qualcosa stava andando troppo bene: la coordinazione mano-cervello era pressoché istantanea, i movimenti goffi si erano trasformati in elaborate evoluzioni. Era diventato un virtuoso della racchetta, e polverizzò il suo amico, che lo guardava allibito. Si radunò un gruppo intorno al tavolo, facendo il tifo per quel fenomeno che fino alla sera prima sembrava un tipo negato per quel gioco. Vinse per ventuno a due.

Tornò a casa ma non riuscì a dormire: aveva il cervello in ebollizione, mille pensieri si affollavano nella sua mente come delle bolle di vapore in una pentola d'acqua scaldata sul gas.

L'indomani finalmente si decise ad andare da un neurologo, senza sentire prima il parere del proprio medico.

— Avrebbe dovuto decidersi prima — gli disse, quando furono pronti gli esiti dei test.

— Che cos'ho, dottore? È grave?

Senza rispondere, il neurologo mise la lastra della TAC sullo schermo luminoso e disse: — La vede quella macchia grigia circolare, all'interno dell'encefalo?

Aguzzò la vista e rispose, con voce tremolante: — Sì, la vedo. È un tumore, vero?

— Sì, purtroppo; quello che non capisco è come ha fatto a non accorgersene prima, avrebbe dovuto avere dei sintomi, come nausee, giramenti di testa, cose del genere.

Gli raccontò dei sogni anzi, degli incubi di qualche tempo prima, e poi della inusitata trasformazione in un campione di tennis da tavolo.

— Capisco — disse il medico — è raro, ma può capitare che in qualche caso di tumore insorga una sindrome di Tourette secondaria; sui sogni, invece, è la prima volta che sento una cosa del genere. Forse il suo inconscio le stava suggerendo qualcosa, ma lei non l'ha ascoltato.

— Già, dev'essere così — ammise — e ora che si fa, dottore?

— Dobbiamo operare subito, sperando che il tumore non sia troppo esteso.

— E in caso contrario?

Dobbiamo sempre essere ottimisti — rispose il neurologo, senza troppa convinzione.


Si risvegliò senza avvertire alcun dolore. La sensazione di super motilità della sindrome di Tourette secondaria non era scomparsa: ciò bastò per suggerirgli che l'operazione era stata un insuccesso, anche prima che il neurochirurgo gli portasse la brutta notizia.

Venne dimesso dopo una settimana; erano stati tutti molto gentili, forse era doveroso per un condannato a morte. "Non più di tre mesi", aveva decretato il neurochirurgo.

Quella sera andò al bar deciso a sfidare tutti a ping pong: prima che la sindrome diventasse ingovernabile — preludio del coma — avrebbe stracciato chiunque. Il campione morente, lo avrebbero chiamato.


(fine)



up Torna su

OEBPS/images/image0005.png 



up Torna su

una produzione


www.BraviAutori.it


OEBPS/images/image0006.png 


Tra le varie cose, BraviAutori.it offre la possibilità agli autori* di pubblicare online e gratuitamente le proprie opere in qualsiasi formato (testi, immagini, audio e brevi video). Le opere pubblicate nel formato ODT, DOCX, DOC, PDF, ePUB, HTML e TXT saranno trasformate in pagine HTML e potranno essere udibili grazie a una voce sintetica che leggerà il testo. Questa funzione è molto utile per i non vedenti. Ogni autore può anche allestire una propria vetrina personale.

Nel nostro forum organizziamo concorsi letterari gratuiti che prevedono pubblicazioni in antologie cartacee o in ebook, e gare di scrittura creativa grazie alle quali i migliori elaborati saranno pubblicati nei nostri e-book liberamente scaricabili o antologie.

BraviAutori.it gestisce numerose statistiche indicizzate, recensioni alle opere online, schede libri che gli utenti possono pubblicare, relazioni tra opere mediante tag, un comodo segnalibro, un forum, una chat e una messaggistica privata.

Esiste poi un potente e versatile correttore di testi che, grazie alla ricerca delle ripetizioni, alla pulizia e alle analisi che può effettuare sui testi, vi cambierà la vita!

Ricordate: "Bravi" non significa solo "capaci di fare", ma è anche (e soprattutto) sinonimo di onesti e di coraggiosi. Siate bravi anche voi, uscite fieramente dal cassetto e misuratevi con il resto del mondo (e così magari dimostrerete che bravi nel farlo, nella prima accezione del termine, lo siete davvero).

L'iscrizione al portale BraviAutori.it è totalmente libera, gratuita e illimitata!

Ci piace anche evidenziare che questo è un sito Spot Free, ovvero durante tutta la navigazione non troverete mai né pubblicità esterne né banner né fastidiosi popup. Qui si fanno solo arte e letteratura!


Non indugiare oltre, » Vai alla pagina principale « (oppure fai il Login o Iscriviti)


(* senza distinzione di genere)



up Torna su

OEBPS/images/image0007.gif
Sostieni la nostra passione!


Se tutto ciò che ti offriamo gratuitamente ti è piaciuto e ti è stato di aiuto, puoi contribuire alla crescita con una donazione libera, oppure acquistando i nostri libri.

Con le donazioni si diventa automaticamente soci per 12 mesi dell'Associazione culturale BraviAutori. I soci dell'Associazione che si registrano nel sito, possono scaricare direttamente gli ebook completi delle nostre pubblicazioni su carta.


Per effettuare la donazione puoi scegliere uno dei seguenti metodi:


- puoi usare il link diretto per una donazione generica con  PayPal:


 www.paypal.me/braviautori;


- puoi cliccare su uno dei loghi "Donazione" e fare una ricarica sul conto online di PayPal;


- puoi fare un versamento sul conto corrente bancario


Iban: IT 07 C 03062 34210 0000 5002 3193

intestato a Massimo Baglione (titolare del conto dell'Associazione);


- oppure puoi ricaricare con il Send Money della tua banca verso l'email:


direzione@braviautori.it.


Vi ringraziamo sin da ora per la vostra generosità!




braviautori
lettore di documenti EPUB (Electronic publication) - powered by www.BraviAutori.it
Nota: se questo documento appare molto diverso dall'originale o con gravi errori di impaginazione, probabilmente l'originale conteneva troppe formattazioni del testo annidate una nell'altra. Ti invitiamo, in ogni caso, a segnalare questo problema per darci modo di risolverlo. Grazie.