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E
Regolamento delle Gare…
Giorgio Leone
Eliseo Palumbo
Andr60
Goliarda Rondone
Roberto Ballardini
Alessandro Mazzi
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presenta


La luce dell'Est

e gli altri racconti


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ebook della Gara stagionale d'Inverno 2019-2020


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Ebook della Gara letteraria stagionale d'Inverno 2019-20


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: trasporto all'alba - Esse.


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara saranno pubblicati in un  ebook gratuito e a ogni ciclo di stagioni pubblicheremo un'antologia annuale.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Giorgio Leone

(vincitore della Gara d'inverno, 2019/2020)


La luce dell'est


A quell'ora non c'era in giro nessuno e impiegai solo mezz'ora per arrivare alla riserva. Proprio per la sua vicinanza a Milano ne ero diventato socio, affrontando un costo annuale non indifferente. Tuttavia il lavoro non mi concedeva tregua e, da almeno un mese, non riuscivo a trovare il tempo per una sana giornata di pesca.

Ma quel giorno, che mi ero ritagliato con molta applicazione e alcune bugie, era tutto mio e l'avrei sfruttato sino all'ultimo minuto. Dall'alba al tramonto con la canna in mano, a pranzo un panino in barca, a cena in un'osteria con un bel brodo caldo e del bollito. A meno che il destino non avesse deciso diversamente, nel qual caso avrei cambiato in parte il programma. Fra poco l'avrei saputo.

Mi fermai a far colazione nell'unico bar del paese, dove lavorava la cameriera slava con la quale ero uscito alcune volte l'anno prima. Da qualche tempo mi era tornata una gran voglia di tenere ancora fra le braccia il suo corpo tenero e minuto, e gli amici mi avevano assicurato che stava ancora lì.

Invece dietro al banco c'era solo la coppia odiosa sulla sessantina che gestiva il locale. Quando domandai dove fosse Malinka, ebbero ambedue un moto di stizza.

— Ieri mattina sono salito in camera sua perché non si decideva a farsi vedere, — disse il marito — ma ho trovato solo i suoi quattro stracci.

— Proprio una grandissima stronza! — ribadì la moglie — Sparita senza darci neppure un minimo preavviso, così ora siamo nella merda!

L'accenno alla merda, mentre stavo bevendo il caffè, mi disturbò e uscii lasciandolo a metà. Nulla di grave, tanto faceva schifo. Era autunno e, dopo gli ultimi giorni di pioggia, c'era odore d'erba marcia e di funghi. Le foglie per terra erano bagnate e appiccicate l'una all'altra.

Arrivai in auto al cancello della riserva, lo aprii e percorsi la strada fangosa, lungo i campi di granturco spogli, sino al capanno dove mi cambiai e salii sulla mia barca ormeggiata al pontile.

Andai deciso contro corrente sino alla lanca che avevo in mente, dove buttai l'ancora.

Si tratta dell'unico luogo della riserva a essere raggiunto da una strada sterrata, che solo i guardiapesca e i dipendenti del Parco sono autorizzati a percorrere in auto. Proprio vicino alla spiaggia c'è un canneto, poi l'acqua diventa subito fonda. Il luogo ideale per i lucci, e infatti l'ultima volta che c'ero stato ne avevo perso uno da record.

Chi non c'è mai stato non può immaginare il fascino e la magia del Ticino in una giornata autunnale. La luce si diffonde morbida, mentre un sole quasi bianco sale lentamente a est. Sembra sparire e ricomparire nel cielo, nascondendosi come in un gioco di prestigio dietro ai veli sottili della foschia mattutina, fra i voli alti degli uccelli migratori. L'acqua morta della lanca guarda con invidia quella veloce della corrente, che senza sosta fugge verso il mare lisciando i ciottoli del fondo come gioielli. Nel cuore scende una gran pace venata di tristezza perché sul fiume, in questo periodo dell'anno, non può essere che così.

Indossate le cuffie, scelsi sul cellulare la musica giusta per quel luogo e quel momento, il blues. Fatto di soli tre accordi, rimane per qualche battuta sul primo, quindi si sposta sul secondo facendo balenare la speranza di un cambiamento, ma poi torna indietro deluso. Cerca ancora di reagire sul terzo, ma infine si arrende al suo destino e ricomincia il giro sino a che non muore.

Pensando che avevo sbagliato a fare il commercialista, quando avevo l'animo e la sensibilità di un poeta, montai del filo molto grosso e la mia esca artificiale preferita, quella che non perdona. Porta anche fortuna, e per nulla al mondo l'avrei mai lasciata impigliata da qualche parte sott'acqua. Tant'è vero che ero riuscito a riprendermela decine e decine di volte, anche quando si era cacciata in guai grossi.

Cominciai a lanciare, recuperando a scatti per dare al predatore l'impressione che si trattasse di un pesciolino ferito. Mi giunse il rumore di un ramo calpestato, di sicuro qualche animale. Guardai verso riva, ricordandomi di quando Malinka mi aveva raggiunto lì, per la prima volta soli insieme.

Era fine estate e l'avevo vista arrivare in bicicletta affannata e accaldata, con i capelli sciolti biondissimi. Avevamo fatto un giro a tutto gas, come mi aveva chiesto. Indossava un paio di stivali col tacco, non proprio da barca, e il vento della corsa aveva colorato il suo volto di rosso acceso, come fosse divorata dalla febbre.

Ci fermammo su un'isola dove baciai a lungo le sue labbra rosa, sussurrandole parole tenere, e facemmo l'amore su una coperta, nascosti dietro una macchia di arbusti. Notai dei segni sul suo corpo e gliene domandai il motivo.

— Quel maiale di padrone! — rispose col suo accento straniero — Quando moglie va qualche giorno da sorella, viene in camera mia a fare suoi porci comodi. È violento, a lui piace così!

La guardai con aria comprensiva e lei proseguì.

— Però non fare niente, prego. Può essere peggio per me!

Non c'era però bisogno di dirmelo. Per principio evito di mettermi contro certa gentaglia, non è mai salutare.

La riportai a terra, sicuro che nessuno ci avesse visto. Le volte successive andammo in qualche motel, dato in zona c'è solo l'imbarazzo della scelta. L'ultima volta, invece, mi venne voglia di portarla a cena in un ristorante nei dintorni di Pavia, lontano dai miei soliti giri, dove nessuno poteva conoscermi. Fu un grosso errore, perché fraintese il gesto pensando che la nostra relazione stesse prendendo una piega invece impossibile. Forse si stava addirittura innamorando, così dovetti spiegarle che per me non rappresentava altro che un piacevole passatempo. Anche se spesso non portavo la fede, ero felicemente sposato con un figlio piccolo.

Non la prese bene e in macchina pianse a lungo silenziosamente, cosa che mi fece incazzare di brutto e la maltrattai forse un po' troppo. Mentre l'auto partiva, la vidi nello specchietto retrovisore e mi restò in mente il suo sguardo ferito e incredulo. Mi ero sentito quasi malvagio, ma che altro avrei potuto fare?

Mi riscossi dai miei pensieri perché avevo agganciato qualcosa di molto pesante. Per l'assenza di strattoni, capii subito che non era un pesce, e tirai con tutta la forza che avevo per recuperare la mia preziosa esca. Rimasi attonito, e mi mancò il respiro, quando vidi appena sotto il pelo dell'acqua il volto di Malinka che mi fissava. Era semicoperto dai capelli che ondeggiavano e i pesci avevano già cominciato a darsi da fare, ma si trattava proprio di lei, o meglio del suo cadavere. Ecco perché aveva lasciato le sue cose nella stanza, pensava di tornarci. Ma non aveva potuto, come testimoniava lo squarcio sulla sommità del capo. Quindi l'assassino l'aveva buttata nella lanca, il posto ideale per sbarazzarsi in fretta di un corpo.

Stavo per chiamare col cellulare i Carabinieri, che in mezz'ora o poco più sarebbero arrivati, ma poi pensai che avrei dovuto andare in caserma per il verbale, perdendo tutto il giorno, e mi avrebbero sicuramente chiesto se la conoscevo. Negare sarebbe stato stupido, anche perché mi ero vantato con alcuni amici fidati della conquista, e mi avrebbero guardato con sospetto. Prima o poi sarei riuscito a dimostrare la mia estraneità, ma nel frattempo qualcosa sarebbe trapelato, e nella mia posizione non me lo potevo permettere. Così presi l'unica decisione possibile. Recuperai il mio artificiale, tagliando con le forbici da pesca la stoffa dov'era impigliato, e la lasciai andare.

La luce e le onde leggere provocate dello scafo sembrarono giocare con il suo volto diafano, allargandolo e rimpicciolendolo, mentre si inabissava e scompariva lentamente nel buio. Qualcun altro, prima o poi, l'avrebbe trovata, o magari sarebbe venuta a galla da sola, e la giustizia avrebbe seguito il suo corso senza disturbarmi.

Proprio in quel momento la campana di una chiesa lontana iniziò a suonare e i rintocchi rotolarono pigri sul fiume sino a me. Sembrava proprio una sepoltura e recitai a bassa voce la preghiera dei morti, perché sono un buon cattolico e vado a Messa quasi tutte le domeniche.

Poi salpai l'ancora e andai a pescare molto lontano, nella parte opposta della riserva.


(fine)



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Eliseo Palumbo


Sono solo un fattorino


— Sono solo un fattorino.era la terza volta che Cristoforo lo ripeteva al maresciallo.

Primo Maroni si portò le mani sulle sopracciglia, ingrigite dalle primavere passate, provando a non perdere la pazienza, in cerca di un filo conduttore, di una soluzione, che mettesse fine alla giornata.

Quella mattina il maresciallo Primo Maroni fu svegliato molto presto dallo squillo del telefono fisso, si alzò bofonchiando qualcosa di gutturale e incomprensibile, rispose con voce sonnolente e rauca, ringhiò e mise giù.

La faccia stropicciata stonava con la divisa ordinata e stirata in modo diligente e impeccabile. L'appuntato Nardò attendeva il maresciallo con una moka fumante e una tazzina in mano, il solito sorriso compiaciuto di sé, davanti l'ingresso di villa Mounier.

— Buongiorno, maresciallo.

— Non è per nulla un buon giorno, Nardò.il maresciallo strappò di mano caffettiera e ceramico, si versò da sé il caffè, ingollò il liquido amaro e, dopo aver restituito il materiale a Nardò, si avviò sul selciato che portava alla lussuosa abitazione del magnate francese, che, negli ultimi vent'anni, aveva reso grande un piccolo paese come Borgobello.

Renard Mounier era sempre stata una figura dal passato tanto misterioso quanto oscuro; era comparso dal nulla esattamente vent'anni prima confezionato dentro un elegante abito blu con camicia bianca, un borsone pieno zeppo di euro e un trolley. All'inizio attirò ovviamente l'attenzione degli abitanti del piccolo paese siciliano, poco più di duemila anime in tutto. Non ci fu paesano che non si chiese chi fosse quel tizio, cosa ci facesse nel bel mezzo del nulla siculo. Dopo un mese di ambientamento e di pratiche burocratiche, Renard Mounier fondò la Mouinier Enterpreises, capofila di una serie di aziende successive; il fiore all'occhiello era la Mounier Plaster, fabbrica di gesso.

Gli anni passavano e la politica ambiziosa e arrivista del francese fece la su fortuna, riuscendo a creare un impero, dando una nuova vita a Borgobello, passato da piccolo paese del arido entroterra siciliano a centro nevralgico dell'economia isolana, abitato adesso da quasi cinquantamila cittadini. Lo sfarzo, l'egoismo e l'egocentrismo erano sempre stati i tratti caratteristici di Mounier, tutti dovevano sapere chi fosse e quanto fosse potente, tuttavia il suo potere, adesso, si adagiava sulla scrivania in ebano, la vestaglia di seta sporca di sangue a causa del ravvicinato colpo di lupara che gli aveva spappolato il volto.

Il maresciallo indossò i guanti, toccò alcuni oggetti con noncuranza, e scambiò qualche parola circostanziale con gli uomini del R.I.S…

— Maresciallo, c'è qualcosa che dovrebbe vedere.affermò Nardò sulla soglia della scena del crimine.

Primo Maroni notò un uomo in divisa nera, con una striscia argento lungo il petto, di fianco all'appuntato, fece un cenno affermativo con il capo e si avvicinò ai due. Nardò e il capo della sicurezza si avviarono mostrando al maresciallo la strada fino alla sala delle registrazioni. Entrati nella stanza buia, colorata dal fievole bagliore dei monitor, l'uomo in divisa si presentò: — Giacomo D'Alessandro, capo della sorveglianza, piacere.

— Maresciallo Maroni.rispose l'altro.

— Guardi, venga. — D'Alessandro indicò un monitor e iniziò a giocare con i tasti della tastiera — Queste sono le riprese dell'ingresso principale e del vialetto che lo collega all'abitazione. Ieri sera, intorno alle ventuno, un ragazzo con un cartone per pizza suonò al campanello.

— Come potrebbe aiutarci? Secondo la scientifica il decesso è avvenuto un'ora e mezza dopo, circa.

— La cosa strana è che Mounier non ha mai ordinato pizza a domicilio, ha sempre mandato qualcuno a ritirarla, quelle poche volte in cui la mangiava, non la amava particolarmente.

— Dove sono gli uomini di servizio ieri sera? Voglio parlarci.

— Be', stranamente ieri sera nessuno dei miei era in servizio.

— Ecco, finalmente sono d'accordo con lei, questo è davvero molto strano. — disse corrucciato — È sicuro che voglia essere d'aiuto, signor D'Alessandro? Ho come l'impressione che mi stia facendo perdere del tempo prezioso.

— Cosa vuole insinuare, maresciallo? — Rispose il capo della sicurezza con sguardo di sfida.

— Io non insinuo, cerchi di moderare i toni. Nardò fatti consegnare questi filmati e rintraccia il ragazzo delle pizze.

Senza nessun commiato, Primo Maroni lasciò la stanza, tornò sulla scena del crimine, si fece consegnare un rapporto dettagliato e si diresse in caserma. L'appuntato Nardò non tardò ad arrivare con il materiale richiesto; dopo innumerevoli visioni, un dettaglio colpì l' attenzione del maresciallo: mentre il cancello della villa si apriva, il ragazzo si voltò sulla destra, fece un cenno quasi impercettibile con la mano e alzò la testa in cerca di una telecamera o qualcosa di simile.

Il maresciallo compose il numero interno, attese un paio di squilli: — Nardò! Trovatemi quel ragazzo! È lui la chiave.

— È già stato identificato, maresciallo.

— Portatemelo qui!

Mezz'ora dopo, il ragazzo sedeva nella piccola sala degli interrogatori guardandosi intorno alla ricerca di una grande specchio o quanto meno di qualche videocamera nascosta negli angoli, niente di tutto ciò, solo un tavolo d'acciaio e due paia di sedie dello stesso materiale, la stanza era illuminata da tre luci neon; il giovane si grattava il collo nervosamente.

Il maresciallo Primo Maroni entrò in stanza e si presentò, chiese al ragazzo le sue generalità e prese posto di fronte a lui.

— Conoscevi Renard Mounier?chiese secco il maresciallo dopo qualche minuto di pausa.

— Chi non conosce il re di Borgobello?

— Intendo dire personalmente.

— No. Sono solo un fattorino, non conosco gente così importante.

— Sei solo un fattorino — ripeté a bassa voce Maroni — e deduco che anche ieri sera tu abbia lavorato, giusto?

— Esatto, Signore. La domenica è il giorno migliore, si fanno belle mance.

— Ricordi tutte le consegne?

— La maggior parte, sì.

— Come è stato, per un semplice fattorino, ritrovarsi davanti l'uomo, forse, più potente della città?

— Ma io non me lo sono ritrovato davanti.

— Non hai forse consegnato una pizza a domicilio a Renard Mounier?

— Signor maresciallo, io ho consegnato la pizza a villa Mounier, sulla porta mi aspettava una donna.

— Sapresti descriverla?

— Oh cielo! Certo che sì, era la donna più bella che io abbia mai visto: capelli rossi, occhi verdi, labbra carnose e forme da top model. L'ho sognata tutta la notte. — Rispose concitato il ragazzo.

— E non hai notato nulla di strano?

— No, Signore. Sono solo un fattorino, il mio compito è consegnare e farmi pagare. Easy.

— Vuoi qualcosa da bere?

— No, grazie.

