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E
Regolamento delle Gare…
Andrepoz
Mariovaldo
Namio Intile
Selene Barblan
Roberto
Roberto Virdo'
Lodovico
Carol Bi
Fausto Scatoli
Laura Traverso
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presenta


Anniversari

e gli altri racconti


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ebook della Gara stagionale d'Estate 2020


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Ebook della Gara letteraria stagionale di Estate 2020


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: Attentato a Berlino del 2016 - www.corriere.it


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara saranno pubblicati in un  ebook gratuito e a ogni ciclo di stagioni pubblicheremo un'antologia annuale.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Andrepoz

(vincitore della Gara d'estate, 2020)


Anniversari


A distanza di tempo, di quel 10 dicembre ricordo ancora ogni particolare, tanto da rivedere la scena davanti ai miei occhi, come in un film. I miei erano in vacanza e ci avevano lasciato per qualche giorno casa loro. Noi ci trovavamo in salotto, a confrontarci su come ristrutturare l'appartamento che avevamo comprato, e nel quale saremmo dovuti andare a vivere insieme.

Stavamo discutendo del colore della cucina e Marta non sembrava disposta a compromessi. Nella foga della discussione si era alzata in piedi, sventolando la rivista di arredamento che in quei giorni aveva studiato a fondo.

Guarda come sta bene. È così che la voglio, è proprio il tipo di cucina che ho sempre desiderato avere in casa mia. Insomma, si può sapere per quale motivo non ti piace?

Non è che non mi piace, è carina e sembra anche solida, ma… il colore, dai non va proprio.

Come "il colore"? È proprio il colore, la cosa bella!

Rivedo la rivista che vola all'altro capo della stanza e Marta che mi fissava accigliata, le guance rosse, gli occhi gonfi, sull'orlo delle lacrime. Ormai si era impuntata, e sarebbe stato difficile riuscire a farle cambiare idea. Del resto, io non ero disposto a dargliela vinta. Così continuammo a litigare, i toni si fecero sempre più accesi, poi lei scoppiò, mi diede dello stronzo e uscì come una furia, lasciando sbattere la porta dietro di sé.

Io rimasi seduto. Non avevo nessuna intenzione di mettermi a correrle dietro. Sapevo che la cosa migliore era lasciare che si calmasse, che la rabbia sbollisse un attimo. O almeno, all'epoca pensavo che questa sarebbe stata la cosa migliore. Come avrei potuto immaginare le conseguenze di quella decisione così banale?

Non credo si possa vivere tutta la vita con il pensiero costante di "quello che sarebbe successo se…". E io non ho passato il mio tempo a rimpiangere di non aver fatto nulla per trattenerla, quel giorno. Ho fatto anche altre cose nella mia vita. O almeno, ci ho provato. È che quando nel calendario si avvicina il 10 dicembre, il mio pensiero torna sempre lì. È più forte di me.


Dopo essere uscita urlando da casa mia, Marta forse avrà pensato che una passeggiata in centro le avrebbe fatto bene. Non lo posso sapere con certezza, ma deve essere andata in questo modo. C'erano i mercatini natalizi. Le luci. L'atmosfera di festa. Il modo ideale per calmarsi un attimo.

Avrà anche pensato che poteva comprarmi un piccolo pensiero. Era il suo modo preferito per fare pace. Ho ancora tutti i suoi regali, da parte. Candele profumate, una penna che scrive senza bisogno di ricarica, un termometro di Galileo con tutte le bolle colorate, cose di questo tipo. Ogni oggetto mi ricorda un litigio con lei.

Io non sono molto bravo, con le parole. Per questo, amo la poesia. Nelle poesie ci sono le parole giuste per dire quello che provo. Parole che da solo non saprei dove andare a pescare.

Ogni anno, quando si avvicina il 10 dicembre, mi scopro a rileggere sempre la stessa poesia. Si intitola "Ogni caso", di Wislawa Szymborska. Inizia così:


"Poteva accadere.

Doveva accadere.

È accaduto prima. Dopo.

Più vicino. Più lontano.

È accaduto non a te".


 Continua per qualche altro verso, e poi chiude:


"Ascolta

come mi batte forte il tuo cuore".


Chissà dove è andato, ora, il cuore di Marta?

La cosa che più mi fa male è non avere avuto modo di dirle che, dopotutto, non ci tenevo nemmeno così tanto al colore della cucina. A me non sono mai interessate molto, queste cose. È solo che non volevo darle sempre ragione, e allora a volte mi mettevo a fare un po' lo stronzo. Così, senza motivo.

Quando le cose accadono senza motivo, fanno più male. Non c'è un vero motivo per litigare sul tipo di cucina. Come non c'è un vero motivo per armarsi di tutto punto, uscire di casa e dirigersi in centro città col solo scopo di ammazzare il maggior numero di persone, così a caso. È non c'è proprio nessuno straccio di motivo per ritrovarsi lì, in quei maledetti mercatini natalizi, dopo aver litigato con il proprio fidanzato. E cominciare a sentire dei rumori strani. E vedere la gente che si mette a correre e urlare. E voltarsi di scatto, per capire cosa sta succedendo. E cadere di colpo, a peso morto sul selciato, come le foglie di una rosa recisa di netto. E morire, con la stessa velocità, e la stessa mancanza di senso, di un battito di ciglia. No, non riesco proprio a vedere nessun motivo in tutto questo, per quanto mi sia sforzato in questi anni.

Secondo la perizia balistica, Marta non ha avuto nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa stesse succedendo. Si trovava proprio all'inizio del percorso dei mercatini, davanti a una bancarella. Stando alla posizione del suo corpo sull'asfalto, si deve essere voltata, e la raffica di mitra l'ha colpita in pieno petto, uccidendola all'istante. Tra le mani, teneva ancora stretto un piccolo acchiappasogni. Era il regalo con cui avremmo fatto pace, se solo ne avessimo avuto la possibilità.


(fine)



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Mariovaldo


Cercando di Alice


Dario sollevò la cornetta e compose un numero con attenzione. La mano un po' tremante non aiutava. "I telefoni dei miei tempi, col loro bel disco, erano migliori, difficile sbagliare, con questi tastini invece…".

Il pensiero ricorrente venne interrotto da una voce: — Pronto?

— Buongiorno. C'è la signora Alice, per favore?

La voce femminile dall'altra parte del filo era seccata: — Qui non c'è nessuna Alice, ha sbagliato. — e subito dopo, la linea fu interrotta.

Dario, un vecchio signore che conservava una sua canuta dignità nonostante gli ottant'anni e i molti problemi di salute, era seduto in poltrona, il telefono posato sulla sedia. Si aggiustò gli occhiali sul naso, spuntò un numero dall'elenco che aveva davanti e appoggiò la penna con un sospiro, quella telefonata era la sesta che faceva quel pomeriggio, o forse la settima, non ricordava bene.

Tutti quelli che avevano risposto avevano riattaccato subito, frettolosi, seccati o, nella migliore delle ipotesi, indifferenti.

Vicino, sul tavolino di cristallo, tra una serie infinita di confezioni di medicinali e una bottiglia d'acqua, c'era una vecchissima radio, di quelle col mobile di legno e il quadrante luminoso. La sua voce oramai era flebile, coperta da fruscii e da scariche, ma al vecchio faceva compagnia.

— Nonno, — aveva detto Giorgio, suo nipote, durante una delle rarissime quanto brevi visite — è ora di comprarti la televisione. Se vuoi butto via la vecchia radio e ti porto un bel televisore tutto nuovo.

Ma lui non aveva voluto: amava la sua radio, era stata una fedele compagna per tantissimi anni. Quante canzoni avevano sentito, lui e sua moglie, magari mentre lei sfaccendava, e la domenica mattina, ancora a letto a coccolarsi con la musica in sottofondo. Poi sua moglie se l'era presa un brutto male, ma la radio aveva continuato a suonare per lui col suo tono morbido, d'altri tempi.


Era la solitudine, il male più doloroso. Una volontaria veniva ogni tre giorni, a portare un po' di spesa, a controllare che non mancassero le medicine e a scambiare due parole. Per il resto, lui se la cavava abbastanza bene, ma non aveva nessuno con cui parlare.

E allora si era inventato il gioco del telefono: sceglieva un numero a caso dall'elenco, poi lo scriveva cambiando ogni volta qualche cifra, e si metteva a chiamare quella decina di numeri sconosciuti.

Chiedeva di una persona col nome improbabile: aveva scelto Alice perché era poco diffuso, così poteva dire di aver sbagliato numero ma, se poteva, attaccava discorso con chi era dall'altra parte del filo. Di solito non aveva successo: la gente ha sempre fretta e non ha voglia di perdere tempo con chi sbaglia numero, ma qualche rara volta era riuscito persino a scambiare poche frasi sul tempo o su altri argomenti banali.

Un'improvvisa sonnolenza lo colse, facendogli reclinare la testa. Non voleva dormire, doveva fare ancora una telefonata… voleva parlare con qualcuno…

Dario scelse un altro numero e lo compose a fatica: — Pronto? C'è la signora Alice, per favore?

Una voce di donna, dolce e serena, rispose subito: — Io sono Alice, chi parla?

Dario si trovò a guardare la cornetta, frastornato: si era talmente abituato a non aver fortuna nel suo innocente gioco che l'aver finalmente trovato Alice lo lasciava a bocca aperta, silenzioso.

— Pronto? — la voce della donna non tradiva alcuna fretta, né insofferenza. Solo una tranquilla attesa.

Il vecchio era ancora disorientato: — Oh… non… non credevo che rispondesse veramente.

Una risata spontanea e allegra gli giunse all'orecchio: — Be', se stava cercando la signora Alice, chi pensava le rispondesse? Posso fare qualche cosa per lei?

Dario si trovò a sorridere. Si sentiva arrossire, come un monello che l'ha fatta grossa ma sa che può contare sulla benevolenza di chi l'ha colto in fallo. Decise di svelare alla donna il suo gioco, e se anche lei lo avesse considerato un vecchio rimbambito, pazienza: — Vede, veramente io non cerco la signora Alice. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, altrimenti disimparo anche a parlare e pensavo… Mi rendo conto di aver fatto una stupidaggine, mi spiace averle fatto perdere tempo, ma…

Non sapeva come uscirne: non riusciva a spiccicare parola, si sentiva sciocco e gli dispiaceva mostrarsi tale proprio con lei.

— Guardi che mi sta facendo una cortesia, sa? Non tema di disturbare. Vede, sono a casa, momentaneamente immobilizzata per una banale caduta e se riesco a parlare con qualcuno ne sono felice. Non posso tenere al telefono le mie amiche, non più di tanto almeno, hanno da fare, per cui se vuole chiacchierare un po' con me…

Dario si affrettò a rispondere, quasi temesse di sentir cadere la linea se non ne avesse approfittato subito: — Ma certamente! Mi spiace per lei, spero non sia nulla di grave. Anche la mia Emma era su una carrozzina, gli ultimi anni, ma lei era vecchia, come me, e invece lei deve essere molto giovane. Ha una voce così dolce e paziente…

— Sua moglie non c'è più, vero? E lei ne sente la mancanza…

— Non sa quanto. Abbiamo vissuto tutta la vita insieme; era ancora una bambina quando le ho detto "Emma, sbrigati a crescere, che quando diventi grande ti sposo". E lei mi ha aspettato. Era bella, la mia Emma, avrebbe potuto avere altri ragazzi, ma ha scelto me…

— Ma adesso ci saranno i figli, e i nipoti. Non sarà solo, vero?

