BraviAutori.it


NO JAVASCRIPT
NO VOICE
leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
(usa CTRL +/- per ingrandire o ridurre il testo)
torna indietro  -  chiudi

Indice:
E
Regolamento delle Gare…
Namio Intile
Roberto Bonfanti
Marcello Rizza
Liliana Tuozzo
Fausto Scatoli
ElianaF
Andr60
Athosg
Laura Traverso
Selene Barblan
sezione 13
una produzione
Sostieni la nostra p…

 

OEBPS/images/image0001.jpg 


presenta


Una rampa per l'abisso

e gli altri racconti


OEBPS/images/image0002.jpg 


ebook della Gara stagionale d'Inverno 2020 - 2021


up Torna su

 

OEBPS/images/image0003.png 


Ebook della Gara letteraria stagionale di Inverno 2020 - 2021


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: Libreria "Acqua alta", Venezia - martinaway.com


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


up Torna su

OEBPS/images/image0004.jpg 


Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara saranno pubblicati in un  ebook gratuito e a ogni ciclo di stagioni pubblicheremo un'antologia annuale.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



up Torna su

Namio Intile

(vincitore della Gara d'inverno, 2020/2021)


Una rampa per l'abisso


Alzi il capo e cerchi l'orologio appeso alla parete. "È ora di chiudere." rammenti a te stesso, e i tuoi pensieri si affollano in un luogo ben diverso da quello in cui risiedono quelle parole.

Chiudi il volume e lo riponi sulla scaffalatura da cui l'avevi estratto; è una pregevole prima edizione italiana del 1889, con la legatura Morris corredata del consueto decoro di fogliame e piante tropicali, intitolata: Il delitto e il castigo.

Prelevi le banconote dal registratore di cassa, eccetto l'ultima da cinquanta euro che fa da esca, e spegni le luci, inserisci l'allarme e infine abbassi la saracinesca: ti muovi in fretta, pure se in casa non vi sia nessuno ad attendere il tuo arrivo.

Non hai mai avuto qualcuno che ti aspettasse, da trent'anni la tua vita non è occupata da altro che non sia il lavoro: una libreria antiquaria a Torino, in vicolo Grosso numero 6, non distante dalla basilica di Santa Maria Ausiliatrice; un luogo appartato, seppure a due passi dalle vie del centro, dall'entrata angusta, persino anonima, senza insegne a indicare la funzione, a parte una vetrofania in un minuscolo "gabriola" e una vetrina affacciata sulla sala principale, di otto metri per quattro, dove questo mese hai inserito un paio di atlanti a legatura greca esposti sopra una consolle art nouvau a tre cassetti. Questa comunica, lungo i perimetri maggiori, con due altre di minori dimensioni in cui le pareti, sino al soffitto, sono occupate da spesse mensole di mogano lucido affollate da libri di diverse forme e dimensioni.

Ma tu non ti reputi certo un libraio, piuttosto un collezionista, e consideri la tua libreria una ineguagliabile galleria d'arte; un luogo tranquillo, e riservato, tanto da consentire ai suoi frequentatori, i tuoi clienti, di perdersi tra antiche edizioni con brossure di spesso cartone o di antico marocchino e di trascorrere del tempo lasciandosi sedurre dall'aroma di tabacco stagionato che emana certo cuoio leggermente umido, o dal sentore di vaniglia e benzaldeide della carta ormai ingiallita. È un posto dove poter leggere nomi di case editrici dimenticate anche dai più longevi ricordi, o decifrare le lettere in rilievo di titoli ignoti quasi sempre frutto di oscuri autori, certo essi non dimenticati perché mai conosciuti.

Per i clienti disposti a spendere, tieni in serbo dei pezzi particolari che conservi in un locale segreto a cui si accede attraverso una porta blindata nascosta da una scaffalatura mobile e con dentro l'esatta concentrazione di umidità e la giusta temperatura, mantenuti costanti per ogni giorno dell'anno.

Là dentro, solo per i tuoi sguardi e le tue attenzioni, conservi la collezione privata che ha consumato ogni ora e ogni istante della tua vita: là dentro hai accumulato il tuo unico patrimonio composto da volumi, del seicento e del settecento, da incunaboli, da pergamene, persino da antichi papiri: non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo, tutti rari e preziosi. Un tesoro celato anche a te stesso: soprattutto a te stesso. Come fosse una caparra, una firma di garanzia per un contratto con una clausola che non si avvera, per una vita che non arriva e che si allontana, giorno dopo giorno.


Da circa un mese hai messo le mani sopra un'opera singolare, un prezioso manoscritto medievale compilato in carta pergamena, legato con tavole di quercia rivestite da cuoio impreziosito da smalti multicolore e pallidi avori. L'hai inseguito a lungo e in ogni dove; e dalla sua vendita speri di ricavare un ampio utile a premiare il costo della ricerca e della fatica dell'inseguimento.

Ma quasi ti sei affezionato a quell'oggetto e, senza confessarlo neanche a te stesso, lo immagini chiuso per sempre nell'atmosfera controllata, dietro la tua porta blindata.

Nondimeno, hai contattato un possibile acquirente, un noto collezionista piemontese, un facoltoso uomo d'affari che ha per dimora una splendida villa, uno chateau perso tra le colline, disposto a investire la cifra considerevole a cui pensi di cedere il frutto delle tue fatiche.

Quando ti convoca sali in auto, ti inoltri nel buio, su per i tornanti delle colline boscose ai margini della città. Quando oltrepassi il cancello percorri il lungo viale d'accesso, fitto di monumentali tigli, e ti sembra che non debba aver mai fine e che ti conduca in un nuovo mondo, finché d'un tratto non si apre una radura, illuminata e impreziosita da giardini formali fitti di bosso e circondati da teatri di verzura intervallati da boschetti, di aceri, querce e tilie, ben curati e ancora meglio tenuti.

Superi il controllo di un metal detector e subisci una perquisizione corporale, ma questo è davvero il minimo per avere l'onore di trattare con personaggi prestigiosi; come d'abitudine, per presentare il volume, inizi a narrare le acrobazie che lo hanno condotto, attraverso i secoli, nelle tue mani, e quindi prendi a elencare i nomi dei precedenti possessori, per dimostrare quanto lustro un'opera del genere possa arrecare a una biblioteca. Ma il finanziere è allenato a non mostrare emozioni, addestrato a trattare con ben altri individui e per ben altre consistenze, o può darsi che non sia ancora del tutto convinto a impegnarsi. Ma tu non ti distrai e non ti perdi d'animo, e inizi a evocare il lavoro, faticoso e oscuro, di quel monaco amanuense che, centinaia di anni prima, aveva compilato l'opera e assicuri il tuo interlocutore che il testo è la riproduzione dell'originale papiro sfuggito all'incendio della Biblioteca di Alessandria e poi andato perduto.

— Ne è proprio sicuro, signor Policarpo?ti chiede il facoltoso interlocutore, con una punta acre di scetticismo, mentre un sorriso artefatto gli incupisce il volto e s'accompagna allo sgranarsi di azzurri occhi da cane.

— È un pezzo unico, glielo garantisco. — lo rassicuri.

Non lasci che le sue obiezioni ti inquietino e continui: — Una riproduzione del ΠΕΡΙ ΥΨΟΥΣ dello Pseudo Longino. Questa — confermi, indicando le fotografie — è la parte che al mondo manca e che solo lei potrà leggere... e possedere. — sottolinei.

— Senza dubbio, signor Policarpo. Ma voglio vedere il pezzo prima di procedere alla transazione. — ti comunica l'uomo in tono neutro — Per lei rappresenta un problema?

— Chiaro che no, lo potrà vedere, se lo desidera, e farlo visionare da un esperto di sua fiducia.

È questo il genere di persone che frequenti da tutta una vita, ne sei consapevole; non dei comuni lettori, ma persone che amano l'ombra in cui si nascondono: bibliofili all'eterna ricerca di quel pezzo letterario senza eguali per il quale sono disposti a cifre favolose: collezionisti che aspirano all'unicità e credono di poterla acquistare, a volte persino strappare, in ogni modo e a ogni costo: uomini che pensano di poter lasciare la loro impronta nella storia quali scopritori di un'opera già scritta: accumulatori seriali di oggetti per il cui possesso è necessario il trasferimento di una cifra a cinque zeri, o a sei.


La sera successiva, in negozio, ti immergi nella lettura di una prima edizione acquistata all'ultima mostra del libro antico di Milano: a un tratto ti colpisce il silenzio e solo allora ti rendi conto che è notte fonda. Nessun rumore dalla strada, e la nebbia come una cortina ad attutire suoni e luci, e a ridurre il mondo a una monocromia senza contorni.

Ti senti come chi ha imboccato una rampa sospesa nell'abisso col pericolo di precipitare nell'oscurità al primo passo falso.

— C'è un silenzio terribile. — mormori, e senti un brivido correrti per la spina dorsale.

Ti affretti a chiudere e, inserito l'allarme e serrata la saracinesca, ti avvii a grandi passi verso casa.

Hai l'impressione di uno scalpiccio alle tue spalle, volti il primo angolo di proposito nella speranza che svanisca, ma la sensazione non cessa di durare. Allora ti fermi, e ascolti, cercando di cogliere un suono che possa indicarti la presenza di un estraneo; ma dal silenzio emerge soltanto il rumore di ruote sull'asfalto umido e il latrare di cani in lontananza. Riprendi a camminare, mentre la suggestione di essere seguito diviene prepotente.

Chissà se la solitudine in cui hai avvolto la tua esistenza non abbia sollecitato qualche tipo di paranoia, se tu non abbia finito per assorbire le fissazioni dei tuoi clienti, oppresso come loro dall'impulso di accumulare opere uniche e dalla paura che qualcuno possa sottrargliele. Che qualcuno possa privarti del tuo unico amore.

E mentre acceleri il passo, nel tentativo di distanziare il tuo inseguitore, o la sua ombra, ti interroghi sul senso della vita, della tua vita.

Le uniche emozioni che ti fanno sentire vivo le hai isolate e concentrate nel ristretto andito della ricerca di testi rari, volumi ogni volta più preziosi, quasi impossibili da trovare.

La tua vita si è trasformata, senza una tua preordinata volontà, senza una chiara visione per l'avvenire, in una caccia al tesoro; ma per quanto tempo ancora funzionerà? È la domanda che da qualche tempo hai iniziato a porti.

Non hai mai riflettuto sulla tua solitudine, e non ti sei sentito tanto solo come adesso. Il trascorrere degli anni ha scolpito i contorni della tua vita e l'ha messa in mostra per ciò che è: una nave che vaga senza meta in un oceano privo di vita.

E ti sovviene quel passo del "Ad se ipsum" in cui Marco Aurelio esorta se stesso a cogliere l'istante che rende ogni momento unico: "Sfruttare le gioie che la vita dona in ogni momento?".

Ti scuoti, all'improvviso, dalla tua solitudine. Ne hai sempre dubitato, seppure tu abbia pensato che la vita sia composta da istanti unici ognuno di essi, col tempo, ritieni sia destinato a scomparire e a diventare un ricordo, che spesso ti ha lasciato un sapore di amaro in bocca.

"Vivere momento dopo momento non permette di dare un senso alla propria vita: nessuna esperienza vissuta, nessun attimo fuggente può servire a regalarmi la lucidità di una visione né la consapevolezza di quel singolo momento." pensi.

"Carpe diem quam minima credula postero", cogli l'attimo confidando il meno possibile nel domani, scrive Orazio, ed è un invito a non preoccuparsi del futuro. "Anche se ciò, in fondo, significa nessun senso e nessuna felicità, né fuggente né duratura." rifletti.

E oramai, giunto ben oltre la soglia dei cinquant'anni, senti il corpo invecchiare e comprendi che sarà il tempo a risolvere ogni mistero, un po' come l'Adamastor di Vaz de Camões.

Migliaia di istanti sono scivolati su di te come vento sulle vele, uguali gli uni agli altri, indistinguibili e uniti dall'indifferenza in cui anneghi; cogliere l'istante non vuol dire afferrare il momento, l'occasione propizia, o vivere l'intera vita con l'intensità di un solo attimo, quanto rendersi conto che ogni goccia di esistenza e di consapevolezza è preziosa, e unica, pure se si perde nell'immenso Oceano del Tempo e dell'Esistenza.


Impieghi mezz'ora a piedi dalla libreria al tuo appartamento, al terzo piano di una palazzina dalle parti del parco del Meisino; in questo luogo conduci ciò che rimane della tua esistenza al di fuori della libreria: tranquilla e solitaria, lontana dal tuo prossimo. Di rado ti soffermi a parlare con gli altri condomini, per non dire degli abitanti del quartiere; figure anonime che osservi a distanza, meno che da spettatore, perché senza interesse o addirittura con fastidio. Non hai mai voluto sposarti; le donne ti hanno attirato da ragazzo, ma sono bastate un paio di disavventure per metterti sulla difensiva, per farti perdere la voglia di prendere l'iniziativa. In tanti anni non hai mai sperimentato un legame emotivo serio con un altro essere umano, anzi, con nessun essere vivente.

Le sole sensazioni rimaste in vita sono legate all'unico legame duraturo che sei riuscito a costruire: quello con i tuoi libri. I tuoi libri sono la tua vita e il tuo unico tesoro, ma hanno riempito la tua intera esistenza di accidia.


Ti attardi sul portone e, prima di entrare, scruti l'oscurità alla ricerca di un segno. La nebbia si è fatta meno fitta e lo sguardo si ferma sul parcheggio vicino. Ti sembra di scorgere una figura umana nei pressi di un furgoncino scuro; e ti pervade la sensazione che ti stia osservando, continui a domandarti se sia l'individuo che ti ha seguito fin lì. E quell'automezzo d'un tratto sei sicuro di averlo già visto parcheggiato la sera prima e quella prima ancora.

"Qualcuno che abita qui.", è il pensiero che ha l'effetto di un tranquillante.

Apri il portone e, quando ti volti, di scatto, ti accorgi che il furgone è andato via; per qualche attimo osservi l'asfalto vuoto e vieni invaso da una senso di inquietudine. Attraversi a passi svelti l'atrio vuoto, illuminato da una fioca lampadina, e ti trovi davanti alla porta dell'ascensore; la cabina vuota ti offre un senso di sollievo. Entri e spingi il pulsante del piano, tiri fuori dalla tasca le chiavi che serrano la spessa porta blindata e, in un attimo, ti ritrovi dentro.

— Al sicuro, al sicuro. — ripeti ad alta voce, dopo aver chiuso la pesante porta alle tue spalle.


Una settimana dopo, il Natale è già trascorso, ti accingi a preparare l'inventario in vista del fine anno e ti domandi, incerto, se chiudere o no la libreria.

Non è mai un buon periodo per le vendite quello. Anzi, di regola, hai sempre serrato per una settimana intera, anche per evitare di incontrare facce felici, e dispensatrici di un'armonia e di una serenità a tuo avviso certo fasulle e imposte con forza dalle circostanze e dalle tradizioni, tanto da costringerti nel rifugio di casa o dietro le saracinesche serrate del tuo regno.

Coccolato da quel pensiero stai per chiuderti dentro, quando un vecchio cliente ti telefona: — Le dispiace se passo dalla libreria questo pomeriggio? Emidio Vauro. — ti ricorda il suo nome.

Scavi nella memoria e rammenti: hai concluso un magnifico affare con lui, molti anni addietro, ma è da allora che hai perso le sue tracce.

— Veramente avevo in mente di non aprire. — provi a scusarti.

— Non le farò perder tempo, — ti assicura — devo solo acquistare un regalo per un caro amico.