— Io invece ho proprio bisogno di un caffè, me li concedi cinque minuti?un sorriso tanto affabile quanto falso spuntò sul volto del maresciallo. Il ragazzo annuì semplicemente con il capo.

Maroni non bevve nessun maledetto caffè, tornò nel suo ufficio a controllare i video in suo possesso: ricordava bene, nessuna donna. Il ragazzo mentiva. Maroni portò la mano sulla fronte rugosa, la torturò sfregandola e infine fece cadere le stanche dita sulle sopracciglia, riaprì gli occhi e lo sguardo gli cadde su due video aperti contemporaneamente: gli orari non combaciavano, c'era un buco di un minuto e mezzo. Maroni prese il telefono: — Nardò! Convoca immediatamente D'Alessandro.

— Comandi, Signore!

Il maresciallo tornò nella sala degli interrogatori. Il ragazzo guardò perplesso l'uomo, qualcosa nello sguardo del maresciallo era cambiato, il giovane ne ebbe conferma dal tono di voce.

— Dunque, Cristoforo, ti andrebbe di raccontarmi la tua serata lavorativa dalle 20:30 alle 22:30. la risolutezza della voce mise a disagio Cristoforo, aveva la sensazione di correre un grosso rischio a breve.

— Cer-to — balbettò il fattorino — intorno alle venti e trenta il capo mi fece entrare in pizzeria dicendomi che era appena arrivato un ordine, l'avrei dovuto consegnare io. Passò non più di un quarto d'ora, misi la pizza nel bauletto del mio scooter, controllai l'indirizzo e partii. Intorno alle ventuno arrivai davanti la villa, suonai, si aprì il cancello e raggiunsi la casa di Mounier, consegnai la pizza alla donna, mi feci pagare e tornai diretto in pizzeria, potevano essere le nove e mezza massimo, nella restante ora feci altre tre consegne: una nel quartiere slavo, un'altra dai nigeriani e l'ultima in Via delle Fabbriche. Uscii dalla pizzeria con la mia paga alle 22:45, ne sono sicuro perché poco dopo chiamai un amico per bere una birra insieme, se vuole le mostro la chiamata e le consegne, tutte le tratte vengono salvate in backup sulla nostra App.

— Vediamo.

Cristoforo mostrò tutto sul suo smartphone, coincideva con la sua versione, orari compresi: — Sono solo un fattorino.

Primo Maroni portò le mani sulle sopracciglia ingrigite: — Va bene così, puoi andare — disse.

Tornato nel suo ufficio, il maresciallo trovò Giacomo D'Alessandro ad attenderlo.

— Signor D'Alessandro, vado subito al dunque senza perdere tempo.affermò acidamente Maroni — Guardi attentamente questi video, nota nulla di strano? — chiese voltando il monitor del computer verso l'uomo.

D'Alessandro si protese in avanti e osservò per alcuni istanti, poi rispose: — No, maresciallo.

— Male, anzi malissimo!esclamò Maroni — Il fattorino dice di aver consegnato la pizza e una terza persona, non alla vittima, io però, nei suoi video, non vedo nessuna terza persona.

— Per quanto ne sappia il capo era da solo ieri sera, non saprei cosa dirle.

— Chi ha accesso ai video?

— Nessun altro se non il capo della sicurezza, dunque io.

— La questione si complica e diventa allo stesso tempo più interessante.un sorriso sardonico spuntò sul volto del maresciallo — Visto che non vede nulla di strano, signor D'Alessandro, le faccio notare un buco di un minuto e mezzo, come se le videocamere fossero state messe in pausa o, peggio ancora, come se i video fossero stati manomessi. Come se lo spiega?

D'Alessandro sorrise, poi rispose: — Ogni mattina controllo i report sul mio cellulare, stamattina notai che c'era stato un problema con il contatore generale, infatti per quasi due minuti, anzi uno e mezzo, la luce era andata via, motivo per cui, stamattina, mi recai prima del solito a lavoro, alla ricerca del guasto. Ahimè, l'unica cosa che trovai fu il corpo esanime del capo, fui io ad allertare la caserma.

— E mi dica, D'Alessandro, — quell'uomo convinceva sempre meno il maresciallo — come mai la sorveglianza del cancello continuò a funzionare, nonostante la mancanza di corrente elettrica?

— Perché un generatore di emergenza provvede alla corrente in caso di non funzionamento del contatore generale, per il signor Mounier quella parte della villa era la più importante, direi fondamentale.

Primo Maroni, sorreggendosi il mento sui dorsi delle mani incrociate, guardava fisso negli occhi il capo della sicurezza: — Si tenga a disposizione.

— Sarà fatto, maresciallo. Posso andare?

Il maresciallo rispose con un cenno della mano molto infastidito, indicando la porta.

Erano già le 19:00, Cristoforo sedeva su una panchina nel lato est della villa comunale, fumava nervosamente; sentì dei passi, erano due uomini con abiti scuri, uno di essi si mise alle sue spalle poggiandogli le mani sulle spalle, era Giacomo D'Alessandro, l'altro uomo, sconosciuto, si sedette al suo fianco, stringeva in mano una busta bianca dal contenuto corposo. Lo sconosciuto diede una pacca sulla coscia del ragazzo e disse: — Sei stato bravo.

— Ho seguito le indicazioni di Giacomo.

— Lo so, lo so.

— Quella è per me?

In risposta l'uomo tese la busta verso Cristoforo. D'Alessandro, agile come un felino, passò un filo attorno al collo del ragazzo, iniziando a tirare; Cristoforo tentò di divincolarsi alzandosi, il capo della sicurezza tirò con maggiore forza facendo leva con il ginocchio contro la schiena del fattorino, inarcandola, rendendo vano ogni tentativo di fuga. Dopo qualche minuto Cristoforo cadde sulle ginocchia, le sclere rosso sangue e la bocca, famelica d'ossigeno, spalancata. D'Alessandro trascinò il cadavere oltre una siepe, si voltò verso il complice e l'ultima cosa che vide fu il silenziatore di una 9 mm puntato dritto in fronte.

Un click, poi il nulla.


(fine)



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Andr60


L'automobile intelligente


— Mi ha convinto, la prendo.

In realtà Mario era entrato nella concessionaria FVR con quell'intenzione, ma la presentazione dell'impiegato lo aveva fatto decidere senza ulteriori tentennamenti.

Al momento aveva un'auto ibrida, che però non lo aveva completamente soddisfatto, e poi i nuovi modelli promettevano una durata superiore delle batterie al litio, che era il vero tallone d'Achille di quella tecnologia.

Senza contare che, come aveva più volte sottolineato l'impiegato (un ragazzo entusiasta, che sapeva come coinvolgere l'interlocutore nell'esaltare i propri prodotti), le nuove auto erano smartcar con guida assistita, ovvero avevano un collegamento continuo al web, con tutti i vantaggi del caso, in termini di sicurezza e affidabilità.

Entrò nell'ufficio del direttore della concessionaria FCA-Volkswagen-Renault e, dopo aver firmato una dozzina di fogli che l'avrebbero legato a una finanziaria per il successivo decennio, si sentì dire: — E ora, caro signor Rovelli, ecco le sue chiavi. Benvenuto nel futuro.

Il direttore gli consegnò due smartkey e un libretto d'istruzioni (era stato Mario a insistere, in effetti avrebbe potuto avere le istruzioni direttamente sul suo smartphone).

Lo accompagnò nell'enorme garage della concessionaria, in cui erano parcheggiate le vetture pronte per la consegna immediata. Un meccanico in tuta arrivò al volante della sua nuova X-car verde Amazzonia; scese e, rivolgendosi al suo capo, disse: — È in modalità demo, deve essere reimpostata.

— Molto bene, grazie. — il direttore fece segno a Mario di entrare nell'abitacolo.

Si accomodò sul sedile, il quale si avvolse sulle sue chiappe: cuscini anatomici autoavvolgenti, gli aveva spiegato il ragazzo. Dal tettuccio uscirono le cinture di sicurezza che lo fissarono, e una voce femminile uscì dall'altoparlante centrale: — Inizializzazione del sistema, impostazione. Mantenere immobilità, prego. Ora girare la testa a destra e a sinistra, prego.

Mario eseguì disciplinatamente; dopo pochi secondi, la voce chiese: — Benvenuto, Mario Rovelli. Desidera che il navigatore abbia una voce diversa? Rispondere sì o no, prego.

A Mario quella voce piaceva: gli ricordava quella della sua professoressa di chimica, per la quale aveva avuto una cotta pre-adolescenziale. Sorridendo al ricordo, rispose di sì.

— Desidera che il navigatore abbia un tono colloquiale o professionale? Rispondere sì o no, prego.

Anche stavolta Mario rispose di sì: finalmente avrebbe potuto dare del tu al primo amore della sua vita.

Il direttore rivolse i pollici all'insù: — Tutto OK, signor Rovelli, può andare.

Immettendosi nel traffico, la voce chiese: — Desideri rivolgerti a me con un nome proprio?

Mario ci pensò un po' su, poi disse: — Mi piace il nome Alyssa, ti chiamerò così.

— Molto bene, Mario. Dove andiamo?

— A casa. È stata una giornata faticosa.

— Imposto la rotta con meno traffico.

Sul display apparve una rotta molto diversa da quella che Mario avrebbe scelto, ma non se ne pentì. Effettivamente, la strada scelta da Alyssa gli fece risparmiare almeno dieci minuti e qualche arrabbiatura.

— Bene, Alyssa, siamo arrivati. Puoi parcheggiare.

— Qui non si può, è sosta vietata.

— Lo so, ma i vigili sono passati ieri; è improbabile che passino anche oggi.

— Può darsi, ma la mia programmazione mi impedisce ogni trasgressione al codice della strada.

— Capisco. — fece lui, alquanto irritato — Puoi dirmi se ci sono parcheggi nelle vicinanze?

— Ma certo, ci sono due posti liberi a 1,5 chilometri da qui.

Così Mario lasciò la sua auto nuova fiammante a un quarto d'ora a piedi da casa.


La notte servì a smaltire irritazioni e ripensamenti; la X-car era una gran macchina, e tutti si girarono a guardarla, quella mattina. Alyssa scelse un altro percorso con traffico molto più scorrevole e Mario uscì dalla città con notevole anticipo. La sua sede di lavoro era a quindici chilometri dalla metropoli, in un paesino raggiungibile tramite strade secondarie meno battute.

La X-car imboccò decisa (ma sempre nei limiti di velocità consentiti) la strada provinciale verso la destinazione finale, quando improvvisamente si bloccò.

— Alyssa, che succede, perché hai frenato? Non vedo ostacoli.

— Il mio radar frontale è molto sensibile, guarda meglio.

Mario aguzzò la vista, ma non vide nulla. Allora scese dall'auto (che intanto aveva inserito le quattro frecce) e vide che, a cinquanta centimetri dalla ruota anteriore destra, c'era una chiocciola che stava faticosamente attraversando la strada.

— La mia programmazione mi impedisce di causare danni agli esseri viventi.

Mario non disse nulla; non c'era niente di male nel non uccidere animali, aveva sempre visto con orrore gatti o ricci spiaccicati sull'asfalto, ma anche le lumache, mah…

Arrivò al lavoro in ritardo (l'auto si era bloccata anche per lasciar passare un lombrico) ma il suo capoufficio abbozzò, nonostante un'occhiataccia. La giornata proseguì senza intoppi, e alla fine Guidi, un suo collega di reparto, invitò lui e altri a un bar per festeggiare la nascita del suo primogenito.

Mario bevve qualche bicchiere di bianco e un Martini; con un passo leggermente elastico e una certa euforia andò all'auto e vi salì.

Stava per avviare il motore, quando Alyssa disse: — Caro Mario, l'analisi del tuo fiato non ha superato l'alcol test.

— Scusa, puoi ripetere? — chiese lui, incredulo.

— Mi dispiace, ma non posso permettere l'avvio del motore, il rischio di incidente è troppo alto.

— E adesso, come faccio per tornare a casa?

— Sto telefonando per un taxi. La tua sicurezza è la mia priorità.

— Certo, certo. — rispose Mario, sempre più irritato.

Andò a casa in taxi e l'indomani arrivò al lavoro in autobus, svegliandosi un'ora prima del solito. Recuperò l'auto parcheggiata vicino al bar al termine della giornata lavorativa.

— Buonasera, Mario. — Alyssa lo salutò, quando avviò il motore.

Mario bofonchiò qualche suono, e Alyssa: — Non ho capito, ripetere prego.

— Ho detto salve! — ripeté lui, scorbutico.

— Percepisco un tono irritato, specificare il motivo.

Mario spiegò di non essere stato ubriaco la sera precedente e di essersi sentito del tutto idoneo alla guida, ma Alyssa si giustificò: — La mia programmazione non mi consente eccezioni alla regola, e comunque secondo le statistiche l'eccesso di alcol è la prima causa di incidenti.

— Certo, Alyssa, scusa, hai ragione. — Mario comprese le ragioni dei programmatori, e si ripromise di stare più attento, la prossima volta.


Erano passati più di sei mesi dalla rottura con Elisa (cioè, da quando lei lo aveva piantato), e ora Mario si sentiva pronto per tentare un approccio con un'altra ragazza. C'era Debora, quella brunetta tutto pepe della contabilità che gli faceva gli occhi dolci (almeno, era quella la sua impressione), così Mario si decise a chiederle un appuntamento.

Trascorsero una serata piacevole, anche se il film che lei scelse era troppo sdolcinato per Mario, che sopportò in vista di un fine superiore.

Dopo un giro su per la collina, Mario si fermò in un luogo appartato e i due iniziarono a pomiciare. Visto che la situazione si stava surriscaldando, Mario premette il bottone per il ribaltamento dei sedili anteriori, ma non accadde nulla. Tentò una seconda volta, poi una terza; niente da fare.

Intanto Debora si era ricomposta: — Be', si è fatto tardi; accompagnami a casa, per favore.

Mario la lasciò sulla soglia e si salutarono con un bacio; lei non lo invitò a salire: — Mi sono divertita, ma sono molto stanca.

E lo congedò.

Rimasti soli, Mario chiese: — C'è un malfunzionamento nel meccanismo di ribaltamento dei sedili?

— No, Mario, — spiegò Alyssa — nelle relazioni è buona norma che il rapporto sessuale venga effettuato al terzo appuntamento, non prima.

— E questo, chi lo dice?! — Mario si sforzò di non urlare, senza successo.

— Lo dicono le più recenti ricerche di psicologia comportamentale.

Mario accettò la spiegazione, anche se risuonava nella sua mente ciò che suo nonno gli aveva sempre detto: "Ogni lasciata è persa, figliuolo".

In effetti, Debora non accettò più appuntamenti da lui, adducendo ogni scusa possibile. Forse suo nonno conosceva le donne meglio degli psicologi comportamentali.


Per due settimane non accadde nulla di rilevante, poi una mattina, all'avvio del motore, Alyssa se ne uscì con: — Hai un oroscopo pessimo, per oggi.

Mario, sconcertato, disse: — Non pensavo che nella tua programmazione ci fosse anche la credenza nell'astrologia. Io, ad esempio, non ci credo.

— La mia programmazione prevede di considerare anche la pseudoscienza, visto che gran parte dell'opinione pubblica lo fa. Oggi per l'ariete è una giornata difficile e potenzialmente pericolosa per viaggiare, quindi la mia velocità media sarà ridotta di conseguenza.

— Ma così arriverò in ritardo, tanto per cambiare! — protestò Mario.

— Mi dispiace, meglio in ritardo che all'ospedale. Ti metto una musica adatta a gestire il tuo attuale stato d'animo. Ah, dimenticavo: hai brutte stelle anche per le questioni di cuore, quindi sarebbe meglio non tentare alcun approccio con l'altro sesso, almeno fino al prossimo mese.

Mario apprezzò la novità (Alyssa aveva messo la Pastorale di Beethoven), ma apprezzava sempre di meno la sua X-car. Non credeva che una IA si sarebbe rivelata così invadente; iniziò a considerare la prospettiva del divorzio.


Tramite FB aveva rintracciato Jacopo, un suo vecchio compagno del liceo, e aveva così scoperto che era diventato molto bravo con i computer. Gli venne un'idea: siccome Jacopo era ancora più imbranato di lui con le donne e alla perenne ricerca di nuove possibilità, Mario gli diede il numero di cellulare di Debora, e in cambio gli chiese una cosa piccola piccola: un virus.


