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E
Regolamento delle Gare…
Domenico Gigante
Namio Intile
Alberto Marcolli
Stefano M.
Temistocle
Francesco Pino
Marino Maiorino
Andr60
Roberto Bonfanti
Nunzio Campanelli
Athosg
Giovanni P.
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presenta


La grandinata (19 luglio 1943)

e gli altri racconti


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ebook della Gara letteraria stagionale di primavera 2022


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Ebook della Gara letteraria stagionale di primavera 2022


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: anziano alla finestra.


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


Nota: la classifica qui pubblicata fa riferimento al periodo in cui si è svolto questo concorso. Se dalla pubblicazione dell'ebook a oggi qualche iscritto al sito ha cancellato il proprio account, le graduatorie odierne potrebbero differire.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara letteraria saranno pubblicati in un  ebook gratuito.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Domenico Gigante

(vincitore della Gara di primavera, 2022)


La grandinata (19 luglio 1943)


Consolate, consolate il mio popolo,

dice il vostro Dio.

Parlate al cuore di Gerusalemme

e gridatele

che è finita la sua schiavitù,

è stata scontata la sua iniquità,

perché ha ricevuto dalla mano del Signore

doppio castigo per tutti i suoi peccati

(Isaia, 40, 1-2)


— Sta grandinando!

Appollaiato sul davanzale, un uomo sbirciava fuori dalla finestra. Avrà avuto quasi settant'anni, una barba folta e ben curata, gli occhi neri e freddi. Era molto alto, ma curvo. Vestiva elegantemente e ai piedi aveva delle ciabatte di pelle, che facevano uno strano fruscio strusciando per terra.

Dietro di lui troneggiava una spaziosa scrivania dall'aria solida e austera. A questa severità faceva da contrasto la frivolezza di una abat-jour in stile liberty a foggia d'albero con un serpente attorcigliato intorno al tronco. La lampada era accesa e spandeva una luce fioca, che disegnava rami e tenere foglioline in vetro colorato. Accovacciato ai piedi dell'albero un cane dall'aria mite, che fungeva da calamaio.

Ancora più indietro, nella penombra di un angolo, un altro personaggio giaceva sprofondato in una poltrona chester. Anche lui vestito elegantemente, appariva molto più giovane del primo. Portava dei sottili baffi neri e i capelli lisci ben pettinati da un lato. Le gambe erano accavallate e batteva con impazienza un pacchetto di sigarette sul ginocchio.

La stanza era molto ampia e con il soffitto alto. Però risultava spoglia ed essenziale. Se si eccettua, infatti, un piccolo comò di nessun valore, una pesante libreria che occupava l'intera parete vicino alla porta a vetri e, naturalmente, la poltrona e la scrivania, non c'erano altri mobili. Sui muri si riuscivano a intravedere solo tre stampe di gusto floreale messe in fila.

L'uomo sulla poltrona si accese una sigaretta, tirò una grossa boccata, afferrò un posacenere sulla scrivania e cominciò a far oscillare la sigaretta stretta tra le due dita: — Mi irrita moltissimo dover rimanere qui con tutto quello che ho da fare! — sentenziò da dietro il fumo — Del resto in piena estate e con il sole che c'era stamane non potevo immaginare che sarei rimasto bloccato per la pioggia.tirò un'altra grossa boccata dalla sigaretta — Mi aspettano al ministero. C'è bisogno di me. — concluse con un'aria di importanza mal celata.

Il vecchio davanti alla finestra non sembrava affatto interessato a questo sfogo: — Sono due ore che piove. — disse con tutta calma, come stesse annotando una vicenda curiosa. Continuava a scrutare fuori dalla finestra con aria divertita, fissando un punto dall'altro lato della strada: un tubo di scolo stava sputando acqua come un lavandino, creando un ruscello che scivolava giù a macchia d'olio dal marciapiede e trascinava con sé i chicchi di grandine fino al tombino.

Erano appena passate le tre del pomeriggio, ma sembrava già calata la sera: fitta e senza luna.

Il vecchio si allontanò dalla finestra e fece qualche passo nell'oscurità della stanza. La grigia luce della finestra dipingeva sul suo volto lineamenti estremamente dolci e sereni.

Il giovane tossì per richiamare l'attenzione del suo interlocutore, e porre fine a un silenzio imbarazzante. Due occhi luminosi attraversarono la stanza e si posarono sull'uomo in poltrona, creando in lui un certo turbamento.

— Perché devi andare al ministero? — chiese l'anziano personaggio.

— Lo sai che sono sbarcati giù in Sicilia?

— Certo che lo so! Non è un segreto.

— Pare che siano stati aiutati dalla Mafia.

— Non mi sorprende! Lo fecero anche con Garibaldi. — chiosò il vecchio con una punta di sarcasmo.

Il giovane annuì in maniera compiaciuta, come se si fosse aspettato quella risposta ironica. — È stato necessario richiamare le riserve. Si è aperto un nuovo fronte. Però questa volta lo abbiamo in casa. Sono molto forti. Risaliranno in fretta lo stivale. Tra qualche settimana saranno qui a Roma.

Il vecchio non fece una piega: — Bene! Li accoglieremo con gli onori dovuti ai vincitori, come abbiamo sempre fatto dai tempi degli imperatori.

— Vedo che non ti spaventa l'idea di essere invaso da questi nuovi barbari!

— Certo non saranno peggio di quelli che se ne vanno! — disse l'anziano da dietro la scrivania — Comunque la scelta è fra loro e i Tedeschi. Sempre che si possa scegliere.si interruppe un attimo e assunse un'aria interrogativa — Penso che anche tu preferisca gli Alleati, no?

Il giovanotto annuì e fece una breve pausa per un'altra tirata di fumo: — In ogni caso bisognerà organizzarsi per ogni evenienza. La guerra per noi è perduta, ma fino a quando non si saprà chi l'ha vinta conviene cercare amici da entrambe le parti.

Il vecchio sogghignò: — La logica della bilancia: uguali pesi, uguali misure; almeno fino alla resa dei conti. Come pensate di riuscire a tenere buoni i due contendenti?

— I Tedeschi non si fidano di noi, ma non possono permettersi qualche colpo di mano. Gli conviene ancora sperare almeno nella nostra neutralità. Il Re, invece, ha contatti segreti con gli Alleati. Confida se non altro di riuscire a evitare qualche follia. Roma potrebbe fare la fine di Londra.

— Non oseranno farlo!un senso di angoscia e di ira fece fremere il corpo del vecchio.

— Sì che oseranno farlo! A meno che non riusciremo ad accontentarli.

— E che cosa vogliono da noi?

— Chiedono la testa di qualcuno.

Un'espressione drammatica e interrogativa si dipinse su quel volto, prima così sereno: — Chi?

Il giovane attese un attimo prima di replicare, come se temesse che la risposta potesse materializzarsi lì tra loro da un momento all'altro: — Ciano si è messo d'accordo con il Re. Hanno coinvolto tutti nel loro progetto. Alla prossima riunione del Gran Consiglio voteranno la sfiducia e lo accuseranno di averci trascinato in una guerra impossibile, mettendo in ginocchio il paese. Verrà arrestato e processato. Forse giustiziato.

Il vecchio si accasciò sulla sedia, scuotendo la testa in senso di disapprovazione: — Lui già lo sa?

— Credo di sì! — fu la risposta convinta — Qualche indiscrezione ha superato la stretta sorveglianza e deve essere giunta alle sue orecchie. Comunque, se non è uno stupido, lo avrà intuito che non c'è più speranza per lui.

— Ha ancora il comando. Non temete che lo usi contro di voi per salvarsi?

— Solo ufficialmente. In realtà è già tutto nelle mani di Badoglio. Ogni suo ordine, ogni sua direttiva passa a mala pena la porta dello studio. Ciano filtra tutto in modo tale che non possa nuocere. Lui si fida ancora del genero, non pensa sia implicato nel complotto. Almeno così crediamo.

— Avete organizzato tutto alla perfezione. Però potrebbe scappare.

— Meglio! Poche ore per poter annunciare al paese il suo tradimento e poi lo cattureremmo, ormai screditato agli occhi di tutti. Ci renderebbe la cosa più facile.

— Non lo farà! Si lascerà ammazzare, ma non vi darà questa soddisfazione.

— Non ci speriamo. L'importante è salvarsi.

Il vecchio si rialzò e tornò ad appoggiarsi al davanzale. Non smetteva ancora di piovere. Continuava a veder scendere fitte le gocce. Però il vento era scemato. Il temporale sarebbe durato ancora poco.

Il volto rugoso prese a sogghignare attraverso il vetro: — Pagliacci! Lo state sacrificando beatamente. Lui è il primo dei colpevoli, non c'è dubbio. La colpa, però, è un bene che si accumula, affinché all'occorrenza possa essere spartito.

Tacque come per raccogliere le idee: — Voi gerarchi siete colpevoli quanto lui. Fantocci alienati e limitati mentalmente, ma dotati di un'autorità quasi tirannica. Siete stati voi a volere la guerra per soddisfare l'élite militare e industriale. Certo anche lui ha voluto tutto questo, per carità! Però voi avevate il potere e il dovere di controllare la situazione.

"Eravamo alleati naturali di Francia e Inghilterra. Purtroppo, però, alcuni dei tuoi ottusi e pusillanimi colleghi hanno stabilito che l'aggressività nazista si addiceva di più ai nostri sogni imperiali. Tutti a consigliarlo per il meglio, a dargli garanzie sulla buona riuscita del progetto.

"Adesso serve qualcuno da sacrificare e non vi è sembrato vero di averlo sempre avuto davanti agli occhi. Deve essere piacevole come levarsi una macchia dall'anima. State attenti, però, perché lo spettro di Cesare vi perseguiterà. È un fantasma che porta male e fa molte vittime.

Il bersaglio di questa invettiva si accese un'altra sigaretta. La fiamma del cerino tremolò davanti al suo viso, rendendolo ben visibile per la prima volta dall'inizio della conversazione. L'interlocutore usò quella fioca luce per carpire l'effetto prodotto dalle sue parole. Si stupì nel percepire un'espressione impassibile, più che altro leggermente infastidita.

Il giovane gettò fuori il fumo, appoggiò la sua sigaretta nel posacenere, lasciandola consumare, e si alzò dalla poltrona: — Credi di avermi ferito in questo modo? Di aver penetrato questa corteccia di disillusione col tuo possente gladio? — proclamò, facendo un gesto pomposo e ridicolo da attore — Invece era esattamente quello che mi aspettavo che dicessi: la stessa retorica che hai sempre usato. Ti conosco troppo bene, papà, per non sapere cosa mi aspettava. Sei una vecchia pentola di ceramica che perde sempre di più il suo smalto, la sua fantasia. Presto o tardi ti sostituiranno con pentole d'acciaio. Non saresti capace di suscitare in me un minimo di umiltà (o di vergogna, se preferisci) neanche se mi accusassi della morte della mamma.

Il vecchio restò sorpreso: — Mi appare incredibile ciò che dici; o meglio, ciò che rappresenti. La vanità è solo l'atteggiamento esteriore, i fronzoli di un bel vestito che si chiama superbia. Tu sembri detenere entrambi questi vizi in sommo grado, misti a una smisurata ambizione. Approfitti di ogni opportunità e, tenuto conto dell'incertezza costante che vi è nel riconoscere le buone occasioni, appari anche molto fortunato o furbo.

— Ti ringrazio per questo splendido elogio. — rise beffardo il giovane.

— Già tu pensi che sia un encomio, vero?

Si interruppe un attimo a riflettere.

— Sai cosa non capisco? Mi sono sempre stupito nel constatare che l'uomo è fiero e orgoglioso. Però non ne vedo il motivo! Posso accettare che sia cinico, mentitore, adulatore, intrallazzatore. In fondo siamo degli esseri limitati, relegati dal buon Dio in questo mondo vagamente allucinante e mostruosamente crudele. Per sopravvivere è lecito fare questo e altro. Ero convinto, però, che il senso del peccato, della colpa, fosse comune a ogni individuo (anche se privo di scrupoli) e gli impedisse di vantarsi e sentirsi compiaciuto per i suoi tradimenti e le sue atrocità. Mi sbagliavo!

Il vecchio abbassò la testa in segno di rassegnazione: un teatrale ammaina bandiera. Poi guardò fisso il suo interlocutore e concluse: — Evviva l'uomo moderno, così intelligente da sottovalutarsi, e così sensato da rinnegare l'eroismo. Evviva quest'uomo vincitore nella dura lotta contro la coscienza e la morale.

Il giovane rise sarcastico: — Come sei professore, papà. Ti è mancato sempre lo spirito di fare qualcosa di originale. A te, in fondo, la dittatura è stata più utile di quanto non riesci ad ammettere. Tu sei sempre stato un poeta accademico. Attingevi a piene mani dal passato. Riempivi la brocca della tua ispirazione alla fonte antica e ne versavi il contenuto su un foglio, colmandolo di anacronismi e di vuotaggini. Era incredibile come non avessi niente da dire di profondo, tranne che dimostrare la tua maestria nell'estetica del verso.

"Certo! Un'Italietta piccola e insignificante non ti sarebbe servita allo scopo. Avevi bisogno di grandi uomini e di grandi imprese da cantare. Ed ecco arrivare questo movimento che si proponeva di fare del nostro paese un impero e necessitava di magniloquenza per la sua propaganda. Tu hai colto solo l'occasione. Hai trasformato mediocri militari in osannati generali, uomini di Stato e prostitute in tanti re e dame a simposio. Sognavi di fare il Poliziano alla corte medicea.

"Anche a te, in fondo, non piaceva. Anzi riprovavi con tutte le tue forze l'uso della violenza. Dicevi che l'arte non poteva germogliare in questo clima prepotente. Lo dicevi, però, svogliatamente, mentre continuavi a scrivere i tuoi versi.

"Così tu esaltavi loro e loro esaltavano te. Hanno celebrato il tuo giubileo artistico e ti hanno dato una cattedra all'università. Ti hanno detto che eri un grande poeta e tu ci hai creduto. Come vedi il tuo scopo lo hai raggiunto in modo altrettanto vile, anche se meno riprovevole.

Il vecchio si sentì mancare. Il battito cardiaco si dimezzò e gli occhi divennero lucidi. Tornò a sedersi, si appoggiò coi gomiti alla scrivania e mise il volto tra le mani. Cominciava a spiovere, l'acqua cadeva meno intensa e fitta. C'era un mondo fuori in attesa di una serata stellata. Tutto questo, però, non aveva importanza per quell'individuo immobile e malato (la faccia ingiallita e le dita sporche di nicotina) che si specchiava nel vetro della sua scrivania, cercando di raccogliere le idee.

Apparentemente tutto quello che suo figlio aveva detto era vero. Lui aveva uno spirito servile: aggressivo solo con chi non poteva nuocergli. Questo non era molto onesto e virile, ma lo aveva sempre riconosciuto.

In quel momento gli tornò alla mente la morte di D'Annunzio. Gli avevano chiesto di preparare un elogio funebre da pubblicare sui giornali. Si mise a tavolino una sera e scrisse qualcosa che assomigliava molto più a un atto di accusa e di risentimento.

Il Vate disprezzava i poeti accademici come lui, che ignoravano la sensualità della natura e non sentivano assolutamente il fluire dei versi nel sangue. Egli, invece, provava invidia per quel poeta condottiero, perché non doveva servire per essere riverito. Gli onori gli venivano tributati anche se si dimostrava ostile al Regime. Tutto ciò era insopportabile per uno spirito libero costretto a un lavoro umile di poetucolo. Vigliaccamente rinunciò all'incarico e al privilegio.

Il vecchio tirò su il capo e cominciò a guardare nel vuoto con un'espressione estatica, come se stesse cogliendo una qualche sorprendente immagine mistica, che dipanava di fronte a lui una vita intera: — Ricordo un anno. Era il 1911. Trent'anni fa ero ancora giovane. Forse mi ci sentivo soltanto. C'era l'Esposizione Universale, giù a Valle Giulia, con i padiglioni delle varie nazioni.

"Quello austriaco era stato progettato da Hoffmann. Era un capolavoro, una novità per noi che eravamo abituati al classicismo di Koch e Piacentini: leggero, raffinato, essenziale, un piccolo gioiello, che custodiva i dipinti della nuova scuola viennese, lo Jugenstil, il Secessionismo. Vidi con meraviglia come un nuovo spirito e un nuovo linguaggio animava quella natura: un fitto bosco malinconico e crepuscolare; volti di donna che emergevano dall'oro luminoso; suggestioni orientali. Una sincera lievità e semplicità era unita a un sentimento profondo, che poteva essere l'amore come l'infelicità o la paura.

"Me ne innamorai. Non riuscivo a capirne l'intima essenza, perché io non ero capace di provare o scrivere niente di simile. A quel tempo, però, sentii che volevo provarci. Entrare in quella cultura e creare qualcosa di nuovo e di originale.

"Non ci riuscii, ma fui comunque io a vincere; almeno apparentemente. Mi ritrovai apprezzato e stimato poeta, mentre geni sconosciuti venivano respinti da un'élite accademica piena di cultura, ma troppo provinciale. Il nuovo veniva osteggiato, perché i giovani artisti erano considerati ignoranti; e forse questo era vero.

"Per un momento, però, credetti che quest'arte potesse veramente prosperare in questo paese mentalmente immobile. La città si riempì improvvisamente di cartelloni e vetrine floreali, di cinema e caffè alla moda, di nuove accademie e circoli. Fu, però, solo un attimo. Neanche un decennio dopo era tutto scomparso. Rimasero solo una miriade di graziosi e inutili gingilli a decorare i nostri mobili. Mentre io continuavo a trionfare nella mia mediocrità.

"Come vedi il mio ruolo non l'ho mai accettato in modo passivo. Se, però, uno è arido dentro non può far sgorgare fiumi di bellezza. Tutto il sapere di questo mondo non serve a farti diventare una persona sensibile. Dovevo nascere, come hai detto tu, nel '400. Sarei stato un buon umanista nel bene e nel male. Ne avevo le virtù: capacità retorica, buon gusto, ottima erudizione classica; e le debolezze: superbia, gelosia, meschinità. Purtroppo mi sono trovato in un'epoca che non sapeva apprezzare tutto questo e sono diventato un insignificante…

L'anziano personaggio non riuscì a terminare il discorso. Non era neanche in grado di dare un senso ai suoi ricordi. Non sapeva di preciso se voleva giustificarsi o commiserarsi. Continuò a bofonchiare parole senza senso con un fil di voce, perché il respiro gli era tolto da quell'ondata di emozioni.

Due braccia lo afferrarono per le spalle e lo scossero: — Papà, che ti succede? Stai bene?il vecchio si voltò a guardare il figlio piegato su di lui. Lo sguardo vuoto del padre intenerì fortemente il giovane — Stavi piangendo?

Il padre si ridestò e si strofinò gli occhi. Si rese conto allora che delle lacrime gli erano colate giù fino agli angoli della bocca: ne sentiva il sapore.

— Piangevi? — insistette il figlio.

— No, no! È stato un malessere passeggero! — rispose il vecchio, provando a rassicurarlo in modo poco convincente.

— Sei pallido, hai il respiro affannato. Vuoi che chiamo un medico?

— Sto bene! Non c'è problema.

— Sei proprio un lenzuolo. — disse il giovane prendendo la testa del padre tra le mani e tenendola dalla nuca con dolcezza. I due si guardarono affettuosamente e si sorrisero.

— Passerà, non ti preoccupare.

Suonò il campanello.

— Chi sarà? Non aspetto nessuno!

— Vuoi che vada ad aprire io?

— No! Rimani pure qui.

Il vecchio si alzò e si diresse barcollante fino alla porta a vetri che chiudeva la stanza. L'aprì e si addentrò in un corridoio ampio nella semi oscurità.

La solitudine e il silenzio della stanza misero una strana angoscia nell'animo del giovane. Ripensò a un sogno che aveva fatto in quei giorni e il solo pensiero gli mise addosso una tristezza inusuale, che sembrava piegare la sua coscienza. Sentiva un vago senso di nausea, che saliva su per lo stomaco fino alla gola. Il vecchio ritornò dopo qualche minuto.

— Chi era?volle sapere il giovane per liberarsi da quella sensazione.

— La signora Di Salvo. Mi ha chiesto di spegnere le luci per via del coprifuoco. Adesso che il marito è in guerra fa lei il capo stabile. È diventata una persona così sgradevole da quando non ha più sue notizie. Ci tratta tutti come se fossimo uccelli del malaugurio. Speriamo che torni presto il marito. Lui era più simpatico… più cortese.

— Non tornerà! — disse laconico il giovane.

— Che intendi dire? — fu la replica allarmata.

— È morto. Io lo so già da una settimana.

Il vecchio abbassò il capo in un gesto misto di sorpresa e angoscia: — Cosa aspetti a dirlo alla moglie?

— Lo dovrei fare, ma non è facile! — Si passò una mano sugli occhi e se li strofinò, come un orologiaio che, avendo passato la giornata tra vitine e ingranaggi piccoli e sottili, a sera sentisse gli occhi troppo stanchi e non vedesse l'ora di chiuderli — Quello che sono costretto a fare, papà, è spiacevole… è infame!

Uno sguardo comprensivo si posò su di lui: — Non ti devi giustificare!

— Non voglio giustificarmi, sento solo il bisogno di spiegare a qualcuno ciò che sto provando, perché, vedi, io mi sento uno sconfitto. Non sul piano politico, ma sul piano umano. Non è il tradimento a preoccuparmi, perché alla fine della guerra tutti quanti noi dirigenti del partito scompariremo. Alcuni dicono di no. Però io sono certo che siamo troppo screditati per continuare ad avere un ruolo in futuro. Oggi sacrifichiamo una persona, un simbolo, mentre gli altri cento colpevoli rimarranno al loro posto. È una necessità: serviamo ancora a qualcosa. Il paese ha ancora bisogno di noi. Non vi è, però, in me alcuna pretesa di salvezza. Poi, un domani, verrà il mio turno e giustizia sarà fatta. Come vedi cerco solo di guadagnare tempo.