Nonostante sia passato tanto tempo da quell'unico affare non te la senti di negargli un favore, e quel pomeriggio decidi, tuo malgrado, di lasciare aperta la libreria.

L'uomo giunge verso le sei del pomeriggio e ti ringrazia della cortesia, poi si addentra tra gli scaffali e ti fa cenno di voler rimanere solo.

Passa del tempo senza che tu senta rumori e, incuriosito, lo cerchi. Sembra quasi che stia lì ad aspettarti.

— Io possiedo il manoscritto completo e originale, sa... — t'informa, come fosse una notizia di poco conto.

Ti avvicini, lo osservi con più attenzione. La memoria, alle volte, gioca brutti scherzi, perché non sembra cambiato da quando l'hai conosciuto, quindici anni prima; riaffiora dagli anfratti della memoria la sua età, uguale alla tua: cinquantadue anni. Neanche una ruga o un capello bianco, l'abito grigio che veste alla perfezione, il respiro cupo senza essere ansimante. Il tempo, per lui, non pare passato.

E rammenti di avergli venduto un pezzo molto costoso e col ricavato di avere fatto dei buoni affari. Ricordi quella grossa cifra pagata in contanti, mazzette da dieci milioni ciascuna appena uscite dal Poligrafico dello Stato.

Ti avvedi che quella del dono a un amico è solo una scusa e che l'uomo si trova lì perché desideroso di proporti un qualche affare; fiuti l'opportunità, ma l'abitudine allo stare all'erta, pronto a smascherare i bluff dei tuoi clienti o le truffe di girovaghi imbroglioni intenzionati a fare l'affare a tue spese, ti impone di tenere la guardia alzata anche in quel frangente.

— Io possiedo il manoscritto originale. — ti tenta ancora, e fa cenno al libro che tiene tra le mani.

Però la curiosità evapora non appena ti mostra il suo dorso, con il titolo dell'opera stampato a chiare lettere, in oro rosso: — Zosimus, New History. — leggi ad alta voce, e nell'inflessione non riesci a nascondere la tua delusione.

— Lo conosco bene. — confermi, con voce piatta.

— Ho l'originale, se le interessa. — prova a solleticarti, e un sorriso beffardo gli illumina il viso.

— Lei forse possiede l'edizione Green and Chaplin del 1814. Preziosa, ma non rara... — commenti, saccente, con una punta di sarcasmo.

— Io veramente intendevo il manoscritto di Zosimo in originale... non la tarda traduzione inglese.

Il tuo sguardo incredulo si ferma sui suoi occhi, e dubiti di lui, pensi che si stia prendendo gioco di te, o che sia uscito di senno: — Il manoscritto originale, per quanto ne so, si trova in Vaticano. Ed è mancante di una parte del quarto libro, che non è mai stata ritrovata.

L'uomo sorride e continua a sfogliare il volume di inizio Novecento che tiene tra le mani: — Il manoscritto originale, contenuto in pergamene legate in forma di codex, è completo ed è al sicuro in casa mia. — ti corregge, e la sua voce vibra nella sala vuota, calma e severa allo stesso tempo.

— Mi spiace, ma non è possibile. — lo contraddici.

— Niente è impossibile per un vero collezionista. — e calca l'accento sul sostantivo, a sottolineare la distanza tra la mera volontà, l'ambizione, i sogni, e la realtà: tra lui e gli altri… tra te e lui.

— Lo vuol forse vedere? — continua.

Non riesci neanche ad abbozzare una risposta. Rimani sulle tue, sospettoso come sempre, temendo che dietro quell'inaspettata rivelazione e la generosa offerta si nasconda un ingegnoso stratagemma.

— Sa chi era Zosimo?riprende Emidio Vauro e, posato il volume, si allontana voltandogli le spalle, in modo del tutto simile alla fiera che si distanzia dalla sua preda tanto da non farle intendere di essere seguita e che, rimanendo sottovento, continua a sorvegliarla pronta a ghermirla e a sferrare il colpo mortale.

— Uno storico, ma anche un giurista... visse durante il regno dell'imperatore Giustino — spieghi.

— Ha una buona memoria, caro il mio libraio.

— Uno storico scadente e dalla prosa pomposa, un narratore superficiale privo di carattere e di mordente, ma... — ti interrompi e ricordi di colpo qualcosa di importante che preferisci tacere.

— Ma?ti sollecita l'uomo.

— Alcuni sostengono che fosse un farmacista; ma non un farmacista qualsiasi… il più grande fino ad allora... e che la Ίστορία Νέα sia non un'opera di storia scadente, ma un grandioso, incomparabile, codice criptato. — ti decidi a continuare.

— E che proprio la parte mancante costituisca la chiave per decifrare il codice. — aggiunge Emidio Vauro, sorridente e soddisfatto, ed è un tutt'uno con l'inalare il contenuto di una piccola bomboletta spray.

— Per la mia asma. — si scusa con la voce tirata.

Ti esce una smorfia come un sorriso e, dopo aver scavato nella memoria, aggiungi: — Ricordo che qualcuno affermava che egli avesse trovato una cura per il cancro, con una singolare mistura di erbe rimasta ignota...

— Ho impiegato dieci anni a decifrare quel codice, e tutte le mie risorse. Mi creda, non soltanto un grande farmacista. Ma il più grande. Zosimo mi ha salvato la vita. — conclude, e ti consegna una fotografia tirata fuori dalla tasca della giacca.

La prendi e la rigiri finché non metti a fuoco l'uomo che ritrae, in un letto, pallido e senza capelli, lo sguardo spento: — Lei? — balbetti, indicandolo.

— Io, poco prima di riuscire a decifrare Zosimo. Mi avevano dato pochi mesi di vita. Le terapie chemioterapiche erano fallite. Ora sono rinato, ringiovanito persino. Devo ringraziare Zosimo e... lei. Mi avete salvato la vita.

— Io?domandi stupito — Perché?

— Perché quindici anni fa ho acquistato da lei le pergamene di Zosimo...

— Da me? Non è possibile... No, lo escludo. — ti difendi, con voce tremante, quasi supplicandolo di non fargli questo.

— L'opera completa di Zosimo era nascosta in quel manoscritto. Le pagine di pergamena erano unite in due a formare un unico foglio. La scoperta l'ha fatta il mio piccolo aiutante, per caso. — ti spiega, e indica il grosso gatto nero che tiene curiosamente al guinzaglio e di cui, fino ad allora, non ti sei accorto.

— Qual era il libro?domandi, come in un sussurro, quel titolo che ricordi perfettamente.

— Expositio ad Mattheum, di Remigio di Auxerre. Ricorda? Nel 1998 mi costò più di cinquanta milioni.

Rammenti le pergamene di Remigio, che hai tenuto con te per oltre due anni senza trovare un acquirente all'altezza. Ricordi di aver sfogliato innumerevoli volte quelle pagine, con attenzione, impegno e delicatezza. Pagine vecchie di quasi mille anni. La rabbia nata dall'impotenza ti porta a maledire te stesso.

"Non ho capito nulla." pensi, pieno di rabbia per la tua superficialità.

Spalanchi gli occhi e l'aria quasi ti viene a mancare. Per lo stupore, l'invidia e la delusione di non essere stato tu a scoprire quel testo ineguagliabile che hai cercato per tutta una vita e che è rimasto nelle tue mani per due lunghi anni senza che tu avessi compreso alcunché.

L'emozione ti toglie il respiro: — Perché non lo rivela al mondo?

— Non è ancora giunto il momento. Ma lei lo vuole vedere?suggerisce, sfoggiando un sorriso largo e amichevole.

Cade ogni difesa e ogni barriera: — Dove? — domandi, ancora sconvolto da quella confidenza, mentre ripercorri uno a uno i giorni in cui hai avuto con te il codice senza capire nulla.

Spinto dalla curiosità metti da parte ogni cautela e indugio e, per un attimo, ti balugina persino l'idea di uccidere quell'uomo invaso e diretto dalla tua stessa ossessione, ma che ha dimostrato di avere più capacità o, soltanto, più fortuna di te. Un uomo, rimugini, che per forza sarà solo al mondo, come lo sono io.

— A casa mia, domani sera. — ti propone, e porta di nuovo l'inalatore alla bocca, mentre ti consegna uno sbiadito biglietto da visita con il suo indirizzo.

— Sarò puntuale, non tema.

— Oh, non ho dubbi... — risponde, e ti porge la sua mano, fredda e diafana.


La sera seguente ti presenti all'orario stabilito e ti attardi all'ingresso, incerto sul da farsi. Decidi di suonare.

La casa è elegante senza essere lussuosa, ma anonima, e ti stupisce non vedere librerie o scaffali da nessuna parte né, tanto meno, libri.

Emidio Vauro ti accoglie e ti rivela di essere solo in casa. Di non avere moglie o famiglia. Ti confida, con una punta di sincero rammarico, che i libri sono l'unica cosa viva della sua vita.

Come mai prima d'allora hai l'impressione di trovarti davanti al tuo doppione esatto. Poi ti offre da bere e ti intrattiene con chiacchiere e confidenze vuote; d'improvviso si alza e si allontana, senza dire una parola, torna dopo qualche istante con il voluminoso involucro che contiene le pergamene.

Apre il panno che dovrebbe contenere il manoscritto originale di Zosimo di Panopoli, ma non riesci a vedere altro che l'Expositio ad Mattheum che gli hai venduto anni prima.

— Dov'è l'opera di Zosimo?chiedi, e trattieni il respiro.

— Guardi meglio. È lì, davanti ai suoi occhi... il tesoro lo tiene in mano. — ti garantisce.

Continui a sfogliare il volume, con le mani che tremano per la trepidazione.

Tira fuori l'inalatore da una tasca, e il suo contenuto si perde nell'aria: — Lei è libero... finalmente. — ti sussurra, con un sorriso sardonico, mentre ogni cosa intorno a te si fa sfocata.

— Il tesoro l'ho in mano io... sono un uomo libero. — ripeti, mentre il mondo intorno perde i suoi contorni.

Quando ti svegli è già giorno. Dolorante e intontito noti intorno a te dei soccorritori e degli agenti di polizia, oltre una donna fuori di sé che ripete la parola "ladro" continuando a indicare verso di te. D'istinto con le mani vai alla ricerca delle chiavi della libreria nella tasca dei pantaloni.

Gli agenti che ti riaccompagnano constatano che la saracinesca è aperta e che l'intero locale è stato svuotato; entri barcollante nella stanza blindata che ha contenuto il tesoro di lunghi decenni di fatiche e di privazioni, e la voce di quell'uomo inizia a rimbombare nella tua mente: sei un uomo libero.

Emidio Vauro, o comunque si chiamasse, non ha lasciato neanche uno dei preziosi libri a cui hai dedicato la tua intera esistenza.


Questo il fatto o, se preferite, l'antefatto.

Perché il senso di quell'ultima frase l'hai compresa solo più tardi: "sei un uomo libero". Per due anni hai pensato alla beffa finale e crudele di un uomo senza sentimenti, di un astuto ladro di vita.

Ma oggi tu sei un uomo libero; ti conoscono tutti nella cittadina dove hai scelto di ricominciare la tua vita, e finalmente libero hai trovato qualcuno ad aspettare il tuo ritorno a casa ogni sera, ogni giorno, e che ti accoglie con affetto, con un sorriso e un abbraccio caloroso.

Il tuo lavoro non è cambiato, vendi sempre libri alla fine. Ma adesso non sono più oggetti da collezionare, o da accumulare; essi non sono più una barriera, non hanno più un valore di scambio, non formano più il recinto che racchiude il tuo angusto universo, ma sono essi stessi un formidabile mezzo per scambiare esperienze. Attraverso le loro pagine ti unisci agli altri esseri umani invece che separartene: attraverso di essi tu dai e ricevi.

E solo adesso ti sei reso conto che i libri sono vivi e sono anche capaci di regalarti quella saggezza, quella maturità e quella serena calma, quella soddisfazione che prima non potevi conoscere.

Dopo quasi una vita comprendi cosa voleva dire Marco Aurelio quando esortava se stesso a cogliere l'istante che rende ogni momento unico.


(fine)



up Torna su

Roberto Bonfanti


Il profumo del giglio


La scuola è iniziata da pochi giorni, la seconda media. Stamattina entro in classe e saluto i soliti amici, quelli che conosco fin dalle elementari. Mancano ancora cinque minuti all'inizio delle lezioni, vado verso il mio banco, ma prima di arrivarci noto una ragazzina che non avevo mai visto prima, nei giorni scorsi non c'era. È seduta in un banco centrale, in seconda fila, è bionda e ha gli occhi azzurri. Mentre passo, incrocio con lo sguardo quegli occhi. Mi sembrano di un colore così bello che devo fermarmi a guardarli, come se avessi paura che se non lo faccio ora, in questo momento, potrebbero distogliersi dai miei e io non avrò mai più quest'occasione, quegli occhi saranno persi per me per sempre. Piano piano riempiono tutto il mio campo visivo, facendo scomparire l'aula, i mie compagni e tutto quello che c'è intorno. Mi sento strano. Qualcuno alle mie spalle ha fretta di raggiungere il suo posto e mi urta la schiena. Giro la testa di poco e l'incanto svanisce. La stanza riprende consistenza e meccanicamente ricomincio a muovermi. Vado al mio banco nella quarta fila, apro lo zaino e comincio a tirare fuori le mie cose. Mi siedo e la guardo di spalle. Poco dopo suona la campanella ed entra la professoressa di matematica. Al momento dell'appello memorizzo il suo nome: si chiama Annette. È tedesca, vive in Italia con i suoi genitori da quando era piccola e ora si sono trasferiti qua per lavoro. Resisto a stento all'impulso di alzarmi e andare a verificare con mano se i suoi lunghi capelli biondi mantengono quella promessa di morbidezza setosa che intuisco. Per tutta la mattina non riesco a concentrarmi sulle lezioni.

Quando suona la campanella dell'ultima ora, aspetto che Annette esca. La seguo a distanza fino alla strada, la guardo salire su una macchina scura, una Opel, che parte e si allontana, finché la perdo di vista dopo che ha svoltato all'incrocio.

Questa è una giornata densa di eventi cruciali: è la fine dell'estate, l'inizio del mio interesse per le ragazze e il giorno della mia totale riconciliazione con il popolo germanico. Penso che l'intero Universo oggi abbia fatto un decisivo passo in avanti verso l'Età dell'Acquario.


— Ciao, nonno.

Sta leggendo il giornale in soggiorno, inclina un po' la testa per guardarmi da sopra gli occhiali da lettura: — Claudio, com'è andata a scuola?

— Bene… senti, ti volevo chiedere una cosa…

Piega in due il quotidiano e lo appoggia sul divano accanto a sé. Io mi siedo sulla poltrona.

— Dimmi pure.

— Oggi, dopo pranzo, viene una mia compagna di classe a fare i compiti, andremo in camera mia e…

— Mmm… — bofonchia — Ma non è meglio se di queste faccende ne parli con il babbo?

— Cosa? No, no, ma che dici! — mi alzo, sono un po' in imbarazzo, ma non per il motivo che crede lui — È solo che… lei si chiama Annette, è tedesca. Cioè, i suoi lo sono, tedeschi, cioè…

Mi guarda un po' accigliato: — E quindi?

— Be', ecco, voglio dire… lo so che tu… insomma, con i tedeschi…

— Io? Con i tedeschi cosa?