Alice conversava serena, ascoltava, interveniva, sempre con quella voce pacata e senza mai dimostrare fretta. Dario si godeva quei momenti inaspettati di gioia, preoccupato solo di non sembrare banale (perché tale invece si sentiva) ma con Alice era straordinariamente semplice trovare un argomento di conversazione. Sembrava persino fosse lei a guidarlo con tatto verso quello che da anni ormai era il suo pensiero fisso, la moglie che se ne era andata e che lo aspettava, di sicuro, come lo aveva aspettato da giovane.

— Vorrei tanto sapere che la mia Emma è felice, adesso. — sospirò a un tratto, con gli occhi fissi alla fotografia incorniciata, da cui una donna radiosa gli sorrideva — Non siamo mai stati ricchi, sa? Abbiamo fatto studiare i figli, ma quanto lavoro, povera la mia Emma, quanta fatica! E poi, quando sarebbe stato giusto fermarsi e riposare insieme, lei se n'è andata…

La voce di Dario si era incrinata, ma subito Alice riprese a confortarlo: — Emma ora sta bene e ti aspetta. Quando verrà il tuo momento la raggiungerai, e sarete di nuovo felici.

La donna era passata al tu, con la semplice confidenza delle persone gentili. Dario si trovò a risponderle con la stessa confidenza: gli sembrava di conoscerla da sempre, ed era meno di un'ora che si parlavano: — Oh, non so. La mia Emma è in paradiso, adesso. Non ha mai fatto altro che del bene, lei, santa donna. Ma io… Be', io da giovane sono stato un brigante, sa? Mi piacevano le donne, tanto. Ma quando mi sono sposato non ho più voluto averne altre, oltre alla mia Emma. Però mi scappavano certe parolacce, alle volte, quando il lavoro mancava, e io volevo che i miei figli invece avessero il meglio…

Alice sorrideva, rispondendo: — Non temere, Dario. C'è un pezzetto di paradiso anche per te, io lo so. Magari ti metteranno in un angolino, mentre Emma sarà seduta comoda, ma sarete di nuovo insieme. Ora però ti devo lasciare.

Dario sentì una fitta di rimorso: quanto tempo aveva rubato ad Alice, così gentile e disponibile! Magari l'aveva fatta tardare per la cena: — Scusami, hai ragione. Ti ho monopolizzato per un bel po', ma… — non osava chiederlo. Però alla fine si decise: — Posso richiamarti domani?

— Certo, domani sera alla stessa ora. Sarò a casa. — aggiunse con un pizzico d'ironia.

Il resto della notte trascorse sereno, Dario dormì persino senza aver preso le solite gocce.

L'indomani si sentiva strano e un po' confuso, le gambe lo sorreggevano a stento. Gli pareva che il tempo trascorresse troppo lentamente, mentre aspettava con impazienza che venisse finalmente il momento di telefonare. Lui aveva un appuntamento, si ripeteva quasi incredulo.

Aveva sottolineato con cura il numero chiamato per ultimo il giorno prima e quando arrivò il momento, lo compose con attenzione. Sorrideva, ma quando udì una voce maschile, ebbe come un tuffo al cuore. Le parole gli giunsero come pugnalate: — Qui non c'è nessuna Alice, ha sbagliato.

Subito dopo la linea fu interrotta. Non era possibile, le aveva parlato ieri! Forse aveva sbagliato veramente, preso dall'ansia. Lo ricompose con estrema lentezza, questa volta era di certo quello giusto.

Il telefono squillò per pochi secondi, poi la stessa voce di prima rispose già con un tono seccato: — Pronto!

Dario sentì il cuore che pareva volergli uscire dal petto, ma si fece forza e riuscì a sussurrare: — Mi scusi, ma vorrei davvero parlare con la signora Alice, me la può passare, per favore?

— Le ho già detto che qui non c'è nessuna Alice, controlli quel numero e la pianti di rompere le scatole.

Sembrò quasi di sentire la cornetta sbattuta con forza sulla forcella.

Dario restò pensieroso mentre riattaccava a sua volta. Ma com'era possibile? Le aveva parlato, e lei non solo gli aveva risposto, ma aveva capito. Gli aveva riempito l'anima di calore, gli aveva rischiarato la giornata con la luce della speranza.

Era stato tutta un sogno? Aveva scambiato un sogno per la realtà? Allora aveva ragione suo nipote a dire che il cervello iniziava a giocargli degli scherzi.

Restò a lungo sulla poltrona, la testa reclinata, le palpebre pesanti, non riusciva a pensare ad altro… eppure gli era parso tutto così reale, gli sembrava di sentirla ancora, quella voce, pareva lì, nella stanza, gli stava parlando.

— Dario, mi hai cercata così a lungo e ora che mi hai trovata io non ti lascerò più.

Si guardò intorno. L'oscurità lo circondava. "Strano," pensò "è solo il tardo pomeriggio" e poi quelle parole: parevano appena sussurrate, coperte da rumori e fruscii come se… la radio!

Dario guardò verso la vecchia radio sul tavolino. Era accesa, eppure lui l'aveva spenta prima di telefonare, ne era sicuro: non voleva avere altri suoni a disturbarlo mentre avrebbe parlato con Alice. Ma, nel buio della stanza, il quadrante brillava della sua luce gialla che si rifletteva sul vetro del tavolino.

— Alice, allora ci sei… ma come posso sentirti, sei lì dentro?

— Certo che ci sono, e percepisco il tuo animo così come lo percepivo ieri. Io so di cosa hai bisogno e, se ti fidi di me, non dovrai cercarlo più. Ora resta seduto, apri il tuo cuore e ascoltami.

Dario ubbidì, sorridendo. Restò sulla poltrona, il volto illuminato dalla debole luce della radio.

Fuori, il pomeriggio divenne sera e la sera notte, lunga e piena di stelle. Più tardi ancora, un chiarore iniziò a filtrare dalle persiane e, infine, un raggio di sole illuminò il sorriso sereno sul volto di Dario, gli occhi aperti a fissare la vecchia radio oramai muta per sempre.


(fine)



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Namio Intile


Due amori


Palermo, primavera 1989


Antonio mi cinse le spalle e a un orecchio sussurrò: — Ti do tre milioncini e mi porti Penelope in Turchia, ad Antalya.

— Non bastano. — obiettai, perché conoscevo Penelope ed ero consapevole delle sue esigenze. Mi divincolai, stanco di marchette gratis al miliardario di turno.

— Non sono spiccioli… proprio con me vuoi fare il furbo? — mi guardò dritto negli occhi, come in una sfida a duello — Lo so quanto ti piace: ho visto come la guardi, un tempo avresti pagato tu per star con lei. Quando ti capita un'altra occasione? E poi senti, — mi afferrò la faccia manco fossi una femmina da baciare — non c'è fretta, anzi, almeno un mese la devi portare in giro, lontano da quel ladro che la mantiene e la trascura.

Annuii in silenzio e già sapevo dove voleva andare a parare: — Compà, un tempo ero un fesso, ma ora mi sono stancato di andare dietro a gente che diventa ricca niente facendo. Perché sei tu facciamo cinque milioni e, per un mese, di Penelope me ne occupo io.

Antonio sembrò pensarci su. Ma ormai conoscevo i suoi bluff, e se davvero avesse avuto qualche altro disgraziato disposto a tutto tra le mani neanche mi avrebbe chiamato. Allungò la mano destra e disse: — Affare fatto. Avrei accettato anche per sei.

— E io l'avrei fatto anche per tre. — aggiunsi, per il solo piacere di non dargliela vinta.


Avevo incontrato Penelope a Favignana, sulla banchina della tonnara vecchia, carezzata dalle acque trasparenti della baia e dalla brezza tiepida di giugno.

Era bellissima.

Alcuni giorni dopo fu proprio Antonio a invitarmi a stare qualche giorno con loro, in giro per l'arcipelago, e galeotte le acque limpide delle Egadi me ne innamorai. Poi le nostre strade si separarono. Feci molte altre esperienze, ma lei sarebbe rimasta quella diversa, il mio unico vero amore.

Alla fine arrivò il momento. Quel torrido giorno d'inizio luglio ero pronto per rivederla. Penelope, uno splendido sloop di quaranta piedi in alluminio, mi aspettava nelle acque luride del porto, dove il suo armatore la lasciava marcire per quasi tutto l'anno.

Antonio mi consegnò le chiavi e i documenti e si esibì nel suo solito avvertimento: — Giò, senza un graffio la devi riconsegnare.

Sull'equipaggio invece mi aveva lasciato mano libera: "Porta chi vuoi, basta che a me non costi nulla", che significava qualche disperato in cerca d'avventura e disposto a tutto pur di andar per mare. Qualcuno convinto di fare lui l'affare della vita, e perciò intenzionato a lavorare gratis per il tizio che pagava un ormeggio due milioni al mese senza batter ciglio. Maledetto il denaro e chi l'ha inventato pure.

— Il mare… chi non lo conosce che ne sa dei suoi infiniti segnali, del suo umore cangiante, e con quale prodigiosa intensità scuota i sensi? Chi non conosce il mare che ne sa del suo odore sempre diseguale, dei suoi colori mai identici? Il mare è una sensazione che ti droga, e una droga che alle volte ti uccide. — recitai proprio così.

Era quella la mia scena madre, offerta gratis a Blasco Internicola. La filastrocca l'avevo imparata a memoria, tante volte l'avevo sentita in bocca ad Antonio quando cercava di fottere me o qualcuno come me. E ora toccava a me rifilarla all'allocco di turno; cosa che feci con grazia, e lo stesso sorriso beffardo dell'Ignoto Marinaio di Antonello da Messina.

È proprio vero che nella vita o si fotte o si è fottuti, e stavolta toccava a Blasco d'esser fottuto. Che avevo conosciuto in una regata d'altura il marzo prima, quando m'aveva confidato ch'era desideroso di mettersi alla prova con qualcosa di più impegnativo di una regata. Certo, il fatto che ci avesse fatto arrivare ultimi, volando in mare colpito dal boma di randa, non deponeva a suo favore. Ma nonostante la mezz'ora nel mare frangente di marzo al largo di Ustica cercando di recuperarlo, lo chiamai: gratuito e con un mese a disposizione conoscevo solo lui.

Gli raccomandai di venire il giorno prima della partenza, per preparare la barca alla crociera. E quando arrivò aveva un sorriso stampato come di chi ha vinto la lotteria di capodanno e fa di tutto per farlo vedere agli altri. Era un entusiasta Blasco e perciò non si rendeva conto che io lo stavo usando, e che qualcun altro stava usando me. Così va la vita.

Il giorno della partenza il mare era increspato dalla brezza del mattino; drizzammo la randa e il genoa e via: bussola a novanta gradi verso il misterioso Oriente. Da Palermo filammo al traverso lungo la costa settentrionale dell'isola. Blasco cazzava le scotte con i winch, regolava il trasto di randa, si dava da fare come un vero marinaio. Sembrava un buon diavolo, anche se sapevo bene come in mare bisognasse attendere che il valzer della fortuna terminasse il suo giro per capire di che pasta fosse fatto l'uomo. E l'uomo, in mare come in terra, parafrasando Sciascia, appartiene a cinque categorie: il marinaio, il mezzo marinaio, il mozzo, il pigliainculo e il jolly.

E io, sicuro di appartenere alla più nobile, mi ero incatenato al timone rifiutando a me stesso l'inserimento del pilota automatico e intenzionato a godermi il comando della mia Penelope, a carezzarla con le dita, ascoltarne gli umori, prevederne i bisogni, proprio come si fa con l'innamorata in carne e ossa.

— Hai mai visto le Eolie dal mare?gli domandai all'altezza di Cefalù.

Scosse la testa.

— E allora le vedrai. — promisi, e cambiai rotta, virando la prua verso il mare aperto.

Arrivammo che cominciava a scurire: Alicudi è la più selvaggia delle sette sorelle, solo un fortunoso attracco per l'aliscafo e poche case appollaiate lungo i ripidi pendii vulcanici. Non una strada, non una macchina, persino l'elettricità era scoperta recente. Ci ormeggiammo alla meno peggio e feci un salto a terra con lo stesso spirito del capitano Cook.