"Il problema, però, è quello che lasceremo. Non saremo mai in grado di dare una dignità al nostro paese. Ci conquisteranno — Tedeschi, Americani — e non ci tratteranno da sconfitti, ma da schiavi. Per loro siamo stati dei vili doppiogiochisti e come tali verremo considerati. Useranno le nostre città come campi di battaglia. Prenderanno con la forza i nostri uomini e li costringeranno a combattere l'uno contro l'altro. Si serviranno di noi come ostaggi o come bersagli. Ci strapperanno le nostre terre, ci affameranno e non avranno alcun rispetto per le nostre famiglie.

"Quando finalmente se ne andranno, resteranno solo le macerie: un paese sterile, in ginocchio; il nostro sangue sparso a terra e prosciugato; migliaia di relitti umani senza forza… senza coscienza. Con questo esercito di disperati bisognerà ricominciare. E tutto questo sarà colpa della nostra idiozia. Sarà anche colpa mia! Non è facile vivere con questa verità gravante sulle spalle. Immagina solo l'orrore che provo ogni sera. È terribile! Senza requie! Senza speranza!

Il giovane si coprì nuovamente gli occhi per impedirsi di guardare. Sentiva freddo come se le sue funzioni vitali si stessero arrestando. Fu scosso da un brivido. Percepì distintamente il solletico prodotto da una goccia di sudore che colava dal collo giù nella camicia. Questa sensazione lo distrasse per un momento dai suoi pensieri. Tirò dentro l'aria nei polmoni e la trattenne per qualche secondo. Quando la gettò fuori si sentì più rilassato e sereno. Era andato via anche quel senso di nausea che negli ultimi minuti lo aveva assalito.

Erano ormai quasi le quattro del pomeriggio.

Il dipinto di una fanciulla, che si sporge sorridente da un piccolo terrazzino floreale con la balaustra in ferro battuto, fu colpito da un raggio di sole insinuatosi attraverso i vetri della finestra. Le nuvole scomparivano definitivamente, lasciando spazio a un cielo azzurro: attraente e vitale. Qualcosa cambiava anche nell'aspetto della strada. Un gruppetto di bambine comparve da un portone. Tutto questo penetrava in qualche modo nella stanza, ma non trovava più persone vive ad accoglierlo.

— Vorrei che tu andassi via da Roma… che ti trasferissi in campagna dagli zii. Non so per quanto tempo, ma staresti più sicuro. Ho paura di perderti, papà!le parole del giovane suonavano come una supplica. Ci sono dei momenti in cui non si riesce a distinguere l'amore dalla paura della solitudine.

— Come vuoi tu. — rispose il vecchio.

Il figlio si avvicinò al padre, che era tornato a scrutare la via e i traffici che si rianimavano. Rimasero così, spalla a spalla, guardando fuori della finestra per svariati minuti.

La luce aveva inondato la città. L'aria era piacevole, fresca, anche se la temperatura era di nuovo alta. Il giovane osservava con curiosa ingenuità un gabbiano che ad ali spiegate passava basso sui tetti e, sfilando per un attimo davanti al sole, riportava l'ombra nella stanza.

Si intese, allora, il rombo di più aerei non lontani. Si intravide la loro sagoma che scendeva sulla città.

— Papà, presto, allontaniamoci dalla finestra!

Il vecchio guardò spaventato il figlio. — Sono loro?

Il giovane annuì.

Fu questione di pochi istanti e si sentì un boato impressionante. Poi altri tutti di seguito. La terra tremò. Un lenzuolo appeso a qualche finestra o su un terrazzo volò via a causa del vuoto d'aria e si adagiò leggero sulla strada. Il vecchio, caduto per terra, fu aiutato a rialzarsi dal figlio e tornò ad affacciarsi alla finestra. Le sirene d'allarme suonavano all'impazzata per tutta la città. Una donna dall'aspetto terrorizzato guardava verso il fondo della via una densa nuvola di polvere che si alzava.

Un bambino, seduto sul marciapiede, piangeva.

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Moscioni, Romualdo. Roma - Esposizione 1911 - Padiglione dell'Austria. 1911. Fondo Becchetti, ICCD. Il fulcro del padiglione austriaco all'Esposizione Internazionale di Roma del 1911 è la sala Klimt, spesso citata nella stampa come "tempietto" o "abside" per la sua forma semicircolare e per l'aura quasi sacrale. Al suo interno, Klimt presentò otto dipinti e quattro disegni, tra ritratti, paesaggi, soggetti allegorici. Fra questi il celebre dipinto Il bacio.


(fine)



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Namio Intile


La colonna Diamanti


In Africa.

La guerra lontana si avvicinava sul piroscafo diretto a Massaua, sul finire di quell'agosto del trentacinque. Ludovico e Manfredi ebbero tutto il tempo di riflettere su quel che li attendeva, e sul perché la possente Ananke li avesse spinti fino ai confini della sperduta terra di Punt.

Attraversarono lo stretto braccio di mare sovrastato dalle dune accecanti del Sinai scrutando curiosi i gesti concitati dei piloti arabi e le tuniche luminose di arcani cavalieri cammellati librarsi placide lungo i crinali come vele nelle acque agitate di un mare giallo zolfo, tra il ronzio fastidioso delle mosche e la calura opprimente del deserto.

Navigarono per i laghi Amari fino a Ismailia, scintillante di cupole bianche e azzurre, dove il canto melodioso dei muezzin fluiva dall'alto dei minareti, denso nell'aria come la corrente nel fiume.

E infine il Mar Rosso, annunziato dal colore purpureo della barriera corallina appena sotto il pelo verde del mare e dalla trasparenza del cielo, mentre l'oceano si frangeva sulla sabbia ocra in una eterna lotta senza sconfitti né vincitori.

Giunsero in Eritrea il ventotto di agosto del 1935. A tutti appariva pacifico come il destino dell'Italia in Africa Orientale presto si sarebbe compiuto. Sia a Manfredi quanto a Ludovico fu chiaro che tra le montagne dell'acrocoro etiopico i loro dubbi sarebbero presto svaniti o divenuti realtà.

Massaua era angusta quanto il suo porto, inadatto a un traffico d'emergenza: una città assopita e ipnotizzata dal sole onnipotente dell'equatore, con la sabbia finissima del deserto dei Dancali a spingersi ovunque sospinta da un monsone che non è il Monsone a rivivere nel cielo in sottili strisce di vermiglio, porpora e vermiglione.

Le operazioni di sbarco si protrassero per dei giorni: in cui le truppe furono costrette a restare a bordo ostaggio del caldo equatoriale e di lamiere arroventate. Parimenti la vita in colonia si rivelò languida, complice l'estate senza fine della latitudine zero, con giornate della stessa lunghezza a offrire l'idea dell'infinito, e l'attitudine della popolazione al riposo piuttosto che al lavoro. Unico svago le acque cristalline e le donne splendide, né arabe né negre, frutto di chissà quali antichi incroci tra la miriade di razze avvicendatesi in quei posti antichi quanto il tempo.

Ludovico e Manfredi, entrambi con il grado di centurione della Milizia, furono posti al comando di due diverse compagnie del medesimo battaglione: anelavano la guerra, ma la guerra per il momento si stava combattendo altrove, sui tavoli delle cancellerie di Roma, Parigi e Londra, tra assurdi scambi di favori, tra avance e placet "l'Abissinia in cambio dell'Africa del Nord-Ovest", tentativi di accordo e minacce di annessione.

— Vivere significa errare. — rifletté Manfredi un giorno, alla fine della lettura del Tempo, citando Goethe — Sarebbe più onesto attaccare subito senza timore delle conseguenze, piuttosto che rimanere mesi inerti a cercare un compromesso. Non si fanno le rivoluzioni con la diplomazia. — sostenne.

— Forse il fascismo non è una vera rivoluzione. — ammise Ludovico, quasi senza riflettere su ciò che diceva.

— La faremo diventare noi una vera rivoluzione. La rivoluzione necessita di sangue. — aggiunse tetro Manfredi modulando il tono della voce.

Bighellonarono quanto rimaneva di quell'estate equatoriale per le sonnolente vie di Massaua prima e dell'Asmara dopo, avviliti dalla noia della vita di caserma, con l'unico diversivo di gridare ordini ai fieri ascari eritrei, gli antichi e valorosi Basci Bazuk di Sangiak Hassan. E ogni giorno navi colme di materiali continuavano a rovesciare sulle banchine il contenuto delle loro profonde viscere d'acciaio: camion, cannoni, antiaerea, munizioni, viveri, e uomini destinati a edificare l'Impero. Il sogno di grandezza pace e prosperità scomparso dal suolo italico dai tempi dell'imperatore filosofo sembrava destinato a divenire realtà e a passare per quello sperduto lembo di terra africana. Eppure, in quelle lunghe settimane d'attesa, Ludovico avvertì i segnali di una disillusione, lenta ma inarrestabile, iniziare a mutare i rapporti con Manfredi. Il quale da parte sua, quasi dopo aver messo piede sul suolo d'Africa, aveva cominciato a mostrare segni d'insofferenza per il modo comprensivo e condiscendente con cui gli italiani conducevano i loro affari nella colonia. Per la maniera inerte e viziata di concepire e trascorrere la vita. E quest'insofferenza presto si riversò anche su Ludovico. Il quale pareva aver assunto il ruolo del buon maestro, specie con quelli che amava definire "gli incolpevoli indigeni".

— Abbiamo il dovere di essere duri con loro, anzi d'esser feroci. — gli rimproverò Manfredi una sera, al ritorno dal cinema Impero in cui avevano assistito insieme all'ennesima, mielosa e insipida, pellicola con il divo Amedeo Nazzari — Non devi ringraziarli mai questi negri! Prendi ciò che è tuo per eredità di razza, per superiorità di pensiero, per diritto di civiltà, per supremazia di potenza — proruppe serio, con uno strano sorriso a illuminargli il volto tetro e due occhi scintillanti simili a stelle dell'inferno.

— Dobbiamo quindi comportarci come ladri? — Provò a scherzare Ludovico.

— Dobbiamo comportarci da veri uomini — lo corresse Manfredi. — Hai così velocemente dimenticato le nostre letture di Nietsche? Wille zur Macht! Non siamo qui per ripetere gli stessi errori commessi in patria, ma per costruire un Ordine Nuovo. Di più, un'umanità nuova, dove esseri umani finalmente liberi da ogni fede, da ogni scienza, da ogni verità, da ogni vincolo, dominano il mondo guidati unicamente dal filo di Ananke! E in questa putrida colonia, invece, non si fa altro che scimmiottare i vizi e le virtù della madrepatria. Anzi solo i vizi, la decadenza, in questo continuo vivere come circondati, costretti a un inutile assedio che condurrà tutti a una sicura disfatta.

— Sai quanto ami Nietsche, e sai come la volontà di potenza sia in gran parte un'impostura postuma — gli obiettò Ludovico, nel tentativo di fuggire la sua furia e ricondurre la discussione su di un piano dialettico.

— Non è con la violenza che otterremo ciò che ci spetta. Il disegno del filosofo è contenuto nella Nascita della Tragedia Greca. È da lì necessario partire…

Ma non ottenne risposta, solo un gesto nervoso della mano a evidenziare l'apertura di una crepa nella loro amicizia.

Nei giorni successivi Manfredi, forse seguendo la traccia dei suoi pensieri si distaccò dai suoi vecchi e nuovi commilitoni, in modo particolare da Ludovico, e prese a frequentare alcuni coloni stabilitisi fuori città. Con loro organizzò e condusse alcuni safari in Sudan. Tramite loro fece conoscenza con alcuni junker tedeschi in Eritrea ufficialmente in veste di turisti, ma in realtà da tutti conosciuti come osservatori del Reich.

Poi, il 3 ottobre del 1935, l'Esercito e la Milizia ricevettero l'ordine di portarsi sul confine etiopico e di varcarlo: l'invasione era iniziata.

La "23 Marzo" oltrepassò, in assetto da battaglia, il letto semi asciutto del Mereb: le sue tre legioni andarono a occupare alcune alture di là del fiume e nella loro marcia sotto il sole formidabile dell'equatore non incontrarono molta resistenza se non l'azione di qualche banda non organizzata di indigeni farli segno di alcuni colpi di fucile a distanza, sempre seguiti da una precipitosa fuga, protetta e agevolata dalla boscaglia rigogliosa tra le rocce brulle delle ambe.


Dopo averle a lungo desiderate, davanti ai loro occhi di europei si innalzavano le montagne verdi e sterminate dell'acrocoro etiopico. Nei lunghi mesi precedenti l'invasione avevano studiato in modo approfondito la conformazione geografica dell'Etiopia sulle carte militari e avevano quasi accarezzato con le dita le vette smisurate cingere e difendere il paese: quella formidabile muraglia alpina che lo separa dall'infuocato deserto della Dancalia e dall'Ogaden a oriente, dalla giungla equatoriale e dalle steppe sudanesi a occidente. In mezzo, tra il corso irruento del fiume Awash (la culla dell'Umanità) e la catena degli altissimi picchi che stringe ai fianchi il gigantesco lago Tana (il padre generoso da cui scaturisce l'acqua trasparente del Nilo Azzurro), si erge, a duemila e più metri, uno straordinario altipiano punteggiato da numerose cime nevose sfioranti i cinquemila metri di altezza.

Ludovico trovava impossibile narrare, nelle lettere inviate a casa, la selvaggia bellezza di quel paese e la sua immensa eterogeneità. Descrisse le profonde spaccature della terra le quali, per la continua azione dell'acqua e del fuoco, erano diventate tanto ampie da trasformarsi in vere e proprie pianure, grandi come e più la val padana, sul cui fondo fertile scorrevano corsi d'acqua imponenti sufficienti ad alimentare i fiumi di mezza Africa. Descrisse le ambe, profondissimi canyon dai contorni impervi a impedire l'avanzare di ogni esercito, insieme al pericolo d'essere di continuo esposti ad agguati e imboscate, garantiti solo dalla paura dal nemico per la loro superiorità tecnologica.

— Non attaccano ancora — commentò deluso, dopo diversi giorni di pesante marcia, Ludovico.

Era buio e scaldatosi al fuoco, in quella fredda sera di fine novembre resa quasi luminosa dalle migliaia di astri dei due emisferi ad affollare il cielo terso, rifletté su quanti eserciti prima di allora avessero inutilmente percorso gli stessi sentieri nel tentativo d'invadere il paese. La guerra stava perdendo ai suoi occhi ogni fascino e non trovava più nulla di romantico o di eroico in ciò che stava facendo: solo polvere e fatica. E in quel momento, a migliaia di chilometri da casa, insieme a due ufficiali piemontesi come lui provenienti dalle fila dell'esercito e come lui spinti dalla Necessità di fare la loro parte nella costruzione dell'impero, non provava altro sentimento che la voglia di tornare a casa. Non nutriva altro desiderio se non quello di ritornare alla sua vita di sempre. Non conservava altra speranza se non quella di ritornare alla sua Rosa.

— Hanno paura — commentò il console Cairoli, già veterano della Cirenaica sotto Graziani, dove aveva assistito alla cattura di Omar al Mukhtar. — Non hanno mai visto un esercito moderno, forte di aerei e carri armati e hanno paura; aspettano in silenzio un nostro passo falso, che avanziamo troppo in fretta o allunghiamo le nostre linee di rifornimento. Aspettano il nostro addentrarci in questo immenso paese per poi saltarci addosso; ma dalla loro parte hanno soltanto il numero e la conoscenza del terreno. Non possono vincere in campo aperto, ma possono renderci la vita molto dura se vogliono…

— Ma no, fra tre mesi saremo ad Addis Abeba — lo contraddisse il seniore Cavicchi, — credetemi, non riusciranno a sferrare un solo attacco degno di essere ricordato. Un esercito medievale nulla può contro un esercito moderno.


Le previsioni si rivelarono esatte entrambe.

La "23 Marzo" avanzò per giorni in territorio nemico senza incontrare alcuna resistenza e, attraversata la regione di Enticho, muovendosi a ridosso del confine, si adoperò per fortificare una zona di sicurezza a ridosso della frontiera e un'eventuale linea di resistenza. Poi i genieri iniziarono la costruzione di una strada in grado di collegare la colonia con l'entroterra etiopico. Fu un'opera colossale che portò la camionabile ad attraversare la sella a est dell'Amba Adi K'eharis, superando un dislivello di oltre mille metri, mettendo per la prima volta nella storia in comunicazione la regione di Adua con quella di Adigrat, lungo la zona settentrionale della Rift Valley etiopica. Un'impresa tanto eroica quanto lunga, così da costare al maresciallo De Bono il comando della spedizione, accusato dal Buce di Piazza Venezia di essere troppo guardingo e di perder tempo a costruire piuttosto che a combattere.

Quindi il ventotto novembre, sotto un nuovo comando, la divisione iniziò il suo lento spostamento verso Hausien da dove, a ranghi serrati, il sei dicembre partì alla volta di Macallé. Quel nome risuonava ancora nelle orecchie degli italiani come un'onta da lavare, il luogo al di là del quale ogni altro luogo era terra incognita. E invece fu poco più d'una passeggiata: la storica capitale della regione del Tigré, nonché antica capitale dell'Etiopia sotto l'imperatore Johannes IV, venne conquistata quasi senza sparare un colpo, in poche ore. Anzi, a Macallé gli italiani vennero accolti dalla popolazione non come conquistatori, ma come dei liberatori, tra due ali di folla acclamante in un tripudio di gente festante e sinceramente contenta di vederli lì. E Ludovico sentì, per la prima volta da quando era giunto in Africa, che v'era qualcosa di reale da fare in quel lontano angolo di mondo, e il suo trovarsi in quel preciso posto poteva non essere un inutile gettone di presenza. Che gli abissini volevano gli italiani per ricevere da loro i doni di quel progresso e di quel benessere troppo a lungo loro negato da un'aristocrazia ferma all'alto medioevo. E trovò sollievo quando, di nuovo, i guerrieri si trasformarono in costruttori e le legioni nere, invece del combattimento, vennero impiegate nei lavori di sistemazione stradale e idrica di quella zona. Segno inequivocabile di come in quel paese vi fosse più bisogno di edificare che di distruggere. Ciò nonostante, giorno dopo giorno, divenne certo a tutti, compreso Ludovico, l'inevitabile avvicinarsi dello scontro con l'esercito del Negus, il quale prima o poi avrebbe rotto ogni indugio e affrontato quello italiano in campo aperto. E quel momento infatti arrivò, la sera del diciotto gennaio 1936. Dopo tre mesi di marce e di estenuanti scaramucce in terra nemica, l'esercito etiopico prese coraggio e iniziò a farsi sentire con radi e imprecisi tiri di artiglieria sulle linee di avanguardia italiane. Il console informò gli ufficiali che la divisione Sila si doveva concentrare su Macallè, mentre alla "23 Marzo" sarebbe toccato il compito di schierarsi nella piana del Gebat per impedire al nemico di attaccare in massa scendendo dall'Amba Aradam, nel tentativo di isolare l'esercito italiano dall'unica strada che lo collegava alla colonia.


La colonna Diamanti.

All'alba del venti gennaio 1936, sotto un diluvio monsonico che pareva un'imitazione di quello universale, Ludovico e Manfredi si trovavano al comando delle rispettive compagnie temporaneamente distaccate al comando della divisione "28 Ottobre".

Il duca di Pistoia Emanuele Filiberto di Savoia li aveva personalmente raccomandati al generale Somma per la loro audacia, pregandolo di dar loro l'occasione di stare in prima linea per ingaggiare il nemico. Ubbidendo questi li aveva aggregati ad alcuni battaglioni eritrei al comando del generale Diamanti. Così iniziarono la marcia verso Abbi Addi, lungo le rocche dell'Amba Debra, per ingaggiare le avanguardie etiopiche di Ras Kassà. Il ventuno gennaio Ludovico ricevette dal generale Diamanti l'ordine di rinforzare le difese e di preparare dei ripari asciutti per le mitragliatrici. Manfredi era entusiasta, ansioso di scontrarsi finalmente con il nemico, di ricevere il suo battesimo del fuoco. Anche Ludovico si sentiva meno ansioso del solito, pensando che uno scontro aperto avrebbe permesso a lui e a tutti i suoi compagni di capire da che parte tirasse il vento, di distinguere finalmente quale dei due contendenti meritasse la preda. L'esercito etiope comandato da Ras Kassà, cugino del Negus, ma uomo di chiesa più che di guerra, approfittò della notte senza luna per avvicinarsi non visto alle posizioni italiane, lanciando un poderoso attacco contro la linea del gruppo Diamanti in cui si trovavano Ludovico e Manfredi. L'assalto fu impressionante e selvaggio: decine di migliaia di uomini dalla pelle color dell'ebano, vestiti di semplici tuniche bianche o completamente nudi, spesso armati solo di un vecchio moschetto ad avancarica o addirittura della sola lancia e dello scudo di cuoio, si riversarono correndo a piedi nudi sulle linee italiane trincerate dietro mucchi di sassi e sabbia. Malgrado il fuoco continuo e dirompente delle mitragliatrici i guerrieri abissini riuscirono ad arrivare di slancio sulle postazioni italiane ed eritree trucidando i serventi con i loro lunghi coltelli ricurvi. Il combattimento, il massacro, continuò per l'intera mattinata, mentre anche le camice nere cadevano a decine travolte dalla massa urlante e senza forma degli abissini, che sembravano volere sfogare sugli italiani una rabbia vecchia di millenni. Ma l'organizzazione e soprattutto le armi fecero la differenza, se per ogni italiano a cadere dovevano immolarsi almeno cento abissini. Senza più acqua a spegnere la sete, ormai isolati dal resto della divisione, le camice nere ressero l'urto della marea avversaria. In mattinata in loro aiuto arrivò l'aviazione: dai trimotore Savoia Marchetti e dai Caproni iniziarono a esser scaricate tonnellate di iprite sugli abissini i quali, accecati e in preda alle convulsioni, si videro costretti a ritirarsi sulle posizioni iniziali.