Accidenti, mi sembrava così facile mentre ci pensavo tornando da scuola: — Dai, nonno, hai fatto il partigiano, tu i tedeschi li hai combattuti e…

Mi interrompo perché si mette a ridere. Riprende il giornale, poi lo posa di nuovo: — Quindi era questo il problema? — si toglie gli occhiali e si massaggia la parte alta del naso — Claudio, io non ho niente contro i tedeschi. Li ho combattuti, è vero, ma è stato tanto tempo fa e quelli erano nazisti. Non ce l'ho con tutti gli abitanti della Germania, ma solo con quelli che stavano con Hitler e la sua combriccola.

Si china un po' in avanti e mi guarda negli occhi: — Anche allora non credevo che tutti quei soldati fossero cattivi. Di sicuro c'erano tanti poveracci che avrebbero preferito starsene a casa loro a mangiare kartoffel, solo che c'era la guerra e loro erano qui, a casa nostra, a spararci addosso, a obbedire agli ordini. Sono sempre quelli che comandano i gran bastardi!

Fa una pausa, penso che stia tornando con i ricordi a quei giorni terribili.

— Vedi, anche gli italiani, non dico tutti, ma parecchi, erano i nemici per noi. I fascisti. Dopo il 25 aprile io li avrei voluti trovare tutti, fare piazza pulita. Quei maledetti che avevano portato questo Paese alla rovina!

Ora ha gli occhi lucidi, sospira, poi riprende: — Ma non l'ho fatto, non l'abbiamo fatto. E forse è stato uno sbaglio… allora, alla fine della guerra credevo che le cose sarebbero cambiate, che quelli che… — non finisce la frase. Guarda il giornale e con un gesto rabbioso lo butta per terra Ma per che cosa abbiamo lottato? — mormora quasi fra sé.

Poi si alza: — Dai, andiamo a vedere se è pronto da mangiare

Fa due passi, poi si ferma: — Non ti preoccupare, non ho niente contro la tua tedeschina. Magari con suo nonno ci siamo presi a fucilate qualche volta, su in montagna. Quando viene glielo chiedo.

— Nonno!

Gli è tornato il buonumore.

— Scherzo, Claudio, non ti preoccupare. Vieni, non facciamo aspettare il babbo, quel brontolone!

Mentre esce dalla stanza raccolgo il giornale. Il titolo in prima pagina parla di un certo cardinale Casaroli che ha firmato un nuovo concordato fra stato e chiesa con il primo ministro Craxi.

Penso che mio nonno oggi mi abbia insegnato qualcosa, ma credo che mi ci vorrà del tempo per capire di preciso che cosa.


Esco da scuola e vedo mio padre appoggiato alla macchina, che mi aspetta. Gli vado incontro un po' sorpreso, non aveva detto che sarebbe venuto: — Ho accompagnato il nonno a ritirare la pensione alle poste, poi, visto che eravamo in giro, siamo venuti a prenderti.

Apro la portiera posteriore, butto lo zaino sui sedili ed entro nella Volvo: — Ciao, nonno.

— Ciao Claudio, com'è andata a scuola?

— Tutto bene, niente di particolare.

— E la biondina?

— Annette? Forse dopo vado da lei a fare i compiti.

Certo che ci vado. È stata lei a chiedermelo o l'ho proposto io? Non me lo ricordo, eppure, ora che ci penso, mi sembra un dettaglio importante.

Mio padre mette in moto e parte, dopo un po' accende la radio. Da un paio di giorni nei notiziari non si parla d'altro: "…la Tass ha dichiarato che l'esplosione del reattore della centrale nucleare ucraina ha causato due morti, mentre sarebbero circa duecento i feriti. L'agenzia di stampa sovietica, quindi, smentisce le prime notizie che parlavano di centinaia di vittime. Ma in tutta Europa cresce la preoccupazione per gli effetti della nube radioattiva. Secondo gli esperti, i paesi a rischio immediato sono la Finlandia, la Norvegia e la Svezia. Intanto la popolazione delle aree intorno a Cernobyl è stata evacuata e…".

Mio padre guarda per un attimo il nonno: — Hanno fatto un bel lavoro i compagni, eh?

— Che c'entra! E poi sono sicuro che c'è sotto lo zampino degli americani!

— Sì, sì, gli americani, certo… è sempre colpa degli americani, vero?

— E i missili su Lampedusa, allora?

— Ma che stai dicendo! Quelli li ha lanciati Gheddafi!

— Sì, ma hanno cominciato gli americani! Hanno bombardato loro Tripoli!

— Ma che mi tocca sentire! Quello è un pazzo, un dittatore… e poi questa è un'altra faccenda, questo casino l'hanno combinato i russi.

Continuano per un po' a battibeccare, poi mio nonno guarda fuori dal finestrino: — Ma dove vai? Non mi porti alle poste?

— Alle poste? Un'altra volta? A fare che? Ci siamo stati mezz'ora fa!

— Ma che dici? Dai, andiamo, devo ritirare quei quattro soldi che mi danno e… — il vecchio si ferma a metà della frase, sembra non riuscire ad andare avanti.

Mio padre si volta di nuovo verso di lui, quando parla ha un tono preoccupato: — Babbo, non ti ricordi? Hai appena ritirato la pensione. Hai messo la busta in tasca, guarda, ci dev'essere anche la ricevuta…

Il nonno prende una busta bianca dalla tasca del soprabito, la apre. Mi aggrappo alle spalliere dei sedili anteriori e mi sporgo per vedere. Nella busta ci sono delle banconote e un foglietto stampato. La tiene in mano come se non capisse da dove salta fuori, nessuno parla più, solo la radio: "…gli esperti ritengono che si tratti del peggiore incidente nucleare della storia, assai più grave di quello accaduto a Three Mile Islands nel 1979. Soltanto nelle prossime settimane sarà possibile stabilire un bilancio effettivo della…".

Alzo gli occhi e incrocio lo sguardo di mio padre nello specchietto retrovisore. Forse lui sa già che quello è il primo segnale della malattia di mio nonno.


Sarà la decima volta che vediamo la colonna di carri armati e quell'uomo con i sacchetti della spesa. Annette spegne la TV.

— Pensa a quanto siamo fortunati, potevamo nascere là.

Lei ignora la mia ingenua retorica, sembra distratta. Cerco di ricordare in quale esatto momento il nostro sentire ha smesso di essere comune, quando il mio è rimasto indietro, un po' distaccato.

Si alza e va a rovistare fra i libri sullo scaffale, prende un volume, lo osserva e lo rimette a posto, ne sceglie un altro e lo apre. Non vedo la copertina, ma scommetto che è Prevert. Legge una frase ad alta voce. Sì, è Prevert: — Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l'esempio.

Mi sento in colpa e non capisco perché. È tutto il pomeriggio che cerco il momento giusto, non l'ho trovato, ma glielo dico lo stesso: — Mio nonno sta sempre peggio. Ieri i miei ne parlavano, il dottore ha consigliato una struttura…

Con il libro in mano mi guarda, so quanto Annette le sia affezionata: — Un ospizio?

— Qualcosa del genere, un posto dove lo possono curare.

— Tu che ne pensi?

Non lo so, cerco solo di sembrare più sicuro di come sono. Vorrei dire altre cose, vorrei che tutto fosse come prima. Vorrei, ma forse non posso e basta: — È la cosa migliore, per lui.

Mentre ripeto le parole di mio padre, rifletto sul significato che diamo all'espressione "la cosa migliore". Mi arriva come un'epifania in tutta la sua soggettività: esiste sempre un confine fra quello che pensiamo sia giusto e quello che lo è davvero. Per alcuni è un deserto sterminato, per altri è un breve sentiero, in ogni caso ora capisco quanto sia faticoso attraversarlo.


— E così sei pronta a mollare tutto? Hai proprio deciso?

Annette non parla e non mi guarda, continua a giocherellare con il portachiavi. Le cose ormai vanno un po' così fra di noi: lei parlava di andarsene e io pensavo che fosse tanto per dire.

— Non mi rispondi più neanche? Che ci è successo, Annette?

— Claudio, guarda, non è come credi… davvero, qui non mi ci sento più, mi sembra di sprecare il mio tempo.

— Ho capito, e pensi che in Germania le cose andranno meglio?

Sospira: — Non lo so, credo che cambiare aria mi farà bene. È solo per un anno, un anno e mezzo al massimo.

— Un anno e mezzo… è tanto tempo.

— Ci ho pensato, davvero, ci ho pensato. Staremo lontani per un po', ma per le vacanze e per Natale ci vedremo. Non è un addio, è solo una pausa.

Una pausa. A me sembra la fine: — E che farai? A questo ci hai pensato?

— Be', intanto un posto dove stare ce l'ho. Mia nonna ha una casa grande, ora è sola. Mi ha detto che dopo la caduta del muro ci sono un sacco di possibilità a Berlino. Magari seguirò dei corsi d'arte, lo sai che mi piace disegnare.

— Ma l'università, tutti i progetti…

— Sai, non credo che sia così importante. E poi ora non riesco a immaginare cosa voglio fare da grande.

Mi appoggio alla sua Renault 5 bianca. Non so più che dire.

Si avvicina e mi abbraccia. Ci baciamo. Accarezzo i suoi lunghi capelli biondi, sono soffici come la prima volta che li ho toccati.

— Pensaci, magari potresti decidere di venire anche tu, prima o poi.

— Certo, chissà? Forse non sarebbe una cattiva idea. — so di mentire a me stesso, ma non ne posso fare a meno. Il mio mondo sta crollando, pezzo dopo pezzo.


…pulviscolo atmosferico! Allora non si parlava d'altro. Era ovunque, bastava un raggio di sole che filtrava dalle tende e lo vedevi. Tutte quelle particelle microscopiche che danzavano nell'aria, sempre in movimento, inafferrabili. Poi ci hanno portato via tutto, i nostri sogni, le speranze… quei porci dei politici si sono presi tutto! Anche il pulviscolo atmosferico! Io me lo ricordo bene, ma ora non lo vedo più, non lo vedo più…

— Nonno, forse è perché non ci vedi più bene, i tuoi occhi non sono più quelli di una volta.

— Ma che diavolo stai dicendo? E tu chi sei? Che ci fai qui?

— Nonno, sono io, Claudio. Non mi riconosci?

— Claudio? Non conosco nessun Claudio! Ti hanno mandato loro? Ah! Gli faccio ancora paura, vero? Sono vecchio, ma quelli come me vanno tenuti d'occhio, eh? Io non dirò niente, mi porterò i miei segreti nella tomba! Diglielo, diglielo pure, con me non c'è niente da fare!

Mi alzo e vado alla finestra. Sta piovigginando, una leggera pioggia d'aprile, fresca e finissima, simile a rugiada. Fra le nubi si è aperto uno squarcio e il sole fa capolino, disegnando un tenue arcobaleno che finisce oltre il tetto del palazzo di fronte, dopo il giardino.

…quelle minuscole particelle di polvere che danzavano nell'aria…

Guardo giù, la panchina su cui ci siamo seduti tante volte con il nonno. È bagnata, ma non troppo, l'albero l'ha in parte riparata dalla pioggia. Un giorno che lei mi aveva accompagnato, sarà stato l'estate scorsa, eravamo tutti e tre a goderci l'ombra di quel leccio.

…il Governo, sono stati loro…

Mi volto a guardare il vecchio, ripiegato nella poltrona, con le gambe coperte da un plaid, perso nel suo mondo di ricordi, alcuni veri altri solo immaginati, ma non per questo meno reali per la sua mente corrosa dall'alzheimer.

…io ho combattuto per la libertà di questo Paese, e loro ci hanno portato via tutto…

Torno a sedermi accanto a lui: — Davvero non mi riconosci? Non ti ricordi di me?

Il vecchio mi guarda con gli occhi velati dalle lacrime, sembra riflettere per un attimo prima di rispondere: — Certo che mi ricordo di te, Giuseppe. Eravamo insieme, dalle suore, poi noi ci siamo trasferiti, non ti avevo più visto. Siete venuti qua anche voi?

Gli appoggio una mano sulla spalla e sorrido: — Sì. Siamo venuti anche noi qua, adesso.

Annuisce e mi sembra più sereno. Rimaniamo per un po' a guardarci, poi mi alzo: — Ora devo andare, tornerò presto a trovarti.

— Va bene… ah, senti, salutami tuo padre.

— Mio padre?

— Sì, quando vado da lui in farmacia, con la mamma, mi regala sempre qualcuna di quelle caramelle d'orzo…

— Certo, lo farò. — rispondo, mentre gli sistemo la coperta sulle ginocchia. Mi volto ed esco dalla grande stanza bianca. Nessuno di quei precari ospiti presta attenzione al mio passaggio.

Fuori, nel freddo della sera, fantastico su un'altra vita nella quale mio padre fa il farmacista e io sono quel ragazzino, l'amico di una versione fanciullesca, quasi inconcepibile prima d'ora, di mio nonno. Questo pensiero mi accompagna fin sull'autobus per tornare a casa ma, lì, in mezzo a quelle facce sconosciute, d'improvviso mi colpisce la certezza che non lo vedrò mai più da vivo.


Mio padre mi ha chiesto se volevo guidare, non è da molto che ho preso la patente, forse era un suo modo per farmi sentire adulto. Ho risposto di no, avevo paura di distrarmi, di pensare ad altro. Mentre venivamo qua, seduto nei posti dietro in macchina, guardavo stupito la parata di bandiere rosse alle finestre e davanti alle case, per la strada. L'ho presa come un gioioso saluto a mio nonno, un tributo alla sua fede politica, ai suoi ideali. Poi ho capito che erano solo le rimanenze di ieri, il 1° Maggio, la Festa dei Lavoratori. Ma è stato bello lo stesso, a lui di sicuro sarebbe piaciuto.

C'è il sole al cimitero, ormai fa caldo, la primavera è arrivata di colpo, qualche giorno fa sembrava che quest'anno l'inverno non se ne volesse andare, e invece…

Sono rimasto fuori della chiesa per quasi tutto il tempo. L'educazione laica è una delle poche cose che sento di aver assorbito dai miei, ora mi ritrovo a essere ateo quasi senza volerlo. Non per consapevole convinzione, ma per una specie di tradizione di famiglia. E così è a causa dell'influenza che l'ambiente ha avuto su di me che non mi sono inginocchiato sulla panca a recitare preghiere come un mantra. L'idea mi fa sorridere, poi mi ricordo perché sono qui e torno serio di colpo. Mi guardo intorno, scruto le facce di parenti e amici. Ci sono delle persone anziane con uno stendardo dell'ANPI. Mi vengono in mente i racconti che mio nonno mi faceva da bambino, sulla guerra partigiana, soprattutto quando mio padre non c'era. Allora lo vedevo come un eroe, una specie di Capitan America che lottava senza paura contro le forze dell'Asse. Mi immaginavo da grande, anch'io avrei combattuto i nazisti come lui. Solo più tardi realizzai che Hitler non c'era più e che l'unica supremazia a cui la Germania aspirava in Europa era quella economica. Ne rimasi un po' deluso, la mia occasione era svanita.

Ieri sera Annette mi ha telefonato. Dopo tutto questo tempo non sapevo cosa dirle, cercavo di immaginarla lì, davanti a me, ma la sua figura era molto sfocata, afferravo solo delle macchie di colore, il cielo degli occhi, l'oro dei capelli. Lei era triste, per mio nonno, forse un po' anche per noi.

Mentre mi avvicino per vedere quello che succede, passo vicino alle corone. Sento il profumo intenso e penetrante dei gigli bianchi, sono quasi stordito dalla loro fragranza. In una specie di vertigine sensoriale guardo affascinato il muratore che sistema i mattoni e li unisce con la calce fresca. Tutta la scena scorre quasi al rallentatore, finché la lapide viene sistemata al suo posto e solo allora mi scuoto un po' dal mio stordimento.