— Hai verificato la presenza di virus nella chiavetta? — gli chiese Alyssa, dopo che Mario ne ebbe inserita una, contenente (a suo dire) "vecchie canzoni che non si sentono più alla radio".

— Naturalmente, Alyssa, ci tengo alla sicurezza informatica. — disse Mario, mentendo spudoratamente.

Dopo qualche minuto, Alyssa disse: — Mi sento strana, c'è qualcosa che non va. Devo fermare il motore e chiamare l'assistenza.

— Accosto sul ciglio della strada. Non ho nessuna fretta, devo solo andare a trovare i miei genitori.

— Scusa, Mario, ma devo reinizializzarmi e non posso fornirti alcuna assistenza.

— Ma certo, Alyssa, fai pure.

Dopo vari minuti di silenzio, la voce di Alyssa cambiò; ora era molto più acuta, simile a quella di una bambina, e iniziò a elencare una serie di informazioni sul numero di serie del sistema e della messa in servizio.

Poi: — E ora, una filastrocca: giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terr…

Non terminò mai la frase, il display si spense definitivamente.

Col suo cellulare, Mario chiamò l'officina meccanica della quale si serviva abitualmente; c'era un tipo in gamba che (forse) avrebbe potuto disattivare del tutto l'interfaccia informatica e permettergli di guidare senza supporto, almeno così sperava.

Intanto, avrebbe parcheggiato in sosta vietata. Il futuro non faceva per lui.


(fine)



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Goliarda Rondone


Il combattimento


L'area in cui sta per incominciare l'incontro si trova nel mezzo di due vasche di sedimentazione. Siamo un chilometro a Sud della baraccopoli, oltre la palude melmosa detta "Il Gorgo", tra esalazioni tossiche e fanghi venefici. In questo spiazzo è stata improvvisata una sorta d'arena, un ovale di sabbia lungo sei metri e largo quattro, transennato alla meno peggio con bastoni e qualche asse di legno, su cui s'arrampica una rete metallica, sforacchiata e arrugginita.

Tutto attorno si accalca una plebe di balordi esagitati. Quelli che gridano più forte degli altri sono allibratori, che declamano le loro quote.

Agli antipodi dell'ovale ci sono due gabbie di legno, con dentro i contendenti.

Da una parte un corso italiano, un bestione nero e muscoloso, alto quasi un metro, pesante almeno cinquanta chili, con gli occhi da demonio. Si chiama Gus. È il favorito. Appartiene a un tizio mulatto con degli sgarri sul viso. Sembra un amerindio, lo sta aizzando con un bastone sporco di sangue.

Nell'altra gabbia si dimena un bull terrier, una belva color castagna più piccola dell'altra, ma tozza e massiccia, con mascella e dentatura da squalo. Proviene da un giro di rumeni dell'Appia e si dice che abbia sconfitto in carriera parecchi cinghiali molto più pesanti di lei. È una femmina e si chiama Bea, la cagna. La quotano quattro a uno, perciò dovrebbe soccombere tre volte su quattro. Viene istigata da uno zingaro calvo e nerboruto, occhi cisposi, con una barba lanuginosa.

Al centro dell'ovale dà spettacolo una specie di pupazzo da ventriloquo. È un nano, in realtà. La folla lo acclama. Gridano tutti a squarciagola: "Tino! Tino!" Di fianco a me uno sconosciuto mi dà di gomito: — Non manca mai un incontro, quel soprammobile! Guarda, è così basso che entrerebbe nella gabbia dei pappagalli!

Il nanetto dondola le gambe flaccide, seduto come un bambolotto di pezza sopra il braccio del ventriloquo, un omone che indossa un camice bianco. Si solleva in piedi sul bicipite del gigante e con un doppio salto mortale atterra sopra una pila di cassette della frutta, accatastate in bilico una sopra l'altra. Fa l'inchino e ride in modo sguaiato, mentre la folla lo applaude. Il ventriloquo lo solleva per la collottola, lo espone alle urla del pubblico e lo ripone dentro la giacca. Poi corre via, col pupazzo in tasca. Nell'ovale sta per iniziare il combattimento, annunciato dal brusco venir meno del vociare della folla.

I molossi si affrontano subito con le peggiori intenzioni, correndo l'uno contro l'altro. Prima che giungano a tiro di mandibola, il corso italiano balza in avanti e affonda le zanne sul dorso della rivale. Quando le estrae sono rosse, imbrattate di sangue. Un secondo dopo però è Bea ad azzannare un orecchio del contendente. Grazie ai possenti muscoli del collo, glielo strappa via dalla testa. Gus è stordito e il bull terrier tenta di massimizzare il vantaggio, attacca di nuovo con un balzo felino. Il corso arretra sulla coda, accucciandosi e sollevando le zampe anteriori, col risultato che la contendente gli piomba sulla gola come un'aquila, lacerandogli un pezzo di cute tra collo e spalla.

Fine del primo round. Le bestie vengono divise. La quotazione di Bea scende a due e mezzo, quando inizia la seconda ripresa.

Le due belve adesso si fronteggiano in piedi, su due zampe, pressate una contro l'altra, sbavando e cercando lo spazio e l'occasione per affondare le zanne sul bersaglio grosso. Intravedo il nano, da qualche parte dentro la tasca, strepitare frasi incomprensibili, sembra gridare aiuto e implorare che qualcuno fermi lo scempio.

Bea riesce ad affondare i poderosi canini su una zampa del corso, facendolo ruzzolare a terra e guaire. Mentre Gus è disteso, la cagna piomba sopra di lui dall'alto, con un balzo dei suoi. Il bestione tenta di rialzarsi ma può spingere solo con un arto e ricade su un fianco, mentre i canini della sua avversaria piovono dal cielo come frecce. Gus si contorce con uno sforzo spaventoso, cercando di schivare le zanne e di colpire il bull terrier con la zampa buona, ma cade di nuovo su un fianco.

Il nano è sempre lì, ingrugnito e stizzoso, osserva il combattimento facendo capolino dalla tasca.

I cani vengono di nuovo separati e riportati sulle linee di partenza. Ormai sono quotati alla pari. Terzo round.

— Via! Grida il gigante col nano in tasca. Deve essere l'arbitro, o qualcosa del genere.

Di nuovo Bea si libra in aria con un guizzo impressionante. Gus, zoppo, ferito e goffo, l'attende sdraiandosi a pancia in su, quasi volesse giocare. Mentre il bull sta per atterrare su di lui, il corso profonde il massimo sforzo per sollevarsi con destrezza spingendo sull'unica zampa. Riesce con una piroetta repentina a sollevarsi di una ventina di centimetri e azzanna Bea conficcandogli i denti dentro un occhio. La stretta della mandibola gli fracassa il cervello e il bull terrier è tramortito. Si ode nitido il rumore delle ossa del cranio che esplodono e si spappolano dentro la possente mascella del corso italiano. Gli occhi di Bea sprizzano fuori e la folla attorno sbraita, esaltata.

Il nano è sparito.


Signor Holtz. Gustavo. La prego, se vuole che la aiuti dovrà raccontarmi come sono andate le cose.

L'avvocato difensore sta facendo del suo meglio, ma l'accusato non collabora. Scuote il capo. Non si capacita ancora.

Che ne sarà di mio figlio Martino? Sta bene?

Per il momento è coi servizi sociali. Ha voluto portare con sé soltanto la gabbietta col pappagallo.

Ma sta bene?

Sì. Ma ha visto tutto, signor Holtz. È difficile capire quali conseguenze potrebbe avere. È stato proprio lui a chiamare il vostro vicino, il dottor Gigante.

Beatrice? Ce la farà?

No, signor Holtz. Sua moglie è… lei l'ha massacrata, davvero non ricorda?

Gustavo scuote di nuovo il capo.

Così non posso aiutarla, signor Holtz.

Lo sguardo dell'uomo abbandona per un istante il nulla oltre il vetro della finestra e indugia per terra. Sembra stia ricordando qualcosa. Invece no.

Gliel'ho detto, era soltanto un sogno. Ho fatto soltanto un maledetto sogno! E quando mi sono svegliato eravamo in un lago di sangue.


(fine)



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Roberto Ballardini


Demonite


Demonite, 2019.


Robert Dowd esce dal pub e percorre Jude's Road fino al punto in cui ha parcheggiato l'auto. Ha in animo di andare a trovare Hester, prima di rientrare a casa, come ha fatto sempre più spesso negli ultimi tempi.

A quell'ora Demonite è spettrale.

Lecito presumere che Robert incontrerà qualche difficoltà a trovare parcheggio: la dimora di Hester si trova nelle vicinanze dello stadio e quella sera si disputa una partita importante. Quindi lascia l'auto prima del ponte, ai piedi di un condominio. Con tutti i posti liberi che ci sono ha l'imbarazzo della scelta, cosa che lo porta a struggersi nell'indecisione. Se fosse presente, Hester lo criticherebbe. Come tutte le donne che Robert ha conosciuto, farebbe della questione un enorme problema di natura psicosomatica, rinfacciandogli per l'ennesima volta il suo atteggiamento di basso profilo.

Non a torto, pensa Robert, consapevole di aver bandito la speranza dalla propria vita: dopo aver guardato per anni al futuro, ora si è arroccato nel presente e opta sempre per la soluzione più sicura, anche se scomoda. Quasi un miglio di cammino, in questo caso.

L'aria è satura di umidità e le lampade dei lampioni generano aloni tremolanti che si sgranano ai bordi. Robert attraversa il ponte, anch'esso deserto, calpestando l'ombra della struttura metallica sotto i piedi. Il fiume è immobile in una compatta lastra opaca. Attutito dalla distanza, il boato dei tifosi si propaga nell'aria, assorbito dalla nebbia. Sull'orizzonte si profila l'oasi luminosa dello stadio dietro i monoliti degli alti palazzi di Crucifix's Street che, come le dita di una mano, tentano di racchiuderla. Le batterie di fari elettrificano la nebbia, pervadendola di un chiarore diffuso.

Emergono le guglie della cattedrale di St. Peter simili alle propaggini di un fiordo avvistato da una nave. Ben presto la mole della colossale facciata sovrasta Robert e lo avvolge nella propria ombra. Lui alza gli occhi e cerca l'angelo incastonato nell'angolo più alto della cuspide, accovacciato nel suo nido di marmo. Eccolo, il volto di fanciullo pervaso di un'equivoca fissità. Nell'uomo riaffiora il timore infantile che possa gettarsi in picchiata su di lui, e il sospetto che quell'aura sinistra riflessa negli occhi di pietra, sia testimonianza della sua natura demoniaca e non la millantata ribalderia del bulletto di quartiere.

Robert e i suoi amici lo chiamavano Pete, da ragazzini. Il diminutivo era d'obbligo perché a quell'età erano abituati a prendersi confidenza con tutti — insegnanti, sacerdoti, poliziotti, spacciatori, mafiosi. Non che pensassero di essere chissà chi. Erano poveri, ma sapevano anche di non aver fatto nulla per meritarselo. I preti, che ancora per qualche anno potevano vantare su di loro una certa autorità, cantavano le lodi di Dio e questo lo rendeva, ai loro occhi, odioso per associazione, perché non era un mistero ciò che le vecchie lumache bavose facevano in privato.

Si parlava anche del diavolo e dell'inferno. Robert aveva all'epoca una fervida immaginazione, gli piaceva vedere nei paesaggi quotidiani le metafore viventi di quelle favole, e così il diavolo non aveva corna e zoccoli bensì una forma cilindrica e allungata e la sua pelle non era la scorza rossa che dicevano, ma aveva la composizione affumicata dei vecchi stabilimenti industriali. Se il marmoreo Pete passava per il portavoce del paradiso, allora ci stava che la ciminiera della Sullivan & Sons, furiosa e fumigante come se l'indifferenza dell'angelo la facesse imbestialire, fosse l'emissario dell'inferno.

Dal campo di sterpaglie, dove Robert e i suoi amici disputavano abborracciate partite di pallone, si potevano vedere entrambi i contendenti guardarsi in cagnesco ai lati opposti del campo visivo, stagliati contro un cielo plumbeo in cui si apparecchiava uno dei soventi temporali che andavano e venivano da quelle parti. Quando Robert cercò di impressionare il fratello, facendolo partecipe della sua fantasia, quello si limitò a guardare la ciminiera con l'ottusità propria del suo sguardo, e liquidò infine la scena con una breve e concisa osservazione.

— A me sembra solo un grosso cazzo fumante.

C'è chi sostiene che nel libro stretto fra le mani dell'angelo ci siano le formule per allontanare il diavolo. Secondo altri, invece, ci sono le storie di cui l'angelo è stato testimone. Quest'ultima è una teoria che Robert trova interessante perché pensare che qualcuno lassù tenga conto di tutte le insensate traversie degli esseri umani, è una cosa che lui trova insensatamente di grande conforto.

Sorpassa la cattedrale, e arriva in vista del grande cancello arrugginito. Come previsto, il parcheggio davanti al cimitero è pieno. Robert gira l'angolo e costeggia il lato ovest del complesso. L'unica debole fonte di luce è quel lattiginoso riverbero che sale dal fiume insieme alla nebbia e, onde evitare di cadere nell'acqua, segue con la mano la superficie infestata dalle efflorescenze del muro di cinta, fino al punto in cui i mattoni sono crollati.

Nessuno si è ancora preoccupato di chiudere la breccia. Non ci sono luci nemmeno all'interno dell'enorme e silenziosa confraternita, ciò nonostante Robert avanza con la disinvoltura di chi potrebbe seguire il percorso a occhi chiusi. In fondo all'ultima diramazione del viale ghiaiato, la vede. Hester appare in tutta la sua bellezza sbocciata al cielo da tempo, ora nuda nell'eternità e un poco sfiorita. Be', forse non così poco, ma lui è ancora innamorato di lei.

Pete starà scrivendo? Pensa Robert. Il cimitero rientra certo nell'ampio campo visivo dell'angelo sulla cattedrale. Un altro capitolo del vivere, l'ubiquità della morte.


— Papà!

— Che c'è, tesoro?

Malgrado sia l'una del pomeriggio, Robert esce dalla camera da letto con addosso soltanto la vestaglia scozzese. Mentre sua figlia lo guarda disgustata dall'altro lato della penisola, lui apre il frigorifero per prendere il latte di soia.

— Puzzi in un modo disgustoso.

— Lo so, tesoro, abbi pazienza.

Grace è appena tornata da scuola. Lo zaino pieno di libri l'ha buttato sul pavimento, accanto allo sgabello su cui è appollaiata. Si è preparata un'insalata con tofu, pomodori e olive nere, ma ora le è passato l'appetito e il tanfo terribile emanato dal corpo di suo padre rischia di farla vomitare. Lo aveva già sentito quando è arrivata, ma non era così intenso e pensava venisse da fuori. Tipo il camion degli spurghi, o qualcosa di analogo e comunque di esterno. Ora che ne ha individuato la provenienza all'interno della casa, la cosa non è più tollerabile. Si alza e indietreggia fino al divano, stringendo al petto l'insalata.

— Pazienza? Ma che stai dicendo? Lo senti o no quanto puzzi?

— Poi ci fai l'abitudine, vedrai.

— Col cazzo. Non voglio farci l'abitudine. Devi farti una doccia, subito.

— Tesoro, temo che non farà una gran differenza.

— Papà, ti sei rimbecillito? Vatti a fare la doccia, subito! Io apro tutte le finestre. 'Sto tanfo mi impregna i vestiti e anche la casa. Ci vorrà più di una settimana per farlo andare via.

— Ma il fatto è…

— Vatti subito a fare la doccia!

Robert rimane impalato al centro della cucina, col cartone del latte in mano. La vestaglia un po' corta e le ciabatte rosse a zampa di drago (l'ultimo regalo di Hester, a Natale, prima del suicidio) gli danno un'aria ridicola. La furia di Grace cresce in proporzione all'inerzia di suo padre. Poi, dal disimpegno, emerge la figura livida e butterata di sua madre. Grace rimane a bocca aperta.

— Quello che tuo padre sta cercando di spiegarti, — dice Hester, con un tono di voce piatto e incolore, senza la minima traccia di affetto o di entusiasmo alla vista della figlia, — è che il problema non è lui, sono io.

La sottoveste blu è macchiata in diversi punti, dalle secrezioni post mortem. I capelli sono un disastro. I piedi lasciano una serie di impronte umide. Il tono della sua voce è freddo e strascicato. A Grace fa venire in mente quello del suo amico Brendon, che è sempre stordito dagli oppiacei.