— Se ne vanno — esultò Ludovico rivolgendosi ai suoi legionari — cessate il fuoco, cessate il fuoco — ordinò e si scoprì d'essere tutto un tremore, ricoperto di sangue e frammenti di carne umana.

Davanti ai suoi occhi smarriti, dilatati dall'adrenalina, si stendeva la valle inondata dal sangue di migliaia dei suoi figli.

— Non immaginavo potesse esser un tale massacro — urlò al tenente Raniero Della Valle, il quale insieme a lui aveva diretto il fuoco dell'unico pezzo da 65mm che aveva frantumato le ondate avversarie.

Mentre si guardavano intorno inorriditi, da lontano Ludovico vide arrivare Manfredi su di un cavallo nero seguito di corsa da due ascari scalzi che faticavano non poco dietro di lui.

— Chi è il traditore che ha dato l'ordine di cessare il fuoco — gesticolò fuori di sé, rivolto ai due ufficiali che lo osservavano dal basso.

— Sono stato io, Manfredi — provò a calmarlo Ludovico.

E afferrate per il muso le briglie del cavallo aggiunse: — Si stanno ritirando, ne abbiamo lasciati migliaia sul campo, non lo vedi… abbiamo vinto!

— Sei pazzo — gemette Manfredi in preda all'ira. — Li dobbiamo sterminare, non siamo venuti qui per dispensare buoni propositi e opere di bene, ma per conquistare un impero. Chi non uccidiamo oggi ce lo troveremo in armi domani! Chi non fermiamo oggi massacrerà coloni domani. L'impero dev'essere solo italiano. A loro non rimane che scomparire dalla faccia della terra — tuonò, mentre agitava la pistola in aria.

Anche il giorno seguente fu inondato dal sangue e dal vomito che procura l'iprite in chi la respira. Il 204° Battaglione, in cui sia Ludovico che Manfredi comandavano la terza e la quinta compagnia, appoggiato dalla 135a batteria di artiglieria, l'unica armata con i pezzi da 65 millimetri, uscì dalle posizioni in cui il giorno precedente aveva sostenuto l'attacco di un'intera divisione etiope e scese nella valle del Gebat attaccando frontalmente il nemico per costringerlo a uscire dai suoi ripari e spazzare le postazioni antistanti. L'attacco, anche questa volta, fu cruento. Venne condotto allo scoperto sotto il tiro dell'avversario e causò numerose perdite tra le camice nere. Ma l'azione, supportata dall'artiglieria e dall'aviazione, non venne mai interrotta e alla fine l'intero battaglione scalzò gli abissini dalle posizioni che tenevano e le ultime resistenze vennero annientate alla baionetta. A metà pomeriggio gli obiettivi prefissati erano stati completamente raggiunti e l'esercito abissino era stato messo in fuga con perdite considerevoli.

I cadaveri giacevano ovunque nella valle del Gebat, divorati dalle mosche e dagli avvoltoi che scendevano con ampi giri dalle ambe coperte dalla boscaglia, per poi tuffarsi in mezzo a quel banchetto loro inaspettatamente offerto dalla crudeltà e dalla stupidità dell'uomo.

Ludovico si aggirava in mezzo a quella moltitudine di sofferenze per vedere se poteva soccorrere qualche ferito, ma ne trovò decine, centinaia, agonizzanti invocare pietà, acqua, o un ultimo gesto di misericordia mentre flottiglie di nubi orizzontali tutte arricciolate di cirri, color dello zafferano e del sangue, s'avventavano l'una dopo l'altra a battaglia.

Dietro suo ordine i legionari presero a soccorrere chi potevano e iniziarono a scavare delle fosse comuni con le ruspe per dare almeno una sepoltura alle vittime ed evitare il diffondersi di epidemie.

All'imbrunire di quel giorno terribile e memorabile, nel momento in cui il sole tramonta ma l'oscurità non ammanta ancora ogni cosa; nel momento in cui le creature della terra sembrano osservare in silenzio il prodigio della scomparsa della luce, l'eterno ritorno. In quel momento, Ludovico intravide in lontananza, nascosto dalle fronde di un albero dalle forme sconosciute, un uomo. Sganciò l'automatico della fondina e afferrò la Beretta 34 d'ordinanza con la mano destra. Si avvicinò lentamente, senza far rumore, come a voler sorprendere un ladro in casa.

— Che fai? — Domandò con voce sommessa, non appena fu così vicino da accorgersi chi aveva dinanzi.

— Ti avevo sentito arrivare, non credere — rispose Manfredi, e si voltò verso l'amico continuando il suo pasto sotto un grosso sasso riparato da un albero dalle fronde rade e vermiglie. — Non credere di avermi sorpreso. Non potresti mai… — aggiunse con un sorriso che mutò in un ghigno.

Aveva il viso imbrattato di sangue e masticava con calma, quasi ad assaporare ogni boccone mentre il sangue ancora caldo gli colava giù dal quel rictus spalancato come una scura voragine. Ai suoi piedi giaceva il cadavere di un ragazzo abissino girato sul dorso. Ludovico si accorse che il cadavere era stato mutilato in più punti. Vide nella destra di Manfredi il lungo coltello ricurvo usato dagli etiopi e nell'altra un brano di carne.

— Hai perso il senno e il tuo onore. Lascia quel ragazzo, per carità di Dio — gli intimò e irrigidì il braccio che gli puntava la Beretta carica addosso.

— Va' via — lo zittì Manfredi. — Tu sei un debole. Hai già perso questa guerra prima di cominciarla, come tutti gli altri tuoi commilitoni! Commetterai gli stessi errori già commessi in passato. Non bisogna avere pietà nella lotta per la supremazia. Il più debole viene sconfitto e il più forte vince. È sempre accaduto nella storia umana, nella storia della Terra, in quella dell'Universo. E così sarà… per sempre. Oggi ne abbiamo avuto la prova. Vincere significa dominare, prendere anche la carne del nemico se occorre, per nutrirsi del suo sangue e dare un senso alla sua sconfitta. Siamo venuti per questo e io ti credevo diverso. Ma tu non sei come me: tu non hai capito nulla. Finché si è trattato soltanto di parole mi hai seguito; ma la natura non s'inganna. Sei quel che sei nato: figlio di tuo padre, figlio del tuo tempo e di quest'Italia indolente, arruffona e pressappochista: di più, sei un povero borghese pieno di buoni, falsi, sentimenti. Oggi abbiamo vinto, ma non abbiamo imparato nulla. Siamo stati forti, ma presto qualcuno lo sarà più di noi.

— Ti sbagli — lo biasimò Ludovico, senza abbassare un sol attimo la semiautomatica. — Siamo venuti qui per portare la civiltà, per edificare un mondo migliore e rendere tali anche noi stessi insieme a questi poveri cristiani. Siamo venuti qui per portare il diritto e il progresso. La nostra vera conquista sarà la pace di Roma.

— Sei solo un povero illuso — gli rinfacciò Manfredi.

E sfidando la canna della pistola avvicinò la lama del suo coltello ricurvo alla gola dell'amico.

— Siamo qui unicamente per portare la nostra forza e la nostra ingordigia, la nostra avidità, la nostra innata lussuria. Adoperiamo aerei e carri armati, cannoni e iprite per dei selvaggi armati a malapena di lance e spade. Dov'è l'onore del combattimento? Rispondimi? Dov'è la civiltà? Dov'è il diritto? O dormivi negli ultimi giorni? Noi portiamo soltanto la giustizia del più forte, il diritto di uccidere e di saccheggiare, la civiltà della violenza e dello stupro. La furbizia del ladro, le menzogne dell'assassino, la lascivia dello stupratore. Noi siamo qui per prenderci tutto senza chiedere il permesso. Siamo dei ladri, siamo aguzzini di un popolo innocente. Questa è l'unica verità. Una verità che fai finta di non vedere e di non capire, che tutti voi borghesi fate finta di ignorare o, peggio, nascondere dietro buoni propositi infarciti da parole gentili. Miserabile ipocrita! I nostri comandanti hanno usato i gas alla minima difficoltà, pur di non subire perdite: abbiamo violentato le donne, abbiamo divorato i loro uomini…

— No, Manfredi — lo interruppe di slancio. — Tu hai stuprato e mangiato uomini! Io non sarò mai come te, hai ragione. Adesso lascia quel ragazzo — e lo allontanò con forza da sé per riprendere a minacciarlo con la pistola puntata dritta verso di lui.

— Altrimenti cosa farai? Vuoi denunciarmi al comando? Allontanerebbero te e non me: darebbero del pazzo a te e non a me: saresti un vigliacco tu e non io: saresti un infame tu non io. O forse mi vuoi uccidere? Spara, avanti, che aspetti? Ma se lo farai non saresti migliore di me e mi daresti ragione, perché assassineresti tuo fratello. Io sono tuo fratello, Ludovico — ribadì sereno, e allargò le braccia facendo cadere il coltello in terra, mentre si inginocchiava ai suoi piedi. — Che aspetti? Vieni a prendertelo il tuo negro a pezzi — lo incitò con rabbia.

E un colpo secco echeggiò nell'aria.


(fine)



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Alberto Marcolli


Una sera al Roundhouse di Camden


Il mio nome è Andrea. Non sono mai stato uno studente modello e mai avrei sciupato le mie vacanze estive per ripassare ragioneria o scienza delle finanze: le mie passioni erano ben altre.


Quell'estate del sessantotto, grazie all'amico Steve, ottimo chitarrista, che mi ospitava nella sua casa londinese, vivevo immerso nella spumeggiante realtà giovanile e cosmopolita della città.

Qualche lavoretto ogni tanto, giusto per non morire di fame, e poi ogni espediente era lecito, pur di non perdermi i tantissimi spettacoli, festival pop e commedie musicali che animavano Londra in quegli anni.


L'attesa era stata spasmodica, ma finalmente il gran giorno era arrivato e, come promesso, Willy ci accompagnò con la sua mini al luogo del concerto.

Il tragitto in auto fu abbastanza breve, più complicato fu trovare un parcheggio, confusi nel dedalo di stradine che formavano l'originario borgo di Camden, situato nella parte settentrionale della grande Londra.

Sistemata la vettura, dopo molti tentativi, in una piazzetta lontana, Willy, Bob e io raggiungemmo il Roundhouse a piedi: il posto era sconcertante!

Una fertile euforia aveva trasformato un rudere derelitto, freddo e polveroso, in uno straordinario punto d'incontro. Ragazzi barbuti forgiavano orecchini, pendagli, collane, anelli e bracciali. Altri annodavano e poi tingevano jeans e magliette, creando stravaganti schizzi colorati. Artisti di strada disegnavano ritratti, mentre i venditori ambulanti esponevano, su improvvisati banchetti, libri e dischi di seconda mano, essenze e incensi indiani, candele profumate, abiti usati, dolciumi, panini e mille altre bizzarre minutaglie.

A tratti giungeva alle narici la fragranza intensa del balsamo all'olio di patchouli, che si mescolava a quella più penetrante degli spinelli alla marijuana, mentre un tizio, bardato come un giocoliere, suonava contemporaneamente chitarra, armonica a bocca, trombetta, grancassa (caricata sulle spalle), piatti e campanelli (cuciti sulle gambe dei pantaloni). Era un vero spasso!


L'edificio, costruito dalle Ferrovie Britanniche nella seconda metà dell'ottocento, era stato utilizzato, ma solo per un breve periodo, come riparo per le ingombranti locomotive a vapore, trasformandosi poi nel magazzino londinese di una distilleria di whisky scozzese. Abbandonato da quasi mezzo secolo, il Comune di Camden lo aveva acquistato, a metà degli anni sessanta, allo scopo di soddisfare le pressanti richieste giovanili per un luogo pubblico dove organizzare eventi musicali e feste popolari. Nell'ampio spazio coperto, grazie a un'intraprendente raccolta fondi, il Comune vi aveva edificato un anfiteatro semi-circolare, con le gradinate in tavole di legno, avvitate su massicci tralicci di ferro. Avrebbe potuto contenere, a occhio e croce, un migliaio di persone, o forse il doppio, se pigiate come sardine in scatola.

Guidati da Willy, ci avventurammo all'interno, accostandoci a un capannello di persone assorte in un'animata discussione. Willy individuò tra di loro l'amico Kris, direttore logistico dello spettacolo, che stava polemizzando energicamente con un responsabile della Power Station, per nulla soddisfatto della scarsa energia elettrica a disposizione per il concerto. Alla fine, con un ultimo gesto sconsolato, Kris si congedò dal suo interlocutore e, notata la presenza di Willy, si diresse verso di noi.

Willy ci presentò. Kris era un ometto grassoccio, con bislacchi occhialini quadrati e orecchino solitario a forma di croce. Indossava un completo in cotone bianco, con giacca, gilè e pantaloni a zampa di elefante, camicia azzurra e papillon, mentre un ampio cappello color panna serviva a nascondergli la pelata.

In nome di un'antica amicizia, Willy aveva strappato a Kris la promessa di reclutarci tutti e tre nel gruppo degli addetti alla sicurezza e aiutanti in generale. Perennemente squattrinati, era questa l'unica soluzione che eravamo riusciti a escogitare, pur di assistere a quello che per noi sarebbe stato il concerto del secolo. Scrutavamo ogni cosa con meticolosa curiosità, tentando un impossibile ambientamento in quegli spazi inverosimili, finché Kris chiamò tutti a raccolta, invitandoci a sedere sulla gradinata di fronte a lui. Appena il tempo di un frettoloso saluto e iniziò la descrizione dei vari compiti. Destinò una metà di noi alla sorveglianza esterna, di certo l'incarico più ingrato: vigilare delle porte chiuse, senza poter assistere alla festa. Quattro furono inviati a piantonare i collegamenti elettrici, dal pannello primario alla centrale sotto il palco; a un terzo gruppo, invece, affidò il tratto fino agli amplificatori. A Bob e Willy chiese di badare al regolare funzionamento dei trasformatori a tergo della lunga sequela di altoparlanti e al drappello rimasto, me compreso, affidò la custodia del fronte palco, protetto soltanto da una fila di deboli transenne.

Kris ci confermò che Jim, Ray, John e Robby erano attesi alle ore cinque per l'intervista con la Granada Television e la prova degli strumenti: avevamo quindi tre ore appena per preparare tutto quanto.

Fu un lavoraccio estenuante. I più robusti si sobbarcarono lo sforzo di trasferire sul palco l'immensa (per allora) dotazione elettronica, composta da una decina di casse acustiche, più organo, batteria e delicatissimi amplificatori valvolari. A complicare il lavoro ci pensarono i tecnici americani, rivelatisi degli scompaginati come pochi. Pretesero, infatti, di rivoluzionare più volte la disposizione iniziale, da loro stessi indicata, obbligandoci a sudare un centinaio delle proverbiali sette camicie. Prova e riprova, si dovevano pure collocare le ingombranti telecamere, preposte alla ripresa televisiva e, alla fine, rimase lo spazio per un solo ripetitore anteriore a uso degli artisti. Date le circostanze, Kris, facendo di necessità virtù, si convinse che ne sarebbe bastato uno solo.

— The Doors sono musicisti affiatati, — precisò, — dotati di sicura sensibilità musicale.

In una parola, pensai io, erano cavoli loro!

L'impresario inglese, volendoli accogliere nel rispetto dei tradizionali costumi britannici, aveva noleggiato una fiammante Rolls Royce bianca che li caricò, sotto gli occhi di reporter e cineoperatori, in prossimità della scaletta dell'aereo. La permanenza a Londra dei quattro sarebbe stata di due soli giorni e forse fu questo il motivo per cui Jim chiese all'autista di compiere un ampio giro per la città prima di raggiungere il Roundhouse di Camden, arrivando naturalmente in ritardo.


Al Roundhouse non esistevano camerini, ma Kris Cumming si adoperò per ricevere i musicisti nel migliore dei modi, allineando delle bibite su un tavolino all'interno di un bugigattolo in disparte, che lui osava chiamare ufficio. I ragazzi si servirono senza tante cerimonie e vennero a sedersi dinanzi agli amplificatori, su degli originali pouf a forma di giganteschi dadi da gioco, appoggiando con noncuranza i loro bicchieri sull'assito del palco. Una dozzina di fotografi ne approfittò per ritrarli in pose assai insolite, poi venne il turno di un intervistatore televisivo, che con un'aria da intellettuale rivolse a Jim varie domande sui movimenti di protesta giovanili, sulle avanguardie musicali emergenti e altro ancora. Jim sembrava non capire, obbligando il cronista a delle frequenti ripetizioni. Poi si decideva a rispondere, ma incespicando e divagando alquanto, rispetto agli argomenti proposti. Lì per lì giustificai quella scarsa capacità di concentrazione con lo stress per l'incombente concerto.

Finita l'intervista, si proseguì con la prova generale. Vi parteciparono i tre strumentisti e cantò Ray, l'organista, Robby il chitarrista ispezionò il funzionamento dei vari effetti elettronici, John il batterista, chiavetta in mano, regolò la tensione dei tamburi. Jim salì sulla gradinata più alta per controllare l'acustica, ordinando spostamenti e tarature, ma per nostra fortuna non furono necessarie altre gravose manovre. I quattro si dichiararono soddisfatti del risultato ottenuto, ringraziarono e sparirono dietro a un tendone che nascondeva il retro, ingombro di cavi.


Spenti i riflettori, calò il buio sul palco e sugli spalti, e si aprirono le porte. A momenti, lo show avrebbe avuto inizio.


Il pubblico, che aveva atteso in lunghe code disciplinate, entrò e si accomodò nella penombra, rotta a stento dal bagliore delle torce accese per illuminare le bancarelle, poste tra le vetuste pareti dell'edificio e i ponteggi delle gradinate. Sul palco tutto era silenzio. L'unico segno di vita era rappresentato dal luccichio delle spie in cima agli amplificatori, pronti a entrare in azione. Intravidi Bob e Willy piazzati in un angolino, seminascosti dalla lunga fila di diffusori connessi all'impianto voci: non avrebbero perso un singolo dettaglio del concerto! La mia postazione era nella zona anteriore del palcoscenico, leggermente defilata sulla sinistra, perfetta per seguire la scena, al riparo dal fascio di luce circolare che sarebbe arrivato dritto di fronte, e, nello stesso tempo, funzionale al controllo delle prime file di spettatori, come ordinato da Kris.


Chi erano questi quattro ventenni che appena usciti sulla ribalta avevano subito calamitato l'attenzione dei giovani d'ogni nazione? L'avventura era iniziata suonando nei locali sotterranei e nelle cantine della vecchia Los Angeles, nell'America sconvolta dalla sanguinosa guerra nel Vietnam, che a Dallas aveva visto assassinare il suo Presidente. L'America degli hippy e del pacifismo. A San Francisco e in tutta la costa californiana, il flower power si era imposto come la religione dei tempi nuovi, forte dei suoi dogmi più sconvolgenti, compreso l'uso massiccio di droghe e allucinogeni.

In siffatto fertile terreno di cultura era nata la leggenda di The Doors, in grado d'infiammare gli spettatori con le provocanti esibizioni del loro carismatico leader. Il gruppo aveva intrapreso l'esplorazione di vie musicali inconsuete per le mode dell'epoca, traguardo dichiarato era allargare i limiti del rock, varcando la soglia delle percezioni, come incitavano i testi delle loro canzoni. Ascoltare il loro primo disco, uscito nel '67 e registrato nei mitici studi della Sunset Sound Recorders, significava accettare l'immersione in una specie di brodo primordiale, dove vi ribollivano richiami blues e rock psichedelico, poesia decadente e melodie esotiche. Ebbe un immediato successo e spalancò a The Doors le porte dell'universo musicale planetario.

Quel venerdì 6 settembre 1968 si apprestavano a celebrare la loro prima apparizione sul suolo inglese.


Ore nove: la musica decollò nella sala buia. Le luci si accesero... il concerto ebbe inizio.


Quasi a voler alzare gradualmente il velo e instillare fiducia, The Doors aprirono con un pezzo di blues ortodosso nel quale era l'organo di Ray a svelare la raffinatezza del suo tocco, costruendo il sottofondo perfetto per la voce di Jim. Ma già il pezzo seguente Break On Through (To The Other Side) era un pugno nello stomaco, un inno alla ribellione, per la conquista della libertà assoluta. La musica era dura, la batteria incalzante: da togliere il respiro.

Nella successiva When The Music Is Over, Jim, stivaletti scuri, pantaloni di pelle attillati, camicia bianca a sbuffi e ricami, cintura di borchie argentate, palesava tutto il suo fascino ipnotico: una sorta di menestrello, sedotto dagli istinti più oltraggiosi e autodistruttivi. La musica lo incoraggiava a osare l'impossibile con rullate prepotenti di tamburo, sparate di chitarra e lamenti sommessi dell'organo. Lui raccoglieva il guanto di sfida e lo gettava nell'arena stupefatta, che sudava e soffriva con lui.

Seguì un interludio di canzoni tra il leggero e l'allegro, messe lì per illudere i presenti di riuscire a ricomporsi, e poi via con i tre capolavori immortali!

Un'ora di maratona da brivido! Al cardiopalma!

Il primo fu Light my fire, una turbinante ode alla sessualità più trasgressiva, consacrata a consumarsi nel fuoco devastante di un blues-rock selvaggio. Il pubblico, mentre Jim intonava il suo oscuro, preistorico richiamo, era travolto dall'esplosione sonora che deflagrava tra le volute dell'organo e i richiami lancinanti della chitarra: un abbraccio ideale tra toni jazz e sonate barocche, tra flamenco e boogie, rock americano e folk arabo. Un duetto indimenticabile, vibrante, appassionato, leggendario.