Gli indigeni mi offrirono capperi e spigole e la prima notte la passammo cullati dal mare sotto un cielo luccicante di stelle. Con vento al traverso incrociammo Filicudi, Salina, Lipari, Vulcano, dove diedi fondo nella Baia di Ponente.

Concedetti a Blasco la libera uscita e lui, sorridente come un pargolo col suo balocco, raggiunse la spiaggia col tender. Io preferii rimanere con la mia Penelope, memore di una brutta avventura capitatami lì un paio d'anni prima, quando un'improvvisa tempesta spedò le ancore delle barche alla fonda facendone affondare qualcuna. Tutta gente con tanti soldi e poco cervello. Così va la vita.

Ma quella sera meglio avrei fatto a lasciare Penelope sola e a seguire il prode Blasco a terra, pure se nulla m'aveva lasciato presagire che avessi per le mani un casanova da strapazzo accecato dal testosterone, una sottospecie di idiota in pieno annebbiamento ormonale. Quella sera Blasco, al ritorno dalla sua spedizione in terra incognita, portò a bordo un'olandesina di sì e no vent'anni, con un corpo da modella e un viso d'angelo.

— Questa è Kelly. — la presentò, mezzo strammato, con un sorriso che gli allargava la faccia proprio come al jolly del mazzo di carte, ma senza i ben noti campanelli — Le ho promesso un passaggio sino ad Atene. — mi comunicò senza pudore, come se il mio assenso fosse un accessorio di serie o una pura formalità.

— Ma quale Atene e Atene. — replicai — Compà, tu pazzo sei! Noi ad Antalya dobbiamo andare. E non sei autorizzato a dare passaggi. Qua comando io!

— Ma scusa… Antonio non t'aveva detto porta chi vuoi basta che sia gratis? Tu me l'hai raccontato… e lei gratis è. — ribatté, con il fare d'un puttino.

— A questo mondo di gratis niente c'è. E poi "porta chi vuoi Antonio" l'ha detto a me! Il capitano sono io. — lo ripresi.

— E io, infatti, lo sto chiedendo al capitano; — fece, e scandì quell'ultima parola — e poi una mano a bordo ci serve… sa cucinare.

— Che fa, mi sfotti? Di donne a bordo non ne voglio. Portano una tremendissima sfiga, una mala sorte bestiale!

— Che ti fotte della sfiga? Ma… tu l'hai vista? — balbettò — Hai visto che corpo? E che gambe, che seni… che occhi… — mi tentò, il diavolo accecato dal testosterone.

— E tu ll'occhi ci taliasti. Lo so io che ci guardasti! Niente donne, è un ordine! — esclamai, con piglio militare.

— Kelly, vieni qui. — le fece cenno Blasco, sforzandosi nel suo improbabile dialetto anglo-siculo. — e il subdolo demonio la mise in mostra, facendola roteare su se stessa.

La ragazza, occhi verdi, bocca rossa, e una maglietta bianca che più che nascondere lasciava presagire ogni ben di Dio, s'accostò e mi sfiorò la guancia destra alitandomi sul collo.

Rimasi interdetto e la guardai di traverso prevedendo guai a non finire. Fui sul punto di buttarla fuori, ma il diavolo, complice il mio testosterone da tempo in colpevole accumulo, m'accecò: per un attimo immaginai cose turche nella cabina armatoriale.

— Va bene. — acconsentii riluttanteDalle la cabina a prua, e tu prendi la cuccetta a poppa. Separati vi voglio, e tu comportati da gentiluomo. — lo avvertii — Si cena tra mezz'ora e all'alba si riparte. Voglio arrivare in Calabria prima di sera.

— Agli ordini, capitano. — rispose Kelly, nel suo traballante italiano, e contenta mi fissò coi suoi smeraldi da gatta in calore.

La cena a base di ricciole prese alla traina se ne andò insieme a due bottiglie di Bianco d'Alcamo: — Carpe diem!latineggiai e, mentre riempivo i bicchieri, riflettei sul fatto che quella donna si trovava a bordo da un paio d'ore e già m'aveva fatto infrangere il divieto assoluto d'alcool alla fonda. Così va la vita.

Il giorno dopo non incontrammo vento sino allo stretto di Messina, poi la brezza si alzò potente al nostro traverso. Drizzammo il genoa, lo scafo si inclinò, la spuma iniziò a spazzare il ponte, e cominciò la bolina. Davo ordini di virata continui, zigzagando tra i traghetti in spola tra le due rive dello stretto, i cargo che passavano da Oriente a Occidente, e le spadare dalle lunghe antenne a caccia degli ultimi spada del Mediterraneo.

— Vira a dritta. — ordinai a Blasco, e sentii i sensi acuirsi, i muscoli farsi più potenti.

Lo facevo per tenermi in allenamento, ma volevo anche sfiancarlo perché aveva trascorso tutta la mattinata a pomiciare con Kelly, a strusciarsi infischiandosene delle mie consegne. Lo volevo stancare e lo volevo punire, volevo farlo soffrire quel verme pomiciante, quel mezzo marinaio d'un porto senza navi.

Forse il testosterone stava annebbiando pure me.

In quel frangente Kelly, non potendo fare uso di Blasco, si avvicinò. Io stavo dritto a poppa, le mani ben ferme sulla ruota del timone, strette come se tenessero i fianchi di una donna, con un occhio alle navi che incrociavano e un altro al mostravento a riva. Kelly aveva preso posto dietro di me, e cominciato a carezzarmi le spalle, scendendo giù, verso la schiena, verso i glutei. Rimasi imbalsamato, vagamente strammato, ma la lasciai fare: con un sorriso ebete lasciai che anche lei mi usasse… il demonio che viveva in me, e il testosterone che fluiva dentro di me, la lasciarono fare.

Kelly aveva diciannove anni, ma ne poteva avere trentanove per come giocava coi maschi. Infatti a Melito di Porto Salvo, un porto angusto con l'entrata tanto interrata che il progettista avrebbe meritato d'esser legato all'ultima crocetta di una qualunque maestra e portato a spasso per il Mediterraneo, lo dimostrò ancora. Avevo bisogno di carburante e di acqua dolce, prima di affrontare la traversata dello Jonio; e di tornare indietro a Reggio o di salire a Crotone non mi andava proprio.

Entrando nel porto per poco non mi arenai. Mi innervosii e comunicai alla ciurma di voler fare solo acqua e gasolio e di mollare subito gli ormeggi per Cefalonia.

— Ho voglia di camminare un po'. — obiettò, nel suo italiano cantilenante, la dolce Kelly.

— E io ho detto di no. — la zittii.

Anche Blasco iniziò a darle man forte rendendo la mia presa di posizione un inferno dove regnavano sguardi languidi e sorrisi ammalianti.

Purtroppo per me non valevo un mignolo della grinta del comandante del Bounty; il mitico William Bligh fece disertare tutto l'equipaggio piuttosto che cambiar rotta, e si trattava di Capo Horn, boia d'un mondo. Io invece acconsentii a passare la notte in quel buco dimenticato da Dio e ricordato male anche dagli uomini per andare dietro ai capricci della bella figlia dei tulipani e del suo innamorato ormonale. Così va la vita.

Così trascorsi la notte insonne, tra i mugolii amorosi di Kelly e i muggiti arrapati di Blasco che si divertivano, s'accoppiavano, si rotolavano, mentre fuori i pochi pescatori del porto lo facevano apposta a urtare Penelope a ogni passaggio.

Il giorno dopo, i due amanti ancora dormivano, lasciai il porto con bussola a novanta gradi, direzione isola di Cefalonia. Il mare era calmo, il vento spirava dai quadranti meridionali, branchi di delfini mi precedevano gioiosi; tutto sarebbe stato perfetto se non avessi ricominciato a sentire altri mugolii e fremiti di libido. Verso le dieci il casanova coi campanelli e la gatta del paese degli zoccoli uscirono, con loro comodo, a prendere il sole. Io ero già arrostito e stanco, perciò mi arresi all'automatico e mi sdraiai all'ombra della randa.

— La terra quasi non si vede più. — osservò Blasco, mormorando.

E io sentii puzza di codardo.

— Quanto ci impiegheremo per arrivare a Cefalonia?

— Due tre giorni. — feci.

Per non sentirlo scesi in quadrato a fare il punto nave stimato, e dopo salii con il mio sestante e il volume con le tabelle effemeridi dell'Istituto Idrografico della Marina per fare il punto nave con il sole. In realtà volevo solo mostrare ai due piccioncini chi era il capitano vero. Kelly era in topless sulla tuga e vederla così, bella, giovane, luminosa, coi bei seni al vento, mi provocò un notevole eccitamento ormonale che aumentò il volume del mio costume.

Cercai di ricompormi e mi concentrai: — Sulla carta, segna! — ordinai a Blasco — Latitudine 37 gradi 47 primi e 28 secondi nord, longitudine 16 gradi 32 primi e 12 secondi a est. Corrisponde al punto stimato?

— Manco per niente. — rispose acido, sicuramente geloso dei miei lunghi sguardi molli a Kelly e di quel rigonfiamento innascondibile.

— Dammi qua. — lo zittii — Se non fosse per me, in una tinozza vi perdereste. Deficiente. — lo apostrofai, e tornai all'ombra della randa.

Kelly ci osservava divertita, muovendo leggermente il capo e mettendo in mostra i bei seni appena abbronzati: sapeva di essere lei la causa del malumore tra noi due. Ma non solo non faceva nulla per metterci una pezza, sembrava addirittura che si divertisse.

La navigazione proseguì tranquilla fino a quando non incrociammo un relitto a una cinquantina di metri dalla prua. I miei sensi si destarono e si rimisero all'erta fiutando il pericolo.

— Dobbiamo fare i turni per la notte. Io faccio il primo fino alle due del mattino, poi ti sveglio e ti fai una tirata fino alle sei.

— Non c'è pericolo. — obiettò, indolente come non lo avevo mai visto prima e sicuramente desideroso di passare la notte a suonare lo zufolo con Kelly — La rotta commerciale passa più a sud…

— Le correnti non seguono le rotte commerciali, e Dio solo sa cosa cade da quelle stramaledette porta container. Fa' quello che ti dico. E poi possono sempre esserci navi più a nord della rotta stabilita. E per loro noi siamo invisibili. — tagliai corto, e mi rimisi al timone.

Kelly nel frattempo, con un sussulto di buona volontà, si era messa ai fornelli, anche se soltanto un pareo trasparente copriva le sue attraenti nudità e osservarla era una tortura senza fine, quasi quanto le stupide effusioni di Blasco ripetute sotto i miei occhi.

A ogni modo, la figlia dei tulipani si dimostrò un'ottima cuoca, e la cena fu consumata allegramente, lei seduta al mio fianco e pronta a versarmi il mio adorato Grecanico, a stuzzicarmi maliziosa, sfiorandomi i piedi con i suoi. Blasco a osservarla immusonito, accecato dalla gelosia. La sera stessa Penelope, che sino a quel momento aveva sopportato di buon grado i miei malumori e le mie distrazioni, cedette a una sventolata di scirocco. Accelerò d'improvviso, il pilota automatico non resse la rotta, e cominciò a fischiare. Corsi al timone e lo disinserii. Mollai la scotta di randa e ridussi il genoa, la navigazione riprese tranquilla, Penelope mi aveva fatto capire che non la potevo tradire, che con lei avevo il dovere di rigare sempre dritto. Mi feci tutta la notte nel pozzetto, perché Blasco si era sbronzato; Kelly mi venne a fare visita verso le tre del mattino, con un caffè caldo in mano, e si accucciò al mio fianco inebriandomi col suo profumo. Mi tenne sveglio, mi coccolò con la sua cantilena italo-olandese, mi raccontò dei suoi sogni: che avrebbe voluto viaggiare per il mondo libera, senza legami e costrizioni, magari con un vero uomo accanto.