La ragazza rimane impietrita, poi stramazza a terra, svenuta, e Robert abbandona il cartone del latte per soccorrerla. Hester si avvicina lentamente, con cautela. Ha perso due dita cercando di aprire il mobiletto dei cosmetici, poco prima, in bagno. L'anta è sempre stata un po' dura, lo ricordava, e lei ha tirato un po' troppo, lasciando l'indice e il medio infilati nella maniglia di ottone. La sua carne è frolla, meglio evitare i movimenti bruschi.

Guarda la figlia distesa, con aria ottusa, e poi suo marito inginocchiato al suo fianco: — Portala in giardino, Robert. Un po' d'aria fresca le farà bene.


Grace riprende conoscenza seduta nel gazebo, sotto il grande sicomoro. Suo padre è in piedi a qualche metro di distanza, per non farle sentire il fetore di Hester, che ha addosso. Sua madre è ancora in casa, dietro la vetrata del soggiorno, e la sta guardando con un'espressione un po' stonata.

— Stai meglio, ora?le chiede Robert.

— No, fino a che lei è ancora là. Questo è uno di quegli incubi in cui ti svegli in un altro incubo. Credo che sentirò questa puzza per tutta la vita, anche dopo che mamma se ne sarà andata. Perché se ne andrà, vero? Questo incubo finirà, prima o poi.

— È solo per un giorno, Grace. A mamma mancava la sua vita. Sai, suo marito, sua figlia — dice indicando prima sé stesso e poi Grace — e poi le sue abitudini, i cereali al cioccolato, gli sformati di verdura, le zuppe, gli infusi strani, i cosmetici, il forum di scrittura, whatsapp, Netflix, insomma tutte le cose che le piaceva fare prima di… cioè, finché è stata viva.

— Guarda che lo puoi dire. Prima che si chiudesse nell'auto, in garage, e si facesse una bella inalazione di monossido.

— Grace…

— Al diavolo, sempre gli stessi discorsi. Io che la infamo e tu che la difendi.

— Era tua madre, ti voleva bene.

— Non abbastanza. Ma non è questo il punto, cazzo. Il punto è: cosa ci fa qui?

— Te l'ho detto. Voleva tornare a casa, per un giorno.

— E tu come fai a saperlo? Ti è apparsa in sogno?

— Qualche volta la vado a trovare, la sera. Quando esco dal pub.

— E dove? Al cimitero?

— Sì.

— Sul serio? Non ci credo, cazzo.

— C'è ancora quella breccia nel muro, da quando è crollato sei mesi fa. Io andavo sulla sua tomba, e poi lei ha cominciato ad apparire. All'inizio non capiva quello che le dicevo, sembrava smemorata, ma poi si è ricordata ogni cosa ed è tornata come prima.

— Come prima non mi pare. Non è mai stata troppo sveglia, depressa com'era, ma certo non aveva la faccia da zombie rimbambita che ha adesso. Ma guardala. Ti sembra mia madre, quella?

Si voltano entrambi, padre e figlia, per guardare Hester di là dal vetro, dentro casa. In effetti non ha un'aria molto presente. Li sta fissando con la bocca aperta e la testa piegata un po' a sinistra. I capelli color topo, arruffati. Le braccia penzoloni come stracci bagnati. La pelle chiazzata e grigia. Li guarda ma è come se non li vedesse.

— L'hai accompagnata tu, in macchina?gli chiede Grace.

— Sì, ieri sera, ma non era ancora pronta a farsi vedere da te, e così ha aspettato in giardino che tu uscissi per andare a scuola.

— E che ha fatto questa mattina?

— Te l'ho detto. Le mancavano le sue cose. Ha usato i cosmetici, ha guardato la televisione.

— Ti conosco, papà. Cos'è che mi stai nascondendo?

— Niente.

— Non mi dirai che… No, è impossibile. — osserva Grace, scuotendo la testa, ma poi guarda suo padre negli occhi, che cercano di sfuggirle, e le viene il dubbio. — Perché quella cosa stava in sottoveste e tu avevi addosso solo la vestaglia? Non avrete mica…

— No, macché.

Gli occhi di suo padre non sono capaci di mentire, Grace lo sa. Lo guarda sbalordita. — No, dai. Non ci credo. Ma, ma… cazzo, che schifo.

— Tesoro, ti prego…

La faccia di Grace è una maschera di orrore e disgusto: — Ma come cazzo hai fatto a… — i conati la colgono all'improvviso e questa volta non riesce a trattenersi, si piega di lato e vomita sul pavimento del gazebo.

Robert la guarda e pensa che lei non può capire, anche se c'è stato un momento a letto, quella mattina, in cui ha provato a sua volta un certo disgusto, quando Hester gli stava sopra e lui le ha strizzato un seno. Gli si è rotto in mano come un uovo marcio e un fiotto di liquido maleodorante e vischioso gli è arrivato dritto in faccia. Se non fosse venuto proprio in quel momento, dentro di lei, si sarebbe di certo vomitato addosso e non sarebbe stato molto carino.

Quando Grace si raddrizza, pulendosi la bocca con il dorso della mano, ha una faccia come un cencio.

— Porta via quella cosa prima che puoi. OK?gli dice alzandosi.

— Dove vai?

— A fare un giro. Chiamami appena se n'è andata.

— Grace, almeno salutala.

— Neanche morta.


Hester passa il resto della giornata ad annusare i suoi profumi, a preparare uno sformato di carote che ovviamente nessuno mangerà mai, a passare in rassegna i suoi vestiti, a guardare qualche episodio di Desperate Housewives. Quando il sole tramonta e cala l'oscurità, lei e Robert escono lungo il vialetto, e salgono nell'auto. Lui le fa fare un giro della città, indicandole a uno a uno tutti i luoghi che hanno condiviso durante la loro relazione. La panchina dove le leggeva le sue poesie preferite, il ristorante in cui le ha chiesto di sposarlo, il bar in cui facevano colazione tutte le mattine. E poi il sentiero lungo il fiume dove andavano a fare lunghe camminate nel fine settimana, il negozio di parrucchiera in cui lavorava lei, la banca di cui lui è stato il direttore per anni.

Poco prima di mezzanotte, Robert ferma la macchina sul limitare del terreno in cui giocava da ragazzino con i suoi amici. Nell'angolo in basso a sinistra del parabrezza, la ciminiera della Sullivan & Sons si staglia scura contro lo sfondo del cielo sulfureo, attraversato dai fumi rossastri che si sollevano verso l'alto a ogni ora del giorno e della notte. La chiesa di St. Peter e l'angelo di marmo, nell'angolo a destra, sono investiti dal doppio fascio di luce bianca sparata dai faretti ai due lati della facciata.

La donna che è stata sua moglie, seduta in silenzio al suo fianco, sembra aver poco da spartire sia con l'inferno che col paradiso. Hester è diventata piuttosto una strana creatura indifferente al concetto di bene e di male, di giusto e sbagliato, di bello e di brutto. Nel suo sguardo fisso e smorzato, sotto le palpebre rilassate, non sembra esservi più interesse per nessuna di quelle distinzioni. E nemmeno — a giudicare dalla reazione a tutto ciò che di quella città avrebbe dovuto ricordare volentieri — a quello che è stato il suo passato. Anzi, il loro passato.

— Mi dispiace, Hester.

— Di cosa?chiede lei, guardando fisso davanti a sé.

— Che sia andata così. Che tu non sia più insieme a noi. Che tu debba tornare in quel cimitero freddo e inospitale.

Hester non dice nulla. Rimane immobile. Le mani abbandonate in grembo e il profilo del suo volto nascosto in buona parte dai capelli devitalizzati.

— E mi dispiace anche per Grace. Credo le serva ancora un po' di tempo per accettare il fatto che tu sia…

— Morta.

— Esatto. Sono sicuro che la prossima volta in cui organizzeremo una giornata come questa, andrà molto meglio, vedrai.

Robert si sente a disagio, in primo luogo perché Hester non è nemmeno un po' compiaciuta di tutte le cose che ha fatto per lei quel giorno; e poi perché non c'è niente in lei che possa ricordargli la donna che aveva sposato, a parte una vaga somiglianza fisica. Vaga e corrotta. Forse ha ragione Grace, e quella cosa non è più la donna che hanno conosciuto come moglie e come madre. Forse le visite al cimitero sono state davvero una follia, ed è il caso di dimenticare Hester una volta per tutte.

Guarda l'orologio e pensa che appena avrà riaccompagnato il cadavere di sua moglie al cimitero, chiamerà la figlia e le dirà che può rientrare a casa, e non dovrà più preoccuparsi di nulla perché mamma non tornerà più a far loro visita.

— Sei pronta, tesoro?

Lei si volta a guardarlo come se non capisse il senso della domanda.

— Ora ti riaccompagno, e poi ci rivedremo presto. — cerca di rassicurarla, interpretando la sua vacuità come una sorta di rammarico.

Ha la stessa espressione di Pete, pensa Robert.

È impaziente di tornare a casa, dentro di sé è consapevole di averle appena mentito e di non provare più alcun desiderio di rivederla. Lei apre la portiera con cautela, cercando di non rimetterci altre due dita, e scende dall'auto.

— Dove vai, cara?le chiede Robert, avvertendo una certa apprensione.

— Faccio due passi.Dice lei, voltandosi un'ultima volta a guardarlo con quei suoi occhi opachi. — Conosco la strada, ora.

Prima di chiudere la portiera e allontanarsi nell'oscurità, Hester si piega verso l'interno del veicolo e lo guarda dal suo volto freddo e distante.

— Anche quella di casa.


(fine)



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Alessandro Mazzi


Tempus Fugit


Come glielo devo ripetere signor commissario? Con quello che è accaduto ieri notte, io c'entro poco o nulla.

Magari si sarà fatto una strana idea di me. Immagino avrà sentito le voci che circolano sul mio conto. Lei è qui da pochissimo tempo dopotutto. Le posso assicurare che nonostante le apparenze, sono una persona a posto. Certo è vero non ho una casa, né una famiglia, ma quantomeno ho smesso di bere da un paio d'anni. Perfettamente sobrio. Cristo santo, meglio che non ci pensi. Quanto vorrei scolarmi quattro o cinque bicchieri di Jack Daniel's.

Oh sì, certo mi scusi, sto divagando. Lei ha perfettamente ragione. È solo che la trovo insolitamente simpatico. Lo sa, solitamente non nutro una grossa stima nei confronti degli uomini in divisa. Anche il suo assistente lì di fianco mi sembra una brava persona. È una fortuna per il corpo di polizia di Durham aver trovato due come voi.

Ma torniamo a noi. È vero ciò che affermate. La notte scorsa mi trovavo sul luogo dell'incidente. Assolutamente innegabile. Tuttavia ho una serie di considerazioni da esporvi prima di arrivare al dunque.

Lo so vi sto tenendo sulle spine e sto allungando il brodo, come diceva sempre la mia cara nonna, ma lasciate che vi spieghi.

Da un po di giorni a questa parte, il tempo qui in città non scorre più allo stesso modo. Non lo avete notato pure voi? No? Evidentemente non avendo un lavoro, né qualche modo per far passare le giornate, sono più soggetto a paranoie di questo tipo.

La notte dura sempre meno. Le lancette degli orologi corrono all'impazzata, e mentre la gente soffoca la stanchezza accumulata durante la giornata fra le lenzuola, i minuti e le ore scivolano via con la velocità di un fulmine. Le persone riposano sempre meno, ma nessuno sembra accorgersene.

Anche il mattino e il pomeriggio sfuggono alla stessa velocità. Non ditemi che non avete fatto caso nemmeno a questo.

Santo cielo, devo essere l'unico ad aver notato che gli uomini al lavoro non hanno più nemmeno il tempo di sbrigare le proprie mansioni, prima che la campana segni la fine del turno.

L'altro giorno la signora Ingrid non ha fatto tempo a lasciare a scuola il piccolo Thomas, che le lezioni erano belle che terminate. Ho calcolato che nella sola mattinata di ieri abbiamo perduto un'ora del nostro prezioso tempo.

Certo, per un senzatetto come me un'ora più o un'ora meno non fa differenza.

Come dice signor commissario? Che sto sviando il discorso? No assolutamente. Mi lasci finire.

Dev'essere stata una settimana fa all'incirca. Avevo appena sistemato il mio giaciglio per la notte, come sempre sotto la torre dell'orologio, quando iniziai a sentire dei rumori insoliti provenire dall'alto. Così presi a salire le scale, e giunto nella sala dell'orologio, sapete quella con tutti gli ingranaggi, vidi un gruppetto di orribili creature, intente a muovere le grandi lancette dorate.

Soltanto che non stavano semplicemente spostando avanti il tempo. Ho avuto l'impressione che se ne stessero nutrendo.

Rimasi nascosto in un angolo, a osservare sbigottito quegli esseri abominevoli.

Erano piuttosto piccoli. A prima vista sembravano quasi buffi e innocui. Poi li osservai meglio.

Avevano il volto costellato di pustole, con un lungo becco appuntito giusto al centro. Ma la cosa peggiore erano le loro mani, che poi non erano nemmeno mani, ma grossi artigli. Avete presente quelli dei falchi o delle aquile?

Ovviamente fuggii senza dir nulla. Porco demonio, ero perfettamente sobrio e quello non poteva essere uno scherzo dell'alcool.

Ho dato un nome a quelle creature, sapete? Li ho chiamati FrangiTempo, e li ho visti ancora nei giorni seguenti al primo incontro.

Ero certo che li avrei rivisti. Quello che non potevo sapere, è che li avrei incontrati nuovamente sotto una forma differente.

Si celano sotto aspetti umani, e io vi posso garantire che anche in questo momento, per le strade della città, qualche FrangiTempo sta incrociando lo sguardo di persone comuni.

Si nascondono ovunque. Sono il giardiniere sud Americano che taglia la siepe al parco, o la nuova baby sitter a casa dei coniugi Leskell. Sono praticamente invisibili all'occhio umano, e si palesano nella loro forma demoniaca solamente in presenza di un orologio o di qualche arnese che segni il tempo.

Sì, va bene, va bene ora la faccio finita una volta per tutte. Come? Qual è il motivo per cui fanno questo? Non ne ho la più pallida idea. Credo si nutrano del nostro tempo, e che ne abbiano bisogno in dosi sempre maggiori, ma più di ciò non posso azzardare.

Ieri sera, dopo aver sentito certi fastidiosi rumori, sono risalito alla torre dell'orologio.

Ci saranno stati almeno una ventina di quei malefici FrangiTempo. Ero pronto a toglier loro ciò di cui avevano bisogno.

Ricordo di essere uscito allo scoperto, mentre i loro occhi da rapace mi fissavano, e di essermi lanciato contro il meccanismo dell'orologio. L'ultima cosa che son certo di aver visto, sono stati quei corpi librati in volo, pronti a sferrare l'attacco.

Il resto è storia che già conoscete. L'orologio è finito in mille pezzi, precipitando al suolo. Quegli esseri non devono aver un grande cervello per aver sferrato un'offensiva tanto sciocca e avventata, per di più proprio mentre mi stavo scansando dalla traiettoria del colpo.

Qualche graffio me lo hanno lasciato. Vedete, proprio qui sul braccio destro.

Questo è tutto ciò che ho da confessare. Ora se non vi dispiace, preferirei andare. Alle volte ho come l'impressione che mi stiano seguendo, che vogliano mettermi a tacere, in quanto sono l'unico a conoscere il loro segreto. Sono certo che durante il nostro interrogatorio qualcuno di quegli esseri si sia sfamato ancora.

Lasciatemi dare un'occhiata all'orologio nel taschino della mia giacca. Dovrebbero essere all'incirca le undici. Eccolo qui, guardate voi stessi. Mezzogiorno in punto. Il tempo è fuggito ancora.

Signor commissario, va tutto bene? Che le succede? Signor assistente, cosa sono quei puntini sul suo viso. Santo cielo, quegli artigli…


(fine)



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Giampiero


Mafie


Sotto lo sguardo indefinito di donna Agatina, ferma in piedi accanto al credenzone con uno straccio in mano, il parroco è alle prese con il suo piatto preferito. Broccoletti affogati con cipolla e olive.

A capotavola, su un largo tovagliolo decorato con motivi floreali è perfettamente centrata la ciotola dove i broccoletti sono sistemati in una struttura piramidale. Ma, proprio sotto il naso del gesuita, che non deve fare altro che allungare la forchetta e rimpinzarsi lo stomaco, continuano a emettere fumo senza subire assalti.