Jim replicò da par suo. Si adagiò in profonda meditazione, scese dal palco aggirando i cavalletti della Granada Television, salutò una ragazza appoggiata alla parete sulla mia destra, fece un cenno come di scusa e si sporse di là dalle barriere. Tendendosi al massimo riuscì ad accostare il microfono a una ragazzina: lei cacciò un urlo forsennato, tentando senza riuscirci d'agguantarlo, mentre Jim con un gran balzo aveva già ripreso la sua posizione al centro della scena e, afferrato un secondo microfono, aveva ripreso a cantare. Le teste vibravano al ritmo straziante dell'organo, la platea ondeggiava e inseguiva i musicisti con un fervore che non mi è mai più capitato d'osservare.

Poi arrivò Unknown Soldier: una denuncia spietata contro tutte le guerre. Jim sudava, urlava, cambiava voce, si concentrava, si abbandonava a uno sfogo d'incontenibile e rabbiosa vitalità, saltava, provocava, si disperava. All'ultimo, ci fu una sessione di batteria allo sfinimento. L'organo tacque, Ray si rialzò sollevando il braccio in segno di resa. Allo sparo del plotone d'esecuzione, simulato da Robby con un colpo secco di bacchetta sulle corde della chitarra, al massimo volume, Jim si lanciò a terra... morto!

Ma ecco... si rialzava... la musica rinasceva in un crescendo parossistico, fino al rombo definitivo, altissimo. Poi... improvviso: il silenzio! Il buio!

E dal buio salì The End. Un massacrante refrain perso in un oceano di ricami orientaleggianti, di spirali psichedeliche che oscuravano la mente e la incantavano, per fulminarla con un finale da pelle d'oca. Chitarra, organo e batteria si unirono in un pazzesco crescendo. Jim era un rodato attore teatrale, oltre che un rocker insuperabile. Interpretò una delle sue sceneggiate più terrificanti, spaziando sapientemente da toni soffusi a slanci smodati, tra esaltazione contemplativa e spasmi epilettici. Il suo era un delirio, il delirio di un moribondo, di un folle poeta paranoico imbottito di droghe allucinogene. Al confronto con la versione discografica, gli interludi erano infiniti e le liriche declamate da Jim, perverso moderno stregone, erano una mazzata in testa ai vecchi valori ipocriti e perbenisti. Venti minuti di agonia per una delle cavalcate più epiche nella storia del rock.


Dopo il concerto ci fu un seguito per Willy, Bob e io.

Kris volle farci conoscere Jim, Ray, John e Robby, e Jim propose di festeggiare l'incontro offrendo da bere a tutti. Kris, da gran conoscitore della città, suggerì The Wellington Pub, alla chiusura ci spostammo a piedi al Ronnie Scott's Jazz Club di Soho e ne uscimmo, ubriachi di musica e birra, a mattina inoltrata. Ma questa è un'altra storia.


(fine)



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Stefano M.


La vasca rossa


Ti fisso nella vasca rossa, l'acqua è ancora tiepida, un filo di vapore sale e inumidisce le piastrelle sopra di te, offuscandole. Ti piacevano tanto quelle piastrelle, te ne vantavi ogni giorno perché erano proprio del colore che volevi tu: fu l'unica volta che la spuntasti su tuo marito. Avevi ceduto su mille altre cose, quell'uomo aveva fatto di te una sua escrescenza, un peduncolo per arrivare dove lui non poteva. Ora quel peduncolo lo hai estirpato.


Sei fresca, morbida, rilassata, come quando ti vidi per la prima volta sul pianerottolo del nuovo appartamento. Venivo da lontano, dalla Sicilia, ma con te mi sentivo a casa, come fra gli aranceti del nonno o sulla scogliera di Capo Murro. Da lì ci tuffavamo nel mare cristallino, appena increspato, di quel turchese che solo la mia terra riesce a regalare; la mia terra e i tuoi occhi. Ci sono tornata questa estate, ma non è stata la stessa cosa. Non era l'adolescenza, non erano le prime cotte, non erano i pochi soldini per prendere il gelato da Carmine: eri tu.


Ora la vasca rossa sembra ristorarti, donarti quel virgineo candore sopito da lustri di frustrazioni e patimenti. Ti sono sempre stata vicina, lo sai, anche quando tu provavi ad allontanarmi. Non mi sono mai offesa per questa bazzecola, il mondo va spesso come non dovrebbe andare, o quantomeno come non vorremmo che vada. Ora ti sono vicina e basta, non mi importa di altro. Vicina alla tua nudità, alla tua fragilità, alla tua completa violabilità, della quale mai oserei approfittare. Credi forse che non ti abbia amato? Certo che ti ho amato, ma io ero la cattiva, tu la buona e così non ho mai potuto amarti davvero, nell'estasi che contorce i corpi e unisce le anime.


Io ero la cattiva, tu la buona, ecco il succo della nostra vita. Io mi facevo le canne, tu usavi solo farmaci devastanti. Io mi facevo mezza classe, tu avevi solo Lorenzo, ufficialmente. Io prendevo brutti voti, tu eri solo un po' dislessica. Io avevo come padre l'alcolizzato del quartiere, tu uno stimato avvocato. Ecco cosa vuol dire essere la cattiva. La cattiveria mi ha salvata, mi ha impedito di scendere a compromessi come i tuoi: eri disposta a tutto pur di non intaccare l'aria da santarellina, volevi sempre uscirne bene. Ti lasciavi fare qualunque cosa, dal tuo vecchio prima, da tuo marito poi, solo per salvare le apparenze. Io me ne accorgevo, eccome se me ne accorgevo, ma non te ne ho mai parlato. Non te l'ho mai detto, questa è la mia colpa, ma avevo troppa paura che fosse la scusa per allontanarti da me. Ora la distanza è siderale, quanto dista la terra dal cielo.


Quella distanza fra noi è cresciuta nonostante le nostre case siano ad appena duecento passi: non mi parlavi da mesi ma questo favore non mi sono sentita di negartelo. Questo perché ti amo, ti amo veramente. Mi sono sempre persa nei tuoi occhi turchesi: ora sono chiusi, i tuoi capelli sparsi nell'acqua della vasca, estremo suggello di questo amore, arrossata dalla fluida passione che da te ancora sgorga. Mentre ti legavo i polsi, pensavo solo a quante gioie hanno regalato a tuo marito; quando ti mettevo il fazzoletto alla bocca, pensavo solo ai baci che quelle labbra hanno donato ai tuoi amanti. Sei stata buona, calma come una bimba prima di fare il bagnetto con la sua paperetta preferita. In fondo lo hai voluto tu.


L'acqua trasparente è ora rosata, si fonde con il tuo corpo impallidito, ti stai spandendo in essa, vivificandola. Appena ti sei immersa era bollente come il tuo sguardo, ora è tiepida e riscalda a malapena il tuo corpo, fra poco sarete entrambe gelate, di quel ghiaccio che nessun fuoco riuscirà mai a sciogliere. L'acqua ti ha sempre calmata, rasserenata. Ti sei addormentata subito, pochi minuti dopo i tagli sui polsi. Mi hai guardato un paio di volte, per ringraziarmi, poi hai fissato sempre il vuoto davanti a te: da sola non ce l'avresti mai fatta. Prima ancora di infierire sulle tue vene ti ho infuso la forza necessaria per fartelo fare: ecco perché hai chiamato proprio me, eri rimasta in un'affollata solitudine. Affollata di fantasmi del passato, orrore del presente, la vacuità del futuro. Non ti sei stretta alla vita che scorre via da te, l'hai lasciata strabordare come uno champagne millesimato in una coppa stracolma. Solo io raccoglierò quel prezioso nettare che si sparge ora sulla tovaglia, nessun altro si degnerà di strizzarne il prezioso elisir di cui è intrisa.


Dovrebbe arrivare la polizia da un momento all'altro. Ho lasciato la porta aperta, sapevo che non ce l'avrei fatta ad alzarmi dopo quello che ho fatto, il sangue scorso dal tuo corpo è un po' anche il mio: la cosa mi avrebbe infiacchito, privandomi pur della minuscola forza necessaria per girare il chiavistello nella toppa. Avevo ragione, anche la testa mi sembra ora insostenibile, la devo appoggiare al calorifero per non accasciarmi.

Il commissario entra, mi guarda rannicchiata fra il water e il bidet, pensa che sia io la vittima. Continuo invece a fissare la vasca rossa, costringendolo a volgere lì lo sguardo.


Capisce tutto.

— Cos'è successo?

Ci penso un attimo. Non posso addossarmi le tue colpe, questo proprio non me lo puoi chiedere, hai scelto così e ora dovresti essere felice. Non c'è colpa nel rendere felice chi si ama. Ti fisso ancora, sono forse gli ultimi istanti per noi, e rispondo serena:

— Ha voluto così.


(fine)



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Temistocle


Tore


Scendendo a valle, dopo un paio di chilometri di curve, d'improvviso ti colpisce una luce abbagliante, fatta di milioni di luci in movimento: è il mare che riflette il sole, d'inverno e d'estate. E d'estate e d'inverno anche la luna si affaccia con mille luci in movimento. E ogni luce è uno specchio e ogni specchio è un richiamo che ti dice: vieni… vieni… vieni… e ti piacerebbe lasciarti inghiottire, se sapessi nuotare.

Tore, per esempio, non sa nuotare.

Tore è un diminutivo, ma non di Salvatore. Tore sta per Castore.

A nessuno però importava veramente di cosa fosse diminutivo il suo nome, perché in fondo a nessuno interessa veramente qualcosa di lui.

Ma a lui questo non interessa, l'importante è il suo mare, il suo sole, la sua luna…

Tore non è scemo come dicono gli altri, almeno non è più scemo di quelli che lo chiamano scemo.

Tore ha la sua vita come gli altri hanno la loro.

Agli altri piace scorrazzare a notte fonda col motorino smarmittato e svegliare tutti; a Tore piace inseguire una biscia in mezzo all'erba per vedere dove ha la casa e poterla tornare a salutare quando si trova a passare di là.

Agli altri piace gettare dal finestrino dell'auto le cicche ancora accese e i pacchetti vuoti di sigarette; a Tore piace passare la sera sul lungomare e con uno scopino e un sacchetto raccoglierle tutte, perché il sole del giorno dopo possa trovare almeno una strada pulita.

Agli altri piace… a ognuno, insomma, piace una cosa diversa.

Certo, non tutto quello che piace è buono e bello ma, come dice Tore, il mondo è fatto da quelli che distruggono e da quelli che costruiscono. Lui ha deciso che è più bello stare tra quelli che costruiscono; e puliscono…

Per Tore ogni uomo è importante, anche il più cattivo, anzi ogni essere vivente è importante, anzi anche una pietra è importante.

Questa che voglio raccontare, comunque, non è la storia di Tore, o forse non è solo la sua storia.

Prendiamo, per esempio, i genitori di Tore, quelli che gli hanno messo questo nome.

Sua madre ha cominciato a ricamare una tovaglia per l'altare della Chiesa quando aveva sedici anni. Tra un ricamo e il matrimonio, un ricamo e un figlio, un ricamo e un parroco nuovo, sono ventisette anni che ancora non ha finito. Eppure ha fatto quattro figli, ha seppellito due parroci, ne ha sentito predicare per la Pasqua altri tre. Ogni volta il calice è troppo rosa, le foglie dell'uva sono troppo piccole e il merletto del bordo è troppo dorato. Ma lei sogna sempre, quando tutte le sere si mette a ricamare dopo aver messo tutti a letto e aver lavato tutti i piatti, che per la festa dell'ingresso del prossimo nuovo parroco la tovaglia dell'altare della prima Messa sarà la sua e tutti diranno: "com'è bella la tovaglia ricamata dalla mamma di Tore!".

Il papà di Tore, invece, è molto bravo ad aggiustare le ossa e i muscoli. Non è dottore, non ha studiato niente tranne l'alfabeto e le 4 operazioni. Ma aggiustare ossa e muscoli sono di quelle cose che, nei paesi, sanno fare i padri e poi i figli, e poi i figli ancora.

Tore veramente il suo papà non l'ha mai conosciuto, perché dopo aver ingravidato la mamma, era partito per la guerra, e non era più tornato. E quando Tore aveva cominciato a capire, prima di andare a scuola, e gli avevano detto che ogni mamma aveva un papà, Tore aveva pensato che quell'omone con le bretelle e gli scarponi da contadino che dormiva con la mamma era il suo papà. E quando poi qualcuno gli aveva detto che il suo papà era partito per la guerra e non era più tornato, e aveva chiesto spiegazioni alla mamma, lei, tra un ricamo e un altro figlio, aveva risposto che quello era uno 'zio'.

Se dalla mamma Tore aveva imparato la pazienza, il papà (quello che aveva adesso) gli aveva insegnato che tutti, buoni e cattivi, sono figli di quello che la domenica in Chiesa il parroco chiama Dio e nel resto della settimana ognuno chiama come vuole, ma è sempre la stessa persona, che se ne sta lassù, in cielo, in alto, ma molto più in alto del sole, in un posto così alto che neanche Caterpillar — che lo chiamano così per via della sua forza — con la sua fionda lo potrà mai raggiungere (eppure tutti sanno che Caterpillar la notte di S. Lorenzo, quando non riesce a vedere una stella cadente, prende la sua fionda, ci mette dentro un sasso liscio, di quelli di mare, e poi lo tira così forte che colpisce qualche stella, così che anche lui, guardandola cadere, può esprimere un desiderio). Questo Dio ha creato la biscia e quello che butta le cicche dal finestrino, quello che aggiusta i motorini smarmittati quando si rompono e anche lui, Tore. Ed è per questo che Tore vuole bene a tutti, anche ai cattivi.

È vero che qualche volta anche lui non riesce a capire perché certe cose succedono. Come quando la figlia di un pastore di un paese vicino era sparita per due giorni, e poi la mattina del terzo giorno aveva bussato alla porta di casa e la mamma che aveva aperto l'aveva trovata con tutti i vestiti strappati e sporchi di sangue e i capelli coperti di terra. E ai carabinieri aveva detto che il suo papà l'aveva portata alla stalla per governare le pecore; ma quando lei l'aveva visto dietro una pecora che faceva certe cose che non capiva cosa fossero, lui si era molto arrabbiato e aveva cominciato a fare con lei quello che stava facendo con la pecora. Poi il maresciallo aveva portato via il pastore e il pastore ancora non era tornato. Forse, aveva pensato Tore, quel pastore aveva tante altre pecore da far pascolare, ma tante che non finiva mai di lavorare e perciò non era ancora tornato a casa anche se erano passati più di cinque anni.

Ma certo Dio voleva bene pure a quel pastore, anche se forse aveva fatto una cosa brutta. Forse che Dio non voleva bene anche a lui, Tore, che qualche volta (lo doveva confessare) aveva tagliato la coda a qualche lucertola e una volta aveva, addirittura, ucciso un ragno? Certo lui si era pentito, aveva capito che faceva qualcosa di male, ma anche quel pastore si poteva pentire del male fatto. Ma, forse, al pastore quando era piccolo nessuno aveva detto che certe cose non si fanno, che sono peccato. E allora, chissà, Dio puniva di più quelli che non avevano detto niente al pastore su quello che era buono e non buono fare.

Perché Tore una cosa aveva imparato da solo: tutto quello che si sa bisogna subito insegnarlo agli altri, altrimenti poi si perde, si dimentica. E soprattutto gli altri poi sono meno bravi a fare le cose oppure le fanno cattive, come forse il pastore. Anche per questo, gli avevano detto una volta, esistono i libri, dove ognuno scrive quello che sa.

E così Tore aveva pensato di scrivere un bel libro, con dentro tutte le cose che aveva imparato fino ad allora e quelle che avrebbe imparato dopo. E un giorno aveva comprato un bel quaderno, tutto colorato, a righe, aveva trovato una bella penna, si era seduto sotto un bell'albero di noci, enorme, che faceva una bella ombra e, con tante idee in testa e una grande gioia nel cuore, aveva cominciato a scrivere. Ma dopo dieci minuti aveva sentito un rumore dietro di lui e aveva visto con la coda dell'occhio una lunga biscia, nera nera, che cercava di scappare nella sua tana, e lui l'aveva seguita. E fu così che Tore non scrisse mai un libro con dentro tutto quello che sapeva.

Poi una mattina, appena sveglio, sentì che qualcosa non andava.

Eppure il sole passava dalle fessure della persiana, i mobili erano tutti nella stanza, al loro posto. Ma nell'aria c'era qualcosa che non andava, qualcosa di freddo, qualcosa che non c'era; sentì la mancanza di un profumo: non c'era l'odore del caffellatte fatto con amore, quello che la mamma gli portava ogni mattina. Non voleva alzarsi, voleva restare ancora lì, a vedere se la sua mamma si fosse ricordata di lui che era solo a letto, e fosse venuta a portargli il caffellatte e a prenderlo per portarlo con lei come tutti i giorni.

Espresse forte forte questo desiderio dentro di lui, pensando al Dio dei ragazzini col motorino smarmittato e di quelli che lo riparano quando si rompe. Ma non successe niente.

Ma di una cosa era sicuro e per questa volle alzarsi. Passò davanti alla stanza della mamma, piena di gente che parlava a bassa voce e andò in cucina. Lì a terra, accanto alla poltroncina vicino la finestra, c'era il cestino con le cose che la mamma usava per ricamare e dentro, ripiegata per bene, la tovaglia per l'altare. La prese di nascosto e corse fuori a guardarla. Sì, era finita, ed era bellissima con tutti i disegni e i colori al posto giusto: le foglie della vite di un verde che quelle della vigna di Giovanni si sarebbero vergognate di non essere come loro; un calice d'oro più splendente del più bel calice del re Mida.

E un'altra cosa cercava Tore su quella tovaglia. La rigirò a lungo finché in un angolo, proprio sotto a un grosso grappolo d'uva color del sole, trovò ricamato il nome di chi l'aveva fatta. E non si stupì quando lesse: "questa tovaglia là fatta la mamma di Tore".

Allora Tore capì che la mamma gli voleva ancora bene, anche se per quella mattina non gli aveva preparato il caffellatte.

Ancora nessuno si era preoccupato di andare nella sua stanza a cercarlo. Chissà se c'è un altro mare come questo in qualche altro posto dopo le montagne da dove tutti i giorni viene il sole? Pensò. E le bisce, sono uguali dappertutto?

Tore doveva scoprirlo. Andò in camera della mamma e puntò dritto al comò. Nessuno fece caso a lui. Per un attimo la vide da dietro tutta quella gente, stesa sul letto. Sembrava dormire, ma lui sapeva che era solo un trucco per poter stare per sempre col suo Tore. Sul comò c'era una cassettina di stoffa ricamata, dove sapeva che la mamma teneva i soldi. L'aprì, tirò via qualche spilla di plastica lucente che la mamma usava mettere sul vestito per i giorni di festa, e trovò i soldi, tutti avvolti e fermati con un elastico. Li prese e uscì dalla stanza. Poi uscì anche dalla casa e quindi dal cancello. Scese verso la stazione, dove tutti i mesi andavano con la mamma per prendere il treno che li portavano da quei signori che gli facevano tante domande, sempre le stesse e poi si arrabbiavano se lui dava sempre le stesse risposte.

Sotto un braccio reggeva la tovaglia ricamata dalla sua mamma, e in una mano teneva stretti i soldi perché sapeva che senza quelli il signore dietro lo sportello non gli avrebbe dato il biglietto per salire sul treno.

— Dove vai, Tore?

— Voglio andare in un posto dove c'è un altro mare.

— E la mamma non c'è oggi?

— La mamma è già andata e io devo raggiungerla. Mi dai il biglietto? — e gli tese la mano con i soldi.


(fine)



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Francesco Pino


Una brava attrice


Valeria aveva sedici anni quando cominciò a recitare. A scuola prendeva buoni voti, aveva degli amici e la sua famiglia si prendeva cura di lei.

Ogni giorno per Valeria era monotono e si ritrovava impantanata nel fango di uno strano mal di testa. Tutte le sere sentiva un malessere coprirle le spalle come un velo, sempre più pesantemente. La tristezza arrivava a colpi improvvisi, la sbatteva per terra e la faceva allontanare dagli altri ogni giorno di più. Una sottrazione che a poco a poco dava un risultato sempre più grande.

Valeria non osava parlarne. Temeva che le avrebbero detto: "Ma cos'hai da lamentarti? Hai tutto!" e siccome aveva tutto, si teneva tutte quelle sensazioni per sé, e taceva. Si permetteva di piangere sul cuscino la sera, ma non di singhiozzare troppo forte. Una ragazzina con bisogno d'attenzione? Lei si sentiva rinchiusa in una bolla che le impediva di essere triste. Lei non aveva alcun diritto di essere triste! Molta altra gente è triste e avevano buoni motivi per esserlo: alla vicina era morto il cane, ma lei che scusa aveva?

I falsi sorrisi che Valeria dispensava ai suoi genitori davano loro il titolo di "buoni genitori". I genitori dei suoi amici erano contenti che i loro figli frequentassero una ragazza con la testa a posto come lei. Ma i giorni passavano sempre più lentamente, con la lentezza di una barca che si muove tra le onde, in un viaggio noioso e senza fine. Una vita senza un faro a guidarla verso il porto. Ogni nuova alba la tirava fuori dal suo letto con malinconia. Lei avrebbe voluto rimanere dentro il suo soffice guscio ancora per delle ore. Ogni giorno si alzava sempre più stanca. Le occhiaie spiccavano sulla sua carnagione chiara. Quando le chiedevano il perché lei rispondeva che aveva fatto molto tardi sui videogiochi. Aveva sempre più problemi a uscir fuori dal letto. Sempre più spesso lasciava il cibo nel piatto e si alzava da tavola con la scusa dei compiti. Si mangiava le unghie, non sistemava più la sua camera… vi piangeva dentro e basta.