Una stagione della mia vita finisce oggi e credo che per me, da questo momento, la morte avrà per sempre il profumo inebriante del giglio.


(fine)



up Torna su

Marcello Rizza


I miracoli di Via Pre


Chopin era accucciato al fianco del vecchietto. Non lo guardava con l'occhio languido dei cani col pedigree, era un bastardino sgamato per quanto potesse esserlo la sua specie e, in fondo, gli bastava che il suo padrone e compagno ci fosse. Non è che non l'amasse, anzi, ma badava al sodo, si faceva nutrire, abbeverare e andava in calore senza avere uno sfogo.

Che poi non si conosceva davvero il suo nome, nessuno l'aveva mai sentito chiamare dal suo custode e padrone, che era certamente muto perché nessuno lo aveva mai sentito parlare. Lo chiamarono così i vicini di casa che a una certa ora lo sentivano guaire, Chopin dei Chiari di Luna. Il vecchio, al secolo Parodi Baciccia, quando il rintocco religioso della Chiesa di San Lorenzo annunciava il calar del caldo, nel mentre che un fresco refolo portava conforto e i passanti diradavano, usciva da quella stanza umida (dove mangiava e dormiva) e si sedeva silenzioso sui gradini d'accesso alla sua abitazione riempiendo la ciotola del cagnolino e una sua tazza col vino sfuso e sciatto della piccola drogheria. Era un negozietto con ancora l'insegna dell'Oro Pilla, con una barra arrugginita ma resistente sullo stipite che mostrava il livello dell'acqua raggiunto dalla terribile alluvione del 1822 e con segni illeggibili di pittura in calce che nel 1915 celebravano le vittorie turche e i funerali della Belle Époque. A Chopin piaceva quel vino, lo lappava con calma, aveva imparato a farselo bastare e quando lo finiva il cielo era diverso. Allora si scostava dal caldo contatto umano, provava a ergersi sulle zampe malferme, ricadeva a terra ubriaco e cominciava a mugolare rivolto al chiaro di luna e a una cagnetta che non c'era.

Il vecchietto, sia d'estate che d'inverno, non era mai stato visto vestito in altro modo. A coprire una postura rattrappita e abbandonata, una pelle scura e cotta d'avventure vissute chissà dove, erano un maglione grigio tarmato, una giacca di cotone che tanti anni prima era stata verde, un pantalone marrone senza pieghe, così corto da mostrare i rilievi preoccupanti delle vene bluastre nelle gambe, e una coppola nera troppo grande e floscia che gli nascondeva ben bene il volto. Era il cappello giusto per quel difetto ereditario che portava a corredo: lo strabismo.

Si racconta che smise di parlare a causa di un trauma, quando se ne andò per sempre Dolores. Era certamente una leggenda, nessuno aveva mai conosciuto una Dolores, perché quando dieci anni prima arrivò era solamente accompagnato dal cucciolo dal nome sconosciuto. E nemmeno viveva di entusiasmi. L'unico momento di interesse dell'anziano, sempre che si possa accomunare all'entusiasmo, si narra che l'avesse mostrato quando chiese alla sua vicina di casa, in un foglietto scritto con una incerta calligrafia e con tre errori ortografici sulle cinque parole, la ricetta del suo minestrone alla genovese. Il profumo che ne veniva fuori ogni domenica da quella casa al primo piano, quando i tanti invitati si sedevano affamati, era delizioso. Ma quale fosse il segreto di una ricetta tutto sommato semplice, quale fosse l'ingrediente speciale Donna Lucia, sempre allegra e generosa, non l'avrebbe mai rivelato a nessuno, ma proprio a nessuno. Men che meno al Baciccia.

Poteva essere una sera come un'altra nello stretto intersecare di vicoli e caruggi, tra malaffare e povertà, dove le prostitute erano state cantate con affetto da De Andrè. Anzi, fu proprio una sera come un'altra, quantomeno per chi conosce la vita trascorsa nei vicoli del porto genovese. Potremmo chiamare ciò che accadde come "piccoli miracoli di ogni giorno in Via Prè".

Solo Chopin a testimone, ma non l'avrebbe mai raccontato a nessuno nemmeno dopo aver bevuto tanto vino. Altri videro qualcosa, movimenti di persone, niente di sconvolgente. Erano comportamenti appena un po' curiosi in un contesto dove la quiete viene interrotta da urla e abusi familiari o da bisbigli malavitosi che giungono dalle finestre. Dal primo piano della casa dove abitava Donna Lucia erano mesi che la domenica non si faceva più festa, che dalla finestra non usciva più quel caldo profumo di minestrone. La serenità di quel donnone generoso, era evidente, aveva fatto le valigie e se ne era andata. Ora, avvicinandosi alla casa, si sentivano pianti sommessi e in strada si notava la mancanza di un bambino che era solito giocare rumoroso e spaccare vetri e lampioni con la lippa.

Da uno dei vicoli sbucò la testa. Era di un giovane con gli occhi grandi e lucidi febbricitanti di avventura e di dolore, guardingo. Solo dopo essersi sincerato che non ci fosse nessuno sul caruggio, accortosi però del vecchio che contava zero, la sua figura emerse del tutto. Camminava a fatica simulando la normalità, aveva una chiazza rossa sui pantaloni all'altezza della coscia e sapeva dove andare. Non suonò all'appartamento del primo piano, aprì il portone con le chiavi ed entrò. La donna (che da mesi piangeva) urlò per venire zittita subito dalla voce del giovane appena entrato. Tutto accadde in un minuto, era inseguito e non poteva rischiare di farsi raggiungere.

— Tienili tutti, nascondili.

Il vecchio da fuori non sembrava ascoltare, la sua espressione era sempre quella, forse era diventato anche sordo dopo che Dolores…

— Dove li hai presi, delinquente! Togliti i pantaloni, fammi vedere. Chiamo un dottore!

— Non ho tempo, devo scappare, li ho dietro…

— No! Stai qui! Chiamo il dottore!

— Vado, non dirgli che sono passato… spendili per curare Marcellino, vedrai che basteranno… e tu non mi hai visto.

— Avrai fame, prendi questo, mettilo in tasca. — e poi urla e pianti di mamma — Salvatore… stai qui, Salvatore! Chiamo il dottore, non andare!

— Non mi hai visto, capito?

Il giovane uscì emaciato, più pallido di quando era entrato, si guardò bene intorno e rivide il vecchio: — Mi spiace, nonno. — e gli rubò la coppola.

Il vecchio non mosse un muscolo, non cambiò espressione. Il giovane calzò il copricapo con la visiera a coprire il più possibile il volto, per camuffarsi. Riprese a camminare cercando di dissimulare la zoppia, si sporcò le mani del suo stesso sangue e lasciò un'impronta sul muro a sinistra all'angolo del caruggio che porta al sobborgo tipico del porto, per sviare gli inseguitori. Imboccò invece il vicolo opposto, addentrandosi ancora di più nel dedalo capace di nascondere un mondo e di frenare l'invasione dei Mori saccheggiatori.

Dalla finestra del primo piano, Donna Lucia non sembrava più quel donnone che era un tempo; mentre guardava alla strada teneva in braccio il figlio pesante, troppo cresciuto, spaventato: — Tornerà, Marcellino, tornerà presto… quando sarai guarito.

Dalla scalinata arrivarono minacciosi i bravi, avevano le pistole in mano, procedevano sicuri, i caruggi erano il loro poligono: — Vecchio, dov'è?

Peccato non ci fosse nessuno, a parte Chopin e Donna Lucia, per raccontare poi alla taverna i fatti. Avrebbero sentito il vecchio parlare, sì parlare!

— Di là. — mostrando l'impronta col sangue e il vicolo a sinistra che in cinque minuti si affaccia sulla zona turistica.

I malviventi, fiduciosi di raggiungere e finire il giovane, nemmeno lo ringraziarono e ripresero a correre.

Ora qualcuno potrebbe obiettare che se dopo dieci o più anni il vecchio disse solamente — di là — non sia stato poi un granché di miracolo, ma quando Baciccia fu sicuro di non essere visto dai delinquenti accennò anche un sorriso prima di tornare alla solita espressione vacua e i due fatti assieme cambiano completamente il quadro.

Fatto sta che, dopo un'ora e dopo tanto che non accadeva, dalla solita finestra provenne il delizioso profumo di minestrone. Donna Lucia uscì sul caruggio, teneva un cappello a larghe falde in mano e nell'altra una bottiglia di plastica senza tappo con l'etichetta "Latte Sole" da cui fuoriusciva il fumo e il profumo di tutt'altro che latte. Si avvicinò al vecchio, gli calzò quel cappello un po' troppo grande, l'unico che aveva sottomano in casa (lei non lo sapeva ma era il giusto copricapo per nascondergli il difetto agli occhi) e gli lasciò sui gradini la calda bottiglia. Infine gli parlò all'orecchio per un minuto rivelandogli il segreto, la sua ricetta. La ricetta segreta! L'ingrediente particolare era il sedano di montagna che non si sa come a Genova lei riuscisse a procurarselo, si dice che lo spacciassero a Sottoripa (certamente una leggenda perché a Sottoripa non spaccia nessuno). Il vecchio non si mosse e non parlò, peraltro era diventato muto e sordo da quando Dolores…

Quando la luna e i lampioni illuminarono la strada, una donna sui cinquant'anni, mai vista prima in quei vicoli, a piedi e sostenendo a fatica una valigia che conteneva un'avventura, si avvicinò. A guardarla dritta avrebbe mostrato uno strabismo ereditario. Poteva essere Dolores?


— Ciao Pulce!


— Woof!"


Baciccia alzò il capo: — Sei tu."


Dopo dieci anni aveva sorriso e parlato per due volte. Non avrebbe più smesso.


Per il vicinato sarebbe sempre stato Chopin dei Chiari di Luna, anche perché Pulce era davvero riduttivo per un tale personaggio. E quel trovatello bastardo, quella sera, non si scompose più di tanto, erano situazioni che aveva già osservato in Via Prè. Non avrebbe mai capito gli umani ma d'istinto li amava. Era già ubriaco, era un cane dalla ciucca triste e cominciò a guaire alla sua luna. In fondo era una sera come tutte le altre e a lui stringeva il bisogno di una cagnetta.


Mariovaldo


Il sale della vita


Un bicchiere di Calvados, il sublime Chateau de Breuil millesimato, e un enigma nascosto in due misteriose parole: Aigues Mortes.

Seduto al bancone del bar, nel solito albergo alla periferia di Torino, sorseggiavo lentamente il mio nettare e cercavo di sciogliere l'enigma di quelle due parole in apparenza innocenti ma capaci di scatenare una rissa verbale in un luogo, il bar di un hotel 4 stelle, frequentato da persone intenzionate soltanto a passare un'oretta rilassante dopo una giornata di lavoro faticoso.

Mi guardai riflesso nella specchiera dietro al bancone: ero stanco. Oltre a mancare pochi mesi alla mia pensione, fatto che di per sé mi faceva sentire un anziano manager ai limiti del cedimento strutturale, scontavo anche gli effetti delle vacanze invernali.

Appena il giorno prima, la Befana, vecchietta dispettosa, con la sua scopa aveva spazzato via ogni ulteriore sogno di riposo, e così quel freddo giovedì era iniziato alle cinque, quando la sveglia aveva svolto il suo compito col solito zelo.

Dopo il caffè, anzi un'intera moka da tre, per darmi l'illusione di essere ben desto, ero uscito invidiando il sole che ancora stava dormendo da qualche parte, laggiù a est.

Mi ero messo al volante, lanciando mentalmente un'imprecazione al mio Capo che aveva avuto la bella idea di fissare due giorni di riunioni con un importante cliente in date adatte a un bel ponte, magari sulla neve. Naturalmente lui aveva indorato la pillola — Tu sei il migliore, mi fido solo di te, non serve che io venga — bello str…! Così avevo guidato per un paio d'ore sino a Torino, alla sede centrale di una grande industria automobilistica, non è difficile indovinare quale.

Durante il viaggio, quando potevo permettermi una minore attenzione al traffico, rari momenti su quell'autostrada insidiosa, percorsa in prevalenza da camionisti insonni e persone frettolose, mi ero ripassato mentalmente le argomentazioni che avrei portato nelle riunioni delle ore successive. Insomma, ero già provato fisicamente e mentalmente quando, alle nove in punto, mi ero presentato alla reception della Direzione Generale del cliente.

Come avevo previsto, le discussioni andarono avanti per molte ore inframmezzate da tanti caffè e da un panino stopposo che persino una capra avrebbe guardato con sospetto.

Erano passate le diciassette quando, strette le ultime mani, mi ero diretto al solito albergo in periferia dove, dal tremore dei vetri, si potevano contare i voli in partenza da Caselle.

Una doccia, un altro paio d'ore di lavoro per raccogliere e organizzare sul portatile gli appunti delle riunioni, poi una cena ritardata e solitaria nel buon ristorante dell'albergo.

Infine ero sceso al bar dove, centellinando il pregiato Calvados, stavo scaricando la tensione accumulata, prima di raggiungere il letto.

La mia via verso la pace interiore era stata disturbata da qualcosa che si stava svolgendo sotto i miei occhi di spettatore involontario. Io sono curioso di natura e iniziai a chiedermi che cosa fosse accaduto tra il barista e quei due clienti francesi che se l'erano appena svignata, inviperiti, urtandomi senza nemmeno l'ombra di un "pardon".

Un rabbioso "Ne oubliez pas Aigues Mortes!" del barista li aveva accompagnati all'uscita. Non dimenticate "Aigues Mortes", ecco le due parole misteriose.

Ero seduto abbastanza lontano e non avevo potuto seguire la discussione; per giunta, il mio francese era così raccogliticcio che non mi avrebbe permesso di origliare. Ma avevo udito chiaramente le due parole, ben scandite più volte dal barista, con rabbia trattenuta e tono sempre più alto. Per me erano prive di significato, mi veniva da pensare a "acque morte" ma, da quanto ricordavo, "acqua" in francese si dice "eau".

Qualunque cosa volessero dire, quelle paroline erano certamente la chiave di tutto, visto l'effetto che avevano sortito.

In quel tipo di alberghi d'affari, confortevoli più della casa e freddi più dello sguardo di un doganiere, i clienti, viaggiatori professionisti, vanno al bar per rilassarsi, o per scambiare quattro chiacchiere informali con i colleghi, o magari per annegare nell'alcool di qualità una delusione professionale. Di sicuro non per litigare con il barista, soprattutto con quel barista, Roberto.

Frequentavo l'albergo da qualche anno e conoscevo bene Roberto: una persona oltre la sessantina, un vero gentiluomo che parlava benissimo quattro lingue ed era in possesso di un aplomb da fare invidia a un maggiordomo inglese.

Mai, a mia memoria, aveva avuto a che dire con un cliente, e sì che di persone sgradevoli, alticce, o soltanto aggressive per le frustrazioni professionali, doveva averne sopportate a centinaia.

Col mio bicchiere in mano, mi avvicinai sino a sedermi sullo sgabello più vicino. Il barista stava mettendo in ordine alcune bottiglie. Notai subito le sue mani: tremavano.

La presi un po' larga: — A volte certi clienti sono duri da sopportare, vero, Roberto?.

Mi guardò un attimo, quasi con ostilità, poi mi riconobbe e abbozzò un mezzo sorriso: — Buonasera, ingegnere; no, è colpa mia, ho lasciato prevalere i sentimenti personali, ma tutto sommato non me ne pento.