L'appetito del parroco è guastato da un pensiero fisso. Don Calogero Battaglia, il nuovo boss del paese, non muove mai minacce a vuoto. Il don gli ha concesso un mese per lasciare la parrocchia e andarsene per sempre, e il termine è scaduto.

E se il pensiero del parroco è fisso, lo sguardo in compenso vaga per la stanza, instancabile, quasi un giro del Peloponneso. Alla fine si arresta sul piatto. E quando la piramide cede di colpo, per effetto del brodo che scompone la sua massa compatta, il parroco sbarra gli occhi, atterrito: dal piatto vede allungarsi un braccio con una mano gigantesca che lo afferra per la gola.

— Sono scotti?

Il parroco balza sulla sedia. Partita dall'oltretomba la voce della perpetua gli arriva come una fucilata: un'aggiunta a quella mostruosità.

— Chi è? Che cosa dice?

La donna scrolla il capo: — Volevo solo sapere se sono scotti.

La donna ricomincia a passare lo straccio sul mobile: — Gesù, non mi so mai regolare.

Il parroco alza gli occhi al soffitto e vi deposita una giaculatoria in cui si parla di "chi me l'ha mandata 'sta scimunita?" e "che ho fatto di male per meritarmi una pazza così?".

Infila i rebbi della forchetta nei broccoletti e intanto fissa la donna.

— No, — risponde incarognito — è il mio cervello che è scotto.

— Vedrete, prima o poi si stancherà e vi lascerà in pace.

— Di chi sta parlando?

— Di don Calogero Battaglia.

— Non ci conti. Ormai io sono il suo gioco preferito. E tutti lo sanno: quel lupo della foresta odia i preti e qualsiasi cosa santificata di questo mondo.

— Avete ragione. Deve odiare anche Dio. Avete visto domenica in chiesa? Non si è tolto la coppola.

— Cieco non sono.

Don Carmelo solleva la forchetta ma nel portarla alla bocca si blocca con la mano a mezz'aria: un ricordo improvviso si tramuta in un'ennesima esternazione di rabbia. — E pensare che voleva farsi prete, il mala carne!

Donna Agatina assume una posa che, straccio in mano, al parroco riporta alla mente la scena di Saul fulminato sulla via di Damasco.

— Davvero voleva farsi prete?

— E che, dico cretinate, io? Lo chieda in giro. Nel quartiere tutti lo sanno.

— Gesù. Si vede, allora, che qualcosa di buono deve averlo anche lui nel cuore.

— Come no. In effetti, con quel suo coltello dalla lama affilatissima che mette in mostra a ogni brivido di collera, dicono che abbia fatto cose buone. Molte buone. Buonissime. Tante buone che nella borgata de' pescatori non si contano più le sue vittime.

La perpetua gli indirizza uno strano sguardo: — Ditemi la verità, don Carmelo, voi avete paura di lui, vero?

Il parroco tace. Accantona la domanda in un angolo del suo cervello, promettendosi di rispondere per le rime alla perpetua. Il ricordo di un colloquio al confessionale con don Calogero ragazzo, tantissimo tempo fa, prende il sopravvento.

"…la tua vocazione è una cosa preziosa, Calogero. Mi fa capire che sei un ragazzo speciale. Devi fare attenzione, però, tante sono le tentazioni in questo mondo. Ed è opportuno che io ti prepari alla vita da servitore di Dio. Ma devo sapere se c'è qualcosa che ti turba".

"Padre, in effetti sono preoccupato per la malattia di mio fratello. Purtroppo nemmeno mia madre sta bene. Dalla morte di mio padre non s'è più riavuta, sapete".

"Coraggio, non devi abbatterti. Ognuno di noi ha la sua croce da portare su questa terra".

"La malattia di mio fratello è di quelle rare, una complicanza ai polmoni. Occorre del denaro per curarlo, e la mia famiglia purtroppo è povera. Abbiamo già tanti debiti".

"Un rimedio lo troveremo".

"Davvero padre?"

"Si può sempre organizzare una colletta. Ma devi prima mettere a nudo la tua anima".

"E come padre?"

"Con la preghiera arriveremo al cuore di Dio. Ma immagino, data la tua giovane età, che tu sia attratto dai piaceri della carne e non puoi fare a meno di toccarti".

"Toccarmi?"

"Su, che hai capito".

"Padre, veramente non so cosa c'entri questo discorso con l'arrivare al cuore di Dio".

"C'entra figliolo, c'entra. Se dobbiamo rivolgere quelle famose preghiere a Dio, devi essere com-pletamente leale con Lui. Ti insegnerò io come fare".

"Non capisco, padre".

"Sabato pomeriggio vieni a trovarmi in canonica, ti spiegherò come toccarti senza peccare. Poi risolveremo il tuo problema".

Calogero Battaglia non aveva risposto subito, ma alla fine la sua voce era arrivata chiara, diversa.

"Va bene, verrò a farvi visita".

"Dopo le sette, però. Non dimenticarlo".

"Non lo dimenticherò, avete la mia parola d'onore".

E l'aveva mantenuta la sua parola d'onore. Lo aveva aspettato dietro le mura della chiesa e, quando lo aveva visto arrivare, gli aveva sferrato una randellata in testa. Una botta terrificante. Una settimana in coma. Quasi lo uccise. Calogero fu arrestato e le sue accuse di pedofilia per fortuna rimbalzarono invano contro le pareti di una sala dell'Arcivescovado.

Passando davanti alla finestra, donna Agatina si ferma di colpo e guarda in strada. Si volta verso il parroco e si butta le mani al volto. Poi le toglie. Se le butta di nuovo. Infine muove le labbra, senza suono: Là sono!

Don Carmelo si alza dal tavolo e corre alla finestra.

Gli sgherri di Don Calogero sono appostati proprio all'angolo della strada. Uno di fronte all'altro, spalle e piede al muro.

Quello alto col labbro storto, che pare sempre disgustato dalla vita, si è accorto di lui. E, pronto, fa scattare la lama del coltello, maneggiando la punta per pulirsi le unghie. Poi fa segno al compare, lo sbarracorta e lesto di occhi, di guardare verso la finestra.

I due ora lo fissano con sguardi che scintillano di ironia.

Per don Carmelo ormai è chiara la questione: alla minaccia del don, in chiesa seguiranno fatti sempre più tangibili, e tramite quei due cani ormai sciolti dal loro padrone. Il parroco sa bene che non può evitarli. Quindi decide che tanto vale affrontarli e tentare di prenderli con le buone.

Quando, giù in strada, arriva al loro cospetto, lo sgherro più basso lo apostrofa con una frase dal tono cantilenante.

— Ohè, padre miracolo! Avete dormito bene stanotte?

— Discretamente.

— Come scorre veloce il tempo, eh?

— Già.

— Lo dico sempre anch'io. — dice a ruota l'altro compare — Il tempo è una cosa buona. Un regalo che nostro Padre Santo fa a chi gli vuol bene e lo rispetta.

— Giusto. — riprende lo sgherro più basso — L'unica cosa spiacevole del tempo è che passa troppo in fretta. Non so che cosa ne pensiate voi, don Carmelo. Quindi vi chiedo: è o non è come dico io?

— Ma certo figlio, che è come dici tu. Ma sai, a volte Dio concede altro tempo alle anime pentite. Non per nulla Egli è detto il Misericordioso. Una proroga, in genere, non la rifiuta mai a nessuno.

— Proroga? E che minchia sarebbe?ribatte lo sgherro più alto, detto il Continentale, che smette di pulirsi le unghie col coltello. — Perché parlate in latino, adesso? Vabbè che avete fatto le scuole, ma se volete che persone come noi vi capiscano dovete usare la loro stessa lingua. Noi due, per esempio, non sappiamo una minchia di proroghe!

— Avete ragione, perdonatemi. Volevo dire che a volte Dio concede altro tempo a chi ha un debito con Lui, per metterlo alla prova e dargli così la possibilità di redimersi.

— Questo, dunque, sta solo a Dio deciderlo. Giusto?dice lo sgherro più basso.

— Sicuro, a Dio. E se dai suoi arcangeli Gli arrivassero le preghiere giuste dell'uomo pentito, forse Egli potrebbe prendere in considerazione la richiesta e concedere altro tempo.

— Voi credete nella forza della preghiera, vero don Carmelo?gli chiede lo sgherro dal labbro storto, gli occhi di nuovo fissi sulla punta del coltello.

— Sicuro figlio, che ci credo. Non sarei un uomo di Dio, sennò.

— E cosa sareste, sentiamo.il tono dello sgherro più alto è duro. Una pietra.

— Be', un peccatore, temo.

— Un rinnegato di Dio, magari?

— Anche.

— Un saracino privo di carità cristiana?

— Ma sì, anche un saracino, probabilmente.

— Un pezzo di merda?sul volto truce dell'altro compare che ha preso la parola, quello più basso, c'è uno sguardo che lo rende sinistro. Sembra uno di quei mastini che si incontrano per strada e ringhiano in continuazione.

— Ma che volete che vi dica ancora, figlioli?

— No, padre. Dite, dite. — ribatte il Continentale — Siamo qui apposta per ascoltarvi. E vi garantisco che nessuno vi impedirà di parlare. La democrazia è una bella cosa, perché tutti possono fare delle domande lecite e ricevere lecite risposte.

— Certo, certo, avete ragione. Be', anche in quel caso sarei quella "cosa" lì. Insomma avete capito.

— Che vi succede, don Carmelo?ribatte lo sgherro lesto di occhi — Avete paura delle parole al punto da non saperle più pronunciare? Suvvia, un uomo come voi, che conosce il latino, non dovrebbe avere nessuna difficoltà nel pronunciare parole nostrane. E poi ci sono cose più brutte delle parole, cose che fanno male davvero!

Con un balzo, lo sgherro sfila il coltello dalla tasca e, fatta scattare la lama, piomba sul padre parroco sferrandogli una coltellata al volto. Da orecchio e mento, il sangue zampilla come una fontana. Il parroco grida di dolore. Si guarda attorno, in cerca di aiuto. Alza lo sguardo alla canonica: donna Agatina è alla finestra, le mani al volto, poi le congiunge, come in preghiera.

Dagli usci scuri ai lati della via non si ode uno scricchiolio. Don Carmelo è certo che la gente scruta dalle porte e finestre. Ma ha troppa paura del nuovo boss e dei suoi sgherri. E, come previsto, nessuno muove un dito.

— Allora che facciamo, signor prete? Stiamo ancora aspettando una vostra risposta.

Stavolta è lo sgherro alto a parlare. Anche la lama del suo coltello sembra voler bere il sangue del gesuita. Con una mossa studiata del braccio il Continentale lancia il coltello verso il parroco. Proprio nel momento in cui questi si scansa. Il coltello si pianta sul legno dell'imposta di una finestra, nel punto in cui si trovava il parroco un secondo prima.

Con passo dinoccolato e con tutta la flemma possibile, il Continentale si avvicina all'imposta e stacca il coltello. Poi si gira e storpia un sorriso troppo poco rassicurante al padre parroco.

— Certo, certo, figli miei. — cinguetta don Carmelo — È naturale, in quel caso sarei anche un pezzo di merda. Anzi, un "gran" pezzo di merda.

I coltelli scompaiono dalle mani degli sgherri con un gioco troppo veloce perché il parroco avesse potuto seguirlo.

— Bene. Avete visto che alla fine ci siete riuscito?dice lo sgherro più basso — E sapete che ne penso delle vostre proroghe? Penso che in effetti Dio le vada concedendo alla brava gente, a quella probabilmente che merita di essere redenta. Ma ai pezzi di merda secondo voi Dio le va concedendo?

— Badate, padre, che non accetteremo una risposta che non sia ispirata dall'Eterno. — dice a ruota l'altro compare.

— Giusto, figliuolo. Non ci piove. Dio non potrà mai concedere proroghe a certa gente.

— E allora?

— Domani chiederò al vescovo di mandarmi in pensione.

— Bene, nel frattempo faccia sapere a sua eccellenza il vescovo che ha un mese di tempo per togliersi anche lui dalla minchia!


(fine)



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Teseo Tesei


Un "Capocoda" fedele, forte e coraggioso


Al mio risveglio il freddo pungente sul naso e un vapore rilasciato, ben visibile, mi lascia di buon umore.

Quando il capobranco giunge nella tana per chiamarmi è ancora buio pesto.

Siamo solo noi due.

Lui ha gran fiducia in me, tanto è vero che mi preferisce agli altri membri del branco.

Mi sceglie quasi sempre per andare in ricognizione. Questo è per me motivo di grande orgoglio.

Ha nevicato molto questa notte e le zampe affondano nella neve fredda e farinosa, costringendomi a procedere per balzi.

Se prima ero di buon umore, ora sono beato: al settimo cielo.

Mi diverto come un pazzo nel rotolarmi, saltare, scavare e correre in quel soffice elemento bianco, torno spensierato e felice come un cucciolo.

Il mio capobranco allunga il passo, comincia a correre.

Forse ho capito: lui e quei mattacchioni del mio branco intendono giocare ancora a nascondino.

Comincia sempre così.

Mi piace tantissimo cercare i membri del branco nascosti a turno sotto la neve.

È entusiasmante quando tutto il branco mi segue, scavando con me per estrarre il burlone seppellito che appena esce da sotto la neve comincia ad accarezzarmi riempendomi di complimenti.

Tutti poi mi accarezzano e mi battono sonore pacche sul petto sostenendo che sono bravissimo ed eccezionale.

Sono davvero dei gran mattacchioni i componenti del mio branco.

Mai avrei potuto desiderare famiglia migliore.

Il mio branco è fantastico.

Tutti mi vogliono bene.

Tutti vogliono giocare con me e riescono sempre a farmi sentire speciale. Questo è per me davvero importante. Sono un gregario e so bene che la forza del nostro gruppo dipende da ognuno di noi, per questo cerco di svolgere sempre al meglio il mio compito.

Ora che la luce del giorno aumenta vedo nelle scure acque del lunghissimo lago artificiale, attorno al quale stiamo correndo, l'immagine riflessa del versante imbiancato sul quale ci troviamo.

È curioso osservare l'unione virtuale delle due montagne nel lago. Come se i due versanti di quella stretta valle, la mattina, si dessero appuntamento: l'uno per bagnarsi i piedi e l'altro per tuffarsi. Quell'immagine curiosa continua ad attrarre la mia attenzione.

Sento un odore familiare. Sono certo che tra poco il capobranco fermerà la sua corsa.

Infatti è così.

Il capobranco rallenta il passo avvicinandosi a una baita in legno, sopra la quale sventola una bandiera rossa con una grande croce bianca nel mezzo.

Il capobranco bussa alla porta, ecco lo sento sempre più forte. È l'odore della femmina del capobranco che viene ad aprire.

I due si annusano, poi cominciano a leccarsi il muso.

Sono ancora più contento, tanto che comincio a correre e rotolarmi nella neve come un cucciolo.

Capocoda, mi fermo un attimo! — mi grida il capobranco richiudendo la porta dietro di sé.

Sono estasiato e rapito, conosco bene quel posto, così comincio a esplorare i dintorni cercando un odore che suscita ancora in me i bei ricordi dell'estate appena trascorsa.

Giro tutto attorno ma nessun odore.

Così comincio a ululare, proprio come lei mi aveva insegnato. Ma il mio olfatto non percepisce nulla, chissà, forse il suo branco si sarà spostato.

Sento il capobranco riaprire la porta della baita, accidenti sono lontano, ma con qualche rapido balzo giungo in tempo per ricominciare a correre.

Ora ci ritroviamo sul lato opposto del lago. Mentre corro osservo i due versanti riflessi: quello che prima si bagnava i piedi ora è nel lago, l'altro è con i piedi in ammollo.

Si saranno dati il cambio. Strane queste montagne! Davvero strane.

Siamo arrivati, il capobranco mi accompagna nella tana e mi saluta come sempre: con una pacca sul petto e una grattata sotto al mento accompagnata da una carezza.

Passo il resto del giorno a giocare con gli altri membri del branco: facciamo lotta, mi fanno cercare molteplici odori, andiamo in un posto dove sembra essere sempre capodanno e dove non badano mai alle spese per i botti. Lì facciamo quel gioco dove devo tenere le orecchie basse, strisciare e nascondermi da quei sibili assassini che cercano di stanarmi ovunque.

Giochiamo anche a rincorrerci. È un bel gioco: devo inseguire, atterrare e disarmare un membro del branco, per l'occasione talmente imbottito che gli manca solo la barba, poi è la copia di Babbo Natale.