La sua migliore amica se ne era accorta che qualcosa non andava e glielo fece notare, ma Valeria le rispose che si era beccata un virus che la stava fiaccando e rendendo debole. Giorno dopo giorno il suo sguardo si spegneva e diventava sempre più cupo. Lei lo nascondeva con gli occhiali da sole. Era diventata una brava attrice e pertanto nessuno si allarmava sul serio, allora pensò che la gente non facesse caso a lei. Quelle volte che chiedeva alla mamma di poter restare a casa perché non si sentiva bene la madre le credeva sempre, quegli occhi rossi erano per lei la prova di un brutto raffreddore.

Senza rendersene conto Valeria finì per isolarsi da tutti, dal mondo intero. Viveva il suo dramma da sola e questo occupava quasi tutta la sua esistenza. Ma ogni giorno esistere diventava sempre più difficile e c'era qualcosa che le appesantiva il petto, come una massa viscida che impediva al cuore di battere regolarmente. Valeria non scherzava più con i suoi amici, si limitava a sorridere. Non dormiva più, sonnecchiava soltanto. Non mangiava più, sgranocchiava qualcosa. Non studiava più, leggeva solamente. Niente più motivazioni, niente più alcun desiderio; non voleva più niente. La solitudine le pesava così tanto che non aveva più alcuna scusa da inventare per la sua migliore amica e dunque non vedeva più nemmeno lei. La conseguenza fu che si sentì abbandonata e ignorata anche da Magda. Presto non arrivarono più messaggi e nessuno la invitò più per uscire.


Oggi Valeria non ascolta più nulla, tutto le è indifferente. È arrivata al limite, è solamente enormemente stanca.

È totalmente assorbita dai suoi pensieri: "Nessuno mi capisce, a nessuno importa niente di me." È l'apogeo della sua sofferenza, la realizzazione della sua solitudine, il crollo definitivo. Niente ha più valore. Se oggi stesso lei sparisse i suoi genitori avrebbero un motivo per essere tristi, la piangerebbero come lei non aveva il diritto di fare. Ma assieme a quel pensiero di morte arriva un imprevisto: Valeria si getta a terra, urla forte e piange ancora più forte. Nessuno sforzo riesce più a trattenere le sue lacrime e le urla si diffondono per tutta la casa. Come una bestia resa folle da qualche ferita non riesce a mettere nessuna immagine a fuoco, ma sente tanti occhi su di sé. Prova vergogna e si sente patetica. La stanza è opprimente, ma nessuno la sta rimproverando. Arrivano delle braccia che la avvolgono con energia e quell'energia è calda, è un calore di una dolcezza inaudita. Nessuno le sta dicendo di smettere di piangere e allora lei piange ancora più forte. Ha anche lei il diritto di essere triste! E allora c'è un'ultima cosa da fare: vuotare il sacco tutto intero. Un fiume di parole, tante che alla fine fa male la gola. Ma adesso ha l'impressione che sia solo la gola a farle male… e null'altro. 


(fine)



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Marino Maiorino


Il Toro Nero di Norvegia


Ogni ragazza ricerca l'amore

ma, dimmi, l'amore cos'è?

"Monta quel toro nero, infernale,

quello è l'amore per te".

Così mi ha detto una vecchia megera,

"Sali sulla fiera nera"

Io son salita, tu mi hai rapita,

e mi hai portata con te.


In una valle profonda, scoscesa,

il tuo nemico aspettava.

"Resta qui immota! Un passo non fare

o non ti potró ritrovare!"

Contro un demonio librasti la lotta,

il fragore mi ha sconvolta

e per un piccolo passo di lato

tu non mi hai più ritrovato.


Come riuscire da valle sì fonda

se i suoi declivi son vetro?

Vetro tagliente, fragil, leggero,

mortale è un simil sentiero.

C'era un buon uomo che vive costì,

fabbro di certa maestria.

"Servi alla forgia e io ti farò

scarpe per andare via."


Per te sette anni ho servito,

il colle di vetro ho scalato,

le vesti dal sangue ho lavato

e nemmeno uno sguardo mi hai dato.


Dopo sette anni con scarpe di ferro,

il colle di vetro ho scalato,

ma a ogni passo il vetro cedeva

e un'altra ferita mi ha dato.

Giunsi alla cima, dimora di strega

che un ospite aveva costì

con vesti macchiate di sangue rubino

un guerrier vicino a morir.


Se il sangue rappreso avesse lavato

la figlia l'avrebbe sposato

ma dalla camicia conobbi il promesso:

ferito, in deliquio eri tu!

Raccolte le vesti, portate alla fonte,

con cura ciascuna lavai.

Il sangue è scomparso, la macchia rimossa,

eppure di questo non sai.


Per te sette anni ho servito,

il colle di vetro ho scalato,

le vesti dal sangue ho lavato

e nemmeno uno sguardo mi hai dato.


La giovane strega mi ha tolto di mano

il frutto dell'opera mia.

È corsa al tuo letto, le vesti ti ha dato

e mente per essere tua.

Me non ricordi, ma ciò che ora indossi

l'han reso al candor le mie man.

Alla finestra a te piango, perduta,

il vero che lei non dirà.


Per te sette anni ho servito,

il colle di vetro ho scalato,

le vesti dal sangue ho lavato

e nemmeno uno sguardo mi hai dato.


(fine)



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Andr60


Giallo nero


Prologo

La donna, matura ma ancora piacente, scese dall'auto e si diresse verso lo chalet. Salì i tre scalini agilmente nonostante i tacchi alti, e bussò alla porta: — Amore, sono qui!

Nessuna risposta, allora lei insistette: — Ricky, lo so che ci sei, — disse, entrando. — vuoi fare il bambino cattivo come l'altra volta?

Girò per la casa per cinque minuti, ma non trovò nessuno. Spazientita, fece per uscire ma, appena mise la testa fuori dalla porta, qualcuno la colpì. Non seppe mai chi, perché era già morta prima di crollare sulla soglia, con il cranio spaccato.


1.

— Mamma, ti presento Olena Tkachenko. Sarà la tua nuova badante.

Mary Quantrill la squadrò da capo a piedi; una slava con mani da contadina, sprizzava gioventù da tutti i pori. Mary la odiò fin da subito: — Piacere, signorina.

— La prego, mi chiami Lena. — disse, porgendole la mano e stringendogliela non molto vigorosamente, forse temendo di farle del male, visto che l'aspetto della madre di Freddy era quello di una signora anziana piuttosto male in arnese, magra e fragile.

Freddy osservò soddisfatto; sembrava che sua madre l'avesse accolta bene. Le tre precedenti badanti erano scappate disperate, e Freddy aveva avuto il suo bel daffare per evitare delle denunce. Nonostante l'aspetto dimesso, Mary quando era arrabbiata poteva diventare molto aggressiva, e i piatti di casa ne sapevano qualcosa (Freddy aveva dovuto comprare due interi servizi da dodici, dopo aver raccolto i cocci dei precedenti, finiti, in parte, sulla testa delle poverette).

Si era sempre giustificato con la malattia della madre, nascondendo il fatto che il presunto morbo di Alzheimer non era stato diagnosticato da nessuno, ma si "accendeva" solo quando le faceva comodo, ossia quando a Mary qualcosa non andava a genio.

Sono i guai dei figli unici, sospirò Freddy tra sé.

— Mamma, mi raccomando: per qualunque cosa, rivolgiti a Lena. In ogni caso, — disse rivolto alla badante, — avete il mio numero di cellulare.

— Non si preoccupi, staremo benissimo. — rispose Lena, con un larghissimo sorriso.


2.

Ormai era una tradizione il tè con le amiche, e a Mary cominciava a piacere, anche il fatto di cambiare la sede ogni settimana. Non era mai stata una grande casalinga, infatti detestava le pulizie; però quel ritrovo periodico almeno la obbligava a tenere la casa in ordine, e ci teneva a che le sue amiche trovassero sempre inappuntabile ogni aspetto della sua dimora: dalla tovaglia nuova alle tendine fiorite, dai pasticcini freschi alla nuova essenza ambientale con la quale le accoglieva.

Quel giorno però accadde un fatto nuovo: la sua vecchia amica Dorothy arrivò accompagnata a un'altra donna della stessa loro età. Si chiamava Jennifer, si era trasferita da poco da Milwaukee ed era andata ad abitare accanto a lei.

Viveva da sola, aveva divorziato da poco e non aveva figli; Mary trovò fastidioso il fatto che Dorothy non gliene avesse parlato prima, di questa Jennifer.

Trovò ancora più fastidiosa l'occhiata che quella donna diede al suo Richard, quando rincasò dal lavoro e passò dal soggiorno, salutando educatamente il gineceo come sempre.

Richard era, come si usa dire, un gran pezzo d'uomo, prestante e volitivo; le sue amiche glielo invidiavano, e non facevano nulla per nasconderlo, anzi. Vincendo il naturale imbarazzo di Mary, era diventato uno dei principali temi delle loro conversazioni, negli ultimi tempi, nei quali invece i rispettivi mariti delle sue amiche avevano calmato di parecchio i propri bollori giovanili, soprattutto in camera da letto.

Invece Richard, puntuale come un orologio, arrivava all'appuntamento in ottima forma e con invidiabile efficienza, nonostante il fatto che non fosse più un giovanotto.


3.

Lena, oltre che badante, era una tuttofare: faceva la spesa, le pulizie, pure la dog sitter, visto che a Mary era venuta la mania dei cani.

Brutta cosa, la vecchiaia, si disse Freddy mentre guidava verso la casa dei suoi. A mamma Mary gli animali non erano mai piaciuti poi, improvvisamente, aveva comprato tre chihuahua uno più pestifero dell'altro. Freddy sospettava che c'entrasse l'improvvisa morte di papà Richard, a causa di un infarto. Trovarsi di punto in bianco la casa vuota doveva essere stato uno shock per lei, visto che anche il figlio — ormai un uomo — se n'era andato da tempo.

Da pochi mesi, però, Freddy era riuscito a ottenere il trasferimento lavorativo e ora poteva dedicarsi di più alla propria madre; la scelta della badante era stato il primo atto di questa assunzione di responsabilità, nonostante le perplessità di Jane, la sua convivente.

Mary aveva sempre avuto un carattere difficile, ma con l'età era peggiorata. Per fortuna con Lena le cose sembravano andare bene, soprattutto (sospettava Freddy) grazie alla giovane ucraina, che indubbiamente avete tutto l'interesse a non creare problemi, in vista del rinnovo del permesso di soggiorno.

— Tutto bene, signor Quantrill. Sua mamma a volte è un po' nervosa, ma la lascio sfogare e poi diventa un agnellino. — Lena lo accolse con un largo sorriso, come sempre.

— Ne sono lieto. Se per questo week end hai degli impegni, posso rimanere io a controllare mia madre.

— In effetti, sì. Se possibile, vorrei andare a trovare dei miei parenti. Mi farebbe un grosso favore.

Ma prego, puoi tornare lunedì mattina. — disse affabile Freddy, mentre la madre osservava la scena disgustata.


4.

Erano diventate inseparabili, Dorothy e Jennifer, e dove andava una l'altra la seguiva. Così le visite da Mary si fecero più assidue, anche oltre i consueti pomeriggi del tè, e le occasioni per incontrare Richard si moltiplicarono, per Jennifer.

Dopo la brutta impressione dell'incontro iniziale, Mary non ci fece più caso, allo scambio di occhiate tra i due, e per un po' non ci pensò più.

Ma un evento le fece cambiare idea; il marito le parlò di un convegno al quale era stato invitato. Si sarebbe tenuto in un mega-albergo fuori città ma, a differenza di altre occasioni, stavolta i dipendenti non avrebbero potuto farsi accompagnare dalle rispettive consorti.

Peccato, si disse Mary, sarà per un'altra volta.

Però poco dopo la partenza di Richard, Mary ricevette la telefonata di un suo collega che lo avvertiva che il soggiorno sarebbe durato un giorno in più, per permettere a tutti di rilassarsi con le famiglie al seguito.

Il collega aveva detto proprio così, insomma il suo Richard le aveva raccontato una bugia. Mary ci rimuginò per una settimana.


5.

Già l'avere estranei in casa era sgradevole per lei, ma con Lena la misura era colma. Quel suo modo di fare, quella sua aria perennemente soddisfatta e il fatto che canticchiasse quand'era allegra, beh... erano tutte cose che avevano risvegliato in Mary brutti ricordi che avrebbe voluto cancellare definitivamente. Ma era sempre in tempo per farlo, si disse. Aveva solo bisogno di pensarci un po' su.

Quando infine la vide ritornare il lunedì mattina con un vestito giallo a fiori, Mary seppe che doveva agire in fretta.

Salutò il figlio e diede alla ragazza la lista delle incombenze della giornata. La ragazza le svolse con puntualità ed efficienza, come al solito. Appena ebbe finito di pulire la casa, ormai dopo il tramonto e giunta l'ora di cena, Lena chiamò l'anziana signora, che non era in camera sua.

— Sono in garage, Lena. — rispose Mary, — Ti prego, vieni ad aiutarmi.

— Ma che ci fa in garage, signora? — le chiese Lena, entrando nella rimessa tutta impolverata — da quando Richard era morto, nessuno ci lavorava più.

— Avevo bisogno che tu fossi qui. — le disse Mary, tirando giù a metà la saracinesca.

— Vuole che pulisca anche qui? Ho notato che ha messo del cellophane sul pavimento. — Lena si stava interrogando sulle intenzioni di Mary, non capiva se stesse avendo una crisi.

La ragazza si sporse verso la vecchia, che con insospettata agilità e forza prese una grossa chiave inglese dal bancone degli attrezzi e la vibrò sulla testa della malcapitata.

Lena barcollò, poi crollò in ginocchio. Allora Mary, con un altro colpo ben assestato, le sfondò il cranio e poi infierì sul cadavere con altri colpi, tutti sulla testa. Il pavimento del garage non si macchiò di sangue e di materia cerebrale, il cellophane sì.


6.

Ormai il tarlo aveva cominciato a scavare nella sua mente. E le occhiate di Richard a Jennifer, e di lei a lui, una conferma ulteriore che ciò che sospettava era esatto.

L'intesa tra lei e il marito non era più la stessa; Mary per ogni sciocchezza iniziava a discutere con Richard, e il piccolo Freddy iniziò ad andare male a scuola.

"C'è forse qualche problema in famiglia, signora?": quell'impicciona della Farrys, cosa diavolo voleva da lei? Che spiattellasse ai quattro venti che il marito la tradiva? No, signora maestra, è tutto come sempre, sarà un momento passeggero, sa come sono i bambini…

Quella sera l'argomento era lo scarso rendimento scolastico del figlio, e Richard lanciò un'idea:  — Potremmo andare per il week end alla casa sul lago, sono secoli che ne parliamo e poi non se ne fa mai nulla, è un peccato perché è un posto bellissimo, ci rilassiamo e Freddy potrà giocare all'aria aperta, e lo porterò a pescare, e…

— Okay, va bene. — rispose sbrigativamente Mary, che detestava la campagna e le zanzare. Ma, almeno, per quel week end ci sarebbe stato un armistizio.


7.

— Quella tua amica se n'è andata.

Al telefono, Freddy se lo fece ripetere due volte: — Come sarebbe, se n'è andata? Quando è successo?

— Non lo so, stamattina mi sono svegliata e la sua stanza era vuota. Ieri sera ho preso un sonnifero, così ho dormito profondamente e non ho sentito niente.

— Senti, non fare nulla finché non arrivo. — il tono di Freddy era sconcertato; l'ultima cosa che si sarebbe aspettato da Lena era che piantasse quel lavoro così, di punto in bianco.

Freddy arrivò nel pomeriggio; Lena era scomparsa dal mattino, e il suo cellulare era muto. Freddy non aveva ricevuto alcun messaggio nelle ultime ore, ed era sempre più perplesso.

— Che c'è di strano? Le straniere sono tutte così, inaffidabili. — sentenziò la madre, infastidendolo alquanto.

— Lena non era così, quel lavoro le serviva troppo. Non capisco, a meno che non ci siano sotto altri motivi, forse familiari. — colto da un'idea improvvisa, armeggiò col suo smartphone per controllare la rubrica.

Con un'esclamazione soddisfatta, trovò il numero della cugina e lo compose subito.

Dopo qualche secondo di conversazione, disse deluso: — Nemmeno loro sanno nulla. Sarà meglio chiamare la polizia.

Attese cinque minuti, e finalmente qualcuno rispose. Dopo un po', Freddy disse alla madre: — Manderanno qualcuno a parlare con te, intanto faranno dei controlli.

— Okay, — rispose lei, con aria scocciata, — ma promettimi di non chiamare nessun'altra estranea. Me la so cavare benissimo anche da sola.

— D'accordo, per ora faremo così. Comunque chiamami, per qualunque evenienza. — Freddy si mostrava premuroso, però era davvero preoccupato per la ragazza ucraina. Che cosa poteva esserle successo?


8.

Nonostante le premesse, erano stati bene, in quella casupola che Richard aveva ereditato dai genitori. Un posto isolato, al riparo da occhi e orecchie indiscreti, adatto per le famiglie. O gli amanti. E se Richard ne avesse già approfittato, altre volte, con Jennifer o con altre?

Era lunedì, il tarlo aveva ricominciato a scavare caverne nelle sicurezze e nell'amor proprio di Mary.

Decise che era arrivato il momento di affrontare la situazione. Si presentò a casa sua: — Mary, che sorpresa! — esclamò Jennifer, ma non dovevamo vederci domani?

— Ero nei paraggi, ed è ancora presto per tornare a casa. — tergiversò lei.

— Hai fatto benissimo! Volevo giusto far vedere a te e a Dorothy il catalogo di carte da parati, per decidere quale prendere. — Jennifer la fece accomodare sul divano del salotto e poi si diresse nell'altra stanza in cui aveva i campioni di tappezzeria.

Del tutto casualmente, gli occhi di Mary caddero sul dépliant di un albergo che Mary aveva già sentito, posato sul tavolino.

Lo chiese a Jennifer, che rispose: — Ah, sì, me ne hanno parlato bene. Pare che nel prezzo delle stanze siano compresi anche idromassaggi e sauna, credo che ne approfitterò.

Era proprio quell'albergo; sì, quello del convegno di Richard, nel quale le famiglie non erano ammesse, almeno secondo lui.

Le venne un'idea. Continuò a parlare con Jennifer — anche se ormai non l'ascoltava più — e poi scelse a caso un campione di tappezzeria.

Si salutarono.


9.

— Sì, me la ricordo benissimo; aveva un vestito giallo a fiori, era difficile non notarla. E poi camminava in un modo… mi scusi, non dovrei parlare così con una signora. — il concierge, visibilmente imbarazzato, riconsegnò a Mary la foto.

— Non si preoccupi, — convenne Mary, — anche secondo me cammina sculettando in modo indecente.

La fotografia scattata durante un party di beneficenza e che ritraeva Mary insieme a Dorothy e Jennifer le era stata indispensabile, per avere finalmente la prova che cercava, ossia la certezza del tradimento del marito con quella puttana.

Jennifer doveva aver preso il dépliant in quell'occasione, ma non aveva fatto i conti con la gelosia di una moglie tradita.

Rimaneva una cosa da fare, e Mary era decisa a farla il più presto possibile.


10.

Era trascorso più di un mese, e Lena sembrava scomparsa nel nulla. Meno male che Mary sembrava davvero cavarsela da sola; l'unico aiuto, accettato di malavoglia, era una visita settimanale di Freddy e di quella Jane. A Mary non andava per niente a genio, la convivente del figlio; la trovava insulsa, poco interessante e piuttosto antipatica.

Comunque i due le facevano la spesa settimanale, e Freddy eseguiva le riparazioni della casa, all'occorrenza. Avevano anche preso un cane — Ma quale cane, quand'è che mi fai un nipotino? Gli aveva chiesto Mary, furente — un beagle che si era messo a frugare dappertutto e a litigare con i chihuahua.

Quando il cane uscì in giardino e passò vicino al salice si mise a guaire in modo strano, e a scodinzolare. Freddy chiese a Jane che cosa avesse, e lei disse: — Credo che abbia fiutato una traccia. Là sotto ci dev'essere qualcosa.

Freddy prese una pala nel garage e cominciò a scavare. Trovò delle ossa, o almeno gli sembravano tali, visto che non erano intere ma frammentate.

— Che cosa state facendo? — Mary, che stava facendo il riposo pomeridiano, si era svegliata e ora stava quasi urlando, — Volete distruggere il mio giardino?

— No, mamma. Il cane ha fiutato qualcosa e stavo controllando.

— Perché non lasciate quel cane a casa vostra? Qui combina solo guai.

Così Freddy richiuse il buco ma si tenne le ossa; voleva conoscere il parere di un esperto.


Dopo qualche giorno, il responso: erano sicuramente ossa umane, anche se il DNA era troppo danneggiato per fare un'analisi completa. Rimaneva da stabilire che cosa ci facessero ai piedi del salice del giardino di mamma, si chiese Freddy, sgomento.


11.

Non era stato facile trovare quella stradina seminascosta dalla vegetazione, ma alla fine c'era riuscita. Non aveva idea di cosa gli passasse per la testa, al suo Ricky; certo, doveva essere dura avere a che fare tutto il giorno — e la notte — con un tipo insopportabile come Mary. Per fortuna c'era lei, pronta a fargli dimenticare tutte le preoccupazioni e a soddisfarlo così come lui la soddisfaceva; era stata fortunata a trovare un uomo come Richard, dopo tante delusioni e tanti omuncoli che alle prime difficoltà se la squagliavano, o le rubavano il portafoglio e scomparivano — le era successo, per ben tre volte. Dall'ultimo omiciattolo aveva divorziato, ed era stata una liberazione: cosa le era venuto in mente di sposare un tipo così insignificante e fisicamente poco prestante? L'unica sua qualità era un buono stipendio, ma Jennifer se n'era stancata presto, di un così misero vantaggio. E, forse, anche il suo ex, visto che non aveva fatto la minima difficoltà a concederle il divorzio e la sospirata libertà.