— Mi scusi se glielo chiedo, ma le uniche parole che ho sentito chiaramente sono state "Aigues Mortes". E ho visto l'effetto che hanno avuto su quei due. Io sono curioso, è troppo se le chiedo di spiegarmi cosa c'è dietro?

Il barista soppesò per un momento la risposta da darmi. Si vedeva che era combattuto: — Già, i libri di storia non ne parlano, magari qualcuno al di là delle Alpi si offenderebbe. Ha tempo di ascoltare una storia, di quelle cosiddette minori, tramandate a voce?

Per puro caso, avevo finito da poco la lettura di un'opera di un oscuro scrittore tedesco, Arno Schmidt, e mi erano rimaste impresse alcune sue affermazioni: — Qualcuno ha detto che la grande storia non è niente: fredda, impersonale, spesso falsa; soltanto nelle "antichità private" c'è vita e segreto.

Roberto interpretò giustamente la mia risposta come un "". Prese la bottiglia del Calvados e due bicchieri puliti: — Proprio una grande verità. Si metta comodo, questo giro l'offre la casa.

Mi sentivo come il protagonista di un vecchio film americano, di quelli in bianco e nero: l'investigatore privato seduto al bancone di un bar, il barista che gli mette davanti un bicchiere di Bourbon. "Questo lo offre la casa, Mike, ma poi squagliati". Dovevo solo sperare che non ci fosse la scazzottata finale.

Guardai l'ora e ascoltai la vocina dentro di me che supplicava di andare a letto, l'indomani alle nove mi aspettava una riunione, dove avrei dovuto sfoderare tutta la mia lucidità e abilità di negoziazione. Ma la curiosità era ancora più forte. Alzai il bicchiere e diedi mentalmente un calcio nel sedere alla voce della ragione, che si ritirò da qualche parte, facendo l'offesa.

— Grazie, versi pure, ho tutto il tempo che serve.

— Aigues Mortes, cioè "acque morte" in occitano, è una cittadina della Francia meridionale, sul Mediterraneo, e la sua ricchezza sono gli stagni di acqua salmastra, dai quali si estrae il sale. — esordì Roberto, guardando il proprio bicchiere che aveva colmato sino all'orlo. Il mio non era da meno — E quei due di prima sono dei presuntuosi sciovinisti e hanno avuto ciò che si meritavano! — Roberto, con rabbia, vuotò il bicchiere in un sorso.

Bene, una vaga indicazione geografica, la spiegazione del nome, e qualche informazione sulla discutibile natura dei due clienti; un po' poco, ma un buon inizio. Rimasi in attesa del seguito.

— Stavano parlando tra loro di un brutto fatto cui avevano assistito questa mattina, proprio davanti all'albergo. C'è un povero cristo, un ragazzo magrebino, certamente un islamico, che passa nel parcheggio la mattina, quando i clienti escono. Arriva con secchio, spatola, spugna, le solite cose, e si offre di pulire i vetri. Lo fa in modo educato, non esagera mai.

— Sì, lo conosco, — lo interruppi — è un tipo tranquillo.

Non dissi che lo mandavo sempre via con un gesto seccato.

— Dario, il ragazzo dei bagagli, ha assistito a tutto e mi ha raccontato di un cliente, un italiano, che si è infastidito. Non so, forse il ragazzo ha insistito più del solito o il cliente si era alzato col piede sbagliato; comunque sia, dopo averlo preso a maleparole, di quelle proprio da razzista, il cliente lo ha pure spinto violentemente, facendolo cadere. Se uno dei francesi che stavano uscendo non lo avesse trattenuto, trascinandolo via, lo avrebbe preso a calci. Una cosa davvero penosa e quel cliente è un imbecille, il mio orario di lavoro è finito e lo posso dire. Ma purtroppo cose del genere succedono dappertutto, quella piccola minoranza di cretini e ignoranti infesta ogni parte del globo.

Roberto mi guardò, come per chiedere conferma. Io mi limitai ad annuire ma non ero così sicuro che i cretini fossero una minoranza tanto piccola.

Una sconosciuta cittadina della Francia, le saline, un paio di francesi che diventano antipatici al barista, un disgraziato lavavetri islamico maltrattato da un italiano idiota; non ci arrivavo proprio.

— Quei due erano lì a bersi un whisky e a straparlare d'italiani intolleranti e fascisti, che da loro certe cose non erano mai accadute, avevano sì dei problemi con i loro immigrati, ma venivano affrontati e risolti in modi civili e democratici. Altro che questi italiani razzisti! Dicevano così: italiani razzisti, con aria da padreterni, facendo finta di parlare tra loro ma a voce bella alta, che gli italiani sentissero. Be', a me questa cosa non la dovevano dire. Quant'è vero che mi chiamo Roberto e che mio nonno era Giovanni Garino. Lui ad Aigues Mortes c'era!

Roberto aveva perso il suo aplomb, era rosso in viso e si trattenne a stento dal battere un pugno sul bancone: la mano serrata era già in viaggio ma all'ultimo istante si fermò, rimase per qualche attimo a vibrare a mezz'aria, poi le dita si aprirono per un atterraggio morbido sullo strofinaccio del bancone.

Io finsi di non aver visto e spinsi avanti il mio bicchiere vuoto: — Il prossimo sul mio conto, Roberto, e vada avanti, mi pare interessante.

Il barista aveva ripreso il proprio autocontrollo; fece un segno di disprezzo per il mio conto e versò un altro giro: — Vede, mio nonno Giovanni era figlio di contadini, campavano abbastanza bene nel Monferrato, coltivando qualche ettaro a vigna e qualche altro a grano. Poi, verso la fine dell'ottocento successe il disastro: arrivò la filossera, lo sa cos'è vero?

A me piace il vino e avevo letto qualcosa sulla filossera, ma in realtà non ne sapevo molto. Buttai lì una risposta, tanto per rompere il momento di silenzio: — La filossera? Un insetto parassita arrivato dall'America, mi pare, e credo che il problema fu risolto usando appunto le viti americane, resistenti all'infezione, per innestarci i nostri vitigni. In pratica, oggi qualsiasi uva da vino in Italia come nel resto d'Europa, ha il "piede americano".

— Giusto nella sostanza, ma tra la comparsa del parassita e la soluzione del problema passarono più di trent'anni. Nel frattempo, per altri motivi, pure il prezzo del grano crollò. Così centinaia di piccoli coltivatori andarono in rovina. Persino quella che allora era una ricchezza, cioè i figli che lavoravano la terra, divenne un peso. Mio nonno era il terzo di otto tra fratelli e sorelle. Ma non c'era più da mangiare per tutti. Così i due maschi più grandi, Giacomo di diciannove anni e appunto Giovanni, che allora ne aveva quindici ma era robusto e mangiava per due, dovettero lasciare l'Italia, attratti da quello che aveva raccontato un cugino: in Francia, alle saline di Aigues Mortes, assumevano lavoratori italiani, visto che accettavano le paghe da fame che i francesi invece rifiutavano.

— Della nostra emigrazione in Francia non ricordavo. dissi — Mi pare che nella sfortuna almeno quegli emigranti non dovettero mettere un oceano tra loro e le famiglie, insomma, forse furono meno sfortunati di altri.

Roberto scosse la testa con forza: — Potrebbe sembrare, è vero, ma lei non ha idea di che razza di lavoro fosse quello: un autentico inferno bianco, esposti tutto il giorno al sole, gli occhi bruciati dai riflessi dei cristalli di sale, senza altra ombra che non fosse quella di un cappello a larghe falde. Avevano un sacco ruvido gettato sulla spalla per proteggerla dalle scorticature dei canestri usati per trasportare il sale, il sudore usciva a litri, i corpi seminudi erano coperti di graffi e le mani erano tagliate e macerate dai cristalli. Eppure la gente del posto odiava quei disgraziati: lavoravano come bestie e come bestie erano considerati.

Il barista oramai non parlava a me, era al terzo Calvados e aveva lo sguardo perso nei suoi ricordi di famiglia, ascoltati chissà quante volte: — Ma il peggio doveva ancora venire. Come le dicevo, quei poveretti erano circondati dall'odio della gente locale. "Les macaronis", li chiamavano, e dicevano che erano venuti a mangiare il loro pane, accettando paghe troppo basse pur di portare via il lavoro ai francesi… niente di nuovo sotto il sole, accade pure da noi, oggi. Quindi erano tutti ladri, e le loro donne, perché qualcuno si era portato la famiglia, naturalmente erano delle puttane. In più, si sapeva che l'Italia aveva rinnovato la "triplice alleanza" con gli odiati tedeschi e gli austriaci. Così erano anche dei potenziali nemici, pronti ad assalire a tradimento chi li aveva nutriti.

"Vede, ingegnere, quando il clima è quello, basta una scintilla e tutto scoppia. Fatto sta che ad Aigues Mortes c'era pure chi soffiava sul fuoco per motivi politici o per semplice xenofobia. E la scintilla scoccò nell'agosto del 1893. A nessuno importava quanto futili o falsi fossero i motivi: come sempre in queste occasioni il lupo, che sta in alto, accusa l'agnello, in basso, di sporcargli l'acqua. In questo caso, si disse che un italiano aveva reagito all'ennesimo insulto tirando fuori un coltello e ferendo il francese che l'aveva provocato, ma non si trovò alcun testimone del fatto.

"Come risultato, circa cinquecento francesi inferociti, armati di bastoni, coltelli e altro, assalirono un centinaio di lavoratori italiani in una vera e propria caccia all'uomo. Una ventina di sfortunati cercò scampo attraversando uno stagno, ma furono raggiunti e uccisi, uno per uno, a colpi di pietra; altri finirono ammazzati a bastonate, come cani, o a coltellate. Giacomo, il fratello di mio nonno, fu colpito a morte da una fucilata sparata da un gendarme che in seguito dichiarò di aver sparato per difendersi: lui, armato di tutto punto, a cavallo, che si dovette difendere da un poveraccio denutrito, mezzo nudo, armato di una gerla… ma il gendarme fu addirittura promosso.

"In totale i morti furono una cinquantina, qualcuno parla addirittura di un centinaio, con decine di feriti… a proposito, si arrivò al punto che l'ospedale, per molte ore, si rifiutò di prestare le cure agli italiani feriti; niente male come galité" e "fraternité", non le pare? Dopo il massacro, il sindaco di Aigues Mortes ebbe a dire che si era fatto ciò che si doveva fare. E non fu nemmeno rimosso. Pensi che, ancora oggi, i francesi si ostinano a parlare di una ventina di vittime. Come se venti o cinquanta cambiasse le cose. Ma in realtà non ne parlano, hanno la coda di paglia. Comunque sia, mio nonno fu tra i fortunati che riuscirono ad arrivare a piedi a Marsiglia e da là, non senza problemi, altri pericoli e molti mesi di paura e fame, fu rimpatriato e tornò a casa.

Io avevo finito il quarto bicchiere di Calvados. Chissà perché, ora il retrogusto non mi sembrava più di mela, ma percepivo qualcosa di molto simile al sale. E mi sentivo anche la testa che tentava di svolazzare per conto proprio, leggera e piuttosto ondeggiante. Ma quello che avevo udito raccontare mi pareva orribile e mi venne spontaneo un commento, probabilmente molto più filosofico di quanto io non fossi solito fare senza la spinta etilica: — Io penso che nessuno, francese, italiano, americano o inglese che sia, possa permettersi di dare lezioni di tolleranza e integrazione. Tutti abbiamo scheletri negli armadi, e quegli armadi li apriamo spesso, ma solo per continuare ad aggiungere ossa su ossa. Lei ha fatto benissimo a ricordare a quei signori quest'atrocità, credo che avranno qualcosa su cui meditare.

— Ha ragione, nessuno può dare lezioni sull'argomento. Per non scomodare la storia antica, che di massacri è fatta, pensi al Kenya con i suoi Mau Mau, al Sudafrica, all'ex Jugoslavia, e potrei continuare per un'ora; persino la civilissima America, gli States, ha i suoi scheletri belli grossi. Vede, come avrà capito, io sono sensibile all'argomento "intolleranza" e ho fatto qualche ricerca; ne vuole sapere una, avvenuta appunto negli Stati Uniti? Guardi che mi limito alle vittime italiane, ma a partire dai nativi, oggetto di una vera pulizia etnica, ai Cinesi, ai Russi e così via, ci sarebbe da riempire un volume, di quelli alti un palmo.

Era davvero tardi, ma chi lo fermava più? Feci un tentativo per chiudere l'argomento: — Si riferisce forse a quei due poveracci, Sacco e Vanzetti, condannati a morte senza prove, solo perché erano "spaghetti"?

— No, quello fu un linciaggio "legale" e ben noto, io parlo di New Orleans, due anni prima dei fatti di Aigues Mortes: nove siciliani massacrati con la complicità della polizia locale. Mai sentito parlarne?

— Veramente no. risposi, ma non riuscii a nascondere uno sbadiglio.

— Anche di questo nessuno parla, in America probabilmente quei pochi che sanno se ne vergognano… ma è davvero tardi, siamo tutti stanchi, le risparmio i dettagli.

Quando ci augurammo la buonanotte erano passate le due; io lo ringraziai per la serie di bicchieri che mi rendeva difficile arrivare all'ascensore per la via più breve. L'indomani, anzi era già domani, mi sarebbe venuto un gran mal di testa, questo era certo.


La sveglia mi salvò da un sonno agitato e pieno di visioni terribili di linciaggi e di sangue che arrossava distese di candido sale. Mi sentivo uno straccio, mentre mi radevo svogliatamente e cercavo di rendermi presentabile.

Uscii dalla stanza in grave ritardo, non avevo il tempo di fare colazione. Andai al bancone del bar e mi feci servire un caffè che bevvi in fretta, in piedi. Roberto naturalmente non c'era, era di turno dalle cinque del pomeriggio. Almeno lui si era potuto permettere una buona dormita, pensai mentre, trascinandomi appresso la valigetta e il mio mal di testa, andavo alla reception per saldare il conto.

Aspettando il mio turno, vidi sul banco i quotidiani freschi di stampa. Non avevo notizie del mondo dal giorno prima: avevo avuto troppo da fare e poi la conclusione, con il sacrificio della bottiglia di Calvados, mi aveva fatto spegnere la luce appena toccato il letto. La televisione era rimasta rigorosamente spenta.

Presi una copia de "Il Corriere della sera" e detti una scorsa ai titoli. Mi sentii improvvisamente immerso in un tragico déjà vu:


A Rosarno esplode la rabbia

Assalti e spari agli immigrati

La gente imbraccia i fucili, gravi due stranieri. Il governo invia oltre 200 rinforzi.


Iniziai a leggere le prime righe:


DA UNO DEI NOSTRI INVIATI, ROSARNO (Reggio Calabria)

Il confine tra la vita e la morte è un muretto alto due metri. Il ragazzo nero lo salta con un balzo disperato e poi corre, si lascia indietro le urla di venti giovani calabresi armati di mazze, spranghe, tondini e manganelli…


— Ecco il suo conto, ingegnere..

Interruppi la lettura, chiusi il giornale e consegnai la mia carta di credito.

Mi avviai al posteggio, a testa bassa; Aigues Mortes, i nove siciliani linciati a New Orleans, adesso Rosarno, chissà quante altre centinaia, migliaia di massacri, in ogni parte del mondo, a danno di poveri emarginati, rei soltanto di cercare di sopravvivere. Impareremo mai a evolverci realmente dagli animali sanguinari ed egoisti dei quali evidentemente portiamo ancora schegge di genoma?