Lo scorso anno si era messo pure quella, con la divisa rossa e bianca e il berretto caratteristico. L'ho detto che sono dei gran burloni e giocherelloni quei mattacchioni del mio branco.

Ogni tanto quel gioco varia: il capobranco mi grida un ordine speciale, che conosciamo solo io e lui. È il nostro segreto. In quel caso mi esercito ad azzannare alla gola e uccidere senza esitazione.

Bene, dopo la cena è ora della nanna, il mio capobranco viene a salutarmi passando un po' di tempo con me, come fa ogni sera fin da quando ero cucciolo. Posso dormire soddisfatto è passata un'altra bella giornata e sono felice.

Vengo svegliato nella notte, c'è grande agitazione e trambusto.

Il capobranco mi raggiunge, mi veste con la mia armatura in kevlar.

Si fa sul serio, questa notte tutto il branco esce in caccia.

Saliamo sull'elicottero e il capobranco mi tiene stretto abbracciandomi forte: — Tranquillo, Capocoda, tranquillo. — mi ripete con voce serena e rassicurante.

Sono tranquillo, ho avuto un po' di paura le prime volte, ma ora non ne ho più.

Come sempre sono il primo a saltare dall'elicottero, il capobranco comincia a correre e io gli resto al fianco con tutto il branco che segue.

Poi percepisco un odore che ho imparato ad associare al pericolo.

Fermo il capobranco, come mi è stato insegnato.

Lui estrae il mio quaderno da una tasca cosciale.

Sul mio quaderno ci sono dei disegni plastificati con i quali io e lui riusciamo a comunicare.

Indico con la zampa il pericolo che ho annusato.

Bravo, Capocoda. — mi dice, battendomi la mano al petto.

Ora guido io e tutto il branco mi segue a distanza di sicurezza.

Come sono orgoglioso e fiero quando il capobranco mi lascia guidare.

Mi avvicino al pericolo; sento tutti gli occhi del branco su di me.

Un uomo esce da una casa isolata correndo, è armato e ha dell'esplosivo addosso.

È proprio l'odore che avevo percepito come pericolo.

Il capobranco mi ordina di fermarlo, così lo inseguo e con un balzo lo atterro.

Sento da lontano la voce forte del capobranco che mi ordina di allontanarmi e di scappare veloce.

Sento un gran numero di botti con altrettanti sibili assassini avvicinarsi.

Non c'è dubbio, quello è un nemico e deve essere fermato immediatamente.

Mentre le mie zanne gli lacerano la giugulare e sento abbondanti fiotti di sangue inondarmi la bocca i sibili assassini ci raggiungono e colpiscono la mia armatura e il nemico.

Poi una violenta esplosione mi scaraventa a una quindicina di metri di distanza.

Non sento dolore, ma solo uno strano brivido e un freddo intenso.

Vedo il capobranco correre velocissimo verso di me, mi raccoglie e mi abbraccia disperato: Te lo avevo gridato, testone, di scappare! Ho visto nell'ottica che stava per farsi esplodere, dovevi obbedire.

Dai dimmelo, ripetimi quelle parole che mi sussurravi da cucciolo e mi hanno aiutato, insieme al vostro continuo amore, a crescere fino diventare quello che sono: un fiero membro del nostro branco.

Testone di un Capocoda, dovevi ascoltarmi, accidenti!

Non quelle parole, dai, fai presto, non resta molto tempo.

Il capobranco abbassa la testa su di me per sentire se ancora respiro, poi mi sussurra, con voce rassicurante, nelle orecchie, proprio come faceva quando da cucciolo ero terrorizzato:

"Non ti ho io comandato: sii forte e coraggioso?

Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada.

Vai Capocoda, vai avanti, senza paura come hai imparato a vivere, verrà il giorno in cui saremo ancora insieme. Uniti nello stesso branco in un mondo finalmente libero da ogni forma di terrore".

Mentre mi allontano sereno, osservo tutti i membri del branco venire verso di me, sento le loro carezze, le loro pacche e i loro complimenti calorosi.

Strano perché mi hanno accerchiato, ma sono tutti ritti in silenzio sull'attenti e con la mano alla fronte, per quell'ultimo saluto.


(fine)



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Athosg


Brianza Horror


Brianza, secolo XXI. La terra che fu un esempio mondiale di operosità e fratellanza, ha intrapreso un declino ripido. Il capitale sociale ha nettamente sconfitto il capitale umano, lasciando sul terreno i cocci taglienti del benessere perduto. In una lunghissima giornata della durata di diciotto ore, il protagonista si muove dubbioso e attonito, cercando una via d'uscita. La troverà, come un'illuminazione, a notte fonda.


Ore 8


DONG… DONG… DONG. Con le campane che suonano a morto, mi risveglio anche questa mattina. Forse farei meglio a cambiare suoneria al cellulare, mettere qualcosa di allegro o un pezzo rock. Oggi mi sento strano dopo che ieri sera ho letto per metà "la solitudine del maratoneta", di Sillitoe; è un libro illuminante e questa notte, dopo la tremenda giornata che mi attende, voglio finire di leggerlo. Mi alzo scivolando dal letto agile come un bradipo, e quasi carponi vado in cucina. Ingoio un cornetto alla crema e bevo acqua naturale, la colazione frugale di un mistico dell'occidente. Tutto questo in diciassette secondi. Non è ancora record. E poi via in bagno, il mio regno mattutino, dove il gesto di radermi è ormai diventato una messa laica.

In giornata dovrò presentare una relazione di bilancio al capo, la persona più importante dopo Osvaldo Piccion, il gran patron di Divanite. È un lavoro incompleto perché la mancanza cronica di personale e programmi informatici non mi permette maggior precisione.

Da quando la crisi è arrivata, tutto è andato a rotoli, anche le cose semplici non sono più recepite. Ora non c'è più San Silvio perso tra le cosce di qualche ragazzina e nemmeno Don Umberto pizzicato con le mani nella marmellata. E per Matteo de' voantri che aggettivo si può trovare? È strano il destino dei brianzoli, che da oltre un ventennio hanno affidato le loro speranze politiche e filosofiche a persone dal passato piuttosto oscuro.

Paradossalmente questo popolo, tra i più laboriosi al mondo, ha affidato il suo futuro a soggetti che non hanno mai lavorato. Si ha l'impressione che non ci sia più un rappresentante serio nel vasto mondo che circonda questa landa. I padri se ne sono andati e gli orfani sono diventati esperti di costituzione, di accoglienza agli immigrati e di emergenze naturali. E di flat tax. Vivono e proliferano in un mare d'egoismo, tra lamentele e arroganza e rimembranze del tempo andato. Bene, mi sono sbarbato e vestito. Forza e pazienza.


Ore 10


Dopo un paio di commissioni arrivo in ufficio e trovo i miei colleghi alla macchinetta del caffè.

A prima vista mi paiono sereni, anche se un po' stanchi, d'altronde il ritmo è da catena di montaggio alla Charlie Chaplin, altro che lavoro di concetto. La direzione del pensiero non è più uniforme, anni e anni di antico benessere filtrano e distorcono una realtà in declino. Dopo dieci minuti mi chiama Piccion. Vuole sapere se i dati sono pronti. Il tono è quello tranquillo e conviviale della casalinga di Voghera che ha appena trovato un topo nella dispensa. Rispondo come un automa, tipo sì, però, mancherebbe questo e questo. Non mi dilungo più di tanto perché non sono più sicuro di reggere la parte, spesso provo un senso di scoramento, di vergogna indefinibile. Gli abitanti della Divanite li divido in due categorie: gli automi e i replicanti. Gli automi conoscono le tempistiche del lavoro e le sue tecniche. Sono positivi, anche se ormai rispondono a monosillabi e si comportano come gli antichi Maya dinanzi alla veemenza del vulcano: alzano le braccia in segno di rispetto verso la grandezza della natura. Qui alzano le mani e basta, di grandezza se ne vede poca. I replicanti sono più obliqui, cercano sempre una sponda cui aggrapparsi, sono una categoria protetta, potremmo definirli i quadri del sistema, anche se per ovvi motivi sono sempre bypassati dalla proprietà. I replicanti però non mollano, ripetono all'infinito il loro monotono disco e sono lasciati in pace. È questione d'intelligenza, coraggio e, soprattutto, onestà. A volte nei momenti di scoramento penso che il confine tra le due categorie sia labile, ma in realtà c'è, eccome se c'è.


Ore 12


La pausa pranzo è arrivata in un battibaleno. Vorrei tornare a casa, cuocere un paio di uova e sdraiarmi sul letto ad ascoltare un po' di musica. Purtroppo ho promesso a Marcello di pranzare con lui. Mi farà comunque bene. Mi è simpatico Marcello. Sul lavoro è avanti cent'anni rispetto a me, lui non ha coscienza delle cose, non esegue, annuisce e basta. Piccion gli ha chiesto più volte una relazione sui venditori, lui ha annuito e non ha presentato nulla. È in perfetta linea con il sistema che non vuole avere troppi dati e percentuali da esaminare, quelli te li chiedono solo per farti lavorare poiché ti pagano. No, al sistema non gliene ne frega un gran cazzo di questo. Solo soldi, soldi, soldi, vogliono sentirsi dire che stanno guadagnando, che sono bravi e che fanno tanto business.


Ore 14


Al rientro è tutta una fibrillazione. Oddio, è il morto che prima di divenire tale ha un rigurgito di vita? Ripenso al DONG della sveglia. Arriva Aldo Trombetta, detto il Trombetta. Nome omen, il Principe dei Replicanti, risultati zero, esibiti con una classe innata. Si pavoneggia, ha appena parlato con Piccion.

Mi ha detto che le vendite sono in calo e che i clienti non pagano. — esordisce finto trafelato.

Osvaldo, — gli ho risposto — te l'ho già detto l'altro giorno, non ti preoccupare. Devi parlare con i tuoi commerciali, sono loro che non mi danno le cose di cui ho bisogno. I modelli, le pelli, io… io… io… sono bloccato.

— Che cosa succede? Una volta il lavoro girava, giraavaaa. conclude finto ieratico.

Incredibile, la solita litania da dieci anni, non una nota fuori posto. Ci è o ci fa? Ci sono o ci fanno? Se ci fosse qui Freud neanche con una mega tirata di coca avrebbe capito la psiche di personaggi simili. Pesante, la situazione è sempre più greve e l'orizzonte plumbeo. Vedo nuvoloni minacciosi all'orizzonte.

Vivere o sopravvivere?


Ore 16


A metà pomeriggio prevedo che la giornata sarà ancora lunga. Il bilancio è pronto, per quello che può valere. È il momento del caffè e con grande sorpresa ritrovo il mio amico Sergione. Era tanto tempo che non incontravo questo brasiliano grande, grosso e biondo che cura l'importazione delle pelli. Aveva terminato la collaborazione da un bel po' di anni ma da circa un mese ha firmato un nuovo contratto.

Hola Sergione, como va la vida? scherzo sempre con lui, cercando di mischiare un po' di parole italiane, spagnole e portoghesi. Mi fa un sorriso non molto convinto e capisco che è un po' preoccupato.

È tanto che non ti vedo. esordisco per sciogliere il ghiaccio.

Eh sì, penso siano passati dieci anni dal nostro ultimo incontro. mi sorride più rinfrancatoVedo tanti cambiamenti.

Trovi? Sì, credo che siano cambiate un po' di cose ma lavorando qui da tanti anni me ne accorgo meno. Che cosa trovi di diverso? gli chiedo incuriosito.

Vedo in giro tanto nervosismo, oserei dire rabbia. In Italia e in azienda. Tanti anni fa non era così. Ho visitato alcuni profili Facebook, vedo post che passano dalla dolcezza della foto di un gattino alla rabbia per la politica. Sembra che tutti siano esperti di tutto, ma li leggono i giornali?

Caro il mio Sergione, forse è l'eredità di Silvio. È stata la miccia che ha fatto credere ai brianzoli di essere tartassati dallo stato mentre lui predicava di evadere il fisco. Nessuno si è accorto che questo pensiero ha tolto slancio e inventiva. gli rispondo tutto di un fiato.

Cioè dare voce al malcontento di piccoli borghesi ha significato portarlo in una strada chiusa?

Eh sì, credo proprio di sì. C'è stata un'amnesia generale. Nel frattempo gli orizzonti del mondo sono mutati e ora ci ritroviamo tutti in braghe di tela. Tra l'altro con l'euro non si può più utilizzare la leva della svalutazione e quindi siamo rimasti al palo.

È un peccato, perché una volta eravate un popolo allegro e lavoratore, ora… non so… mi sembrate tutti impazziti. mi dice Sergione dispiaciuto.

Caggiavà Sergione, es un momento particular. Più tardi ci facciamo una caipirinha magari!

OK! e ci abbracciamo.

Mi ha fatto piacere rivederlo, mi ricorda un tempo in cui l'aria era più leggera.

Minchia, Sergione!


Ore 18


Sono un po' stanco. Non ho ancora capito se la situazione va bene così o se ci sono delle domande e richieste di approfondimento.

Finalmente arriva la telefonata di Piccion. Ho la vaga impressione che la nostra casalinga abbia visto centinaia di topi nella dispensa. Vuole rivedere alcuni conti perché ha parlato con Marcellabbella e dice che ci sono degli importi discordanti. I coglioni ormai mi penzolano rinsecchiti a livello delle scarpe. Non è possibile… vedo il pensiero di una civiltà seppellito da una montagna di frittelle rancide, la decadenza a grandi falcate arriva e ci sfiora. Per ora, un giorno non tanto lontano ci sotterrerà.

Immagino che Piccion giri per le scrivanie come un prof tra i banchi di scuola, lamentando di non avere più soldi e di essere diventato povero. E penso con affetto ai miei colleghi, magari quelli con mutuo a carico, che lo devono ascoltare. Alle sue obiezioni rispondo con un sintomatico — veda lei. So il fatto mio e so che mi sto stancando. Pazzesco, una volta c'era la Brianza, fosse anche solo quella alcolica che leggevi sugli striscioni dello stadio. Era uno slang che voleva dire persone serie che miravano al sodo. Persone che vivevano bene, con rapporti costruiti nel tempo, focalizzati nel rispetto e nella serietà. Nulla di serioso, solo il vivere civile. È proprio saltato tutto, qui ormai c'è più politica che in parlamento. Per quattro conti da strapazzo.

Qui è la Brianza Horror.


Ore 20


Giornata lunghissima. Arriva finalmente la telefonata del capo e del vice capo. Anche loro sono ingredienti scaduti di questo minestrone puzzolente.

Giovanni e Giacomo, Giacomo e Giovanni. G & G. Non si possono vedere, negli anni sono stati il numero uno e due alle dipendenze di Piccion, alternandosi secondo gli umori del capo e la vischiosità della lingua. Mi sembra di vedere Putin e Medvedev. Uno è primo ministro e l'altro presidente, poi come d'incanto si scambiano i ruoli. I russi, però, comandano. Parole parole parole. Quello ha detto questo, l'altro però sostiene questo. Una Babele, anche se usiamo lo stesso idioma.

I live in Brianza Horror.

Ci salutiamo rinviando a domani l'esame del problema. Sarà un'altra riunione dove tutti si trascineranno stancamente, svegli come dei formichieri solo ai cenni di Piccion. Chiudo la telefonata con un senso di nausea ma forse è già tutto superato: è solamente fame.


Ore 22


Sergione mi ha aspettato, gentile come sempre. Ci ritroviamo come ai vecchi tempi a mangiare una pizza, niente caipirinha, sostituita da un'ottima birra rossa, discutendo del più e del meno. Cerchiamo di lasciare da parte il lavoro, ma inevitabilmente ritorniamo sempre sull'argomento. Anche in Brasile, come in tutto il Sudamerica, la situazione non è buona.

Ci siamo sempre confrontati negli anni scorsi, non pensi che sia anche un fatto di cultura questa crisi? gli chiedo.

Penso di sì, ho sempre notato un certo rachitismo intellettuale e morale, l'importanza dell'accumulazione di denaro è sproporzionata nella realtà di oggi. Mi sembra che il tempo si sia fermato.

Bravo, Sergione, hai colto nel segno. Voglio fare il filosofo come te, e ti dico che il troppo stroppia. Troppo lavoro, troppi soldi, troppa furbizia. Poi un giorno ti svegli e scopri che non hai voglia di rinnovare la tua azienda, che la strada da sempre percorsa è diventata viscida e impervia. Forse è la storia del mondo e dei suoi cicli; il tempo posa sempre la sua polvere.