Ma ora era tutto diverso, con Ricky: era stato un campioncino di football al college, aveva una posizione sociale consolidata e un lavoro impegnativo. Unico difetto, la moglie; con le spinte emotive giuste, Jennifer era sicura che sarebbe riuscita ad averlo tutto per sé.

Era arrivata, finalmente! Chissà perché non le aveva telefonato, invece di lasciarle quello strano bigliettino nella posta. L'avrebbe scoperto presto. Scese dall'auto stando attenta a non spiegazzare la gonna del vestito giallo a fiori che adorava e che la faceva sentire così sexy, e si diresse alla casa, facendo un gran rumore e stando attenta a non prendere storte sulla ghiaia, con quelle scarpe dai tacchi troppo alti per quel terreno.


12.

L'auto della polizia, anziché fare il consueto giro di vigilanza del quartiere, parcheggiò davanti a casa Quantrill.

Due detective in borghese scesero e bussarono alla porta, mentre stavano cenando: — Vorremmo parlare con Richard e Mary Quantrill. — dissero a Mary.

— Perché? Che cosa è successo? — chiese Mary, mentre il marito si avvicinò.

— Volevamo sapere se conoscete Jennifer Moore, che è scomparsa da una settimana. Dorothy Lambert, la sua vicina di casa e sua amica, ci ha detto che è anche una vostra conoscente, e volevamo sapere se l'avevate vista o sentita. — chiese il primo, un nero corpulento e dall'aspetto poco rassicurante.

I due si guardarono negli occhi: — No, non l'abbiamo vista e non ha telefonato.

— La sua auto è stata ritrovata abbandonata sul ciglio di una strada periferica. Avete idea di dove potrebbe essere andata? — chiese il secondo poliziotto, un bianco obeso e, dall'aspetto, alle soglie della pensione.

— Nessuna. Sa, non siamo così amici e non conosciamo molto di lei.

— Capisco. Be', se avete notizie o se vi viene in mente qualcosa, questo è il mio numero. — disse il nero a Richard, porgendogli un biglietto da visita.

I poliziotti uscirono e i coniugi Quantrill chiusero la porta alle loro spalle.

Richard guardò nuovamente la moglie, che mantenne fissi gli occhi su di lui e disse: — Andiamo a tavola. La cena si fredda.


13.

Freddy l'aveva appena chiamata dal posto di lavoro, non poteva proprio accompagnarla da Mary, si sarebbe trattenuto ancora per almeno un'altra ora.

Jane fece una smorfia di disappunto; non aveva la minima voglia di ritrovarsi da sola con lei, non sapeva dire perché ma le dava i brividi, quella donna.

Suonò alla porta di casa, portando i pacchi della spesa: — Mary, sono io, Jane.

Mary andò ad aprire e vide che c'era solo la — futura? — nuora, che non sopportava. A malincuore, le aprì l'uscio: — Freddy non viene più?

— Arriverà più tardi, è stato trattenuto. Dove metto la spesa?

— In cucina.

Jane entrò e vide che, nel lavandino, c'era un sacchetto di carne congelata che Mary aveva lasciato sotto l'acqua corrente.

— Non finisci il pollo allo spiedo che ti abbiamo portato ieri? — domandò incuriosita Jane.

— Quella carne non è per me, è per i miei tesorini.

— Ma io ho comprato i bocconcini Fido…

— Non le voglio quelle schifezze, meglio la carne vera.

Jane prese il sacchetto e lo guardò con più attenzione.

— Cosa c'è che non va? Non hai mai visto della carne scongelata? — il tono di Mary era volutamente sarcastico, proprio non riusciva a nascondere la sua antipatia per lei.

— Che pezzi di carne sono? — chiese a Mary.

La mamma di Freddy, meno sicura del solito, iniziò a tergiversare: — Non so, non ricordo, mi pare degli ossi buchi…

— Ho studiato un po' di anatomia, al college, — rispose Jane, — ma quelli mi sembrano dischi vertebrali, e non di bovino. Dove hai preso questa carne?

— Me la sono procurata. È forse un reato? — rispose brusca Mary, arrossendo lievemente.

Senza rispondere, Jane si ricordò improvvisamente che Freddy gli aveva detto che in garage i suoi avevano un grosso congelatore, nel quale stipavano la scorta di cibo di prodotti congelati per settimane intere.

Ci andò di corsa, seguita da Mary che la tallonava. Aprì lo sportello e vide tanti sacchi e sacchetti, pieni di pezzi di carne di origine incerta; un sacchetto però attirò la sua attenzione; le sembrò di vedere una piccola farfalla, che aveva tutta l'aria di un tatuaggio.

Pallidissima, si voltò verso Mary, che si era allontanata da lei ma era rimasta impassibile: — Lo sapevo che eri pazza, sei da rinchiudere in manicomio! Telefono subito alla polizia! — le ultime parole Jane le gridò.

Imperturbabile nonostante la situazione, Mary si avvicinò lentamente alla serranda del garage e la tirò giù a mezz'altezza. Curiosamente, osservò solo in quel momento che Jane indossava una maglietta gialla con i fiorellini.


(fine)



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Roberto Bonfanti


Rescissione di contratto


Egr. Sig. Babbo Natale,

con la presente formalizzo la rescissione del mio contratto con lei.

Immagino che questa lettera non la sorprenda più di tanto, probabilmente aveva già intuito la mia intenzione, vista l'assenza di comunicazione fra di noi, che dura ormai da parecchio tempo. Le assicuro che questa decisione è stata da me ponderata a lungo, non la prenda come avventata e dettata dall'impulso del momento.

In passato avevo più volte espresso la mia perplessità riguardo al peggioramento del servizio da lei fornito, rimostranze che sono rimaste del tutto inascoltate: mai un cenno di risposta, una telefonata, una email, una lettera, mi sarei accontentato anche di un semplice prestampato standard da parte di uno dei sui collaboratori (o aiutanti, come li chiama lei), le consiglio di curare un po' meglio il customer care, un'azienda moderna deve porre più attenzione alla soddisfazione dei clienti. È proprio questo l'aspetto sul quale verte la mia critica: la sua impresa non ha saputo evolversi, rimanere al passo con i tempi. Fin quando lei operava in regime di monopolio si poteva permettere di condurre il suo business con metodi tradizionali, senza preoccuparsi della concorrenza, oggi non è più così.

In fondo, e con questo non voglio sminuire l'importanza, anche simbolica, del suo marchio, il suo lavoro è semplice: si tratta di raccogliere le ordinazioni, preparare la merce, imballare e recapitare i pacchi ai destinatari, che c'è di complicato? Lei mi risponderà che le consegne devono avvenire in un periodo di tempo limitato, è vero, ma queste sono le condizioni che lei stesso ha stabilito, fanno parte della sua politica aziendale e sono indicate nel contratto, ne ha sempre fatto un punto di forza della sua impresa, sono il motivo per cui finora mi ero avvalso del suo servizio. Adesso anche questo non è più una sua esclusiva, tanto per farle un esempio, una nota azienda di Seattle evade quasi la totalità degli ordini in un giorno, non solo il 25 dicembre, ma tutto l'anno! Invece, da parte sua, sempre più spesso ho subito ritardi e mancate consegne. Non mi venga a dire che l'ubicazione della sede rende problematica la logistica; dislochi, apra filiali in altre zone, si espanda.

Ma la ragione principale che mi ha spinto a questa, mi creda, dolorosa decisione riguarda la conformità della merce rispetto alla richiesta. C'è stato un tempo in cui non potevo lamentarmi, ordinavo una cosa e quella mi arrivava, col passare degli anni ho notato quanto sia scaduto questo aspetto del suo operato, aggravato dal suo pessimo servizio di reso, del tutto inesistente: alla fine mi sono ritrovato in casa un mucchio di articoli inutili che ho dovuto svendere, anzi, praticamente regalare.

Anche i suggerimenti che le avevo dato per migliorare la sua immagine sono rimasti del tutto inascoltati. Non ci voleva molto per puntare a un target di clienti più glamour: un po' di palestra, qualche tatuaggio, una bella Harley Davidson e lei poteva diventare un'icona hipster coi fiocchi. E invece? Niente, sempre sovrappeso, infagottato nel suo vetusto pigiamone rosso e con la slitta trainata da quelle povere bestie, alla faccia degli animalisti! Non sarà a causa del contratto capestro di sponsorizzazione con la multinazionale delle bibite gassate?

Insomma, fra mancate consegne, merce sbagliata e disguidi vari mi trovo costretto a prendere la decisione di cui sopra.

Non le rubo altro tempo (anche se in questo periodo immagino ne abbia molto…), la chiudo qui. Devo scrivere due righe al Coniglio Pasquale: se anche quest'anno trovo un altro portachiavi nell'uovo di cioccolato annullo tutte le ordinazioni da qui all'eternità!


(fine)



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Nunzio Campanelli


Il quadro completo


Luca aveva ventisette anni. Faceva anche un bel lavoro, almeno secondo l'opinione comune dei suoi amici e familiari. Impiegato dello stato, sentiva però l'intero peso del mondo gravare sulle spalle, quando varcava la soglia dell'ufficio.

Quella mattina si trovava sul palco. Suo il compito di fare il preambolo introduttivo al discorso del direttore generale. Di fronte un centinaio di facce con un'espressione incerta tra la rabbia per l'invidia e il sussiego per il dirigente, che si trovava subito dietro di lui.

Cominciò con i saluti di rito, e mentre stava per iniziare il suo brevissimo intervento guardò un istante fuori della finestra, così, tanto per restituire un po' di profondità al suo sguardo.

Non c'era niente di particolare da vedere, se non le case, le strade, la gente, le auto.

Rimase interdetto. Guardò di nuovo fuori. Un brusio attraversò la platea, mentre un lieve sorriso di scherno cominciava a delinearsi sul viso di qualcuno.

Non c'era niente di particolare da vedere. Lo sapeva ma continuava a guardare fuori. Non era attirato da quello che vedeva, ma da quello che non vedeva.

Il direttore schiarì la voce, mentre un moto impercettibile cominciava a manifestarsi sulla palpebra del suo occhio sinistro.

Luca continuava a guardare fuori. Il brusio aumentava, alimentato dalle esclamazioni di falso sussiego e da quelle di pura cattiveria.

Cos'e che mancava in ciò che stava vedendo di fuori? Eppure era quello che guardava tutti i giorni. Non si era mai accorto di quella dissonanza, fino a quel momento.

Continuava a guardare fuori. Poi, all'improvviso, capì. Lo sapeva da sempre, ma finora aveva fatto finta di ignorarlo. Ogni volta che aveva guardato fuori, negli ultimi due anni, tanto era il tempo che lavorava in quell'istituto, lo aveva capito. Salvo poi relegare quella consapevolezza in un recondito angolo della sua coscienza, fino a dimenticarsene.

Smise di guardare di fuori, prestò attenzione alla sala, e lentamente iniziò a parlare, tra la visibile delusione dei colleghi. Il sopracciglio del direttore, che nel frattempo aveva iniziato una specie di danza accompagnando il moto ininterrotto della palpebra, si fermò all'istante.

— Il mio compito, questa mattina, è di parlare per due minuti prima del discorso del direttore che sta aspettando qui alle mie spalle. Non è molto importante ciò che dirò, basta che usi un tono brillante e delle frasi colorite. Sì, c'è scritto così nel programma stilato dalla segretaria: Ore dieci "introduzione - argomento di carattere generale. Usare un tono brillante e frasi colorite. Bene: io non lo farò. Non lo farò perché ho scoperto proprio in questo momento, vi sembrerà strano ma è così, che c'è una cosa che devo assolutamente fare ora. Sì proprio adesso. Pertanto vi saluto.

Fece per andarsene quando, come ricordandosi di una cosa, ritornò indietro riprendendo il microfono in mano: — Scusate, dimenticavo: fanculo.

Scese dal palco dirigendosi verso l'uscita, accompagnato dagli sguardi di una platea ammutolita. Il volto del direttore si era pietrificato in una incomprensibile smorfia.

Scese di corsa le scale, percorse velocemente il lungo corridoio, aprì il grande portone di vetro e uscì all'esterno.

Si diresse verso un bar che si trovava lì vicino. Mentre camminava girò la testa indietro per vedere quella finestra da cui, fino a pochi istanti prima, stava guardando fuori. Dietro i vetri vide una moltitudine di facce.

Giunto al bar, si mise a sedere su un tavolino sul marciapiedi. Era visibilmente felice.

Arrivò una ragazza a prendere l'ordinazione.

— Cosa prendi?

— Ma, non saprei. Tu che dici?

Lei pensò di trovarsi di fonte all'ennesimo imbecille che ci provava, ma quel ragazzo era così contento che non riusciva proprio a trattarlo male. Gli sorrise.

Lui scansò un poco la sedia vuota di fianco e le fece segno di sedersi.

Lei si sedette.

Lui guardò di nuovo verso quella finestra, poi disse: — Sai, li invidio.

— Quei tipi che ci stanno guardando? Perché?

— Perché ora possono vedere il quadro completo.

— Il quadro completo?!

— Già!


(fine)



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Athosg


La verità sia con te


Alle tre di notte i due ragazzi intrapresero il viaggio di ritorno verso l'appartamento. La macchina correva a cento l'ora lungo la strada che costeggiava il mare.

Tom era alla guida mentre Jerry teneva la testa appoggiata al finestrino, guardando di sbieco la distesa lucida e biancastra sotto la luce lunare. Oltre il parapetto s'intuiva lo strapiombo buio e selvaggio.

Vai piano Tom, se prendi la curva sbagliata, ci facciamo un volo di cinquanta metri le parole gli uscirono leggermente biascicate.

Io mi salverei, tu non lo so fu la secca risposta.

All'improvviso ci fu un'accelerazione. L'auto sbandò in curva per poi stabilizzarsi nuovamente. Jerry vide la montagna avvicinarsi e si drizzò sul sedile.

Hey!

Coglione di un effeminato, mentre io facevo l'autista, tu te la spassavi con la biondina. Adesso fai il coniglio.

Non t'incazzare. È stata una bella serata, che ti posso dire rispose Jerry indispettito.

Tom ascoltò e tacque. Poi, di botto, replicò: Restiamo un altro giorno. Ne parleremo con il proprietario. Partire domani mattina per evitare il traffico mi sembra da stupidi. Ho un po' voglia di divertirmi. Dai!

Jerry lo osservò. Sapeva che Tom aveva un carattere duro e a volte diffidava di lui: E che dovremmo fare secondo te? C'è sempre il ragazzino, e Bonnie finirebbe nelle mie braccia.

Oh sì, lo so. Il tuo fascino ha colpito ancora! Appena conosciuta e già si è innamorata. Io invece sempre a bocca asciutta. Io ti dico che ho voglia di rivederli.

Jerry si stirò e diede un buffetto sulla gamba dell'amico: — Senti Tom, siamo sempre stati amici particolari, ogni volta che siamo insieme ci divertiamo da matti. Tom & Jerry, chissà dove saranno stati? Al bar non vedranno l'ora di rivederci! Ieri sera è andata bene a me perché tu stavi guidando. Qualche bacio, una ripassata alle tette e via. Ho il suo numero ma non la rivedrò più. Purtroppo. — Sospirò con enfasi paternale. Non dobbiamo fare a gara tu e io, nessuno di noi è talmente più bello dell'altro da prevaricarlo e umiliarlo. La prossima volta capiterà a te. OK?

Quando mai? Lo sai che sono uno sfigato. Cristo.

Il colpo di clacson prolungato fece sussultare Jerry. Era stanco di quella discussione e voleva solo dormire. Non c'era in giro nessuno, la strada sembrava la pista di un autodromo.

In pochi minuti arrivarono al loro alloggio immerso in un silenzio assoluto, poca luce e un'aria fresca e frizzante. Non sembrava ancora estate.

Dio mio! Tornare a casa è la scelta migliore, non ho voglia di stare in questo posto un altro giorno. Vorrei rivedere Bonnie, ma da solo però, invece tu sarai in mezzo a noi provocò Jerry.

Era stanco e i baci di quella ragazza gli avevano lasciato in dote una sensazione di rilassatezza profonda e una voglia di affondare la testa nel cuscino. Tom non disse niente.

Salirono in casa, si spogliarono e si buttarono sul letto.


Il sole li svegliò alle undici, intorpiditi e affamati. Tom era il più sveglio. Prese uno straccio e ripulì lo specchio imbrattato di rossetto. Ripercorse il tourbillon esagerato che li aveva presi la sera precedente, quel comportarsi come ragazzini in gita scolastica. Si ricordava che il ritorno in macchina era stato un autentico supplizio. Lui davanti con Dylan, con gli occhi rivolti allo specchietto retrovisore a controllare Jerry abbracciato alla ragazza, le bocche incollate e le mani che s'intrufolavano tra i seni. Guidava e deglutiva, guidava e sudava. Guidava e guardava Dylan, immobile e pensieroso con lo sguardo fisso davanti a sé. Aveva tentato di imbastire uno straccio di conversazione ma si era completamente impappinato, e allora si era finto indifferente alla situazione.

Dopo una decina di minuti di pulizia tutto era ritornato come prima. Lo specchio che rifletteva la sua immagine era perfettamente lindo. Gettò nel cestino il giornale che Dylan intimidito dal gran casino aveva finto di leggere. Tom si guardò intorno soddisfatto, come se avesse cancellato per sempre il ricordo di quella notte.

Chiamò il proprietario per chiedergli di stare un giorno in più. L'uomo gli rispose che la stanza era ancora loro.

Tom, raggiante, prenotò senza neanche tentare di abbassare il prezzo. Jerry sbuffava a ripetizione: Continuo a non capire perché ci dobbiamo fermare un altro giorno. Io e lei, tu e lui. Non ne vale la pena Tom. Ci trascineremo in una serata dove io sarò legato dalla tua presenza, e tu sarai incazzato per nulla. Se torniamo a casa, ci si vede la sera al bar. Ti prometto che non racconto nulla, non faccio lo spaccone. Dove siete stati? Ci chiederanno. Oh, al mare, a fare un giro, risponderemo.

Tom si grattò la testa: — Un'altra sera amico, ci divertiremo un poco rispose.

Ancora? alzò la voce Jerry, — per cosa poi. La magia è finita. Le conosci anche tu queste serate incredibili, sono fantastiche, hanno qualcosa di magico che evapora nello spazio di poche ore. Poi tutti a nanna.

Dai, andiamo a fare un giro al mare. La questione è chiusa disse Tom zittendolo definitivamente.

S'incamminarono lungo la strada principale. La giornata di sole aveva richiamato tantissime persone e l'estate cominciava a far sentire il suo calore.

Tom camminava senza meta e Jerry lo seguiva a un paio di metri di distanza.

Dai Jerry, chiamala e organizza un aperitivo per stasera disse Tom voltandosi all'improvviso.

Aspetta un attimo, poi la chiamo.

Dai Jerry, non farti pregare. Ci sarà festa stasera, se chiami più tardi, magari non ha tempo per noi.

Jerry sbuffò, diede un ampio sguardo al golfo soleggiato e prese il cellulare.

Dopo due squilli una voce allegra riempì l'aria.

Oh my God, che sorpresa! esordì.

Ciao Bonnie, come stai? Hai dormito bene?

Benissimo! E tu? Mi hai pensato?

Sì, ti ho pensato tanto rispose impacciato. Sentiva sul collo l'alito di Tom.

Volevo chiederti se ci potevamo vedere stasera. Non siamo ancora partiti e allora…

Sì, anch'io ho voglia di rivederti. Però ci sarà anche Dylan. Mio cugino è ancora un ragazzino e non saprei dove mandarlo.

Se è per questo, ci sarà anche Tom. Senti, beviamo qualcosa tanto per stare insieme tutti quanti. Più avanti mi piacerebbe venire a trovarti in Inghilterra.

Mi farebbe piacere. Ne parleremo Jerry. Intanto per stasera ci possiamo trovare al John Cabot, un disco pub. Cerca l'indirizzo, è vicino a casa mia.

Sì. Alle otto va bene?

Ok, ci vediamo lì. Kiss chiuse la telefonata Bonnie.

Jerry rimirò il telefono, girandoselo tra le mani. Sentì la voce di Tom giungere da dietro le spalle.

Allora?

Allora l'appuntamento è alle otto al John Cabot.

Devi vestirti bene amico. Ci sarà la tua bella in ghingheri.

Jerry lo guardò e sorrise mestamente.

Ritornarono in albergo a passo lento.


Alle sette in punto entrarono in birreria. Era un bel locale, ampio e arredato completamente in legno. Grandi banconi si alternavano a tavoli più piccoli; all'esterno c'erano altre postazioni composte di sedie, piccoli pouf e tavolini molto bassi. Sempre all'interno erano appese ai muri gigantografie di cantanti rock. Jerry si avvicinò e cominciò a osservare un'enorme foto di David Bowie ai tempi di Ziggy Stardust. Si era vestito in maniera molto sobria con un paio di jeans e una maglietta bianca dell'Hard Rock Cafè di Barcellona. Tom indossava un paio di pantaloni marrone e una camicia azzurra. Non era mai stato molto moderno nel vestire e peccava anche in praticità e abbinamento dei colori. Si era pettinato i capelli all'indietro con tantissimo gel, sembrando più vecchio di quanto fosse in realtà.

Alle sette e dieci arrivarono Bonnie e Dylan.

La ragazza indossava un vestito leggero di colore acquamarina con un nastrino rosso intorno al collo. Era fresca e bella, sinceramente bella, pensò Jerry. I capelli biondi scendevano leggeri sulle spalle e qualche piccola lentiggine spuntava sulle guance. Dylan invece sembrava un autentico milord. Pantaloni blu e una maglietta rossa Fred Perry. Ai piedi portava un paio di scarpe Timberland.