Questi i miei pensieri mentre aprivo la portiera dell'automobile.

Una voce mi riportò alla realtà: — Vuoi io pulisco il vetro?

Era il ragazzo magrebino, armato di secchio e spatola. L'incidente del giorno prima non l'aveva scoraggiato. Mi parve di notare soltanto un sorriso più triste del solito. O forse era solo un sorriso caparbio.

Mi riconobbe: ero uno di quelli che non gli lasciavano fare il suo lavoro e l'allontanavano con un fastidio malcelato. Si voltò e fece per andarsene. Rimase sorpreso quando lo richiamai: — Mi servirebbe una pulita al vetro, per favore.

Aspettai con calma che finisse e vidi la sua perplessità incredula quando gli misi in mano venti euro, dicendo che non volevo il resto.

Allontanandomi, mi diedi del cretino. Non per i venti euro. Pensavo forse di assolvermi, di liberarmi la coscienza, quella di uomo appartenente al dieci per cento dei fortunati della Terra, con un po' di denaro?


Era il 2010. A distanza di pochi anni, la rabbia strumentalizzata degli emarginati, le reazioni indignate del mondo "civile", che tutto fa tranne che un esame di coscienza, il sangue che scorre sempre più incontrollabile, stanno ponendo il problema a tutto il mondo.

Io non sono ancora riuscito a darmi una risposta.

Il mondo però non ha fatto di meglio.


(fine)



up Torna su

Liliana Tuozzo


Io sono nessuno


La voce dell'altoparlante che annunciava la partenza di un treno lo scosse. Si alzò da quello che era stato il suo letto: una vecchia panca nella sala d'attesa della stazione.

S'incamminò tra i vialetti del parco. C'era nebbia sui comignoli delle case, le strade erano deserte e non si udiva nemmeno il solito miagolio dei gatti nei cortili. Le luci dei lampioni, dilatate, parevano fantasmi venuti per fargli compagnia. Un velo triste avvolgeva ogni cosa e le speranze sembravano volar via insieme al fumo dei comignoli.

Nu strinse addosso la vecchia giacca che ormai non lo riparava più dal freddo. Era una giacca di panno, una volta bella ed elegante. L'aveva comprata in un negozio del centro col suo primo stipendio; con l'ultimo aveva pagato l'affitto arretrato e poi si era ritrovato per strada.

La panchina del parco era la sua casa, da quando aveva perso il lavoro. Si era trascinato, giorno dopo giorno, rispondendo a tutti gli annunci, ma non era riuscito a trovare un impiego. Di notte dormiva nelle sale d'attesa della stazione e di giorno viveva nei giardini pubblici, contando sul buon cuore di qualcuno.

Rimaneva per ore ad aspettare che il tempo passasse. La gente gli camminava accanto ignorandolo, ma la domenica era diverso. I bambini animavano il parco con i loro giochi, le loro corse e le grida festose gli arrivavano come dolci carezze.

Un giorno mentre attraversava il viale del parco, a passi lenti, un bambino si avvicinò e gli chiese: — Come ti chiami?

— Nu!

— Vuoi giocare a palla con me?

Nu si guardò intorno incredulo. Con tanti coetanei lì vicino, quel bambino stava parlando proprio con lui.

Prima che potesse aggiungere altro il bambino sorridendo gli lanciò la palla e lui la strinse tra le mani trasognato. Giocarono insieme. L'uomo sentiva che una parte di sé era tornata all'infanzia e deliziato continuò a lanciare la palla e a respingerla felice.

Andando via il bambino disse sorridendo: — A domani!

L'uomo seppe di avere trovato un amico.

Da quel giorno Nu cercò di curare un po' di più la sua persona, lavandosi come poteva nei bagni della stazione e aspettando con ansia che arrivasse il bambino col pallone, per giocare con lui.

Lo vedeva spuntare da lontano con le ciocche di capelli castani che gli arrivavano sugli occhi, sempre sorridente e con qualcosa da mangiare per lui.

"Strano, non so nemmeno come si chiama." pensava Nu. Ogni volta che glielo chiedeva il bambino trovava il modo di scantonare e andava via.

Un giorno il piccolo porse a Nu una strana bottiglietta: — È un regalo per te! — disse.

E sorridendo osservò l'uomo che rigirava la bottiglia tra le mani, poi dal tappo estrasse un bastoncino che terminava con un cerchietto, lo rigirò tra le mani incuriosito.

— Devi soffiarci dentro! — rise il piccolo.

E Nu soffiò e soffiò fino a che nell'aria si sparsero tante bolle di sapone colorate.

I bambini che si trovavano nel parco cominciarono ad avvicinarsi e incantati guardavano quelle misteriose bolle diventare sempre più grandi. Il piccolo che aveva fatto il regalo a Nu fece allora una cosa strana: entrò in una bolla e tutti lo videro roteare nel parco.

— Anch'io, anch'io… — fecero gli altri bambini e svelti entrarono pure loro nelle bolle di sapone e cominciarono a rotolare. — Che bel gioco hanno inventato…

Nu cominciò a preoccuparsi, si chiedeva come avrebbe fatto a fermarli, quando quasi meccanicamente schioccò le dita e le bolle si ruppero.

Un plof dopo l'altro e tutti i bambini furono liberi.

Ogni giorno succedeva la stessa cosa, ma non a tutti piaceva lo spettacolo che Nu allestiva, ricevendo in cambio pochi spiccioli e qualcosa da mangiare.

Avvertiti da qualcuno vennero i poliziotti. Nu venne accusato di inquinamento ambientale, abuso di suolo pubblico e circonvenzione di minori.

Venne portato in prigione. Non si trovava neanche tanto male in verità: aveva un letto, gli davano da mangiare, solo che gli mancavano terribilmente i bambini e il gioco delle bolle di sapone.

Venne il giorno del processo…

Nu si guardava intorno spaurito, non era riuscito a capire bene di cosa fosse accusato, aveva nella testa solo un grosso punto interrogativo. Gli fecero giurare di dire la verità, poi cominciò il processo. Il giudice fasciato nella toga col suo martelletto sembrava avere fretta, dopo i preliminari la parola fu data al Pubblico Ministero, un omino insignificante che guardava in cagnesco l'imputato: un pezzo di marcantonio alto circa due metri.

— Qual è il suo nome?

— Nemo Nullus, ma tutti mi chiamano Nu.

— E che lavoro fa?

— Cerco una sistemazione.

— Dove abita?

— Nel parco.

— E come fa a sopravvivere?

— Grazie alla gente.

— È vero che lei fa delle enormi bolle di sapone e i bambini vi entrano dentro, mettendo così a repentaglio la loro incolumità?

— Noi… giochiamo.

Il mormorio dei presenti costrinse il giudice a intimare il silenzio.

Il Pubblico Ministero cominciò a camminare avanti e indietro, e rivolto al giudice declamò a voce alta con fare cerimonioso.

— Vostro onore! I reati ascritti all'imputato appare ovvio essere fondati su elementi inconfutabili. Egli è colpevole verso la società, il mondo che lo ospita. È un nullafacente che passa il suo tempo a fare bolle di sapone, che attira i bambini con le sue folli rappresentazioni, turbandone l'equilibro psico-fisico. Per cui ritengo cosa giusta che costui venga allontanato e rinchiuso in una località sperduta per almeno tre anni e sei mesi.

Un segretario di fianco al giudice prendeva nota con cura del procedimento, sforzandosi curvo dietro spessi occhiali. Il difensore, nominato d'ufficio, attendeva che gli fosse data la parola e rigirava i pollici per la noia, annotando con cura tutto. Quando venne il suo turno si alzò impettito e si rivolse a sua volta al giudice.

— Vostro onore! L'imputato che stiamo giudicando non è del tutto colpevole. Ha forse negato di cercare un'occupazione? No! Egli è vittima della società e di sé stesso. Però rinchiudendolo non ruberebbe forse il posto a un delinquente o un assassino che ben più di lui merita quel posto? Sì, ha giocato con le bolle di sapone, ma cosa ci può essere di tanto pericoloso in una bolla di sapone? Imputato ci potrebbe mostrare cosa faceva al parco?

Il giudice si aggiustò gli occhialetti sul naso e guardò l'imputato che appariva stranito e confuso.

Nel silenzio di tomba che si era creato tutti fissarono Nu che tirò fuori dalla tasca la bottiglietta. E soffiò e soffiò fino a che la bolla di sapone divenne enorme, poi ci entrò dentro. Tutti a bocca aperta videro la bolla tutta colorata che roteava su sé stessa con l'uomo dentro. A un certo punto si sentì uno schiocco di dita. La bolla scomparve e con essa anche Nu.


(fine)



up Torna su

Fausto Scatoli


Fragile incanto


Rododendro: dal greco rhodon (rosa) e dendron (albero),

ovvero albero delle rose. A causa della fragilità dei suoi fiori,

al rododendro è attribuita la valenza di fragile incanto.


La camera di consiglio era durata poco. La giuria non aveva avuto problemi a raggiungere un verdetto unanime e ora la giudice Parventis stava per leggere la sentenza.

Charlie Bell, reo confesso, conosceva l'esito. Gli rimaneva solo da scoprire l'entità della pena.

— L'imputato si alzi.

Obbedì.

Il viso era imperscrutabile, come sempre. Non trapelava nulla. Neppure al momento della confessione aveva permesso alle sue emozioni di venire allo scoperto.

Negli ultimi giorni era tornato spesso agli istanti della violenza, quando la furia omicida si era impossessata di lui, e ogni volta c'era maggior distacco, quasi la realtà non fosse più quella.

L'avvocato lo scosse, facendolo tornare al presente.

… la corte condanna quindi l'imputato alla pena di anni trenta, da scontarsi…

Ci fu un brusìo sommesso.

Qualcuno in sala applaudì, ma il martello della giudice riportò tutti al silenzio.

…inoltre, alla luce dei fatti e visto l'atteggiamento dell'imputato stesso, lo si condanna alla cura quotidiana e perenne di 18 piante di rododendro…

— Vostro onore… — esclamò stranito l'avvocato di Bell.

— Silenzio! Potrete fare ricorso in seguito.

Charlie era sempre muto e immobile, una statua.

Parventis riprese la parola: — 18 piante, una per ogni anno di età della vittima. Di rododendro, perché ha i fiori fragili, come fragile era il fiore che l'imputato ha strappato…

— Vostro onore, ma…

Charlie Bell cominciò a sudare. Ansimò e con un rapido movimento aprì il colletto della camicia. Aveva bisogno d'aria.

L'avvocato lo guardò, sorpreso. Per la prima volta vedeva nel suo assistito dei segni di cedimento.

…ogni qualvolta vedrà cadere uno di questi fiori sarà per lui come rivedere la scena finale, quando chi lo rifiutò venne preso a forza e poi spezzato…

Sentì dolore al ventre, come se una mano glielo stringesse forte. Ebbe un singulto.

I presenti in sala ascoltarono esterrefatti la sentenza della giudice. Stava colpendo a fondo.

…rododendro, perché il nome lo faccia pensare. E magari anche capire. — alzò lo sguardo verso l'imputato.

Charlie prese a tremare, gli occhi sbarrati, le pupille dilatate. Qualcosa dentro si era rotto, squarciato da un urlo senza fine. Quanti altri fiori avrebbe dovuto veder cadere per potere ritrovare un po' di pace?

— Portatelo via, — sentenziò la Parventis — la seduta è tolta.


(fine)



up Torna su

ElianaF


Un suono bellissimo


Era caldo, ma non afoso, e il cielo era di un azzurro intenso. Luisa stava passeggiando con il padre, contenta di vederlo così di buon umore in quell'assolato pomeriggio di luglio al mare. Da qualche anno la malattia si era manifestata e Carlo stava diventando apatico, schivo, alternando momenti di assenza con momenti di stizza quasi fanciullesca.

Si era perso spesso negli ultimi mesi e ormai c'era sempre qualcuno ad accompagnarlo nel suo girovagare, oggi era il turno di Luisa, sua madre aveva bisogno di staccare per qualche ora.

I due camminavano affiancati e Carlo sembrava attento a quello che Luisa gli stava raccontando: del suo lavoro, dei nipotini, di quello che avrebbero mangiato la sera a cena.

Carlo sorrideva, annuiva, commentava con coerenza quello che stava sentendo.

Arrivati all'incrocio si fermò di colpo, posò una mano sul braccio della figlia, la fissò e disse timidamente:

— Ti posso chiedere una cosa?

— Sì, certo, dimmi. — gli sorrise la donna.

— Chi è Luisa? Tutti mi parlano di lei, ma io non credo di averla mai conosciuta.

La giovane ristette con lo sguardo interdetto e rispose rapida: — Ma papà, sono io Luisa, sono tua figlia, non ti ricordi di me? — Carlo la guardò imbarazzato, poi distolse lo sguardo e proseguì attraversando la strada con circospezione sottobraccio alla figlia.

La sera Luisa ripensò al dialogo e si rese conto che da quel giorno cominciava qualcosa di inaspettato: la malattia, come un'ombra grigia, stava cancellando anche una parte di lei. Non era più una figlia, l'amore di suo padre dopo tutti questi anni non era più un sentimento scontato, un luogo sicuro in cui rifugiarsi e trovare conforto. Come si fa a non essere figli? Senza radici, senza identità, senza più ricordi condivisi!

Sentì che il vuoto la stava soffocando. La demenza senile non le poteva fare anche questo torto, era pronta ad affrontare il decadimento organico del padre, a vederlo soffrire, ma non si aspettava di svanire come una scritta sulla lavagna. Doveva reagire, lei era la sua bambina adorata! Non poteva scomparire, doveva trovare un modo per farsi ricordare.

Nei giorni successivi Luisa cominciò a parlare con il padre di lei in terza persona: — Luisa mi ha chiesto di te, Luisa mi ha detto di salutarti.

Carlo sembrava contento di quelle attenzioni, sorrideva e nel frattempo stringeva le mani della figlia, senza però dare segno di collegare il nome al volto che aveva di fronte. L'anziano parlava di sé come un ragazzo appassionato del suo lavoro a cui non vedeva l'ora di ritornare dopo la vacanza al mare, menzionava spesso i genitori e le sorelle, ma non fece più nessun riferimento al suo ruolo di padre e nonno.

I rapporti tra Carlo e Luisa procedettero nella quotidianità nei successivi mesi invernali, tra gli impegni lavorativi e famigliari della figlia e il peggioramento inesorabile del padre. La donna soffriva vedendo il malato dimagrire e farsi progressivamente più assente, come pure le pesava la consapevolezza di essere per lui solo una badante qualsiasi.

Era un giorno di inizio primavera, Carlo e Luisa osservavano i bambini giocare, seduti su una panchina, la figlia chiacchierava come al solito e il padre non le prestava attenzione. Era da giorni che Carlo non parlava e la sua voce emerse incerta, la donna si avvicinò per sentire meglio quello che stava dicendo: — Sai, penso di voler bene a quella Luisa di cui mi parli. Il suo nome ha un suono bellissimo.lo sguardo dell'anziano era limpido mentre guardava lontano.

Luisa tirò su con il naso, stava sorridendo tra le lacrime, mentre stringeva forte la mano del padre.


(fine)



up Torna su

Andr60


Conto alla rovescia


Meno tre.

Alzo la katana e posso così vedere parte del mio viso, riflesso dall'acciaio della lama. Distolgo in fretta lo sguardo per concentrarmi sul primo nemico che si è fatto avanti, incautamente. Infatti, con uno scarto sulla destra, paro facilmente il colpo e con una giravolta lo decapito.