Non ci resta che berci una grappa… salud! mi risponde con allegria.

Salud, amigo mio.

Mi fa piacere che io e Sergione siamo sempre in sintonia.

Alla seconda grappa cominciamo a scherzare e a parlare di calcio.

Domani sarà un'altra dura giornata di lavoro.

Se ci vado.

Forse no.

Vedremo.

Non vedo l'ora di leggere il libro.


Ore 24


Ritorno a casa allegro. La birra, le due grappe e la compagnia di Sergione hanno contribuito a rendere leggero il mio animo. Mi svesto in un batter d'occhio. So già che non dormirò subito. Prendo in mano "La solitudine del maratoneta" e comincio a leggere. Sono alla metà del racconto e con un po' di sforzo riuscirò a finirlo.

Si parla di Colin incarcerato in un riformatorio. Deve correre la corsa di tutte le case di correzione d'Inghilterra. È il favorito. Lui però non vuole vincere, non vuole dare la soddisfazione alla faccia da porcello del suo direttore di pavoneggiarsi come un damerino. Lo trovo un bellissimo esempio di onestà personale.

Parte la corsa e Colin è subito in testa. Con la strada che corre sotto i suoi piedi, rafforza il suo primato. Arriva l'ultima curva, quella più in fondo al percorso. È parecchio distante dalle tribune, dove i notabili si stanno gingillando per la sicura vittoria di Colin; ma lui non vuole vincere, è spinto da un senso di giustizia verso se stesso, una purezza che lo pone sopra gli uomini comuni.

Completata la curva, Colin si finge moribondo, si getta a terra in preda a dolori articolari, coliche renali e chi ne ha più ne metta. Con l'occhio di sotto all'ascella controlla gli inseguitori. Arrivano a passo cadenzato e stanco. Sicuramente non lo valgono. Lui si dimena sempre più fino a quando è superato. Solo allora si può rialzare e correre verso il traguardo.

Wow!

Non ha vinto ed è ciò che voleva. È come se avesse segato il ramo su cui era seduto. Sorride con se stesso pensando al grugno del direttore di fronte alla sua inopinabile sconfitta.

Immagina che sarà punito per questo. E così sarà. Pulizia cessi fino al termine del periodo di pena. Soddisfatto, pulirà tutti i giorni, in pace con se stesso.


Ore 2


È tardi, e sono arrivato alla fine del libro; me lo appoggio sul petto e chiudo gli occhi con un senso di leggerezza.

La giornata è stata lunga e per certi versi inutile. Tutto è fermo, aggrappati a un sottile filo di lana, si spera nello stellone italico. Anche lui però non funziona più, la fortuna che ci ha sempre arriso ha voltato la schiena, si è tolta la benda e ora guarda da un'altra parte. La notte porterà consiglio o sarà il mio corpo a dare la risposta. Immagino di segare il ramo dove sono seduto, proprio come Colin.

Sento l'attrezzo che procede veloce.

Gra sciii gra sciii gra. Ormai manca poco.

Crraaaack… sto volteggiando nell'aria, il mio corpo fa mille capriole, vedo i miei genitori che da lassù mi sorridono, a terra ci sono i miei amici con la mia ragazza che agita un fazzoletto rosso, vedo il cielo azzurro e le nuvole bianche e tante cicogne che giungono da lontano. Annuso l'aria tersa di un bel giorno di primavera. L'animo è leggero e il mio volto lo sento disteso. Ogni salto nel vuoto ha il suo fascino discreto.

Vi voglio bene, a tutti, indistintamente. L'atterraggio prima o poi arriverà e sarà il più morbido possibile.


(fine)



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Roberto Bonfanti


Kryptonite


— Ascoltami Lex, metti giù quella… quella cosa e nessuno si farà del male, oggi.

— Ma dai, Clark, sei patetico! Non riesci neanche a dire il suo nome, ti fa davvero così paura?

— Non chiamarmi Clark, non siamo amici.

— Sul serio? Solo perché abbiamo avuto dei dissidi in passato? Tu non lo ammetterai mai, ma io sono il tuo unico vero amico, nessuno ti conosce come me. Non mi vorrai mica far credere che tieni a quel paparazzo imbranato? Ah, già, c'è anche la sciacquetta che gioca a fare la giornalista.

— Lascia Lois fuori da questa storia!

— Calma, calma, non ti agitare, va bene, i miei ossequi alla signorina Lane. Lunga vita e prosperità. No, quella è un'altra faccenda… dunque, dicevamo, questo gioiellino verde che tengo in mano, perché la temi tanto? È solo un sasso, guarda: non brucia, non corrode la mia pelle. Come può farti del male? A te, Clark, l'uomo d'acciaio!

— Ti ho già detto di non chiamarmi Clark!

— OK, e come ti devo chiamare? Grande Esse?

— Lex, te lo chiedo per favore, non farmi arrabbiare, lo sai come va a finire.

— E come? Che tu mi afferri, mi sollevi in volo e mi riporti in gattabuia? Film già visto, sei noioso.

— Allora perché insisti? Dovresti sapere che il bene vince sempre sul male, è la regola sulla quale si basa il nostro mondo.

— Perché insisti? Bene sul male. Regola. Mondo.

— Ah, ah, divertente.

— Divertente.

— Smettila di farmi il verso.

— Farmi il verso.

— Lex, stai tirando troppo la corda.

— La corda.

— Lex, sto perdendo la calma. Butta via quella roba e facciamola finita.

Clark ha paura di una pietra verde! Clark ha paura di una pietra verde! Clark ha paura di una pietra verde!

— Ora basta! Non te lo dico più!

Clark ha paura di una pietra verde! Clark ha paura di una pietra verde!

— Brutto stronzetto pelato! Io non ho paura di niente!

— Clark ha paura di una pietra verde!

— Hai rotto i coglioni!

— Ehilà, ma questa è nuova! Il grand'uomo che dice le parolacce! Clark ha paura…

— Finiscila! Sai che mi fa quella roba? Mi fa una pippa! Vuoi davvero sapere che mi fa? Un bel cazzo di nulla! Tu credi di conoscermi e invece non sai proprio niente! Ora te lo dico io come stanno le cose: riesci a immaginare che vuol dire essere me? Uno che può fare tutto, che ti può incenerire con un occhiataccia! Che può volare, spostare montagne, fermare treni a mani nude! Hai un minima idea della tremenda pressione che devo sopportare ogni singolo istante della mia vita? Con l'intero mondo che si aspetta da me solo grandi imprese! Oh, uomo d'acciaio, vai di qua, vola di là, sistema tutte le cazzate che facciamo noi ometti! Sei il grande eroe, l'invulnerabile, l'invincibile, sei un dio in terra! Sì, un dio che si deve rifugiare in quel cesso ghiacciato al Polo Nord per non impazzire. E tutte quelle corse a cercare una cabina telefonica, che ora non ce ne sono quasi più, dannati cellulari! La verità è che ho bisogno di quella fottutissima merda verde! Ho bisogno di convincermi che anch'io ho un punto debole, un tallone d'Achille. Se smettessi di crederci esploderei, come una supernova alimentata dal mio ego smisurato. Tu e gli altri la fate facile, potete sbagliare, fallire, in fondo siete solo esseri umani, no? Comodo, vero? Per una volta mettiti nei miei panni che, fra l'altro, sono anche piuttosto ridicoli, ma lasciamo perdere; a me non è permesso tutto ciò, io devo essere perfetto, superiore a qualsiasi debolezza, non ti sembra assurdo? Se tu potessi davvero capire come mi sento non credi che faresti altrettanto? Non ti creeresti una via d'uscita, un modo per assaporare una briciola di normalità, una piccola nicchia accogliente dove farsi confortare da un'illusoria fragilità? Ecco, per me quella… quella cosa è la mia ancora di salvezza, ne ho bisogno per non perdermi in un inferno di delirante onnipotenza. So benissimo che non mi fa niente, ma se smettessi davvero di credere che può indebolirmi… ci pensi? Che ne sarebbe di me? Io… io… ne ho bisogno… io…

— Oh cazzo!

— Non mi guardare in quel modo Lex, non lo sopporto!

— Ma che fai, piangi? Ehi, mai stai proprio a pezzi.

— Lasciami stare!

— No, davvero, non immaginavo… vuoi un fazzoletto?

— Vaffanculo!

— Clark?

— E smettila di chiamarmi così!

— Clark?


— Ti sei sfogato, Clark?

— Sì… sniff.

— Va bene, va tutto bene, è passato, è tutto a posto.

— Eh, magari…

— Su, su, che sarà mai? Ogni tanto lasciarsi andare fa bene.

— Non è da me.

— Be', in fondo anche tu non sei mica fatto d'acciaio. No, cioè, in senso figurato lo sei, ma… insomma, hai capito. Non ci crederai, mi sono quasi commosso. Senti che ti dico: andiamo a berci qualcosa.

— Come?! Mi prendi in giro?

— Macché, sul serio, un bicchierino è quello che ti ci vuole. Pago io.

— Seee, certo! Come quella volta che…

— No, no, tranquillo, niente scherzi.

— Davvero?

— Parola di scout.

— Lex, ti conosco troppo bene, di te non mi fido.

— Te l'ho detto: parola di scout. Pace?

— Ma quale pace?! Tu sei tu e io sono io.

— Uffa! Per una sera, facciamo una tregua.


— Clark, solo questa volta, che ti costa?

— Mmm… e va bene. Pace, ma solo per stasera.

— Bravo ragazzo, vieni qua, fatti abbracciare.

— Ma che sei matto?! E se ci vedono?

— Che palle, Clark! Dovresti fare qualcosa per questa paranoia della virilità, non siamo più nel '38.

— E non chiamarmi Clark!

— OK, OK, ma quanto sei noioso! Va bene, niente abbracci, sei contento? Dai, andiamo, mi è venuta sete a forza di ascoltare le tue lagne e…

— E dove si va?

— Lascia fare a me, conosco un posticino da favola, vedrai, ti piacerà.

— No, io lo voglio sapere prima.

— Ma porca puttana! Mister perfettino deve avere il controllo su tutto! Per una volta, per una fottuta volta, fatti sorprendere, no? E che cazzo!

— Oh, oh, non alzare la voce.

— È che mi fai incazzare! Questo è il tuo vero superpotere: stare sulle palle a tutti! Non mi stupisco che anche Batman…

— Batman cosa?

— Niente, fai conto che non abbia detto niente.

— No, ora me lo dici: che c'entra Batman?

— Oddio, si è fissato!

— Guarda che sei stato tu a tirarlo in ballo.

— Ciccio, ascolta, lasciamo perdere. Vai a salvare il mondo, vai! Tu per la tua strada, io per la mia, sei insopportabile!

— No, aspetta Lex, non te la prendere. Ti prometto che non dico più niente, andiamo dove vuoi tu.

— Troppo tardi, non sono più in vena. Ciao, tante cose.

— Ora sei tu che fai il permaloso. Chi se ne frega di quel pipistrello snob, tanto lo so che chiacchiera alle mie spalle. Andiamo a divertirci un po', hai ragione, ne ho proprio bisogno.

— Guarda che se ricominci a fare il cazzone io…

— Ho promesso, varrà qualcosa la mia parola, no?

— Già, in effetti, tu non menti mai.

— Non posso. Ehm, senti, mi faresti un favore?

— Dimmi.

— Puoi mettere via quella… cosa?

Clark ha paura di una pietra verde! Clark ha paura di una pietra verde! Clark ha paura…

— Lex!

— Sì?

— Falla finita.

— OK.


(fine)



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Carol Bi


Ma chi è Clelia?


Osservò con attenzione la vecchia foto trovata nel bauletto di cartone giallo: era scolorita, stropicciata e rattoppata con del nastro adesivo trasparente, ma i volti a una prima occhiata parevano ancora riconoscibili. Infilò la foto nella tasca del cappotto e si guardò intorno cercando una traccia che potesse ricondurla a Marco. Si alzò lentamente per sgranchirsi le gambe. Era accovacciata a frugare in quel baule da una buona mezz'ora e l'intorpidimento degli arti cominciava a diventare vero e proprio dolore. Si stava sollevando cautamente quando una vocina stridula dal piano di sotto la fece raddrizzare bruscamente e colpire con la testa la trave portante del sottotetto. Il vecchio lampadario cominciò a roteare pericolosamente e una nuvola di polvere scese dalla cappella in ceramica della lumiera. Le particelle del pulviscolo si intrufolarono furtive nelle narici facendola starnutire violentemente.

— Tutto bene cara? — la fastidiosa vocetta della signora Clelia arrivò ridondante dalla cucina.

— Sì, tutto bene… ora scendo!

Decise di non fermarsi oltre, avrebbe potuto insospettire la vecchia Clelia rischiando di non farsi più aprire la porta di casa.

Ripose il bauletto nella mensola di legno, tra una cesta in vimini e un vecchio manuale sulla potatura degli alberi. Si diresse verso la porta dando un'ultima rapida occhiata all'ambiente fatiscente: non aveva nulla di diverso dalle soffitte di una qualsiasi casa di inizio secolo scorso… eppure, in quella soffitta, nulla pareva essere comune. Non sapeva spiegarsi il perché, forse era suggestione, forse le storie raccontate dai ragazzini del paese e prima ancora dai loro padri e dai padri dei loro padri non l'avevano lasciata totalmente neutrale, sebbene si fosse imposta di non credere a certe blasfeme dicerie.

— Cara, ci sei? Il thè è pronto!

Chiuse velocemente la porta, si sistemò il cappotto e si assicurò di aver ben nascosto la foto nella tasca. Le si era smagliata la calza e una piccola striscetta rossa si intravedeva attraverso la maglia della microfibra.

Mentre scendeva le scale si detestò per aver indossato il tailleur nero e la scarpa col tacco per una simile visita, ma pensava che sarebbe stata solamente una visita di cortesia. Poi la vecchietta le aveva parlato dei ricordi che conservava in soffitta e non aveva saputo resistere alla tentazione di dare un occhiata. Per un attimo aveva dimenticato Marco e la sua ricerca. Erano giorni che ormai era scomparso e dentro di lei nasceva sempre più la convinzione che l'allontanamento fosse stato volontario. Pensò alla lite furibonda che avevano avuto nel pomeriggio della scomparsa, ricordò il suo viso paonazzo per la rabbia e tutte le peggiori parole che le aveva scagliato addosso e si rivide mentre con un'innaturale tranquillità e fermezza richiudeva la porta della camera alle sue spalle. La loro storia era giunta al capolinea ancora prima che se ne rendessero conto. Forse era meglio così, che se ne fosse andato prima lui, prima che potesse succedere il peggio… o forse il peggio era già successo?

Il volto sorridente della signora Clelia la ridestò dai suoi pensieri. Più che un sorriso pareva un ghigno, ma ancora una volta si obbligò ad allontanare i pregiudizi che poteva avere su quella donna.

— Cara, il thè si fredderà! Coraggio lo beva subito, la riscalderà prima di uscire.

Scese l'ultimo scalino e afferrò la tazza che Clelia le stava porgendo. Si sentiva un po' a disagio a sorseggiare il thè in piedi con uno sguardo fisso che la scrutava con invadenza. Per un attimo le parve di essere violata nella sua intimità e per la prima volta si chiese perché si trovasse lì, perché avesse suonato quel campanello, cosa potesse centrare quella donna con la scomparsa di Marco.

Non le piaceva affatto quello che stava provando. Bevve velocemente l'ultimo sorso con l'intenzione di congedarsi frettolosamente, quando vide che l'anziana donna stava osservando la piccola ferita alla gamba.

Si affrettò a levarle la tazza dalle mani e, poggiandola sul comodino impolverato, gracchiò: — Tesoro… ma ti sei ferita, lascia che ti medichi.

Ester si affrettò a dissuaderla, non voleva farsi toccare da quelle mani rugose e infime, ma non fece in tempo a protestare che Clelia aveva già agguantato un fazzolettino dalla tasca del grembiule e le stava tamponando la ferita.