Sorrisero nel vedere i due italiani in attesa del loro arrivo. Con Bonnie si scambiarono dei piccoli baci di saluto mentre Dylan diede loro un maschio cinque. Sembrava più sicuro rispetto la sera prima e biascicò qualche parola in italiano. Era proprio un ragazzetto di buona famiglia.

Ciao ragazzi, come state? esordì Tom un po' guardingo.

Benissimo, oggi abbiamo fatto un bel bagno a Bergeggi gli rispose Bonnie sorridente.

Il ragazzino non parlava, sembrava avesse già perso la baldanza iniziale. Jerry accarezzò il braccio paffuto di Bonnie e lei gli prese la mano. Si scambiarono un bacio fugace.

— Ragazzi, Dylan e io vi vogliamo fare una sorpresa. Facciamo un aperitivo e poi vi portiamo a casa nostra. Abbiamo il biliardo e altre cose divertenti.

— Uh uh —  bofonchiò Tom.

Jerry sorrise stupito.

— Bene, che beviamo?

— Quattro negroni —  fece Tom.

— No, per Dylan qualcosa di più leggero!

— Va bene, allora tre negroni e uno sbagliato.

Il barista li guardò e non disse nulla. Cominciò a preparare i cocktail.

In breve tempo li mise sul bancone del bar accompagnandoli con alcuni piattini di olive e patatine.

Bonnie prese il bicchiere e declamò: — Alla nostra salute e al nostro incontro. Dylan e io quando ritorneremo in Inghilterra ci ricorderemo di voi e di questi bei momenti passati insieme. E promettiamo di migliorare il nostro italiano.

Gli altri si unirono in un cin cin allegro e scanzonato. Bevvero avidamente e il primo a posare il bicchiere vuoto fu Dylan.

Tom lo guardò e cominciò a ridere.

— Good Dylan, very good. Il ragazzetto era rosso in viso e alzò le braccia in segno di vittoria.

— Ti piacciono le ragazze italiane? Se vuoi, ti dico cosa preferiscono fare ai maschietti —  gli disse appoggiando il bicchiere.

Bonnie lo guardò con curiosità e prese la mano di Jerry.

— Dai Tom, è un ragazzino.

— E allora? Non sarà mica frocio!

— Che vuol dire frocio? chiese Bonnie.

— Tom, dai, fai il bravo —  esortò Jerry.

— Ok OK. Cameriere, raddoppiamo.

Il cameriere preparò altri quattro cocktail. Allegò anche il conto. I ragazzi guardarono lo scontrino.

— Sessanta euro. Pago io. Papà mi ha lasciato un po' di soldi —  disse Bonnie tra il finto stupore generale. Tutti alzarono i bicchieri e fecero un altro brindisi.

— All'estate e al papà di Bonnie! urlò Jerry, porgendole la mano.

— All'estate! gli fece eco la ragazza. I due sorridendo cominciarono a duettare. La musica era alta con le note di Stand by me degli Oasis e tutti i presenti cantavano a squarciagola.

Jerry e Bonnie si staccarono dal bancone. Dapprima con giri di walzer poi sempre più vicini, fino a che la ragazza ebbra si avvinghiò a Jerry. Cominciarono a baciarsi e a conoscersi. Le sue labbra erano morbide e Jerry la stringeva con estrema dolcezza. Ballarono leggeri fino a quando inciamparono nelle loro stesse gambe e caddero a terra.

— Mi piaci Bonnie.

— Anche tu italian boy!

Le loro risa risuonarono alte nel locale e anche il barman danzava con loro.

Tom era fermo in un angolo, acquattato dietro l'andirivieni che si era scatenato. Barcollò vistosamente, e per non perder l'equilibrio, si appoggiò a una mensola. Anche Dylan giunse sul posto dietro a Tom. Due pesci fuor d'acqua.

La serata aveva preso la direzione prevista, e se ognuno dei due esclusi si era immaginato uno svolgimento diverso, la realtà li stava riportando con i piedi per terra.

Bonnie si avvicinò ai due e fece loro una piccola carezza chiusa da un inchino. Era felice nella sua innocenza giovane e rideva voltandosi a guardare Jerry.

Tom le prese un braccio con forza, negli occhi un lampo di rabbia futile. La giovane le sorrise e lo condusse tenendolo per mano.

— Wow, quando sento la voce di Liam Gallagher, non riesco a star ferma.

I tre la guardarono in silenzio, ammirando la bellezza e la semplicità di quella giovane inglesina che stava incantando tutti.

Bonnie prese Dylan per un braccio e chiese. — Che facciamo cugino? Andiamo a casa?

Assentì.


Jerry fu il primo a uscire dal locale, saltellando ipercinetico. Gli altri lo seguirono.

Percorsi un centinaio di metri si ritrovarono in un quartiere signorile, con case a due e tre piani. Sostarono davanti a una di queste. Bonnie prese le chiavi dalla borsa e aprì il cancello. Tom e Jerry la seguirono curiosi.

Entrarono nell'appartamento.

La ragazza li prese entrambi per mano e li portò a visitare i locali.

— Ora ci troviamo nel salone delle feste, più in là c'è lo studiolo di mio padre, poi la cucina, il bagno e due stanze da letto. In una ci dormo io e nell'altra Dylan. Il ragazzo sentendo il suo nome arrossì. Jerry istintivamente pensò a come il giovane Dylan curiosasse nella stanza della cugina. Probabilmente non si sarebbe persa una sua doccia neanche se avesse sofferto di mal di denti.

Tom girando per la casa fece segno di compiacimento.

Ogni cosa era al posto giusto, si notava il buon gusto e l'armonia degli oggetti. Il vaso nell'angolo, le mazze da baseball, la spada, i grandi quadri, le tende così bianche da sembrare fosforescenti.

— E poi, sorpresa delle sorprese, abbiamo la cantina con i giochi. Dylan, prendi la chiave che andiamo giù a giocare a biliardo.

Il ragazzetto prese una chiave appesa al muro e aprì la porta dell'appartamento per andare al piano di sotto.

— Scusa dov'è il bagno? chiese improvvisamente Tom.

— È in fondo al corridoio. Voi cominciate pure a scendere. Poi Tom e io vi raggiungeremo —  disse Bonnie.


Dylan e Jerry uscirono e imboccarono la rampa delle scale.

Giunti nel seminterrato Dylan aprì una porta. Un grande salone si aprì alla vista di Jerry. Vi erano un biliardo, un tavolo da pingpong, una panca, una cyclette, un tapis-roulant e un punching-ball attaccato al soffitto. Era tutto pulito e organizzato, con l'aria condizionata messa a temperatura ideale.

— Stupendo. Ci vieni con tua cugina ad allenarti? ruppe il ghiaccio Jerry.

— Sì, a volte. A lei piace fare la panca e correre sul tapis-roulant. Io preferisco dare qualche pugno. Mio padre, quando viene qua in primavera, si allena spesso —  rispose Dylan in un discreto italiano.

— Mi piace tua cugina.

— L'ho visto.

— Piace anche a te.

— È una domanda?

— Sì e no, è anche un'affermazione.

— È mia cugina, mi conosce dalla nascita.

— Una gran bella ragazza, in Italia così ce ne sono poche.

Dylan lo guardò sospettoso e diede un gran pugno alla palla di gomma pendente dal soffitto. Jerry ammirò la sua forza. Si mise in posa e provò anche lui. Il risultato non fu lo stesso. Il colpo, anche se più potente, non aveva l'energia e la secca velocità del pugno di Dylan.

I due si guardarono e per la prima volta sorrisero. L'italiano cominciò a girare per la stanza, finché prese una stecca da biliardo. Il ragazzino lo osservava, mentre Jerry si allenava a tirare a casaccio. Le biglie scivolavano leggere sul tappeto verde smeraldo. Mirò alla palla contrassegnata con il cinque, il suo numero fortunato. La colpì bene, con un colpo secco e la biglia s'infilò in buca senza toccare nessuna sponda, diretta come un filotto.

Jerry era alticcio e aveva voglia di provocare il ragazzo. Sembrava un damerino ma spogliato dei vestiti da milord poteva divenire un'altra persona.

— Verrò a trovarla in Inghilterra —  incalzò Jerry.

— Uh.

— Abiti vicino a lei?

— No, io più a nord, saranno circa trenta chilometri.

— La vedi spesso?

— Non capisco.

— Ti chiedo se la incontri spesso.

— Ogni tanto. Quante domande che fai.

— Diciamo che se una persona mi piace vorrei sapere tutto di lei.


Tom uscì dal bagno. Non sentiva più nessuna voce e cominciò ad aggirarsi per la casa. Vide Bonnie che guardava fuori dalla finestra. Era a piedi nudi e il vestito si era un po' scollacciato. Quando si voltò, la ragazza gli fece un sorriso e gli disse — Andiamo.

— I tuoi genitori non vengono quest'estate in Italia?

— Sì, credo a fine luglio verrà mio padre. Sono separati e mia madre non viene qua da parecchi anni —  gli rispose la ragazza.

Tom non capì bene, e ripeté la domanda. Stava cercando d'imbastire un discorso plausibile ma trovava grandi difficoltà. Capiva che non c'era gran feeling e in sovrappiù trovarsi solo con una ragazza gli mandava sempre il sangue alla testa. Si sedette sul divano, con le gambe aperte e la testa all'indietro.

— Che hai Tom? Non stai bene?

Tom non disse nulla. Si diede una spinta e in una frazione di secondo fu in piedi. Dai, raggiungiamo gli altri — ripeté Bonnie.

Tom le si avvicinò e cercò di abbracciarla. Bonnie fu colta di sorpresa e reagì respingendolo con forza. Che cosa fai? Dai non fare lo stupido — gli disse guardandolo impaurita.

Ton si avvicinò di nuovo, con più decisione. La ragazza lo respinse ma lui era nettamente più forte. Lasciami, lasciami altrimenti urlo. Smettila!

Tom non parlò, le aveva cinto le spalle e la strinse forte a sé. Come in un goffo tango la fece girare su sé stessa, ora lui era dietro di lei e la immobilizzava. Bonnie mugolò e cercò di scalciare.

 Dai Tom, sono stanca, lasciami, mi fai male.

 Sei bellissima.

 Basta, se continui lo dico a Jerry.

 Sei stupenda.

Tentò di baciarla sul collo spostandole con forza i capelli. Bonnie si difese dandogli una gomitata. Tom la strinse ancora

più forte sui fianchi, immobilizzandole le braccia.

Passo dopo passo come in una danza la spinse in camera.

Bonnie non credeva a quello che stava succedendo. Era felice appena era arrivata nella casa e desiderosa di mostrar loro la bellezza e comodità dell'appartamento. In un attimo ripensò alla serata, al perché si trovasse in quella situazione.

Cercò una difesa scomposta, quasi disperata.

Tom era una furia, la baciava ovunque e con le mani frugava scomposto sotto il vestito.

Si rovesciarono sul letto.

Le saltò sopra tenendola ferma, prese la scollatura del vestito e tirò a tutta forza. Il cotone leggero si stracciò come carta fino a che la ragazza rimase a seno nudo. Bonnie si piegò in due, tentando di coprirsi le parti intime. Le lacrime le inondarono il viso, gli occhi cominciarono a bruciare e a vedere il mondo offuscato. Era paralizzata e non riusciva a urlare.

Tom si slacciò i pantaloni, si strappò la camicia e si asciugò il sudore. Ansimava. Le aprì le gambe con forza.

Bonnie non reagì, una voce flebile sibilò nel silenzio della camera. No, nooo, che fai? …non voglio fare nulla… ti prego… —  lo supplicò a bassa voce.

Tom si liberò dei pantaloni e con furore animale entrò in lei. Forte, violento, prolungato in profondità. Il sangue aveva già macchiato le lenzuola candide mentre Bonnie guardava affranta il soffitto della stanza. Non riusciva a gridare, sentiva fortissime le urla nella testa ma dalle labbra le uscivano solo spifferi, mentre ogni tipo di energia stava per abbandonarla.

Il furore di Tom si placò dopo un tempo interminabile. Poi giacque su di lei, stordito e svuotato. Bonnie, sentendo che la bestia aveva perso vigore, lo spinse via e, come risvegliata da un lungo torpore, cominciò a urlare il suo dolore disperato. Un grido di orrore verso il mondo, complice della sua libertà offesa e straziata.

Tom si rigirò su sé stesso tramortito.

Il grido echeggiò forte. Raggiunse il pianerottolo, scese per le rampe e si disperse nel seminterrato ammantando la palestra e il biliardo.


Dylan e Jerry sentirono quell'urlo e si guardarono in faccia stupiti. Il più lesto fu il giovane inglese, che scattò come un felino. Jerry rimase come pietrificato per qualche secondo, il tempo necessario al ragazzino di oltrepassare la porta della palestra, che si richiuse impietosamente in faccia a Jerry, intrappolandolo nel locale.

Era una porta blindata di vecchio tipo che si apriva solo con la chiave, rimasta nella tasca di Dylan. Cristo! Pensò Jerry, cominciando a martellare la porta, urlando e inveendo, conscio che qualcosa di brutale fosse già successo. Sentiva l'odore acre della paura sulla sua pelle, il terrore di qualcosa di troppo grande e malvagio. Si maledì per la sua stupidità prendendo la porta a spallate.

Dylan corse le scale a tre gradini alla volta, con l'adrenalina a mille.

Entrando in casa, guardò subito nel salone. Non c'era nessuno. Vide il letto sfatto in camera sua. Vi entrò.

Bonnie si era accucciata in un angolo, seduta sul pavimento ricoperta con ciò che rimaneva del vestito color acquamarina. La testa tra le ginocchia, tremante. Piangeva sommessamente.

Tom la bestia era sdraiato con le braccia aperte. Il lenzuolo, proprio quello in cui ci aveva dormito la notte prima, era sporco di sangue.

Dylan arretrò con gli occhi sbarrati, inebetito dalla piega che avevano preso gli accadimenti. La memoria ritornò al giorno prima quando avevano conosciuto quei due italiani.

Ricordò come in un film visto decine di volte la cugina che amoreggiava con Jerry e lui intorpidito che leggeva quel giornale di cui capiva ben poco di ciò che era scritto.

Ritornò nel salone, camminando tentoni, inciampando nel tappeto e finendo sdraiato sul divano.


Jerry nel seminterrato tentava disperatamente di aprire la porta. Prese il cellulare e subito lo lasciò cadere. Era scarico. Si trovava prigioniero del nulla. Urlò qualche nome in maniera sconnessa, mentre girava sconclusionato per la palestra.


Dylan si alzò dal divano. I cinque minuti in cui era stato sdraiato lo avevano reso più forte. Una voce lontana lo guidava nella sera. Una delle tante voci che lo accompagnavano nonostante lui cercasse di zittirle. Ora si sentiva atletico come un eroe dell'antichità. A lunghi passi gironzolò per la casa senza meta.

Tornò da Bonnie. La voce si era trasformata in un lamento ossessivo, le ombre parlanti si avvicinavano e lo circondavano. Attaccata alla parete verso la cucina, vide una katana. Si avvicinò all'arma, la esaminò con cura e la staccò dal muro. Come un lampo si ricordò che era un regalo di suo padre dopo un viaggio in Giappone. La rimirò in tutta la sua lucentezza e maestosità e la appoggiò a terra.

Fece un giro dell'appartamento.

Ritornò in camera e prese per mano Bonnie, la strinse a sé baciandola in fronte. La ragazza lo abbracciò. Quante volte avrebbe voluto dirle che la adorava, bruciante nel fuoco di una devozione assoluta davanti alla dea della bellezza.

Avrebbe voluto genuflettersi dinanzi a tanto splendore. Ma era troppo tardi.

Le voci nella testa erano diventate urla, un sabba rock che suonava a intermittenza.

La condusse nel salone. Con leggerezza la fece distendere sul divano e la coprì con un plaid. La mano a chiuderle gli occhi fu leggera e con un fresco, fugace bacio le sfiorò le labbra.

Ritornò nella camera. Si sentiva forte, unì le mani, le portò sopra la testa e le fece discendere lungo i fianchi. Il mondo era ai suoi piedi, la rabbia era scacciata dalla sicurezza della sua potenza.

Fu di nuovo davanti a Tom. Lo guardò, duro e indifferente. La bestia aveva gli occhi socchiusi e lo vide arrivare. Il suo sguardo spento ornava un viso esangue; respirava lento, svuotato di ogni reazione possibile sotto il peso della colpa.

Dylan gli si pose davanti, alzò la katana davanti a sé, dritta dinanzi agli occhi, poi la fece zigzagare con estrema velocità. Riportò l'arma nella posizione iniziale, con la lama perpendicolare agli occhi, a inscenare una figura geometrica. Tom non si mosse.

Dylan s'inchinò, appoggiò la lama della katana sulla propria fronte e diede un colpo. Una sottile linea rossa si aprì e il sangue a piccoli rivoli cominciò a scendere sul viso del giovane.

Si rialzò.

Rimase in quella posizione per alcuni minuti, ritto e immobile con la spada all'altezza del cuore.

Arretrò leggermente alzando la katana. La verità sia con te.

La voce baritonale ruppe il silenzio. Il colpo da sinistra a destra partì deciso, energico e perfetto. La punta della lama toccò la gola di Tom, quel tanto bastante a provocare un profondo taglio che cominciò copioso a sanguinare. Il corpo della bestia ebbe un sussulto, s'inarcò leggermente e poi ritornò in posizione mentre un rantolo gli si spegneva in gola.

Tutto tacque.

Dylan si girò verso lo specchio con un sorriso.

S'immaginò lo stupore dei suoi compagni di scuola se lo avessero visto in quel momento. Le voci ora stavano diminuendo d'intensità. Il sabba rock cominciava a diminuire il ritmo con piccoli colpi di basso dal suono circolare e tutto andava scemando verso il buio. Il sangue scorreva sulle sue guance.

Si girò di lato.

Sulla destra aveva le gambe di Tom, entrato nel mondo dei morti.

S'inginocchiò, prese la katana con entrambe le mani, diede un ultimo sguardo verso l'alto, appoggiò la lama all'addome e spinse con forza.


(fine)



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Giovanni P.


L'angelo di legno


Alle porte di un cimitero di campagna la natura avanzava, riprendendosi quello che gli uomini le avevano tolto e a lei ora tornava. Ghiande e foglie ormai non scricchiolavano più sotto il passo delle persone, solo gli animali frequentavano quegli spazi. Nelle colline circostanti tutto era diventato selvatico e incolto, le viti e gli olivi crescevano selvaggi, mescolandosi con la macchia fatta di spine.

Il tempo esercitava una pressione lenta, ma potente. Quel cimitero era l'ultimo baluardo del passato "regno degli uomini", prima che migrassero nelle città, lasciando la falce e la vanga per impugnare il martello o la chiave inglese. Così il cimitero dormiva dimenticato. Presto la natura, approfittando dell'incuria, lo avrebbe conquistato, pochi centimetri alla volta.

I semi, portati dal vento o dagli uccelli, si erano trasformati in piccoli arbusti che sbucavano sul ghiaino grigio del cimitero.

Se qualcuno li avesse visti avrebbe giudicato la cosa in maniera romantica, ma per la natura era guerra, era riconquista e rivalsa.

I marmi bianchi, ormai sbiaditi, subivano l'erosione della pioggia e del vento. Le lettere di ferro, che raccontavano sullo sfondo di marmo qualcosa dei defunti, piangevano ruggine e imbrattavano di rosso i marmi, candidi come ossa. Le piogge più aggressive lavavano via quell'ossido rossiccio, dando un'idea di decoro ritrovato, ma quelle più leggere tornavano ad aggredire le lettere forgiate in ferro, quasi a voler ricordare come lo scorrere inesorabile degli anni e madre natura fossero ormai alleati indissolubili.

Le sbiadite fotografie rendevano solo una vaga idea di quanti furono, in tempi lontani, uomini baffuti, giovani in divisa, donne con fazzoletti in testa e anziani contadini. Foto sobrie, ognuna simile alle altre, che davano un'idea di dignitosa semplicità. Alcune lapidi erano inclinate come relitti in attesa di affondare, altre erano ormai solo sassi bianchi coperti di muschio. Solamente la parte dedicata ai bambini resisteva allo scorrere degli anni, come se la natura avesse pietà di quei piccoli e volesse risparmiarli dal suo bottino di guerra.

Lì c'erano minuscole lapidi, decorate con piccoli angeli scolpiti o con fregi infantili. L'erba aveva trasformato il cimitero dei bambini in un prato tenero, sempre verde pure nei mesi estivi, quando tutto il resto diventava giallo e secco. A far compagnia a quelle piccole tombe c'era una figura scolpita nel legno, alta e slanciata, ma non bella da vedere, anzi, a tratti era inquietante.

L'intagliatore era stato, in fin dei conti, un semplice amatore che ci aveva messo il massimo dell'impegno, anche se non sorretto dall'esperienza.

Un angelo di legno, sproporzionato e grezzo, aggredito dal muschio che ne copriva le piccole ali e le mani giunte, in origine con la funzione di candeliere.

Era l'opera di un ragazzo che aveva perso il fratellino a causa della spagnola.

Quel ragazzo dopo la perdita fu perseguitato dal piccolino che, ogni notte, turbava i suoi sogni.

Il ragazzo non parlò mai a nessuno di quei sogni, ma provò invece a capirli e interpretarli.

Ogni notte il fratellino piangeva, spaventato dal buio e il ragazzo comprese cosa doveva fare.

Raddoppiò i suoi turni di lavoro presso il fattore così da poter ottenere in cambio un enorme tronco di legno ricavato da una quercia.

Il lavoro fu lungo e faticoso, ma vissuto con affetto e svolto col massimo dell'impegno. Quando l'angelo di legno fu finito, il suo creatore accese per la prima volta una candela sulle sue mani.