— E i soldi?le domandai io, a un certo punto.

— I soldi si trovano. — rispose lei facendo spallucce.

Non posso dire quel che pensai, ma di sicuro lo pensai.

Verso le cinque, albeggiava, le ordinai di andare a dormire, e io proseguii la mia veglia con Penelope, la moglie che non tradisce.

Da due giorni vedevamo solo acqua e cielo, il vento si era calmato, il mare non si muoveva. Ritirai bucato e stoviglie alla traina in mare, e li sciacquai in acqua dolce. Ammainai le vele e mi tuffai nel blu: sotto di me un abisso di cinquemila metri. Penelope scarrocciava lentamente verso nord mentre una testuggine mi nuotava vicino osservandomi quieta, per nulla preoccupata. Avrei voluto essere come lei, felice in un adesso senza tempo. E invece il diavolo mi seguiva da vicino. Le sfiorai il carapace e scomparì nel blu profondo. Osservai Kelly distesa sul ponte: una magnifica Naiade.

Blasco si accorse dei miei sguardi: — Ti potrei lasciare a mollo qui, a duecento miglia dalla costa, e scappare con Penelope e Kelly, e vivere felice per il resto della mia vita! — mi urlò, armeggiando sotto il timone.

L'incanto si spezzò.

Accese il motore e Penelope si mosse, e mi convinsi che lo stava facendo per davvero; anzi, lo presi talmente sul serio che iniziai a nuotare come un forsennato verso la scaletta ancora calata in acqua. Poi spense il motore, Penelope perse il suo abbrivio e si fermò.

Si mise a ridere, l'infame, e con lui la dolce Kelly. "M'ha fatto fare la parte del jolly", pensai una volta a bordo, e puntuale un sentimento di rabbia e di rancore si fece strada dentro di me.

Un altro giorno passò, ci prendevamo cura soltanto di noi stessi e di Penelope, mentre la costa greca si avvicinava e il nervosismo non accennava a diminuire.

Cefalonia venne fuori dalla foschia l'alba del giorno seguente, ci trovavamo più a sud del previsto, vicini a Zante, Cefalonia a sinistra. Preferii puntare su quest'ultima per le coste frastagliate e le possibilità illimitate di ormeggi tranquilli.

Argostoli ci accolse sonnolenta nel pomeriggio. L'unico marinaio della capitaneria ci accolse annoiato invitandoci a compilare dei moduli, osservando distrattamente i nostri passaporti. O meglio, controllò solo quello di Kelly e attaccò bottone in inglese costringendomi a interromperlo non troppo gentilmente. Mi guardò di traverso, e mi ordinò di sparire. Per una volta Blasco mi aiutò e tirò via la dolce Kelly. Così va la vita.

Feci rifornimento di nafta, acqua e frutta.

La baia era un lungo fiordo tra mare e monti e lasciava senza fiato, le acque calme con migliaia di ricci ad aspettare solo qualcuno che li facesse diventare un condimento per la pasta. Mi venne voglia di un'insalata greca, con feta pomodoro zucchine e cipolla, e la innaffiai con mpura ghiacciata e ouzo, dopo giorni di acqua brodo.

Ci dondolammo per una settimana tra Santa Maura e Cefalonia, poi costeggiammo verso sud; volevo far vedere a Penelope la sua isola, la bella Itaca. E Penelope mi ringraziò a modo suo, e anche Blasco si rilassò, mentre Kelly aveva messo da parte gli atteggiamenti da femme fatale. Così, una volta a Itaca, lo mandai a terra in cerca di cibo fresco.

Kelly rimase in barca: — Non mi sento troppo bene, vai tu. — si scusò.

Quando Blasco sparì dalla vista, Kelly cominciò a stuzzicarmi, ma io non reagii. Allora lei mi saltò addosso come una belva affamata… e ottenne ciò che voleva offrendomi la sua merce più preziosa. Non ebbi scampo, fui suo.

Dopo Itaca decisi di non passare per il canale di Corinto e di puntare a sud, oltre il Peloponneso, verso Creta. Oltre l'isola di Oxia il mare si fece frangente e con dieci nodi d'andatura costante puntai al mare aperto. Penelope cavalcava le onde che era una meraviglia, così decisi di montare il gennaker. Sistemai le scotte e drizzai la grande vela asimmetrica all'esterno del genoa. Solo chi va per mare può capire: dodici nodi con andatura al lasco, acqua libera a prua, libertà sciolta da vincoli.

Eppure il diavolo, anche quella volta, ci mise lo zampino. Per cominciare, Blasco, per quanto inebetito dal testosterone, si era accorto che tra me e Kelly era successo qualcosa, ed era tornato aggressivo, isterico. E poi il Meltemi aveva cominciato a soffiare impetuoso da nord, gonfiando il mare. Le onde si alzavano una dietro l'altra e frangevano. Ammainai il gennaker e distesi il genoa, ma nel pomeriggio l'anemometro segnava quaranta nodi di vento: terzarolai la randa, rollai il genoa, ingarrocciai un piccolo fiocco a prua, ma commisi l'errore di esser troppo prudente. Penelope perse velocità rischiando ogni volta di straorzare in cima all'onda a causa del rallentamento imposto dal frangente.

"Ci vuole velocità" pensai, dopo aver preso un gran numero di scoppole.

— Molla un terzarolo! — ordinai a Blasco, che s'era raggomitolato nel pozzetto accanto a Kelly, stravolta come lui dalla paura.

— Sulla tuga non ci salgo manco morto! — mi urlò di rimando.

Persi la pazienza: — Il timone automatico questo mare non lo regge, e di sicuro non lo reggi neanche tu! — gli strillai — Catamiati! Alza il culo e leva una mano di terzaroli, altrimenti finiamo a mollo, cacasotto, jolly dei miei coglioni. Smetti di fare il buffone e datti una mossa!

— Me ne catafotto dei tuoi ordini: mi vuoi far fuori per scoparti a Kelly! — mi rinfacciò rosso in viso, mentre l'olandesina piangeva di fianco a lui.

D'un tratto un'onda molto alta e frangente più delle altre ci colpì al giardinetto di poppa. Penelope, troppo lenta, venne investita in pieno, e non riuscì a liberarsene: straorzò sull'onda coricandosi con la mura di sinistra quasi in orizzontale, con le crocette in acqua.

— Tenetevi! — li avvertii, e poi vidi la piccola Kelly librarsi in aria. Misi la barra tutta a sinistra, sperando che la fortuna e la fisica facessero il resto, e infatti riuscii a riportarla in orizzontale.

Penelope non mi aveva tradito.

— Arrusu, pigliainculo! Ci farai affondare! — gridai a Blasco, ma lui non replicò, né si mosse, e perciò decisi di rischiare con l'automatico che inserito iniziò a gemere come se lo stessero torturando. Feci scendere Kelly nel quadrato e le ordinai di chiudersi dentro. Serrai il tambucio e mi precipitai alla randa, sciolsi le borose, ma la drizza non ne volle sapere di andare su, la pressione del vento la inchiodava là dov'era.

— Il winch! — indicai a Blasco il verricello accanto a lui — Drizzala col winch… — Penelope straorzò ancora. E questa volta fu peggio della precedente. Riafferrai il timone e diedi barra a sinistra, poi mi venne l'idea: il motore.

Tentai di accenderlo, sperando che le straorzate non avessero prodotto danni, e la fortuna mi assistette. Diedi tutta manetta e Penelope riacquistò velocità. Ogni cosa tornò al suo posto, le onde, affrontate con la giusta velocità, smisero di creare problemi.

Avevo rimediato all'errore.

— Sei un vigliacco e un pezzo di merda, Blasco. Ti sbarco a Heraklion! — lo ripresi, quando la buriana si fu calmata — Tu non sei un Marinaio, e non lo sarai mai. — sentenziai senza possibilità di ricorso.

— Sono un vigliacco perché amo la vita e ho paura di perderla. A te invece fa schifo, il tuo coraggio è solo un bluff: sei solo uno psicopatico. — mi rinfacciò — E Kelly? — chiese dopo un po'.

— Kelly può far ciò che vuole. — gli risposi.

— Te la sei scopata, vero?mormorò — Lo sai che era mia, che ci tenevo… mi volevi fare fuori.

— E io per una scopata ammazzo a uno… — e lo mandai a quel paese.

— Ci hai fatto l'amore, è vero?

— Me la sono scopata. — ammisi, col preciso intento di ferirlo, e lo affrontai. In risposta mi arrivò un gancio in faccia, e un altro ancora, prima di stramazzare in terra.

Seguirono ore di silenzio e vento al traverso, anche Kelly si era rintanata nella sua cabina per non uscire più.

— Va' via! — ordinai a Blasco, attraccati a Heraklion — E portati la tua olandese.

— Non voglio andar via. — mi pregò allora Kelly, e corse ad abbracciarmi — Sono tua, se mi vuoi.

La guardai con distacco, e pensai a tutto quello che era successo.

Osservai Penelope tranquilla, sicura, forte, stabile, fedele e pensai che per una stupida sbandata stavo rischiando di perdere un dono così grande. Il pensiero mi fece inorridire.

— A me basta Penelope. — le dissi, e l'allontanai.

Li vidi percorrere un tratto insieme lungo la banchina, poi Kelly spintonò Blasco e sparì tra le barche a vela ancorate sul molo alla sua sinistra. Così va la vita.

Non potevo avere due amori, e la strada per Antalya era ancora molto lunga…


(fine)



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Selene Barblan


La collezione


Quella che preferisco somiglia vagamente a un lombrico. È rosea, lucida, sembra quasi unta. La forma è perfetta, una lancia smussata coi bordi scuri, che danno il senso della profondità. È asimmetrica (odio tutto ciò che emula la perfezione), su un lato si allunga e con delicate volte si assottiglia fino a scomparire nel solco formato dai seni. Si trova lì dove più mi serve, contorna quello che è il luogo che nessuno mai dovrà toccare. Che osino anche solo avvicinarsi…

Potrei osservarla e ammirarla per ore, non mi stanca mai. Quando la sfioro con la punta delle dita mi dà un brivido, piacevole; la ruvida superficie e lo spessore, …se chiudo gli occhi la posso immaginare come una radice che penetra e raggiunge gli strati più profondi della pelle.

Ciò che l'ha creata è impresso nei miei ricordi, come cucito, ricamato, ne posso osservare ogni punto, ogni sfumatura: amo veder fluire le immagini, proiettate sulla parte nascosta delle mie palpebre.

Una volta ero più attenta, sapevo di non dover esagerare; indulgere in questa sorta di meditazione mi fa perdere il senso della realtà e quando mi ritrovo nuovamente in mezzo alle persone faccio fatica a pensare ad altro.

Mi rendo conto che questa mia passione sta gradualmente prendendo possesso della mia vita. Tutto il tempo che trascorro in solitudine ne viene assorbito. Quasi non mangio più, dormire mi pare una cosa insensata. Le passo in rassegna tutte, una dopo l'altra, dalle più sottili a quelle più profonde e significative, per concludere immancabilmente con Lei.

Quando sono costretta a uscire sembro ormai un automa, perché tutte le mie energie convergono nel desiderio di tornare a casa il prima possibile e ricominciare. Ancora e ancora.

Certo, lo so. Si avvicina il momento in cui tutto ciò non sarà più sostenibile. Ci sarà colui che deciderà per me, mi costringerà a smettere, mi strapperà a questa ossessione. Sarà comunque un regalo per me, creerà un'altra, perfetta cicatrice. Un'altra ad aggiungersi alla mia collezione.