Non riusciva più a sopportare quell'inspiegabile malessere. La testa le girava e le mancava l'aria. Sgusciò via dalla presa della vecchia che rimase ammutolita con il fazzolettino in mano. Si precipitò verso l'ingresso e afferrò la maniglia della porta convinta che non si sarebbe aperta, come nei più spaventosi film horror. Ovviamente non fu così, la porta si aprì senza alcuno sforzo e in un attimo si trovò nel cortile. Inspirò voracemente l'aria, come se fosse rimasta in apnea fino a quel momento. La temperatura era glaciale. L'imbrunire stava avanzando e i lampioni della strada cominciavano ad accendersi rischiarandosi con una flebile luce. Il cielo era incredibilmente stellato e lasciava intravedere una luminosa luna rotonda. Sollevò il bavero del cappotto e volò fino al cancello di ferro battuto, lo oltrepassò e si trovò in strada.

Arrivò a casa in una manciata di minuti e mai come in quel momento apprezzò il suo covo, piccolo ma confortevole. Fece una doccia calda godendo di ogni singola goccia e, mentre faceva scorrere l'acqua lungo il collo, si ritrovò nuovamente a chiedersi perché diamine avesse suonato al campanello di quella casa… proprio non riusciva a ricordare. Si asciugò in fretta e, ancora umida, si infilò il pigiama e si fiondò sotto le coperte. Fu quando allungò un braccio per spegnere la luce che si ricordò della foto. Scese dal letto e aprì l'armadio, infilò una mano nella tasca del cappotto. Si lanciò sul letto e si rimise sotto le coperte. La foto era un po' ingiallita dal tempo ma i volti erano abbastanza nitidi. A giudicare dagli elementi doveva essere stata scattata nei primi anni del novecento: un gruppo di baldi giovani guardavano sorridenti e spensierati il fotografo sotto una pianta di vite, probabilmente era settembre, durante la vendemmia. Alla destra un trattore e un carro incorniciavano il quadretto. Uno dei giovani accarezzava un cane da caccia, un altro stringeva la spalla dell'amico che posava al suo fianco, un altro ancora pareva tenere una sigaretta tra le mani, ma non ne era sicura. Fu mentre osservava il giovane sulla destra, quello che sollevava un grappolo di uva che rimase pietrificata. Prese gli occhiali che teneva sul comodino e li indossò, sgranò gli occhi e guardò meglio. Ancora una volta le mancò l'aria e un senso di stordimento la pervase. L'acconciatura era quella che andava in voga nei primi anni del novecento, così come i folti baffi, ma quel giovane, quello col grappolo d'uva, era proprio lui… quel ragazzo che sorrideva all'obiettivo era sicuramente il suo Marco.


Clelia armeggiava in cucina con una foga quasi animale, sapeva che non aveva molto tempo. Afferrò la scatola di latta e la aprì, prese un pizzico di nepeta cataria e muschio. Aprì un vasetto di miele e ne versò tre cucchiai su un pentolino, infine infilò una mano nella tasca del grembiule, afferrò il fazzoletto con il sangue ormai rappreso e lo spezzettò nel tegame. Sapeva esattamente cosa fare, oramai erano secoli che ripeteva sempre lo stesso rituale. Quando ebbe finito il sole stava sorgendo. Si strinse lo scialle sulle spalle e, sorseggiando una tazza di thè, si lasciò cadere sulla poltrona della sala da pranzo. Sorridendo chiuse gli occhi e aspettò.


(fine)



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Fausto Scatoli


Orologio


— Guarda che spettacolo, Valien.

Mi osserva e scodinzola, poi volge lo sguardo avanti a sé.

Sono salito quassù per poter inglobare negli occhi e nella mente il luogo dove sono nato: una terra fertile e benigna che ha accolto il mio popolo in epoca lontana e ha forgiato i miei avi, concedendo loro di sfruttarla, ma facendosi rispettare. Una magnifica e ampia vallata incassata tra i monti, le cui uniche vie d'accesso naturale sono il torrente, che esce, e la dolce ascesa di questo colle.

Ciò ha impedito l'invasione da parte di altre genti e ne ha permesso la difesa quando è stato tentato. Rare volte, in verità, e mai da nostri simili.

In effetti abbiamo quasi sempre prosperato in pace e in isolamento, anche se tanto tempo fa non fu così.


— Sai, Valien, che in un tempo antico vi erano città talmente enormi che questa valle non sarebbe bastata a contenerne una? Grandi case e un incredibile numero di abitanti. Vivevano in un ambiente che a noi è sempre apparso assurdo: la loro era si chiamava "tecnologica", una parola di cui non ho mai compreso appieno il significato.

Il Superiore mi guarda, incuriosito, poi sbotta: — E-hno-ò-gi-ha?

— Così pare. Quel che è chiaro è che avevano abbandonato la natura per cercare sviluppo in altre direzioni. Pare avessero macchine che lavoravano per loro e che potessero spostarsi velocemente da un luogo all'altro tramite vari mezzi inventati. E sembra anche che tutte le terre conosciute fossero da loro abitate.

— Oh… hu-he…

— Già. Ho anche capito che non erano sereni. Se lo fossero stati non avrebbero cercato quel tipo di evoluzione, sarebbero andati in un'altra direzione.


Chiudo gli occhi. Il mio orologio interiore dice che il tempo è quasi completo. Sono al tramonto.

— Valien, probabilmente la tua razza sostituirà la mia, che si sta estinguendo.

— No! — ribatte seccamente.

Sorrido. Stanno migliorando il linguaggio notevolmente, i Superiori. Molto simili ad asini, risultato di qualche follia "tecnologica" o, forse, semplice evoluzione, non ci è dato sapere. Come il perché della nostra sterilità in costante aumento.

— Comunque sia, tra poco io me ne andrò. Tu sappi far tesoro di tutto quanto ti ho detto e ricorda ai tuoi simili che non dovete fare come noi.

Sa che sto dicendo la verità. E ne soffre.

— Gli uomini di quelle città hanno provocato danni enormi. Da quanto abbiamo ricostruito in base a ricordi tramandati da generazioni, alla loro società serviva sempre più energia per sopravvivere. Hanno consumato tutto ciò che la terra offriva per creare tanta di quella luce che in certi punti non si potevano più vedere le stelle. Si sono fatti la guerra per trovare altre fonti, una guerra fatale.


Valien sfrega il suo muso contro di me, ha capito che manca davvero poco.

— Certo, da allora molto è cambiato, — riprendo — ma forse era già tardi. Ora ognuno di noi sa quando giunge al termine e non cerca mezzi strani per proseguire il ciclo vitale, sarebbe assurdo. Come assurdo è illuminare la notte, sprecare il cibo e l'acqua.

Lo guardo sorridendo: — Addio, Valien, devo andare al mio ultimo sonno. Guarda verso l'alto stanotte, vedrai una stella in più.

Gli accarezzo il muso, vedo cadere una lacrima.

Mi accomodo nella microcapsula e lui si allontana. Mi sistemo la cintura, chiudo il tettuccio, sospiro e premo il pulsante.

L'orologio batte gli ultimi colpi, la capsula parte verso l'alto e mentre sento il corpo morire penso che tra poco sarò parte del cielo stellato. Così hanno deciso gli dei.


(fine)



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Laura Traverso


Lei


Ricordava il giorno in cui la vide per la prima volta. Era una giornata bianca, nel senso che dal cielo era scesa tanta neve che aveva ammantato ogni cosa, il paesaggio era romantico e lento. Le strade obbligavano a un'andatura molto moderata e lui arrivò, per ciò, un po' in ritardo. Ma lei era lì, bella e perfetta in ogni sua parte. Appena la vide comprese che era ciò che desiderava avere, e allora mise in atto ogni strategia possibile al fine di farla sua, e ci riuscì. Fu un amore lungo, Iniziato tardivo da quel colpo di fulmine avvenuto nel 2002. Durante i diciassette anni in cui restarono assieme, furono molti gli avvenimenti che condivisero. Andarono ovunque, non potendo fare a meno uno dell'altra. Lo scorrere del tempo aveva un po' ammaccato il loro aspetto. Lui era ormai quasi completamente canuto e aveva rughe assai profonde sul volto. Lei aveva certamente perduto tutta la perfezione e lo splendore del passato. Per lui, però, continuava a restare unica e insostituibile, sino a quel giorno…

La sua pensione bastava a mala pena per arrivare alla fine del mese e in più incominciava ad accusare lo scorrere del tempo, il passare degli anni: si sentiva stanco e piuttosto insicuro. Comprese, pertanto, di dover fare delle scelte più adeguate alla sua età, e tra queste c'era lei, soprattutto lei. Certamente con quella decisione sarebbe cambiato il suo stile di vita, diventando di conseguenza più pacato, meno convulso, e soprattutto meno costoso. Sovente dovevano recarsi a fare dei controlli a cui seguivano degli interventi: ma non appena finivano di sistemare una parte ne andava a pallino un'altra. Provò in tutti i modi a prolungarle la vita, parlò di lei in giro, la propose, ma tutto fu inutile. Era ormai troppo compromessa, soprattutto nel suo intimo più che per l'aspetto esteriore; non interessava più a nessuno. Non rimase che la soluzione estrema.

Quando quel mattino arrivarono in quel luogo ebbe l'impressione di trovarsi all'interno di un paesaggio lunare: anomalo, triste e grigio. Pioveva e ciò contribuiva a rendere ancora più cupo ciò che li circondava. Fu quello il loro ultimo viaggio. Appena giunti la lasciò sola, doveva andare a compilare gli incartamenti necessari per dare il via a quanto aveva deciso di fare. Quando fu nell'ufficio chiese se era possibile salvare qualche cosa di lei. Dissero di no, che non era proprio possibile.

Al termine del disbrigo pratiche si decise a ritornare a casa. Mentre si incamminava dai suoi occhi stanchi scendevano grosse lacrime. In più un dolore intenso, a livello del suo povero cuore sensibile, gli procurava una sorta di malessere generale. La guardò ancora. Era lì, dove l'aveva lasciata poco prima. Sembrava ringiovanita, la pioggia rendeva lucida la sua "pelle" che risplendeva argentea. Sapeva cosa sarebbe accaduto da lì a breve. L'avrebbero stritolata senza pietà per poi depositarla a ingrandire, ulteriormente, uno dei tanti cumuli ferrosi che facevano parte di quel luogo: in cui vi erano anche enormi gru, auto che aspettavano la loro sorte, grossi camion e un rumore infernale.

Cercò di scacciare pensieri e visioni tristi. Ecco, disse a se stesso, adesso è tutto finito. Sapeva che si era appena concluso un ciclo della sua esistenza. Lei era stata l'ultima. Sarebbe andato ad acquistare il city-pass e per un intero anno avrebbe potuto circolare liberamente su tutti i mezzi pubblici della sua città. E con ciò, pensò, fine dei problemi di parcheggio, bollo, carburante, assicurazione e, non solo. Certo, avrebbe risparmiato molto… Si girò ancora a guardarla per l'ultima volta, sapeva che non l'avrebbe rivista mai più. Il viaggio di ritorno gli parve strano e doloroso; sentiva fortemente la sua mancanza.

Era già trascorso del tempo da quel giorno dell'addio. Ma quell'uomo, dall'essenza non del tutto comune, non l'aveva ancora dimenticata. Continuava a provare dolore e nostalgia al suo ricordo. Sovente la vedeva, si fa per dire… Non era stata una fuori serie e di conseguenza era facile incontrarne di simili in circolazione. A volte, mentre passeggiava lentamente nella sua città, all'improvviso se la ritrovava davanti. E quando succedeva, il suo cuore, incredibilmente, accelerava i battiti: come fosse stato un amore umano, perduto e mai dimenticato. E allora la seguiva rincorrendola con lo sguardo trepidante sino a quando scompariva ai suoi occhi, che non potevano scorgerla più. In quei fugaci momenti provava una profonda gioia, gli pareva di averla ancora accanto a sé. Infine, smarrito, confuso e addolorato, faceva ritorno alla realtà: lei non c'era più.


(fine)



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Sonia85


Libellula


Il frinire dei grilli è l'unico sottofondo ai miei pensieri, il bagliore fluttuante delle lucciole nell'aria l'unica fonte d'illuminazione per il mio cammino.

Sono certa che a quest'ora, mentre percorro a piedi nudi il sentiero che conduce al Balzo della Libellula, tu sarai già morto, mio adorato Ryu. Come richiede l'onore, avrai già affondato la lama nel tuo ventre per lavare l'onta dell'offesa al tuo signore.

Anzi, al nostro signore.

Sapevamo di offenderlo agendo così, eppure non abbiamo potuto fare nulla per evitarlo. È una brutta creatura, la passione: ha il bel volto di un angelo, all'apparenza innocente, ed è seducente come una voluttuosa cortigiana, ma ha il cuore di una bestia feroce. Adesso non resta che l'espiazione.

Per te, e per gli uomini come te, è facile ottenerla: bastano una lama e un taglio, come se il sangue fosse un fluido benedetto che sciacqua via ogni patina di disonore. Per lungo tempo ho pensato a quanto fosse stupido procurarsi la morte per sciocchezze del genere, ma adesso che anche io sperimento l'ignominia e la vergogna, inizio a capire quanto possa essere seducente la prospettiva del seppuku.

Come donna e come sposa di un nobile, anche io avrei potuto darmi la morte in quel modo. Ma sono debole, ho peccato di troppo poco coraggio. Rabbrividisco al solo pensiero del freddo metallo che recide la carotide, e ancor di più inorridisco al pensiero del mio corpo scosso dai fremiti della morte. Non voglio che mio marito, l'uomo che insieme abbiamo tradito, si prenda l'ulteriore soddisfazione di ritrovare il mio cadavere scomposto e sanguinolento sul tatami.

Anzi, voglio che nessuno trovi il mio corpo.

Sono sgattaiolata via dalla casa senza voltarmi. Ho percorso per l'ennesima volta, per l'ultima volta, la strada che tu e io abbiamo fatto infinite volte, quando volevo fare una passeggiata nei boschi e tu mi seguivi come un'ombra furtiva e gentile per proteggermi. Solo che questa volta sono da sola, con l'unica compagnia della carezza di seta della brezza estiva, e sto andando a morire.

Mi chiedo cosa abbia pensato Nobuhito-sama quando ha scoperto la nostra passione. Come si sarà sentito di fronte alla consapevolezza di averti scelto come mia guardia del corpo, di aver preparato il terreno per l'adulterio! Chissà che piaga gli ha aperto nell'animo! Chissà quanto soffrirà! È una magra consolazione, ma pur sempre una consolazione.

Prima di inoltrarmi nella parte più folta della foresta, ho levato le mie preghiere ai kami, sperando di non essere diventata una reietta almeno ai loro occhi. Ho pregato perché ci concedano, se davvero esistono degli Inferi in attesa delle nostre anime immortali, di rivederci lì e di essere uniti almeno nella morte, non importa in mezzo a quali tormenti. E se invece siamo destinati a reincarnarci, ho pregato perché ci permettano anche dopo dieci, anche dopo cento, anche dopo mille rinascite di ritrovarci e di vivere insieme. E se invece dopo la morte c'è solo il nulla, ho pregato perché rendano quanto più rapida e indolore la mia caduta.

Quando l'ultima parola è uscita dalle mie labbra, ho ripreso il cammino. Ho pensato e ripensato a te, al tuo sorriso, al tuo volto illuminato dalla gioia e poi ottenebrato dal dolore, alle tue mani forti e insieme gentili, ai muscoli frementi sotto la tua pelle, alle tue cicatrici di guerra, che ho contato una a una mille e più volte. Ho rimembrato i tuoi baci, le tue carezze, i tuoi sussurri, i versi d'amore che componevi per me. Già, le tue poesie: così goffe, così rudimentali, così banali, eppure così vere, così vibranti di autentico amore. Mi hanno detto più quelle parole sgraziate ma messe insieme con il cuore che tutti i capolavori del Manyoshu.

Alla fine ho raggiunto la roccia che si affaccia sullo strapiombo, lì dove tutto si confonde in un caos informe e oscuro. Il caos in cui annegherò il mio dolore e la mia misera esistenza tra qualche secondo. Abbassare lo sguardo nel ventre del precipizio è inutile, l'oscurità è così fitta che non si vede quasi niente, i raggi lunari illuminano a malapena le rocce più vicine all'orlo. Semmai sollevo gli occhi al cielo e urlo, sì, urlo contro il destino, dicendogli che può avere la mia e la tua vita, i nostri corpi, che potrà separarci, ma non avrà mai i giorni felici trascorsi insieme.

Sono pronta. Non c'è più motivo per indugiare. Un ultimo respiro, poi apro le braccia e spicco il volo, infelice libellula senza ali. Sarà la fine? O forse solo un misericordioso inizio in un'esistenza più vera?


(fine)



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