A quella vista orribile, gli altri tre anziché indietreggiare si avventano insieme contro di me. Ma io, Hiroji, primo samurai dello Shogun, non mi faccio certo impressionare anzi, non aspettavo altro; spostandomi velocemente e parando i colpi a destra e a manca, li trafiggo uno per uno.

Tamiko mi osserva spaventata, dietro a una colonna del giardino interno del palazzo imperiale. Dopo che l'ultimo ninja è stramazzato a terra con la gola tagliata, si affaccia sul patio e con veloci passettini mi raggiunge. Si ferma a un metro da me, china la testa e dice: — Sapevo di aver fatto la scelta giusta.

Impassibile, ripulisco la lama dal sangue usando un lembo dell'indumento dell'ultima vittima.


Meno due.

Controllo per l'ennesima volta le pistole e il Winchester: sì, sono carichi e ben oliati, improbabile che si inceppino. Ormai il sole è alto nel cielo, arriveranno tra poco.

— Siete ancora in tempo, sceriffo Shaw. — dice il prigioniero, in tono canzonatorio — Se mi buttate la chiave e scappate, vi prometto che i miei compari non v'inseguiranno.

— Ma certo, Claynton, conosco il valore della tua parola. — rispondo, con lo stesso tono — Così come lo conoscono tutti quelli che hai ucciso come cani rognosi.

Esco dalla prigione, entro nel saloon e mi apposto sul tetto; la vista è ottimale, li vedo da lontano. Prendo la mira con calma e sparo col fucile; uno dei tre, colpito in pieno, cade da cavallo e non si muove più, gli altri due spronano i loro destrieri e si dirigono dietro le prime case del paese. Allora vado fuori e mi nascondo alla fine della Main street, in un vicolo tra la casa del maniscalco e quella del droghiere, e aspetto.

I fuorilegge vogliono liberare il loro capo ma sanno che, prima, devono farmi fuori; quindi, anziché dirigersi subito verso la prigione, battono le strade palmo a palmo alla mia ricerca.

Echeggiano diversi colpi di pistola; dopo qualche minuto Claynton, speranzoso, sente dei passi avvicinarsi alla porta: — Ehilà, ragazzi, andiamo a festeggiare con una bottiglia di whisky?

— Mi dispiace per te, — rispondo io, togliendomi della polvere dai pantaloni — ma ti prometto che berrò alla tua salute domani, dopo l'impiccagione.


Meno uno.

Scruto nella calca in cerca della mia preda; è come cercare il classico ago, in che modo posso riconoscere una spia travestita in mezzo a una parata di gente in maschera, nella bolgia del Mardi Gras di New Orleans?

Poi vedo un clown aggirarsi nella confusione: l'uomo ha tutte le caratteristiche di un pagliaccio, parrucca, naso rosso e biacca sul viso. Però qualcosa stona: ha delle sneakers ai piedi, forse per correre meglio, visto che appena i nostri sguardi s'incrociano, quello fa uno scatto da centometrista.

Gli vado dietro: è troppo importante recuperare i piani del nuovo missile ipersonico, M mi ha fatto una testa così. L'uomo sale per una scala antincendio, con me sempre dietro, arriva sul tetto di una casa e poi, con un salto, su quello della casa adiacente.

Sono ben allenato e alla fine lo raggiungo; quello tira fuori un coltello ma io sono più veloce: un colpo di Beretta mette termine alla sua carriera.

Frugo nelle copiose tasche dei pantaloni da clown e trovo i documenti rubati: anche stavolta Moneypenny mi avrebbe fatto i complimenti.

Mi rialzo in piedi: nonostante la corsa a perdifiato, non ho il minimo batticuore né il fiatone, strano. Mi tasto il polso, ma non avverto nulla.


Zero.

Il dottor Savi staccò i collegamenti del monitoraggio delle funzioni vitali e sfilò il visore dalla testa del vegliardo.

— Dottore, avrà sofferto? — chiese la figlia, affranta.

— Assolutamente no, signora. Il trattamento è indolore, suo padre se n'è andato in serenità. O meglio, è spirato nel modo scelto dal suo pacchetto di Buonamorte™.

— Che cosa aveva scelto?

— La nostra ultima novità, in offerta speciale: la formula "Eroe Plus", nel quale il cliente vive da combattente senza paura e sconfigge tutti i cattivi. È un po' la metafora della vita di suo padre, un grande imprenditore che, nonostante le avversità e i complotti dei suoi nemici, è riuscito a mantenersi saldo in sella fin quasi alla fine dei suoi giorni.

L'espressione di Cordelia mutò, passando dall'afflizione all'orgoglio per il proprio genitore: — Sì, è sempre stato un vincente perché non accettava mai di essere sconfitto, ed era odiato proprio per questo.

— Già. — ammise il dottor Savi, sorridendo compiaciuto — Vuole prenotare anche lei un pacchetto, per… quando sarà il momento? Il più tardi possibile, naturalmente.

— Le prometto che ci penserò. Per caso, avete una formula "Regina"?


(fine)



up Torna su

Athosg


Polveri sottili di mandragora


Qualche anno fa, nella città di Milano accadde un fatto molto particolare.

Una famiglia composta di padre, madre e due figlioli dopo aver mangiato una confezione di spinaci, cominciò a non sentirsi bene. Il padre barcollava silenzioso strisciando contro i muri dell'appartamento; la madre, sempre integerrima ed esemplare nei comportamenti, prese a male parole tutti i vicini di casa, mentre i due figlioli, stralunati, ridevano a crepapelle. Furono portati al pronto soccorso da un cugino che casualmente era andato a trovarli.

I medici cominciarono a eseguire tutti gli esami di rito, ma non vennero a capo di nulla. Chiamarono il primario e anch'egli rimase a bocca aperta per lo stupore. Il mistero rimaneva fitto, quella era una famiglia che non aveva mai dato segni di squilibrio, e non era neppure dedita al consumo di alcol o stupefacenti. I luminari non riuscivano a capire cosa avesse potuto provocare quegli strani atteggiamenti.

Per approfondire le indagini, esaminarono la busta degli spinaci prodotti da una famosa azienda agroalimentare. E lì trovarono la risposta: tra i rimasugli delle foglie verdi fu trovata una piccola quantità di mandragora, una pianta che può dar luogo ad allucinazioni a chi la ingerisce.

Quello però non fu l'unico caso. Anzi fu solo il primo di una lunga serie, facendo spostare l'attenzione del sistema all'umanità in generale, perché altri casi strani accadevano in quel tempo.

Pesci che camminavano sull'acqua, intere processioni di persone euforiche che rendevano omaggio ad ambigui politici locali, cagnolini che miagolavano, traffico impazzito con largo uso di doppie frecce, litigi continui e tanti altri fatti che erano messi sotto osservazione dalla comunità scientifica mondiale.

In Italia, l'attenzione del popolo era focalizzata sulle elezioni politiche che si sarebbero svolte a marzo. I candidati erano quattro, molto originali e chiacchieroni.

Il primo era un ciarlatano ancora giovane, che aveva sprecato buona parte del suo talento in campagne referendarie dall'esito disastroso.

Il secondo era la statua lignea del presidente di un partito che si definiva azzurro, il quale predicava al popolo — io sono già ricco, tutto quello che faccio, è solo per voi.

Il terzo era un ragazzotto del sud che voleva fare il rivoluzionario, finendo tristemente per somigliare a un democristiano anni ottanta.

Il quarto era un irsuto energumeno milanese che proclamava le sue idee in maniera molto sanguigna. Egli necessitava assolutamente di non bere vino o birra prima dei comizi, altrimenti cominciava a giurare sul Vangelo, invocando il nome di Maria Santissima.

Era un momento di stasi sociale, che vedeva gli anziani sempre più lontani dalla pensione, i giovani senza lavoro e con il morale a terra, mentre le persone di mezz'età frequentavano ossessivamente i social media, mettendo un grande impegno nello sbranarsi e insultarsi.

A dire il vero anche nel mondo accadevano cose particolari.

Gli Stati Uniti avevano eletto un presidente molto focoso con un bel ciuffo di capelli rossi. La leggenda narra che questo Presidente avesse in cameretta il poster di Rocco Siffredi, un porno attore italiano, suo vero idolo di tante battaglie erotiche.

Uno dei suoi competitor, dall'altra parte dell'oceano, era un gonfio ragazzino che era soprannominato Rocket Man. Era talmente gonfio, come un palloncino, che i diplomatici pensavano sarebbe scoppiato prima di un eventuale conflitto nucleare.

La Terra attraversava un periodo di grossi cambiamenti climatici. Le piogge erano quasi assenti nei paesi a clima temperato, mentre nei Caraibi e in Asia travolgevano e annegavano intere città. I ghiacciai erano in fase di scioglimento e i mari s'innalzavano pericolosamente.

E la Luna, non bussava più come in una celebre canzone. Ora era diventata di colore verde, un fatto ritenuto inspiegabile. Alcuni membri della comunità scientifica mondiale ritenevano che fosse stata colonizzata dai marziani.

I social media, come dicevamo prima, erano frequentatissimi. Vi era un particolare sentimento di odio amore verso i politici, i quali, come in tutti i periodi di decadenza, vedevano la loro popolarità raggiungere livelli incredibili. Con l'aumento della loro visibilità, diminuiva di contrappeso il livello di cultura generale.

I risultati furono sotto gli occhi di tutti. Si vide un aumento della violenza verso le donne, dovuto a una forma di libido interiorizzata nel maschio. La donna diventava sempre più autonoma, e l'uomo rimaneva in soggezione, innescando violenza e misoginia, in un cocktail pericolosissimo d'ignoranza e subcultura.

Il ricatto sessuale arrivò a limiti impensabili.

Registi, attori, produttori cinematografici, industriali furono accusati dall'altra metà del cielo di essere molestatori e sessuofobici, approfittatori della posizione di preminenza per dominare e soggiogare la donna. Le accuse furono talmente precise e circostanziate, che questi energumeni a capo d'imperi del sole, non potettero più negare l'evidenza. Lo fecero in maniera meschina e subdola. Cosa migliore sarebbe stata se avessero dichiarato di avere una bestia incontrollabile tra le gambe.

Il problema non era solo quello, era soprattutto mentale.

La comunità scientifica mondiale si chiedeva se l'uomo, in questo caso l'essere di sesso maschile, non avesse modificato il suo DNA. Si riteneva che tutti gli uomini di potere avessero innescato dentro di loro il germe della sopraffazione, per aumentare il proprio status sociale e arrivare sempre più in alto nella società. Si rilesse il Principe di Machiavelli. Ci furono grandi dibattiti, e le opinioni si sprecarono, talmente variegate che la confusione aumentò sensibilmente.

La libido, esclusi i casi menzionati, era in forte calo. La frequentazione di locali con menù a base di sushi diminuiva il desiderio sessuale maschile. Il veganismo si contrappose duramente all'abitudine di mangiar carne, e divenne una vera e propria filosofia di vita. La comunità scientifica mondiale riscontrò una certa ferocia nella difesa dei suoi diritti, clamorosamente maggiore rispetto a chi si cibava di carne animale. L'antica trattoria, dove sin dall'antichità, l'uomo mangiava e beveva sostanziosamente, rilasciando generosi rutti dopo i pasti pantagruelici, aveva lasciato il posto ai freddi piattini colorati di provenienza asiatica. La comunità scientifica mondiale insisteva nel consigliare il ritorno alle antiche forme conviviali.

L'umanità era sempre più problematica.

La caccia all'uomo nero imperversava sia nelle povere periferie urbane delle città, sia nei ricchi salotti borghesi. La propaganda inculcava teorie autarchiche, ogni giorno sempre più pervicacemente.

La gente non capiva che l'uomo nero non esisteva come singola unità, ma piccole schegge della sua personalità erano presenti nel cuore di ogni singolo abitante del globo. Per cercare di arginare quella deriva, anche il Papa, un uomo venuto da lontano, era diventato di sinistra, aperto e progressista. Recuperò il consenso di tantissimi laici e non credenti attirandosi, di contrappasso, le ire dei cattolici oltranzisti che in lui vedevano un pericolo per i dogmi millenari della Chiesa.

Il concetto di famiglia si era raggrinzito in un piccolo circolo personale, dove chiunque pensava di poter esercitare i propri diritti coercitivamente. Con le buone e, spesso, con le cattive maniere.

Nuove forme di virus ammorbavano l'aria, mentre le vecchie malattie, come il morbillo, erano straordinariamente ritornate in auge. Il problema dei vaccini sconvolse la popolazione. Alcuni esaltati, al grido di No Vax, organizzarono capannelli di protesta davanti al parlamento. La rabbia montava e con essa un'anarchia sottile e perfida scendeva nei cuori delle persone. Non era più ascoltata l'autorevolezza degli studiosi, che invano cercavano di spiegare i vantaggi dell'immunità. Era sufficiente, come nel Medioevo, che qualcuno salisse sul gradino più alto e urlasse a squarciagola qualsiasi teoria complottista. Per quanto delegittimati dalla storia, questi personaggi erano ascoltati e incensati.

Gli studi degli strani fenomeni proseguivano, e un giorno gli scienziati lettoni intuirono la soluzione al problema.

Il fortissimo inquinamento atmosferico, indiziato di essere il principale artefice delle magagne del mondo, venne in parte assolto. Il pericolo maggiore era costituito da un aumento impressionante, calcolato nel trenta milamiliardi per cento al quadrato, delle polveri sottili di mandragora. Queste sottili polveri viaggiavano nell'aria, s'insinuavano in ogni dove e finivano per atterrare su tutti gli alimenti. Pianta selvatica, aveva trovato il modo di ritornare alla ribalta dal medioevo. Come l'annegato che si aggrappa con l'ultima stilla di energia al sottile filo di lana, così la mandragora, per rinvigorire una fama di altri tempi, si auto-dissolveva, miniaturizzandosi nell'aria sotto forma di miliardi e miliardi di piccole particelle elementari.

Questa era la spiegazione, avallata dalla totalità della comunità scientifica mondiale, che i governi diedero alle stranezze dell'uomo di quel tempo.


Una sera, in un punto imprecisato del mondo, una coppia salì sui tetti di un palazzo. Da lì potevano osservare la città dall'alto e respirare aria meno tossica. Giobbe abbracciò Giuseppina, e a lei fu sufficiente quella stretta per sentirsi meglio.

Sotto di loro il traffico cittadino correva impazzito. Arrivava ben distinto il suono dei clacson che ritmavano il tempo, e le luci delle doppie frecce che illuminavano il cielo, mentre le urla degli abitanti si udivano sommesse in un brontolio continuo.

In cima a quello stabile, tra le antenne e i comignoli, i due sentivano ovattato il nervoso pulsare della vita.

Giuseppina guardò Giobbe, mise le mani a coppa, e vi depose un bacio. Poi soffiò, forte, più forte, più forte che poteva. Il soffio, come d'incanto, si trasformò in un vento dolce dal sapore di limone, che poco alla volta allontanò le polveri sottili di mandragora. Si potevano osservare a occhio nudo, piccoli pulviscoli che ondeggiando volavano nel cielo, lontano, sempre più lontano.

L'aria ora era tersa, e la luna verde li guardava placida lontano migliaia di chilometri. Giuseppina continuava a soffiare, fermandosi talvolta per riprendere fiato, per poi ricominciare con più forza.

Giobbe la guardava.

Dopo tanto soffiare sembrava che il mondo si fosse fermato e che quel bacio, lanciato nell'aria della sera, si propagasse a velocità ancor più veloce di quella della luce.