(fine)



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Roberto


La piccola guerra di Piero


Un pomeriggio stavamo seduti all'aperto in un bar-ristorante di Pola, nei cosiddetti "giardini", dove ogni mattina si tiene il mercato della frutta; mentre a lato, in un padiglione coperto, la gente si muove frenetica nel mercato del pesce. Chi è dotato di un olfatto sottile può apprezzare una fragranza caratteristica, da taluni banalizzata superficialmente come "puzza". Sui banconi di cemento e per terra scorrono rivoli d'acqua ed è uno spettacolo per gli occhi ammirare tutti quei pesci ancora rigidi e mucchi brulicanti di granchi.

Di tuo padre non so quasi niente! mi diceva Marilena, mentre stavamo seduti al tavolino, all'ombra fresca di un platano.

Hai ragione, ma non è solo per colpa mia.

Cosa c'è di così misterioso?

Non c'è niente di misterioso, solo che è una persona schiva, non gli piace parlare, tanto meno di sé. Io da piccolo pendevo dalle sue labbra, quelle poche volte che mi raccontava di quand'era bambino, e poi ragazzo, della sua scuola… dovevo di continuo dire "e poi? E allora?" Per fortuna i bambini non si stancano mai di insistere, alla fine ti costringono a parlare.

Lui si vergogna di tutto, non si è mai aperto con nessuno, nemmeno con mia madre, credo. Quando raccontava, non ti guardava mai negli occhi, sembrava quasi provare pudore, come se si mettesse a nudo. La testa girata da un'altra parte, lo sguardo perso, sembrava non veder l'ora di finire. Parlava lentamente, poi si interrompeva e bisognava continuamente richiamarlo perché continuasse.

Fra le cose che più mi sono rimaste impresse è la storia di quando fu arrestato dai nazisti, aveva forse sedici anni.

Ricordi quella strada che dal paese porta al mare, quella che passa per Peroj e che abbiamo percorso un'infinità di volte quando facevamo campeggio sulla spiaggia, durante la nostra prima vacanza?

Sì, la ricordo molto bene!

Da quelle parti mio nonno aveva un terreno, quasi tutti ulivi e un po' d'orto. Mio padre era abbastanza grande per aiutarlo nel lavoro dei campi. Dissodavano, bagnavano (lì vicino c'era una specie di stagno che chiamavano "lago di Biagio") e raccoglievano le olive.

La terra è povera, rossa, affiorano di continuo dei lastroni bianchi di roccia calcarea, il terreno è carsico, pieno di buche e anfratti, ed enormi "foibe". La vanga affonda per non più di dieci centimetri in una terra alluminosa, e subito trova la pietra.


Per quella stradina tornava verso casa, un pomeriggio d'estate, Piero, a piedi, tirando per le briglie l'asinello. Era metà pomeriggio e il sole, implacabile, picchiava sulla testa di uomini e animali. La strada per casa era ancora lunga, troppo lunga.

A un certo punto c'è una brusca curva e non si vede oltre. Si sentivano però delle voci, frasi e parole urlate in tedesco. A Piero mancò la presenza di spirito di tornare subito sui propri passi: ormai aveva già svoltato.

Succede spesso di maledirsi per non aver fatto la cosa giusta quand'era ora. Perché quella scelta e non quell'altra? Perché non sei tornato indietro a gambe levate? Perché non ho parlato, quel giorno, a quella ragazza? Dove sarà, ora? Si potesse riavvolgere il nastro della vita, come si fa per una vecchia cassetta di un film! Ma il mondo è lì, attorno a noi, insensibile e già tutto svolto!

Vide un camion militare e un gruppo di soldati tedeschi che sbarravano il cammino. Urlavano ordini a dei ragazzi e a degli uomini, tutti con gli occhi spaventati e con facce pallide e sudate, ammucchiati sotto il tendone nel cassone del camion; mentre un paio di altri sfortunati venivano fatti salire a spintoni. Indossavano camicie sdrucite, bagnate di sudore puzzolente sotto le ascelle e sul petto. L'odore della paura.

Era un rastrellamento: un tedesco era stato ucciso dai partigiani quel giorno stesso.

Il caldo era soffocante, l'aria tremolava per lievi correnti calde che salivano dalla strada, bianca di polvere. Il cielo era blu, quasi nero, e su ogni pietra si rifletteva la luce accecante del sole, tanto che gli occhi doloranti erano ridotti a due fessure.

E fra tutto questo splendore campeggiava un vecchio camion verde marcio, rumoroso, sebbene il motore girasse al minimo e guastava la pace di quella terra abbandonata da Dio.

I soldati puntarono il fucile contro Piero e, sempre urlando, lo costrinsero a legare l'asino a un alberello e a salire sul camion, senza curarsi delle sue deboli proteste: poteva forse abbandonare lì la bestia?!

Lui fu l'ultimo a essere arrestato quel giorno, se avesse tardato un po' a passare non l'avrebbero preso!

Poi il camion partì verso Pola, dov'era il quartier generale.

La notizia del rastrellamento si diffuse immediatamente, i genitori e le mogli degli arrestati non sapevano più che fare, a chi rivolgersi. Al prete, forse? Ma loro amano tutti, sono fratelli di tutti. C'è sempre una buona ragione che invita alla prudenza!

Andarono dal podestà e si misero a supplicare, a piangere, ad abbracciarsi l'un l'altro. Il padre di Piero era nel gruppo. Bisognava fare qualcosa: ancora pochi giorni e li avrebbero deportati o, peggio ancora, fucilati.

È quello che successe, due anni dopo, a Mario, fratello di Ausilia, futura moglie di Piero e mia madre, ben prima che si conoscessero. Partigiano, anche lui per scelta quasi obbligata, venne catturato durante un'azione di sabotaggio. Lo portarono a Dacau assieme a molti altri, stipati in un vagone bestiame.

La parola "lager" è ormai diventata sinonimo di luogo di disperazione, mentre significa semplicemente "magazzino". Per i tedeschi era un magazzino di uomini!

La madre di Mario e la sorella, Ausilia, erano disperate. Partirono dal paese per Pola (non so come ci arrivarono, sono dieci chilometri) e andarono direttamente alla stazione, dove i prigionieri erano già sui vagoni, merce avariata e di nessuna importanza.

Poterono avvicinarsi al treno, nascondendosi dietro qualche colonna, finché non trovarono il suo vagone. Era una sera d'inverno e faceva molto freddo; lo videro, nella luce spettrale e gialla di una lampada, attraverso un finestrino con delle grate. Indossava una giacchetta, troppo piccola per lui, e le mani tentavano inutilmente di ripararsi dal freddo ritirandosi dentro le maniche, come fossero moncherini e come fa una tartaruga nel guscio. Riuscirono a parlargli per qualche minuto prima che i soldati le allontanassero con urli e spintoni.

Mia madre batteva i denti dal freddo e dalla paura. Prima di essere allontanate, riuscirono a passargli, attraverso le sbarre, due pani (tutto ciò che avevano e che erano riuscite a trovare in casa).

"Solo due pani?" furono le ultime parole che gli sentirono pronunciare. Non seppero più nulla di lui, fin dopo la guerra. Dai documenti ufficiali risultò morto di polmonite.

Tornando alla cattura di Piero, stavano tutti, genitori, fratelli, amici, nel palazzo del municipio, col podestà. Era questo un brav'uomo, li conosceva uno per uno, i suoi compaesani. Ovviamente era fascista, come tutti, o quasi, allora. Difficile non esserlo.

"D'accordo gente, state tranquilli, me ne occupo io. Adesso tornate a casa".

Partì immediatamente per Pola.

Con chi parlò e cosa disse? Nessuno lo saprà mai! Può essere che si appellasse al senso di umanità del comandante? O al fatto che i prigionieri erano solo dei ragazzi, dei contadini?

Appena scesi dal camion, un ufficiale tedesco chiese: "Chi vuole andare a lavorare per la Wermacht?". Significava salvarsi la pelle, rimanere a Pola, in un campo di detenzione, e lavorare per i tedeschi. Mio padre fu il primo ad alzare la mano "io… io" diceva.

"Bene, tu per primo… in prigione!".

Il podestà parlò con qualcuno (non credo con quel soldato). Quale che sia la ragione, furono liberati tutti, e tornarono a casa.

Piero era traumatizzato. Lo shock di questa esperienza gli rimase per tutta la vita: ogni volta che vedeva una divisa, anche molti anni dopo (si trattasse anche solo di una guardia di frontiera) perdeva la ragione, si bloccava e cercava rifugio, facendosi piccolo piccolo, sul sedile posteriore dell'auto. A ogni passaggio di confine, qualcun altro doveva portare l'automobile. Dopo qualche chilometro, cominciava a rasserenarsi, ma mai del tutto.

Forse anche il postino, con la sua bella divisa, l'avrà messo in uno stato di panico, chissà! Per la verità fa paura anche a chi non è stato così traumatizzato: porta sempre multe o bollettini da pagare! La nostra unica possibilità di rivalsa è il cane, che, ligio al suo dovere, gli addenta invariabilmente l'orlo dei pantaloni.

La fine fu triste e tragica per il podestà.

Subito dopo la guerra, durante quell'infernale periodo che molti si ostinano a non voler chiamare col nome di "guerra civile", si verificò il miracolo: nessuno era mai stato fascista! Tutti erano eroi antifascisti e partigiani!

Tutti… Tranne il podestà!

Fu condotto in carcere. L'edificio era situato in un angolo della piazza principale del paese. Una mattina, lo fecero uscire e lo obbligarono a camminare fra due ali di folla inferocita.

"Dagli al fascista, sputagli in faccia, fai schifo, vergognati!".

Il mucchio fa la forza. Se il vicino urla, tu urli ancora più forte, i volti si alterano dalla rabbia, un rumoreggiare di mille voci riempie l'aria, i freni inibitori cessano di funzionare.

Cominciarono a colpirlo, prima con schiaffi e sputi, poi con pugni, poi a bastonate e con sassi e calci. Il pover'uomo si schermiva, tentava di ripararsi la testa, si lamentava, dapprima piano, quasi si vergognasse, poi con gemiti strazianti, sempre più deboli, mentre il sangue indicava il suo percorso sul selciato.

Infine crollò a terra e, misericordia divina (misericordia? Divina?) perse i sensi e morì, così, in modo infame, vergognoso, come neanche gli animali al macello.

Piero assistette inorridito alla scena, da lontano, un altro terribile e tragico tassello nella sua mente. Con un senso di vergogna diceva, anni dopo, che non aveva fatto nulla, non aveva cercato di aiutarlo; l'uomo che l'aveva soccorso e gli aveva salvato la vita! Il rimorso si aggiungeva alle sue non poche nevrosi.

Non è facile districarsi in questo ginepraio, meglio lasciar perdere!

Non parlava molto, Piero.

Fra le poche cose che mi diceva, una frase mi è sempre rimasta in mente: "la politica divide". Ci credeva così tanto che, una volta che avemmo una discussione (ero già grande) preferì tacere, mentre gli riversavo addosso i suoi difetti, il suo conformismo, la sua inerzia, il suo evitare sempre i problemi e chissà cos'altro. Fu una discussione accesa, o meglio, fui solo io a parlare, quasi urlando.

Poi la stanza piombò nel silenzio assoluto.

Eravamo in cucina, c'era anche mia madre, ma nessuno più parlava.

Ora mi vergogno per quel che gli dissi, non mi accorsi che il suo silenzio aveva un solo scopo: impedire che si andasse troppo oltre, che le parole sopravanzassero il pensiero, che… si alzasse un muro fra noi.

"Alle volte, tacere è ben più difficile che parlare".

I nostri piccoli figli continuavano a giocare correndo fra gli alberi, mentre tempi e cose e persone lontanissime da noi ci sembravano ora così vicini e così vivi. Forse la memoria serve a questo, a far sì che non si muoia mai.