Quella notte il fratellino visitò ancora i sogni del fratello maggiore, ma poi lo salutò e ringraziandolo svanì. Il ragazzo non lo sognò mai più.

L'angelo di legno illuminava le tombe dei bambini proteggendoli dal buio, dispensando loro un po' di conforto. Il ragazzo lo chiamò Yuvvi, e fino a che visse su quelle colline, non fece mai mancare la luce. Ogni sera, che fosse estate o inverno, lasciava accesa una piccola candela fra le mani dell'angelo.

Ma il ragazzo non poté farlo per sempre, e da anni il cimitero, stretto nella morsa della natura, non era più cosa per gli uomini.

Quell'angelo di legno diventò obsoleto, inutile nella sua immobilità. Il muschio copriva tutto il suo corpo, la natura se lo stava prendendo, lo stava riportando a casa. I suoi occhi erano completamente coperti, ma le sue orecchie no. Il suo creatore aveva avuto l'accortezza di scolpirgliele, così che potesse ascoltare. Quel ragazzo aveva parlato al suo angelo tante volte, confessandogli i propri sogni e le proprie paure, come avrebbe fatto con un amico.

Yuvvi ascoltava. Rimase in ascolto per molto tempo, fino a quando non si svegliò. Quando ciò avvenne anche lui ne rimase stupito. Forse era merito della linfa che ancora gli scorreva dentro, o forse erano i lamenti dei bambini che erano tornati ad avere paura del buio.

Una notte sentì per la prima volta la sensibilità nel suo corpo. Yuvvi si mosse, si stiracchiò e azzardò qualche passo. Non vedeva nulla, dovette grattare via dai suoi occhi tutto il muschio cresciutoci sopra.

La prima cosa che riconobbe furono gli alberi. I suoi passi furono indirizzati verso il bosco di querce, che in un certo senso era la sua famiglia. Sentì il bisogno di toccare un albero, forse nella speranza di poter tornare a essere come lui. Avrebbe voluto accogliere il richiamo della foresta, ma furono i lamenti dei bambini a trattenerlo.

Provò a ignorare le loro suppliche, ma poi decise di accontentarli. D'altronde conosceva ognuno di quei bimbi, era lì quando la morte li aveva separati per sempre dai loro cari. Li aveva sentiti ridere e scherzare ogni giorno, come li aveva confortati nelle notti buie, tenendo un po' di luce fra le sue mani. Non poteva abbandonarli, lo doveva al ragazzo che lo aveva scolpito.

Lui gli aveva impresso nella corteccia molti sentimenti con le sue carezze, parlandogli come se fosse vivo. Inoltre se non fosse stato per quel ragazzo sarebbe diventato legna da ardere. Yuvvi guardò la foresta dondolare al vento, il suo animo accusò una forte nostalgia, ma fu stoico. Salutò la foresta e tornò dai bambini. I suoi passi tornarono a gracchiare sotto il brecciolino per poi accomodarsi sull'erba che copriva il cimitero dei bambini.

— Ditemi — disse Yuvvi. E subito loro si lamentarono in maniera chiassosa, parlando tutti insieme. Yuvvi provò a calmarli, ma invano. Sapeva benissimo di cosa avevano bisogno, volevano la luce. Il buio era tremendo, al punto da sembrare infinito. Non lasciava la possibilità di poter vedere nulla. Chiunque si sarebbe sentito solo. I bambini piangevano e si lamentavano per questo. Quel coro di voci entrò come un fiume nella testa di Yuvvi. Lui cercò a lungo la soluzione a un problema che non poteva essere risolto.

— Yuvvi, sono Marco!

Una voce saettò nella testa di Yuvvi, interrompendo il corso di tutte le altre.

— Marco?!

Quel nome fece scricchiolare tutta la sua fibra legnosa. Marco era il fratellino del ragazzo che lo aveva costruito. Yuvvi sapeva tutto il poco che c'era da sapere del piccolo Marco, lo conosceva che era ancora un tronco di legno perché chi lo aveva scolpito gli aveva parlato a lungo di lui.

— Dimmi, Marco.

— Virgilione mi ha raccontato che c'è un altro mondo.

— Virgilione?

— Sì!

Virgilione era uno dei tanti defunti nel cimitero degli adulti. Era così grosso che quando morì servirono otto persone per trasportarlo. Yuvvi ricordava di aver sentito spesso questa storia.

— Va bene chiederò a lui, ma voi state buoni e cercate di avere pazienza.

I bambini smisero di piangere e Yuvvi si avviò incespicando verso la parete dei forni. Una volta lì, tastando le lettere sulle lapidi, trovò quella di Virgilione.

— Virgilio, apri, sono Yuvvi!

Il marmo suonò sordo contro le sue nocche. All'interno del forno si sentirono dei rumori simili a quelli di un animale nella sua tana.

— Che cosa vuoi Yuvvi?

Una voce rauca, profonda come fosse stata quella di un mostro, uscì da dietro la lapide.

— È vero che esiste un mondo oltre questa lapide?

— Sicuro!

— Allora fammi entrare.

— Perché vuoi venire qua?

— Perché ai bambini manca la luce, e io non riesco a trovare una soluzione. Forse nel mondo che sta di là è possibile trovarla. Qui nessuno può darmi la luce, gli uomini non ci sono più.

— Non è una buona idea.

— Senti Virgilio, io non ho niente da perdere, sono inutile ormai da troppo tempo.

Fammi tentare.

La pietra fece un rumore simile a quello di una serratura, un alito di aria gelida soffiò sulla sua corteccia.

— Come vuoi...

— Bene.

La pietra cadde a terra. Una faccia corpulenta con due occhi enormi uscì dal buio.

— Accomodati Yuvvi, e buona fortuna.

La faccia sparì nel buio rientrando verso l'interno. Yuvvi si affacciò dentro al fornetto, gattonando affrontò le tenebre. Pochi metri dopo, le sue mani persero l'appoggio del piano che le sosteneva.

Il suolo era umido e morbido, e lui rotolò senza che la sua corteccia si rompesse, ma si bagnò di rugiada. Una volta in piedi i suoi occhi vennero aggrediti da qualcosa che non sapeva spiegare. Yuvvi, tenendo gli occhi serrati, cercò a tastoni il punto dal quale era uscito, poi la voce di Virgilione lo ammonì.

— Vuoi già andartene?

Yuvvi si bloccò.

— No Virgilio, è che c'è qualcosa che non va. I miei occhi hanno qualcosa.

— Stupido. I tuoi occhi non hanno niente che non va, anzi.

— Anzi cosa?

Virgilio rise.

— Adesso puoi vedere i colori.

Yuvvi capì. Quello che vedeva non era frutto di un disagio, tutt'altro. Lo spavento si dissolse e il mondo che lo circondava si fece meraviglioso. Alzò lo sguardo verso il cielo e vide qualcosa di stupefacente. Le stelle che aveva visto ogni notte, qua erano enormi. Sembravano piccoli soli ammantati di aloni e aure variopinte.

— Addio, Yuvvi.

A quelle parole Virgilio sparì nell'apertura che aveva fatto da ingresso. Yuvvi non ebbe la prontezza di salutarlo, di questo se ne dispiacque.

La natura intorno a lui era più variopinta di quella che aveva lasciato, più esotica. Le piante non avevano spine ed era pieno di fiori enormi. Accarezzò l'erba per apprezzarne la consistenza grassa.

Ma la meraviglia durò poco. Una sensazione che non sapeva descrivere lo attanagliò. Guardandosi intorno scorse delle sagome dalle quali due occhi rossi lo puntavano.

Non si dilungò in inutili domande, lasciò che l'istinto lo facesse correre lontano da quegli occhi. Corse con tutto il fiato che aveva. Mentre scappava sentiva la sua corteccia bruciare, più gli inseguitori erano vicini più il dolore era intenso.

Gli inseguitori erano sui suoi passi, più lenti di lui, ma inesorabili e caparbi. Yuvvi correva fra alberi e massi per non bruciare vivo, sentiva che se si fosse fermato sarebbe finito così. Purtroppo però non era abituato a correre e si stancò, se solo le sue ali di legno fossero state utili al volo sarebbe volato lontano. Dovette fermarsi a riprendere fiato, non aveva altra scelta. Sentì il bruciore pizzicare, poi farsi febbre, poi diventare dolore. Quei mostri gli erano quasi addosso, lo sentiva.

— Scappi da loro?

Un coro di voci aveva parlato all'unisono.

— Chi siete?

— Chi sono vorrai dire.

Il bruciore aumentava.

— Con quali intenzioni sei arrivato qua?

La corteccia scottava, il dolore era insopportabile.

— Devo aiutare dei bambini.

— Questo lo vedremo. Se dici la verità sei salvo, altrimenti rimpiangerai di non essere stato bruciato da chi ti sta inseguendo.

Il coro di voci non aggiunse altro. Yuvvi sentiva ogni fibra del suo corpo ardere come se fosse stato gettato in un caminetto acceso.

— Aiutatemi, vi prego...

Alle parole smorzate di Yuvvi, un enorme serpente uscì da un cespuglio. Yuvvi ne aveva visti di serpenti, qualche vipera o qualche biscia. Non sarebbe stata una gran sorpresa se non fosse stato per le dimensioni. Il serpente era così lungo da non vederne la fine e così grosso da sembrare un mostro marino.

— Non ti muovere.

Il coro di voci apparteneva al serpente. In un attimo il serpente avvolse delicatamente Yuvvi coprendolo completamente. All'interno delle spire il bruciore si spense del tutto.

— Sento che hai detto la verità. Non ti faranno più del male.

Yuvvi intuì che il sonno stava per sopraffarlo. Una volta chiusi gli occhi iniziò a viaggiare fra ricordi e visioni fantastiche.

— Dormi pure Yuvvi, io ti proteggerò da tutto. Poi riprenderai il tuo viaggio, ma non sarà semplice.

Yuvvi dormì abbracciando chi lo aveva salvato da quei mostri. Il serpente aspettò pazientemente il suo risveglio.

— Stai meglio Yuvvi?

Yuvvi toccò tutte le parti del corpo che prima bruciavano, si rese conto di non aver subito danni.

— Sì, serpente, grazie. Ma come fai a sapere il mio nome?

— Chiunque tocchi la mia pelle mi trasmette i suoi pensieri e le sue emozioni, quindi so tutto di te.

— Non capisco.

— Non ha importanza, trova Lucero. Lui possiede la luce.

— Lucero?

— Sì. Lo troverai nella palude, dovrai attraversare il fiume per raggiungerla.

— Ma ci sono quei mostri che mi hanno inseguito.

Il serpente si gonfiò e poi rise.

— Non lo faranno più Yuvvi, parola mia.

Yuvvi capì che doveva andare, avrebbe voluto dire tante cose a quel serpente che lo aveva salvato, ma non trovava le parole, quindi lo toccò. Il serpente emise dei soffi che sembravano delle fusa e si acquietò.

— Vai adesso piccolo sciocco di legno.

Le sue ultime parole furono dette con tenerezza, dopo di che sparì dentro la chioma di un albero dalle foglie viola.

Yuvvi riprese il suo cammino seguendo il rumore del fiume. Il fiume era un sospiro lontano che riusciva a malapena a sentire. Un passo alla volta, il sospiro divenne fragore, e infine l'acqua ruppe il paesaggio fatto di erba. L'altra sponda era lontana, troppo per raggiungerla a nuoto. Yuvvi toccò l'acqua, e il contatto con questa gli dette una sensazione strana, al punto da balzare all'indietro verso la sponda.

— Non provare ad attraversare il fiume, non farlo da solo.

Yuvvi non capiva chi aveva parlato, quella voce non aveva una direzione.

— Sono qua. Aspettami.

Qualcosa di freddo gli aveva toccato la spalla. Si voltò. Un vecchio scarno era apparso al suo fianco sinistro. Aveva gli occhi rossi come i mostri che lo avevano inseguito. Yuvvi sentì che doveva stare calmo, quel vecchio non gli avrebbe fatto del male.

— Chi sei?

— Io sono Pesaho. Hai bisogno di me e della mia zattera per passare oltre.

— Ti prego, aiutami.

— Aspettami qua, vado a prendere la zattera.

Il vecchio sparì nel nulla da cui era apparso. Qualche istante dopo una zattera gli venne incontro dal buio.

— Sali!

Yuvvi obbedì.

La zattera si abbassò e imbarcò dell'acqua, quando Yuvvi vi saltò su.

— Non farci caso, succede sempre.

— Sono così pesante?

— Lo è quello che hai dentro.

Yuvvi non capiva. Pesaho iniziò a immergere un enorme palo che andava a toccare il fondo del fiume. Facendo forza, la zattera si staccò dalla riva. Il vecchio era coperto da uno straccio logoro e i suoi occhi emettevano un bagliore vermiglio. La zattera solcava il fiume lentamente, la riva sembrava sempre al solito punto.

— Non ci stiamo avvicinando.

A quelle parole di Yuvvi, la zattera imbarcò altra acqua. Il vecchio rise teneramente.

— La pazienza è come il silenzio, cioè d'oro.

La voce di quel vecchio, nonostante il suo aspetto inquietante, era calma e rassicurava chiunque avesse paura.

— Scusami, ma ho paura.

— Lo so. È la tua paura che ci appesantisce, la paura frena qualsiasi tragitto.

— Proverò a calmarmi.

— Non è questione di provare, devi ascoltare. Il fiume va ascoltato.

Yuvvi ci provò, ma riuscì ad ascoltare solo le sue paure, e la zattera stava affondando sotto di esse.

— Così non andiamo da nessuna parte.

Nelle parole del vecchio non c'erano toni di rimprovero. Aveva sempre il solito tono dolce.

— Facciamo un gioco.

Yuvvi annuì, la zattera era quasi sommersa.

— Adesso chiuderai gli occhi e immaginerai quello che io ti racconterò. Saranno poche parole, ma basteranno. D'altronde io non sono mai stato bravo a parlare.

Yuvvi annuì.

— Cielo che tuona, le api si riparano, pioggia sui fiori.

Yuvvi riuscì a visualizzare queste immagini, aveva sentito tante volte il cielo tuonare, le api poi erano una presenza fissa nel cimitero. Il pensiero della pioggia sui fiori gli fece ricordare quanto fossero belle le piogge estive.

— Va meglio?

Yuvvi rispose di sì.

— Allora continuiamo.

La zattera riprese a viaggiare.

— Possiamo rifarlo?

Il vecchio sorrise poi, annuì. Yuvvi chiuse di nuovo gli occhi.

— Scure che batte, profumo di resina, il fiume scorre.

Stavolta i ricordi di Yuvvi viaggiarono in luoghi che non pensava potessero esistere. Rivide il ragazzo che lo aveva scolpito con amore. Quel ragazzo voleva dare conforto a un bambino sfortunato che aveva lasciato tutto e tutti troppo presto.

— Pesaho come fai a parlare così?

— In che senso Yuvvi?

— Riesci a riportarmi dei ricordi che non credevo neppure di avere.

— Non è merito mio. Io sono solo un vecchio che traina una zattera, ma so ascoltare. L'ho imparato dal fiume e da tutti quelli che, attraversandolo, mi hanno insegnato qualcosa.

Yuvvi avvertiva dentro di sé un'emozione che non aveva mai provato e non sapeva spiegare.

— Pesaho...

— Sì, Yuvvi, ho capito. Chiudi di nuovo gli occhi, ma stavolta oltre a me ascolta anche il fiume.

Yuvvi provò a svuotare la testa, ma senza successo.

— Pesaho ho paura di perdere quei ricordi.

— Non puoi perdere qualcosa che è dentro di te.

Yuvvi si calmò, sgombrò la mente e aspettò che il vecchio parlasse.

— Sparo nel buio, sangue che sgorga, le lucciole volano.

Yuvvi vide il colore rosso che gocciolava nei suoi pensieri, poi nel buio le lucciole che brillavano.

— Siamo arrivati.

La zattera si era arenata su una piccola spiaggia.

— Yuvvi devi andare.

La riva che prima sembrava lontanissima era stata raggiunta in poco tempo.

— Grazie, Pesaho.

— Di niente Yuvvi, se tornerai qua la prossima volta ascolta il fiume, non me. Lui ha molte più storie da raccontare. Lui è ovunque nello stesso momento, lui scorre e sta fermo.

— Lo farò.

Yuvvi scese dalla zattera. Di fronte a lui c'era un sentiero. Pesaho lo guardò, sorridendo teneramente. La zattera ripartì andando incontro al buio, Yuvvi si sentì strano. Aveva qualcosa che si agitava dentro di lui, qualcosa che gli apparteneva, ma che non capiva. Non era la linfa, era qualcosa di nuovo. Si voltò verso il sentiero e senza una ragione iniziò a correre. Questa volta però fu differente, non come quando i mostri lo avevano inseguito. Sentiva e vedeva cose che non si possono sentire e vedere, ma che dormono dentro. Capì quanto quel viaggio lo avesse cambiato, quanto gli eventi lo avessero scolpito e plasmato. Il suo essere non era più solo il figlio del seme che lo aveva generato o del ragazzo che lo aveva scolpito.

Adesso era anche il risultato delle sue avventure.

La palude era di fronte a lui, illuminata solo dalle stelle. La luce era catturata dall'acqua scura senza che nessun riflesso venisse restituito. Non si sentivano rumori, neppure quello dei suoi passi. Quel luogo poteva essere davvero la casa di un custode della luce?

Yuvvi avanzò nella melma, in un paesaggio tetro fatto di alberi marci che sbucavano qua e là come schegge. Poi, in lontananza, vide un piccolo bagliore che non poteva essere una stella. Era esausto, ma pensò ai bambini del cimitero: ora, oltre al buio, erano pure soli.

Raccolse le sue forze e raggiunse un piccolo isolotto dove un enorme salice troneggiava avvolgendolo interamente. Sotto questo salice una piccola fiamma ardeva fra le mani di un ragazzino. Yuvvi si avvicinò, il ragazzino non distolse mai lo sguardo dalla fiamma.

— Chi sei? — domandò Yuvvi

— Mi chiamo Lucero.

Era lui, lo aveva trovato finalmente, ma non era come lo aveva immaginato. Era un ragazzino piccolo, con pelle chiara e spalle esili. Non era troppo differente dai bambini che aveva lasciato al cimitero.

— Chi sei? — chiese Lucero staccando per la prima volta gli occhi dalla luce che custodiva fra le mani.

— Mi chiamo Yuvvi, sono qua perché mi serve un po' di luce da portare nel mio mondo.

— Vieni da un posto buio?

— In parte. Quando è giorno il sole illumina tutto, ma quando il sole tramonta diventa tutto buio. Voglio portare la luce a dei bambini, loro sono soli e quando è notte hanno paura del buio.

Yuvvi guardò la luce, si rese conto che stava parlando al suo spirito, comunicando cose che la sua mente non riusciva a tradurre. Impossibile fissare per troppo tempo quella luce, era come guardare negli occhi qualcuno che si ama, senza avere il coraggio di dichiararsi.

— Apri la mano.

La mano di legno si distese il più che poté. Lucero inclinò la luce, come la cera di una candela gocciolò sulla mano di Yuvvi. Un piccolo bagliore, simile a una fiamma, si muoveva come una goccia di mercurio sul palmo legnoso, senza però trovare stabilità.

— Non sta funzionando.

Lucero sembrava preoccupato.

— Perché non funziona? — chiese Yuvvi.

Non lo so Yuvvi. Forse perché vieni da un altro mondo. È possibile che questa luce non sia compatibile con il tuo essere o il tuo mondo. Mi dispiace.

Lucero schioccò le dita e la luce saltò dal palmo di Yuvvi per ricongiungersi con quella nelle sue mani.

— Non affliggerti Yuvvi, non è colpa tua. Ci sono leggi alle quali tutti dobbiamo rendere conto.

Yuvvi aveva viaggiato ininterrottamente per raggiungere il suo scopo, ed era difficile accettarne la sconfitta. Rise di sé e di tutto ciò che aveva vissuto, perché ogni cosa al mondo può essere derisa. L'obbiettivo non era raggiunto, ma aveva raggiunto lui. Lo aveva modellato, costruito, istruito. Adesso, nel suo fallimento, era in pace. Pensò ai bambini, nella sua testa le loro voci chiamavano il suo nome. Avrebbe voluto piangere, ma il suo corpo non gli permetteva un simile sfogo.

— Calmati Yuvvi, le anime candide arrivano presto a destinazione, non conoscono ostacoli. Tu hai fatto un viaggio strano, sei cambiato al punto di non poter più tornare da dove sei venuto. Ma forse non è più un problema né per te, né per chi volevi aiutare. A volte quando si cerca qualcosa in maniera caparbia, senza voler accettare che questa sia impossibile da ottenere, si trova altro. Non puoi portare la luce ai tuoi bambini, ma si può fare il contrario.

Yuvvi non aveva ascoltato una sola parola. Sentiva solo le voci dei bambini, voci che gli parlavano come il fuoco di Lucero, o le parole di Pesaho. Quelle voci irrompevano nella sua testa sempre più invadenti, fino a che non si voltò.

I suoi occhi erano tutti per un fenomeno strano che si stava palesando alle sue spalle, nella direzione dalla quale era venuto. Un bagliore cangiante stava emergendo dal buio, squarciava il cielo nero probabilmente volando, mescolandosi con le stelle. Poi Yuvvi capì, erano farfalle, farfalle gigantesche e bellissime che brillavano nel cielo.

— Addio piccolo pezzo di legno. Sii libero, ora appartieni a questo mondo e a tutti i mondi che potrai e vorrai raggiungere.

Con queste ultime parole pronunciate con affetto, Lucero sparì nel nulla.

Le farfalle avevano la voce dei bambini, per la prima volta Yuvvi li sentì ridere mentre da lontano lo salutavano.


(fine)


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