Il silenzio era sceso sulla città, da lassù potevano vedere i tetti di mille palazzi e gli uomini, le donne, i bambini, le loro storie tra mille difficoltà quotidiane, e sentire nitidamente gli orologi delle cucine, che con il loro immenso ticchettio scandivano un tempo che non c'era.

Giobbe abbracciò Giuseppina, e quella stretta la fece stare bene.

Guardarono più in alto, dove il cielo e le stelle riposavano nell'universo. Alcune, più giovani, sembrava lampeggiassero a intermittenza. Giobbe e Giuseppina volsero lo sguardo alla luna piena, come tante volte avevano visto.

E questa, da verde com'era da tanto, troppo tempo, poco alla volta si schiarì, sfumando sempre di più in mille tonalità di verde leggero, fino a tornare al colore naturale, come tanti anni prima Adamo ed Eva l'avevano ammirata.

Prima di mangiare la mela.


Athosg fece scivolare sul pavimento i fogli di quel racconto scritto tre anni prima. Appoggiò la testa al cuscino e mise una mano sul morbido fianco di Giuseppina.

— Che hai? — gli chiese la ragazza.

— Stavo leggendo un racconto scritto tempo fa e mi sono accorto di una cosa.

— Cosa?

— Che da allora non è cambiato proprio nulla.


(fine)



up Torna su

Laura Traverso


Destinazione inferno


Calde lacrime sgorgavano da quegli occhi scuri e profondi. Occhi che non avevano nulla di diverso da quelli umani: esprimevano disperazione ed estrema sofferenza.

Il povero essere senziente, strappato a forza e con l'inganno di una trappola dal proprio ambiente verde nel quale viveva con la sua famiglia, era adesso tra le grinfie della più infame brutalità umana. Il viaggio nella pancia di quel mostro metallico e rumoroso, che lo aveva trasportato da un continente all'altro, era stato un incubo: lo avevano sistemato in una gabbia stretta, aveva sofferto la fame e la sete; il caldo era soffocante.

Adesso era arrivato a destinazione. Si chiedeva cosa altro potesse capitargli ancora.

Rinchiuso in una stanza fredda e semibuia pensava disperatamente alla sua mamma, sognava i suoi teneri e amorevoli abbracci. Ricordava anche i giochi nella foresta; era bravo, si lanciava come un acrobata da un albero a l'altro, si divertiva tanto, era felice di scoprire quel mondo che lo circondava, il suo mondo.

Poi tutto era improvvisamente cambiato, adesso era arrivato all'inferno, nel girone infernale più terrificante che si possa immaginare. Non sapeva che il peggio doveva ancora arrivare. Non dovette attendere a lungo, venne presto il suo turno.

Un boia, un finto immacolato in camice bianco, lo prese e lo trasportò nella stanza accanto da cui provenivano quelle urla strazianti.

Fu rapido, le sue mani erano esperte. Quelle stesse immonde mani lo legarono a un tavolo luccicante e gelido: la vivisezione ebbe inizio.


(fine)



up Torna su

Selene Barblan


I doni


Le onde scivolavano sulla spiaggia in moti ripetitivi. L'acqua si ritirava gradualmente da sotto i piedi di Xoy, la sabbia sfuggente gli solleticava le punte delle dita. Il vento faceva fluttuare i lunghi capelli neri come la notte dalle striature verde scuro che somigliavano ad alghe abissali.

L'uomo osservò ancora per qualche momento i riflessi rosso gialli all'orizzonte, poi portò le mani alla testa e raccolse la chioma avvolgendola come un turbante. Quindi avanzò nell'acqua fredda, si immerse fino alla vita. La lunga striscia di stoffa turchese che teneva stretta ai fianchi si gonfiò attorno a lui.

Percepiva la forza del Grande Dio Blu che lo attirava e lo respingeva, cercava di catturarlo per poi lasciarlo andare. Era una danza che il popolo di Xoy ben conosceva: da tempo immemore la vita degli Xen era legata a doppio filo a ciò che la grande distesa di acqua decideva di regalare.


Smise di resistere e si lasciò trasportare, si immerse completamente e con forti bracciate tagliò le creste schiumose delle onde. Nuotare gli dava un senso di completezza, lo faceva sentire vivo, reale. Sapeva che, finché aveva una missione da compiere, la sua esistenza aveva un valore. Il tempo passò, la riva era ormai lontana; da molto tempo ormai i Doni scarseggiavano e doveva spingersi sempre oltre, in acque sempre più profonde. Ricordava che quando era bambino suo padre spesso ne trovava alcuni direttamente sulla spiaggia, senza doversi immergere.

Si fermò e si mantenne a galla con movimenti circolari di gambe e braccia per poter guardare lontano; grazie a un'onda riuscì a scorgere un bagliore alla sua destra. Era del colore delle montagne che circondavano il villaggio: ocra, giallo ambra e rosso corallo.

Ricominciò a nuotare con nuove energie e in breve tempo coprì la distanza. Quando fu abbastanza vicino le vide: sfere trasparenti dalle quali scaturivano luci fatue dai riflessi cangianti. Era una giornata fortunata, sette Doni tutti in una volta, dopo mesi di attesa.

Sciolse il nodo che gli teneva legata la stoffa alla vita, la distese e vi raccolse i globi. Si assicurò che non potessero fuoriuscirne, poi sistemò il tutto sulle spalle e riprese a nuotare, questa volta in direzione della spiaggia.


Dopo aver appoggiato a terra con delicatezza il suo raccolto si sedette a gambe incrociate, rivolto all'acqua e al sole morente. Lasciò vagare lo sguardo e il pensiero, godette della sensazione appagante di aver faticato tanto, di essere riuscito a spingersi oltre. Lasciò che l'aria asciugasse il sale sulla sua pelle formando minuscoli cristalli, decorazioni che andavano ad aggiungersi alle cicatrici e ai tatuaggi che lo ricoprivano quasi completamente. Rivolse un ringraziamento al Dio, poi si levò in piedi. Risalì la spiaggia, ritrovò il passaggio nell'erba alta e lo percorse fino ad arrivare al Lago Di Dentro; montò sulla barca ormeggiata, appoggiò al sicuro le sette sfere e remò fino alle prime abitazioni. La sua casa si trovava nel secondo cerchio esterno del villaggio galleggiante, la raggiunse senza incontrare nessuno. La stanchezza lo assalì tutto d'un tratto; decise allora di aspettare il nuovo giorno per consegnare ciò che aveva trovato, si distese e in breve tempo il sonno ristoratore lo accolse nel suo abbraccio.


Quando giunse l'alba Xoy si levò a sedere; tutto attorno a lui il villaggio si stava risvegliando, sentiva il canto proveniente dal Cerchio Interno, le prime barche scivolavano sulle acque tranquille, sospinte tramite lunghi pali, le donne già da tempo erano indaffarate, alcune stendevano grandi teli costellati di simboli magici, altre preparavano piatti profumati nelle cucine all'aperto. Anche Xoy prese dal ripiano il pentolino, la polvere aromatica e una caraffa d'acqua; uscì sul portico che circondava la grande imbarcazione e accese con gesti sicuri il fuoco per preparare la sua bevanda mattutina. Amava quel momento della giornata, quel tempo a ridosso del sogno ancora libero dai pensieri del giorno incombente.

Si vestì quindi degli abiti da cerimonia, prese dallo scaffale un grande scrigno in legno intarsiato, lo riempì di paglia e vi depose i sette globi. Dopo averlo richiuso con cautela andò al tamburo rituale e per cinque volte lo fece vibrare con il ritmo che, tradizionalmente, segnalava un Ritrovamento.


Si mosse quindi con la sua barca e il prezioso carico attraverso i canali concentrici, incrociando sguardi carichi d'aspettativa, fino ad arrivare alle due colonne, unica via d'accesso per raggiungere la Piazza. Attese il segnale, quindi entrò nel Cerchio, fece scivolare la sua imbarcazione fino al pontile. Ad attenderlo c'erano già i Sacerdoti e le Sacerdotesse, disposti ad arco, con i lunghi abiti arancioni drappeggiati e affrancati in vita da spesse corde decorate da nodi complessi. Xoy si avvicinò con lo sguardo basso, lo scrigno sollevato davanti a sé. Lo depose a terra intonando la formula tramandatagli dal padre, quindi indietreggiò di qualche passo. Due sacerdoti si avvicinarono, sollevarono il coperchio del forziere e ne mostrarono il contenuto agli altri officianti. La più anziana si rivolse quindi a Xoy: era giunto il tempo in cui avrebbe potuto presenziare al Rito D'Offerta.


Xoy vibrava di un'emozione mai provata prima di allora; tutte le fatiche e i sacrifici a cui si era sottoposto per assolvere al suo dovere l'avevano portato a quel momento, finalmente avrebbe potuto vedere coi propri occhi la grande Magia. Nessuno al villaggio conosceva i segreti legati al rituale a parte la casta sacra e i primogeniti della sua famiglia che, da generazioni e generazioni, nulla avevano mai fatto trapelare, neanche per soddisfare la curiosità dei loro stessi cari. L'uomo si sedette nel punto indicato e si unì al canto che accompagnava la cerimonia. Il più giovane degli officianti si avvicinò all'alta palizzata circolare situata nel centro della Piazza, cuore del Villaggio. Tolse i perni che la tenevano sollevata e i lunghi pali di metallo scivolarono in acqua, uno dopo l'altro, rivelando un minuscolo lago iridescente.

Le sette sfere vennero passate di mano in mano fino a raggiungerne le acque, quindi vennero rilasciate e, una dopo l'altra, affondarono disperdendo il loro contenuto. Quando l'ultima scomparve il canto terminò e un silenzio carico d'attesa calò come un drappo. Dopo qualche istante delle minuscole bolle emersero portando con se sospiri e suoni mai uditi fino a quel momento da Xoy, una paura gelida lo paralizzò e solo con grande sforzo la dominò. La Grande Sacerdotessa si avvicinò all'acqua gorgogliante, gli occhi rivolti all'indietro, si abbassò e immerse completamente la testa. Restò così per lunghi momenti, quindi riemerse, ansimante e tornò a unirsi ai suoi compagni. Con voce flebile annunciò:


— Il Demone aspettava da troppo tempo il nostro tributo, il suo sdegno è grande e la sua fame non è soddisfatta. Non possiamo fare altro che rimetterci alla sua volontà e subirne la furia —.


Xoy, incredulo, li vide inginocchiarsi con le mani giunte a preghiera attorno alle acque, che ribollivano sempre più e cominciavano a fumare; un suono sordo, come un ringhio tremendo, rimbombò tutto attorno. Tutto tremava, il suolo iniziò a disgregarsi e sollevarsi in onde. L'uomo si riscosse e urlò incitandoli a scappare, mettersi in salvo. Quando si avvicinò loro per trascinarli via si gettarono nel liquido infame. Disperato, corse verso la sua imbarcazione e remò con tutta la forza che aveva in corpo. Con grida angosciate esortò le genti a mettersi in salvo, ma nessuno sembrava sentirlo, tutti si affidavano alle acque schiumanti. Xoy smise di guardare, quella visione lo stava facendo impazzire, continuò a spingere, spingere, spingere senza sosta il suo palo. Perse il senso del tempo, il suo corpo si muoveva autonomamente, la coscienza si era ritirata nel profondo, dove quelle immagini non potevano raggiungerla.


L'uomo senza nome, senza genti alle quali tornare, senza casa da abitare si risvegliò sulla sabbia, di fronte al Mare. Quello che aveva appena vissuto aveva distrutto ogni sua certezza, non sapeva dove trovare la forza per affrontare il ricordo, per agire, muoversi, staccarsi da ciò che più non c'era. Volse un ultimo sguardo alle sue spalle, l'erba copriva pietosamente la vista di quell'orrore. L'uomo senza nome non credeva più alla saggezza tramandata dai suoi avi, non credeva più al Grande Dio Blu e ai suoi doni inutili. Decise di credere solo nella forza delle sue gambe e cominciò a camminare seguendo la via indicata dalla spiaggia, incontro al suo futuro o alla sua morte, non importava, non più.


(fine)



up Torna su

OEBPS/images/image0005.png 



up Torna su

una produzione


www.BraviAutori.it


OEBPS/images/image0006.png 


Tra le varie cose, BraviAutori.it offre la possibilità agli autori* di pubblicare online e gratuitamente le proprie opere in qualsiasi formato (testi, immagini, audio e brevi video). Le opere pubblicate nel formato ODT, DOCX, DOC, PDF, ePUB, HTML e TXT saranno trasformate in pagine HTML e potranno essere udibili grazie a una voce sintetica che leggerà il testo. Questa funzione è molto utile per i non vedenti. Ogni autore può anche allestire una propria vetrina personale.

Nel nostro forum organizziamo concorsi letterari gratuiti che prevedono pubblicazioni in antologie cartacee o in ebook, e gare di scrittura creativa grazie alle quali i migliori elaborati saranno pubblicati nei nostri e-book liberamente scaricabili o antologie.

BraviAutori.it gestisce numerose statistiche indicizzate, recensioni alle opere online, schede libri che gli utenti possono pubblicare, relazioni tra opere mediante tag, un comodo segnalibro, un forum, una chat e una messaggistica privata.

Esiste poi un potente e versatile correttore di testi che, grazie alla ricerca delle ripetizioni, alla pulizia e alle analisi che può effettuare sui testi, vi cambierà la vita!

Ricordate: "Bravi" non significa solo "capaci di fare", ma è anche (e soprattutto) sinonimo di onesti e di coraggiosi. Siate bravi anche voi, uscite fieramente dal cassetto e misuratevi con il resto del mondo (e così magari dimostrerete che bravi nel farlo, nella prima accezione del termine, lo siete davvero).

L'iscrizione al portale BraviAutori.it è totalmente libera, gratuita e illimitata!

Ci piace anche evidenziare che questo è un sito Spot Free, ovvero durante tutta la navigazione non troverete mai né pubblicità esterne né banner né fastidiosi popup. Qui si fanno solo arte e letteratura!


Non indugiare oltre, » Vai alla pagina principale « (oppure fai il Login o Iscriviti)


(* senza distinzione di genere)



up Torna su

OEBPS/images/image0007.gif
Sostieni la nostra passione!


Se tutto ciò che ti offriamo gratuitamente ti è piaciuto e ti è stato di aiuto, puoi contribuire alla crescita con una donazione libera, oppure acquistando i nostri libri.

Con le donazioni si diventa automaticamente soci per 12 mesi dell'Associazione culturale BraviAutori. I soci dell'Associazione che si registrano nel sito, possono scaricare direttamente gli ebook completi delle nostre pubblicazioni su carta.


Per effettuare la donazione puoi scegliere uno dei seguenti metodi:


- puoi usare il link diretto per una donazione generica con  PayPal:


 www.paypal.me/braviautori;


- puoi cliccare su uno dei loghi "Donazione" e fare una ricarica sul conto online di PayPal;


- puoi fare un versamento sul conto corrente bancario


Iban: IT 07 C 03062 34210 0000 5002 3193

intestato a Massimo Baglione (titolare del conto dell'Associazione);


- oppure puoi ricaricare con il Send Money della tua banca verso l'email:


direzione@braviautori.it.


Vi ringraziamo sin da ora per la vostra generosità!




braviautori
lettore di documenti EPUB (Electronic publication) - powered by www.BraviAutori.it
Nota: se questo documento appare molto diverso dall'originale o con gravi errori di impaginazione, probabilmente l'originale conteneva troppe formattazioni del testo annidate una nell'altra. Ti invitiamo, in ogni caso, a segnalare questo problema per darci modo di risolverlo. Grazie.