E poi? Dopo che fu liberato?

Andò con i partigiani. Non c'erano alternative: o con loro o con i tedeschi.

Per quasi tre anni camminò per boschi e monti trascinandosi dietro il fucile, sempre più pesante. Non avevano quasi nulla da mangiare. Come nei film di Charlie Chaplin, bollivano la tomaia delle scarpe. Al termine della guerra pesava quaranta chili.

Un giorno, stanchi, sporchi e affamati come sempre, tre o quattro di loro si trovarono a passare vicino a una cascina. Chiesero ospitalità e da mangiare e, naturalmente, la ottennero: difficile negare qualcosa a chi ha un fucile in mano!

C'era una donna. Il marito si era nascosto di certo in qualche altra stanza o, più probabilmente, era fuggito nei campi. La donna indossava un vestito lungo a piegoni, marrone e sporco, con sopra un grembiule macchiato di sugo, legato in vita. I capelli, tenuti assieme da un fazzoletto sporco anch'esso, erano spettinati e cominciavano a ingrigire. Lo stanzone dove entrarono era una stalla, trasformata in una grossa cucina. Al centro un enorme tavolo di quercia, grezzo e unto, con quattro sedie impagliate e sgangherate intorno, a sinistra una cucina economica con il fuoco acceso, e appesi sopra, sulla cappa, un mestolo e una schiumarola ammaccata. Sul fondo, un passaggio dava in un'altra stanza,  forse una dispensa, ed era chiuso da una coperta militare che faceva da tenda, sorretta da uno spago sfilacciato.

Si sedettero, e la donna tirò fuori dal cassettone del tavolo un pane rotondo e ne diede loro metà, l'altra metà la rimise nel cassetto. Poi si allontanò e andò nell'altra stanza, oltre la tenda.

"Dai Piero, apri quel cassetto e ficca il pane nel sacco. Sbrigati!".

Apre il cassetto: "C'è anche del formaggio, che faccio?".

"Come che fai, prendi tutto, no? Dai, che sta tornando!".

Quando la donna rientrò teneva in mano un salame: "Avete già finito il pane?! Ora ve ne do dell'altro." e aprì quel cassetto, che ormai era già la terza volta che veniva aperto in pochi minuti. Fece per dire qualcosa, presa alla sprovvista e con la faccia stupita, ma stette zitta e richiuse il cassettone; tornò nell'altra stanza e quasi subito rientrò in cucina portando dell'altro pane e un po' di formaggio.


La guerra finì, ma non per questo scoppiò la pace.

Ormai l'Istria non era più italiana, l'avevamo persa e in modo poco onorevole. Adesso gli italiani erano appena tollerati in quella che era stata la loro terra. I titini la facevano da padroni, chi non era del partito era non solo malvisto ma rischiava anche la pelle.

Si aprì la breve e infame parentesi delle foibe.

Ai contadini venivano portate via le cose essenziali: l'olio, il vino, la farina, le uova, le bestie… qualsiasi cosa; tutto in nome del partito. La gente era costretta a lavorare nei campi, gratuitamente o quasi. Piero, era appena sposato, dovette andare alla mietitura, pur avendo una febbre da cavallo, pena il non rilascio del visto per l'Italia.

Tutti avevano paura! Già più d'uno era sparito e non si sapeva dove (in realtà si sapeva, ma non si poteva dire). Il vicino sospettava il vicino, nessuno più si fermava in piazza a parlare. Mancavano di tutto.

Il padre di Ausila era l'unico che insisteva, giorno dopo giorno: andiamocene! Reduce della campagna di Russia della guerra del 15/18, con una ferita alla gamba, aveva lavorato a Trieste e non vedeva l'ora di tornarci e di allontanarsi da tutta quella miseria e da quelle ingiustizie. A forza di insistere, si convinsero tutti: le due famiglie decisero che era ora di fare i bagagli.

Per noi è difficile immaginare cosa voglia dire partire, partire per sempre. Lasciare quei campi, dove il sudore colava dalla fronte; dove ti sedevi sotto il mandorlo a bere quel vino, tenuto fresco nell'acqua dello stagno; a mangiare un melone appena raccolto; lasciare quell'asinello che un giorno ti ruppe i denti con un calcio (ma lo sapevi che non bisognava passargli dietro!); lasciare gli olivi contorti, da cui ricavavi quell'olio così buono, ma che diventava subito rancido perché non sapevi come trattarlo; e la casa… La casa dove avevi passato la giovinezza, quella camera dove ti addormentavi stanco e sereno; e la stalla con le sue bestie calde, le galline che correvano per tutta l'aia, appena fatto l'uovo; ma, più ancora, la gente che ti conosceva da quando eri piccolo, quel cielo che, nelle notti d'estate, sembrava la tela nera di un pittore, riempita di luci e… tutta una vita. Ormai senza più niente, erranti come l'ebreo della leggenda.

Il giorno della partenza da Pola mezzo mondo era sul treno, non un posto a sedere, la valigia nel corridoio, tutti stipati all'inverosimile.

Quando scesero alla stazione di Bologna (una tappa intermedia) avevano i pantaloni e le gonne neri come l'inchiostro, la stoffa appiccicata alle cosce, perché la valigia di compensato su cui tutti si erano seduti era stata verniciata di fresco, e la vernice non voleva saperne di asciugare.

Alla stazione, in attesa del cambio per il sud, passarono la notte senza che nessuno si occupasse di loro; anzi, erano visti come dei reietti, avendo abbandonato la patria del socialismo! Le poche cose che ancora possedevano e che erano racchiuse in un cassone di legno, vennero gettate con malagrazia sulla banchina e, quasi tutte, si ruppero.

In centinaia di migliaia partirono. Per dove? Nessuno lo sapeva.

Ma volevano continuare a essere italiani.


(fine)



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Roberto Virdo'


La fiamma del desiderio


Sentendo montare il brusio della folla, raccolse le forze e si sollevò per guardare attraverso le sbarre della grata. Sparuti gruppi composti da uomini e donne, giovani e vecchi vociavano animatamente, circondati da bambini che si rincorrevano gli uni con gli altri. Sullo sfondo, non troppo lontano, una catasta di legna (oscuro presagio dell'imminente destino che le era stato riservato) dominava solitaria la scena.

Fu sopraffatta dalla debolezza e d'improvviso si trovò distesa sul pavimento, le mani chiuse a pugno che stringevano fili di paglia sparsi. Si raggomitolò su sé stessa come un feto nel grembo materno, sforzandosi di piangere. Ma non vi riuscì e stette in quella posizione per un tempo che le sembrò interminabile. Infine, levatasi su un fianco si trascinò lentamente verso il muro di pietra fredda e umida, per poggiarvisi di spalle. I suoi occhi, ormai avvezzi alla perenne oscurità, fissarono lungamente il vuoto poi scivolarono giù, vinti da una muta disperazione. Guardò le gambe deboli ed emaciate e una ventata di ricordi la riportò in un tempo lontano, quando perle di ogni colore, ornamenti preziosi della sua già immensa bellezza, le cingevano il collo sottile su vestiti di stoffe pregiate che nascondevano una pelle giovane, profumata. Non c'era uomo che non si fosse voltato a guardarla con occhi arsi dalla fiamma del desiderio, quel fuoco la cui luce, così calda e particolare, era divenuta per lei indispensabile.

Con un gesto delicato si accarezzò i capelli. Ne afferrò una ciocca e la portò all'altezza degli occhi osservandola come se fosse la prima volta, poi lentamente si alzò e, con sforzo quasi sovrumano, tornò a guardare di nuovo attraverso la grata. La gente fuori si era disposta su due file, una di fronte all'altra lungo il breve percorso che, dal ponte del castello, avrebbe condotto la condannata all'orribile rogo. Le rughe le solcarono la fronte mentre si immaginava trascinata in catene, vestita solo di un panno bianco, lacero e consunto, tra gli sguardi morbosi che l'avevano vista, una volta, giovane e bella. La folla l'avrebbe indegnamente umiliata sfogando i più repressi e ignobili istinti, ancor più accesi dalla brama di godere del disumano spettacolo finale.

Ma lei non pensava al dolore né temeva gli immeritati insulti. Mille torture non l'avrebbero fiaccata né mille morti davvero uccisa. Ciò che sentiva capace di trafiggerle mortalmente l'anima era l'ultimo, pauroso trascinarsi sul sentiero di sassi e polvere sotto quegli occhi. E le lacrime sgorgarono improvvise, mentre passi pesanti si avvicinavano alla grande porta di legno umida e incrostata.


(fine)



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Lodovico


Uccidiamo il chiaro di luna!


3 marzo 1909.

— Marco, vieni a casa!

Scesi controvoglia dal fienile, era ormai ora di cena. La stalla era chiusa, ma le mucche si facevano sentire. Il papà non era ancora andato a fare la mungitura della sera.

La piatta corte era ancora piena di fango per la pioggia della sera precedente e l'odore di terra umida si mescolava a quello degli animali. Era sinonimo di casa. Da sempre quelli erano i miei odori, quello era il mio panorama, quella la mia vita.

Si comincia a darsi da fare presto in campagna. Da quando avevo quattordici anni, conoscevo già la fatica di portare cesti pieni di uva per la vendemmia. Tanto pieni che la sera non avevo più la forza di alzare le braccia per accendere il camino in camera mia. E le fredde lenzuola si scaldavano del mio corpo, ma guai a spostarsi, anche di poco.

— Ehi, Marco! Dai che è pronto in tavola!

La mamma, come al solito, gridava. Le abitudini delle famiglie di contadini. Che tu fossi a un chilometro di distanza, in mezzo alla vigna o a due metri, il volume della voce era lo stesso.

— E sbrigati che c'è il tuo amico Nino.

Nino. Il mio compagno che viveva nella grande casa appena fuori dal paese. Che aveva già la luce elettrica e l'acqua che scrosciava nel lavandino. Avevano un sacco di soldi, i suoi genitori, ma Nino non lo faceva pesare, era uno di noi.

Entrai trotterellando nella cucinona della cascina. Quando vidi la schiena di Nino seduto di fronte al tavolo apparecchiato mi vergognai un po'. La mia casa, dalle pareti scrostate e la puzza di soffritto nell'aria, dovevano fare un effetto pessimo al mio ex compagno di scuola. Decisi di non pensarci e mi sedetti festante davanti all'amico.

— Ciao Nino, come mai da queste parti all'ora di cena?

— Devo farti vedere una cosa stupenda.

Il giornale era già aperto, ne lessi l'intestazione: "Gazzetta dell'Emilia". Scorsi velocemente gli articoli di prima pagina: "Pellicani, coccodrilli ecc.", "Notizie telegrafiche e telefoniche", "Cronache letterarie".

Guardai Nino con aria interrogativa. Un velo di ironia si leggeva sul suo viso, non si stupiva che non avessi compreso quale fosse la "cosa stupenda" cui si riferiva, poi capii. La maestra diceva che noi due eravamo i "letterati" della classe, quelli che, in italiano, prendevano sempre il voto più alto. Io e lui facevamo a gara a chi leggeva più libri, chi scriveva il tema più bello, chi trovava le parole più astruse.

Senza un fiato, solo con lo sguardo ci capimmo, come al solito. Mi misi a leggere l'articolo intitolato "Cronache letterarie". Il sottotitolo era curioso: "Il Futurismo". Immerso nella lettura non mi accorsi nemmeno che mia mamma era arrivata con il tagliere sopra il quale si trovava uno dei salami che avevamo appeso in cantina ad asciugare. Nino me ne porse una fetta. Non ne sentii nemmeno il sapore, tanto ero intento a leggere le parole sul giornale. Divorai salame e articolo, contemporaneamente, e insieme arrivai alla fine di entrambi.

— Questi sono pazzi, Nino! Hai letto bene quello che sta scritto su questo "manifesto futurista"? Predicano la lotta, la guerra, vogliono distruggere musei e biblioteche perché rappresentano il passato, in nome di un futuro di piroscafi, automobili e locomotive!

Gli undici articoli del manifesto mi avevano colpito come un pugno allo stomaco. In particolare il nove recitava: "Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna".

— Vedi, Marco, il mondo non è quello che vivi tu in questa cascina: le mucche, il salame appena fatto, il fieno e il camino. C'è di più. E tu sei abbastanza intelligente per capirlo. Tutto ciò rappresenta una vita che sa di stantio, l'esistenza che attende me e te in questo angolo di mondo senza stimoli. Mani screpolate, pelle arsa dal sole e il nostro cervello, le nostre capacità spese per arare un campo e portare avanti la vendemmia. Non fa per me. Non più.

Il suo sguardo era estremamente grave, non lo vedevo spesso così. Nino, l'allegro Nino, il compagno di giochi di quei diciannove anni passati correndo dietro il pallone di stracci e rubando mele ai vicini.

— Domani partirò per Milano. Lì c'è la vera vita, il progresso, la civiltà. Vedrò automobili scattanti e treni possenti, aerei e folle immense. Ho letto che ci sono circoli letterari, mostre ed esposizioni. Quello è un posto per me.

E mentre lo diceva, una piccola lacrima, che si affrettò ad asciugare, rigava la sua guancia.

— Sono venuto a salutarti, Marco, ti scriverò.

Abbandonò la sedia in legno e, dopo avere salutato sottovoce mia madre, varcò l'uscio.

Rimasi seduto a fissare il giornale per decine di minuti, poi lo appallottolai e lo scaraventai nel camino acceso.


7 luglio 1909.

Bill ringhiava, assatanato, facendo tintinnare furiosamente la catena cui era legato. Non c'erano dubbi, stava arrivando Giacomo, il postino, con la sua bicicletta. Non sapevo se Bill odiasse di più il velocipede o chi lo montava. Decisi di salvare la vita all'anziano portalettere e gli evitai il passaggio davanti ai denti del cane. La lettera, candida, recava il mio nome. In alto, a destra un francobollo da quindici centesimi con l'immagine baffuta di Vittorio Emanuele III. E poi il nome di Nino Frascotti, via Archimede, Milano. Le mani tremanti faticarono a lacerare la carta.


"Caro Marco,


la vita qui è più dura di quanto pensassi. Ho trovato lavoro come spazzino alla Stazione Centrale. Vedessi l'ardita tettoia di vetro e metallo! Questa sì che è una struttura degna dei nostri tempi. La sfida alla gravità e al cielo! E i treni, cavalli d'acciaio che trainano tonnellate di merci e migliaia di persone. Ieri sono andato a visitare l'aeroporto. Mi sembrava di vedere stormi di uccelli metallici che prendevano il volo correndo sull'asfalto. Sono entrato in un circolo letterario, si parla di futuro, di ardimento, di guerra e di coraggio. Io e altri tre ragazzi vorremmo andare a Parigi. Là hanno costruito una torre in metallo alta centinaia di metri. Ma, per ora non ne abbiamo la possibilità. Ti scriverò ancora, però i soldi non mi bastano mai, sono riuscito a risparmiare i pochi centesimi per il francobollo e la busta, ma tutto costa così caro.


Ti saluto

Nino".


Misi la lettera nel cassetto del mio comodino, sopra la copia della "Gazzetta dell'Emilia" che mi ero fatto ricomprare dal mio amico Franco. Avrei tenuto i cimeli di quel pazzo di Nino, finché, spossato dalla fame e dalla fatica, fosse tornato a vivere in paese. Ci avremmo riso sopra, alla sua follia futurista.


15 settembre 1909.

I grilli cantavano ancora, nonostante il sole fosse tramontato ormai da tempo. Il profumo di Maria mi riempiva le narici, insieme a quello del fieno settembrino appena tagliato. Il sapore del suo bacio era dolce. Noi, stesi tra l'erba, nell'immenso del campo verde e sotto il chiaro di luna. Forse la sposerò, magari a giugno, l'anno prossimo. Bisognerà uccidere il maiale, quello grosso. E inviteremo mezzo paese, il prete, le zie che vengono dal nord, e inviterò anche Nino. Chissà se verrà. Ci si sposa una sola volta, lo voglio al mio matrimonio, il mio migliore amico, a costo di pagargli il viaggio. La lettera che era arrivata ieri non prometteva bene. Aveva perso il lavoro da spazzino e si era messo a raccogliere stracci da rivendere. Nonostante tutto passava ancora le serate al circolo letterario. Aveva ancora la speranza di raggiungere Parigi. Aveva pure iniziato a dipingere. Mi aveva spedito una specie di quadro fatto da lui su di un cartone unto. Una serie di linee orizzontali che, a suo dire, rappresentavano un'automobile in velocità. Io non ci vedevo nulla di più che un sacco di righe curve. Maria sospirò sotto i colpi dei miei baci e alzò il petto procace verso di me. Io, lei e il chiaro di luna.


19 novembre 1909.

La donna singhiozzava. Il suo vestito elegante era scosso dal pianto. I capelli arruffati, come non li avevo mai visti su quella signora raffinata e gli occhi rossi. Raccontava di un'automobile veloce, e della strada per Parigi, di un albero e di uno schianto. Raccontava di suo figlio Nino, di come non sarebbe venuto al mio matrimonio, di come non l'avremmo visto mai più. La velocità, il progresso, la sua ossessione, la sua tomba. Piangevo come non avevo mai pianto prima, nemmeno quando avevo rotto la bicicletta, nemmeno quando era morto Bill. Mai.


27 dicembre 1909.

La casa dormiva ancora. Ci si alza presto in campagna, ma non alle quattro del mattino. Indossai i pantaloni e controllai le tasche. Un piccolo rotolo di soldi mi finì in mano. Sarebbero bastati per le prime spese. Avevo calcolato tutto. Il tragitto a piedi e poi il tempo per raggiungere la mia meta. Sul comodino la lettera per Maria. Estrassi dal cassetto il giornale. Lessi:


1 - Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità.

2 - Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.

3 - La letteratura esaltò fino a oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno.


Il futuro era questo, il mio futuro era questo, la mia meta Milano e poi Parigi. Il testamento spirituale di Nino mi nominava suo erede universale. Erede culturale universale.

Lui non ce l'aveva fatta.

Ma lo avrei ucciso io, quel chiaro di luna!


(fine)



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Carol Bi


Tra grano e girasoli


La luce del sole filtrava come lame infuocate attraverso le foglie dei pioppi. Sentivo il crepitio dei rametti secchi calpestati dalle suole dei sandali che interrompevano a tratti il frinire incessante delle cicale e il suo fiato che sapeva di aglio e morte. Riconobbi il bosco di tigli dall'acacia secolare che costeggiava la stradina polverosa di ghiaia. La polvere si insinuava nelle narici furtiva pizzicandomi le mucose, ma non riuscivo nemmeno a starnutire, nonostante lo stimolo. Subito dopo il boschetto smisurati ettari di appezzamenti di granoturco e splendidi campi di girasole. Era una meravigliosa giornata d'estate, un'esplosione di suoni e colori, una varietà di uccelli entusiasmante, soprattutto per il gran numero di falchi e poiane e il fastidioso ronzare degli insetti per me era pura melodia.

Il dolore alle gambe però era sempre più lancinante e il trascinamento sui sassolini rendeva tutto più insopportabile. Qualche volta chiudevo gli occhi e immaginavo la cucina soleggiata di casa, con mia madre che preparava la spremuta di arance e pompelmi mentre Nena dalla veranda brontolava su quanto la scuola le facesse schifo.

Ogni tanto uno scossone mi riportava sulla stradina polverosa, tra grano e girasoli. A tratti le ginocchia incrostate si sollevavano impedendomi per pochi benedetti istanti di evitare lo sfregamento con i sassolini.

Oramai non riuscivo più a sollevare la testa che ondeggiava a ciondoloni come un burattino. Ecco come dovevo apparire a un osservatore esterno: un vecchio burattino da gettare, con il vestito sgualcito e sporco, i capelli incollati tra loro dal fango e dal sangue ormai rappreso. Una bambola di pezza maleodorante sorretta e trascinata dal suo burattinaio verso l'epilogo della storia.

Lo sentivo ansimare per la fatica. Ero una donna esile, ma trascinarmi a peso morto sarebbe stato uno sforzo per chiunque, a poco servivano le cinghie di cuoio che mi aveva stretto sotto le braccia. Sentivo l'odore del suo sudore che si mescolava al mio diventando un tutt'uno con il profumo delle more selvatiche e dell'acqua salmastra dello stagno dei Manicardi. Non saprei dire per quanto avevamo camminato e non me ne importava. A un tratto ci fermammo, forse per prendere fiato. Avrei voluto tanto alzare la testa ma proprio non ce la facevo. Avrei dovuto correre via ma non erano le cinghie a impedirmelo, bensì le gambe che non rispondevano più ai miei comandi. Riprendemmo la marcia e, guardando in basso, vidi che i sassolini venivano sostituiti dall'erba. Poi ci fermammo nuovamente, mi tolse le cinghie e mi adagiò a terra. Rimase lì a guardarmi per un tempo indefinito borbottando qualcosa come "mi dispiace". Non volevo ascoltare le sue parole che mi giungevano lontane e sgradite, nessun suono riuscivo a percepire, solo un intenso profumo di arance. Finalmente ero in pace, il dolore era scomparso, gli occhi diretti verso la calda e accogliente luce del sole, le gambe poggiate sul terreno molle e una libellula che si posava sul seno sinistro.

In questi anni molte cose sono cambiate: il granoturco è stato sostituito da piantagioni di soia e i girasoli da ettari di vigneti. Molte zone sono state bonificate e coltivate, ma il bosco in cui mi trovo è sempre rimasto lì, intoccabile. Spesso chiedo aiuto e di notte piango, piango così tanto che poi mi riaddormento per lo sfinimento, ma nessuno riesce a udire le mie suppliche.

Mi chiamo Amalia Serraglio e sono scomparsa da casa il 19 luglio del 1976, uccisa e abbandonata il 27 luglio 1981. Avevo solo 19 anni.


(fine)



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Fausto Scatoli


Buon appetito (il giorno in cui il sole divorò la luna)


Il Sole aveva fame.

Non che gli mancasse il cibo: asteroidi, meteore, polvere cosmica e piccoli corpi siderali passavano spesso dalle sue parti e venivano immancabilmente inghiottiti dalle sue fauci. Stavolta, però, aveva più fame del solito; e poi voleva cambiare dieta, visto che l'attuale era in corso da eoni e probabilmente era la causa di tutte quelle sue brutte e dolorose eruzioni cutanee che, una volta rimarginatesi, lasciavano in superficie una serie di orribili macchie.

Macchie solari.

L'ultimo pasto, poi, aveva un sapore così strano che non aveva saputo definire. Sembrava una cosa sintetica, non naturale, e gli aveva creato un subbuglio interiore culminato con una eruzione peggiore del solito. Così si decise e cominciò ad aspirare con forza.


— Phil, se i computer non sono impazziti, Mercurio ha cambiato orbita. Si sta avvicinando al Sole!

— Non dire stronzate, Jim.

— Phil, dannazione, vieni a vedere. Il monitor rilancia le immagini del satellite e il satellite dice che Mercurio sta precipitando verso il Sole…

— Piantala Jim, e calmati. Un pianeta non esce dalla sua orbita all'improvviso.

— Phil! Guarda, Phil…


Mmmm… Niente male davvero.

Il Sole si complimentò con se stesso per la scelta fatta. Quel pianeta si era rivelato un buon bocconcino, diverso dal solito, proprio saporito, e poi… quasi quasi… si sa, l'appetito vien mangiando.

No, no, calma. Un attimo di relax tra una portata e l'altra, almeno il tempo di digerire, altrimenti scoppio.

Non riuscì a trattenere un ruttino.


— Generale, ci dica cos'è accaduto.

— Ma il pianeta è esploso?

— Sono stati i russi? O i cinesi hanno provato un'atomica speciale?

— Signori, basta! E non cominciate con le solite idiozie da giornalisti. Ora il professor Hawthorne cercherà di dare una spiegazione del fatto, al termine potrete porre qualche domanda. A lei la parola, professore.

— Bene. A essere sincero non è molto quel che vi posso dire. Perché anche noi stiamo ancora cercando di capire…

— Professore, ma…

— Silenzio! Hawthorne, continui, la prego.

— L'unica cosa certa è che Mercurio non esiste più. È stato praticamente ingoiato dal Sole, come risucchiato; non abbiamo molti dati perché quasi tutti i satelliti artificiali, poco dopo l'evento, sono saltati, precipitati o dispersi nello spazio. Ciò perché dal Sole si è sprigionata una serie di radiazioni violentissime che ha mandato in tilt anche i radiotelescopi della Terra, quasi… bah, si potrebbe forse paragonare questo effetto a un rutto che a volte si fa dopo aver mangiato, espellendo gas.

Vi fu qualche risatina, a queste parole, e la tensione si allentò un poco.

Hawthorne riprese a parlare: — Anche i telescopi normali hanno difficoltà a osservare a causa di questo gas e del resto avete notato tutti come si sia alzata la temperatura nelle ultime ventiquattro ore. In ogni caso, studiando i filmati in nostro possesso, nei prossimi giorni vi sapremo dire qualcosa di più; per il momento vi basti sapere che non corriamo pericolo immediato. Le orbite di Venere e della Terra non si sono modificate, se non in modo impercettibile, e io non credo che Mercurio sia stato trascinato. Quasi certamente è collassato, finendo poi fuori dall'ellittica solita. La colpa, se così vogliamo chiamarla, non è perciò della nostra stella, ma del pianeta stesso. Ripeto, non corriamo alcun pericolo. E ora chiedete pure, se posso vi rispondo.


— Professore, è la fine del mondo?


Il languore aveva ripreso a farsi sentire.

Il Sole decise che era giunta l'ora di un altro pasto e tornò ad aspirare; con più forza stavolta, perché il successivo pianeta era un po' più distante.


— Non è possibile, non è possibile!

— Che succede Jim? Rispondi, Jim, che succede?


Ancora una volta il Sole non si trattenne.

La Terra sudava. Sudava per il gran caldo, ma sudava anche freddo. La Terra aveva paura, forse per la prima volta nella sua vita.


— Signori, prima che accada il peggio dobbiamo trovare una soluzione, la gente si sta rivoltando, il caos è dietro l'angolo.

— Signor Presidente, gli esperti di tutto il mondo non sono riusciti a trovare, finora, un nesso logico a tutto questo.

— Ma ci sarà pure una spiegazione, dannazione! Undici anni fa Mercurio è finito nel Sole e ora Venere ha fatto la stessa fine. Questa volta gli effetti si sono sentiti: terremoti, alluvioni, temperature pazzesche. E tutti che chiedono quando toccherà a noi.

— Vede, Presidente, solo da un paio d'anni eravamo riusciti ad avere immagini reali, da quando cioè si era dissipata quella specie di nebbia apparsa subito dopo l'impatto di Mercurio. Fino a quel momento abbiamo lavorato su elaborazioni al computer, per altro quasi totalmente esatte.

— E allora?

— Be', fino a qualche giorno fa non c'era nulla di anomalo, poi…

— Poi?

— Venere ha cominciato a uscire dalla sua orbita, avvicinandosi sempre di più al Sole, proprio come Mercurio, fino a esserne inglobato.

— Ma avrete pure una teoria, ci sarà un motivo per cui stanno accadendo queste assurdità.

— Oh sì, ci sono molte teorie, anzi, troppe. Il fatto è che, in realtà, non vi è alcun motivo apparente.

— Eppure dobbiamo fare qualcosa, la gente sta impazzendo e a volte credo di impazzire anch'io.

— Tutto quello che mi sento di suggerire, a nome anche di alcuni miei colleghi è di pregare, signor Presidente.

— Pregare? Hawthorne, ha detto pregare?

— Sì, signor Presidente. Pregare.


La Terra già da tempo piangeva.

Piangeva di dolore, per la perdita dei pianeti suoi fratelli, ma il giorno in cui perse la sorella, il giorno in cui il Sole divorò la Luna, pianse soprattutto di terrore, ben sapendo che il proprio turno era imminente.


Il cibo a disposizione era sempre più lontano, perciò il Sole era costretto a sforzi ogni volta maggiori. In fondo era un bene, perché i pianeti lontani erano freddi, gelidi, mentre a lui il cibo piaceva caldo e ben cotto. Avvicinandosi lentamente avevano tutto il tempo di rosolarsi a puntino.


Si sentiva sazio, ora. In poco tempo aveva ingoiato una bella sfilza di pianeti e asteroidi e forse era giunta l'ora di farsi una bella dormita, tanto più che nelle vicinanze non vi erano altri corpi celesti così appetibili e sarebbe dovuto tornare alla dieta precedente.

No, si disse, meglio andare in letargo per un po'. Al momento opportuno si sarebbe risvegliato, magari in un'altra zona dell'immenso spazio siderale, dove avrebbe potuto nuovamente saziarsi se gli fosse tornato quel tremendo appetito.

Per ora, meglio dormire.

Sbadigliò.

Implose… e si ritirò nel suo buco nero.


(fine)



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Laura Traverso


Amnesia


Era dolente in ogni parte del corpo. Non riusciva quasi a muoversi, provò ad aprire gli occhi ma non cambiò niente. L'oscurità era totale. Fu colta da un brivido di terrore, una sorta di scossa elettrica attraversò tutto il suo essere scuotendola da cima a fondo. Ma dove era? Cos'era successo? Chi l'aveva portata lì? Quell'odore poi, che strano? Sembrava che nelle vicinanze ci fosse qualcosa in putrefazione, ma cosa? Si sentiva soffocare. Cercò di trattenere i conati di vomito. Non ci riuscì, anche il suo stomaco si ribellava. Dalla sua bocca uscirono di getto grosse quantità di cibo.

Adesso era anche tutta impiastricciata di vomito acquoso. La situazione andava sempre più peggiorando, l'ansia era in crescente aumento. Anche il suo cuore sembrava impazzito. I battiti erano troppo accelerati, li sentiva rimbombare attraverso la cassa toracica. O forse era solo un'impressione.

Forse era soltanto la situazione assurda in cui si trovava a esaltare il tutto, la paura dilatava ogni cosa: era avvolta da un'impenetrabile oscurità, nell'impossibilità di muoversi e costretta a respirare miasmi insopportabili. In più aveva freddo, molto freddo.

Cercò di ripulirsi dal vomito appena versato. Le sue mani raggiunsero la bocca con l'intento di eliminare i residui di cibo, anche le sue mani erano sporche e bagnate.

L'odore acido del vomito appena emesso prevaleva sul resto. Il fetore intenso rendeva l'aria pesante e irrespirabile. E lei, in preda a una crisi isterica, cominciò ad ispezionare minuziosamente il proprio corpo. I piedi erano infilati in un paio di scarpe che parevano essere di cartone dal tanto che erano fradice d'acqua, pensò bene di sfilarsele, restò con i piedi scoperti: le parve di stare meglio, si sentì risollevata ad averli liberati dal quel pediluvio infernale. Si toccò le gambe, sembrava che neppure le appartenessero tanto erano irrigidite dal freddo, poi cominciò a salire verso il petto.

I battiti del suo cuore, così fortemente martellanti, la terrorizzarono ancora di più. Le mani tremavano violentemente e non riuscivano a fermarsi. Sentì sotto le dita i propri abiti, erano umidi e strappati. Salì ancora ispezionandosi, raggiunse finalmente la testa. Chi era? Di chi era quel volto? Toccò con ansia ogni tratto di ciò che avvertiva; ispezionò gli occhi, le labbra, il naso e quei capelli così folti, ricci, lunghi e bagnati.

Non riusciva proprio a darsi un'identità. Cercava disperatamente di capire, di dare un senso alla situazione, ma non riusciva proprio a venirne a capo. Le pareva di scivolare in un baratro sempre più nero e profondo, molto più scuro e spaventoso della reale oscurità che la circondava.

Cercò di calmarsi e di fare chiarezza, di ricordare, ma niente, la memoria era bloccata. L'unica cosa che percepiva era il presente, e il presente era terrificante. I sensi erano all'erta come quelli di un'animale braccato. Cominciò a sentire dei rumori in lontananza, mise a fuoco con difficoltà e comprese che si trattava dell'ululato di un cane. Sembrava disperato e pieno di dolore. Ciò la rassicurò un poco, le parve in quel momento di essere in compagnia di qualcuno che soffriva come lei. Calde lacrime iniziarono a bagnarle il volto. Quel corpo, il suo corpo cominciava a reagire. Si disse ​ che era un buon segno. Cercò ancora di muoversi, di allungare le gambe, ma ogni movimento era una pena, un altro dolore aggiunto. Il tremito era inarrestabile e continuava a essere irrigidita dal freddo e dalla paura. Nel silenzio, quasi totale, le parve di udire un sibilo. Si spaventò ancora di più ma poi comprese cos'era. Era il suo respiro che fuoriusciva strozzato dalle sue labbra. Era l'affanno che le stringeva la gola a farle emettere quel suono soffocato. Deglutì e cercò di respirare con più regolarità, ciò la calmò un poco.

Forse è vero che più di tanto è impossibile sopportare. Da un certo punto in poi si muore oppure si sopravvive. I segnali vitali che il suo corpo trasmetteva erano amplificati e anormali, ma c'erano. Sperava solo di non soccombere, si augurava che il suo cuore reggesse a tutto quanto le stava accadendo, all'incubo in atto. Dopo aver controllato il respiro, con inspirazioni profonde ed espirazioni totali al limite dell'apnea, poco alla volta sopraggiunse la calma. Gli occhi smisero di versare liquidi, il tremore alle mani si fece più lieve, persino il corpo riuscì a trattenere un po' di calore e il buio che regnava tutto attorno le parve meno spaventoso.

Il latrato del cane giunto da lontano la rassicurò ancora di più, si sentì un po' meno sola e disperata. Finalmente l'oblio fu totale. Si addormentò.


(fine)


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BraviAutori.it gestisce numerose statistiche indicizzate, recensioni alle opere online, schede libri che gli utenti possono pubblicare, relazioni tra opere mediante tag, un comodo segnalibro, un forum, una chat e una messaggistica privata.

Esiste poi un potente e versatile correttore di testi che, grazie alla ricerca delle ripetizioni, alla pulizia e alle analisi che può effettuare sui testi, vi cambierà la vita!

Ricordate: "Bravi" non significa solo "capaci di fare", ma è anche (e soprattutto) sinonimo di onesti e di coraggiosi. Siate bravi anche voi, uscite fieramente dal cassetto e misuratevi con il resto del mondo (e così magari dimostrerete che bravi nel farlo, nella prima accezione del termine, lo siete davvero).

L'iscrizione al portale BraviAutori.it è totalmente libera, gratuita e illimitata!

Ci piace anche evidenziare che questo è un sito Spot Free, ovvero durante tutta la navigazione non troverete mai né pubblicità esterne né banner né fastidiosi popup. Qui si fanno solo arte e letteratura!


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(* senza distinzione di genere)



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