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Indice:
E
Regolamento delle Gare…
Roberto Virdo'
Namio Intile
Mariovaldo
Alessandro Mazzi
Francesco Pino
Laura Traverso
Athosg
Fausto Scatoli
Ibbor OB
Roberto
sezione 13
una produzione
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presenta


A world apart

e gli altri racconti


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ebook della Gara stagionale di Primavera 2021


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Ebook della Gara letteraria stagionale di Primavera 2021


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: Golden melancholy, di Selene Nardelli (aka: Smiling Red Skeleton)


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara saranno pubblicati in un  ebook gratuito e a ogni ciclo di stagioni pubblicheremo un'antologia annuale.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Roberto Virdo'

(vincitore della Gara di primavera, 2021)


A world apart


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Golden melancholy di Selene Nardelli in arte Smiling Red Skeleton


Aveva vagato a lungo prima di decidere dove fermarsi. E solo all'inizio del pendio, quando l'erba alta accennava delicatamente a chinare il capo, ci si era tuffato dentro seguendo l'istinto. Avanzava lentamente, carezzando gialle spighe, verso quel luogo che per la prima volta si svestiva dei panni di un sogno lanciando primitivi segnali di una reale presenza: dapprima una leggera brezza, poi dei riflessi scintillanti e agitati sotto i quali si stendeva l'azzurra malinconia del mare al tramonto. Si lasciò avvolgere da quell'atmosfera sospesa tra stupore e nostalgia, assaporando qualche istante di pura intimità. In basso, lo stretto sentiero scavato nella roccia lasciava intravedere, al di là della svolta, delle grandi bande bianche e rosse interrotte da un'unica finestra e, qualche metro più in alto, una grande lanterna.


Un fruscio lo fece voltare. Giungeva un'anziana contadina che, aiutandosi nel cammino con un lungo bastone, trasportava dei fasci di spighe in una gerla, legati da una corda logora. Lui sentì un tonfo al cuore per la splendida cornice che gli si presentava davanti e le si avvicinò, porgendole una mano. Ma lei rifiutò con un pacato sorriso: "Ti ringrazio, straniero. Non prenderti pena, mi riposerò solo un istante". Così sedettero su una pietra uno accanto all'altra, come se fosse la cosa più naturale del mondo, in qualche modo perfino inevitabile.


Lei emanava una bellezza senza tempo che non lasciava immaginare l'età. Le innumerevoli rughe tradivano il peso degli anni, senza nulla togliere al suo fascino carismatico. Uno scialle scuro le cingeva le spalle, nascondendo in parte la camicia ad ampi quadri bianchi e bordeaux su cui scendeva una vistosa collana di gemme acquamarina, così singolare ma per nulla fuori posto, anzi capace di rapire l'attenzione alla stregua di un miraggio. Un grembiule blu copriva l'ampia gonna e i consumati zoccoli, ormai ingialliti. Quella donna appariva in perfetta armonia con il luogo e il momento, ancor più per i lunghi capelli color cenere, parzialmente legati sotto il foulard chiaro in una doppia treccia che simmetricamente si apriva, tanto somigliante alle spighe innanzi a loro. Il puro, denso celeste delle iridi, indistinguibile da quello della collana, aveva un che di magnetico capace d'inghiottire lo spazio circostante in un vortice inesorabile. Lui ne rimase stregato, e non gli fu difficile immaginare come quello sguardo avesse catturato gli incauti occhi che non lo avevano temuto, imprigionandoli per sempre in un mondo a parte, una via senza ritorno. Il loro numero doveva perdersi, come gli anni di lei, in un tempo lontano, innumerevoli giorni e notti in cui era stata sognata, desiderata, bramata oltre ogni limite. Su quest'ultimo pensiero si sforzò di arrestare quel fiume di emozioni e pensieri che lo aveva trascinato lontano.


Entrambi guardarono verso il mare poi la donna, condensando in un istante una miriade di impalpabili sensazioni, parlò: "Dimmi straniero, hai mai conosciuto l'amore?". Lui rimase dapprima sorpreso ma si convinse presto che quella rappresentava l'unica, tra le tante domande possibili, ad avere un senso laggiù. E che una risposta, in quel dimenticato risvolto di universo, non aveva più davvero importanza. Lei gli prese la mano per fargli intuire che capiva e lui si sentì di colpo stanco, vinto da un torpore sottile, penetrante come i rivoli d'acqua che s'infiltrano dolcemente, durante un temporale, zolla per zolla. La contadina lo osservò senza interrompere quelle sue sensazioni, poi di nuovo si rivolse a lui: "Possiedo tutto ciò che vedi intorno, dalla terra alla spiaggia, dal grano agli alberi. Anche il grande faro". Disse quest'ultima frase indicando la possente costruzione con un gesto della mano. "È disabitato da tempo immemorabile, epoche ormai lontane che hanno conosciuto uomini capaci di sopportare solitudine e sacrificio. Ma tu sembri quello giusto, colui che lo farà risorgere." S'interruppe un istante per osservare l'estremità della struttura, dove le spesse lenti della lampada erano sovrastate da un telaio metallico di un rosso smorto, incrostato di salsedine e contornato da uno stretto ballatoio protetto da una ringhiera nero pece. Guardandolo un'ultima volta glielo offrì così, semplicemente, insieme a un infinito silenzio fatto di orizzonti lontani, lunghi giorni, interminabili notti. E lui si vide lassù, raggiunto dalle estreme frange di gigantesche onde, sommerso dai raggi del Sole al tramonto, finalmente in pace con sé stesso senza nulla da conquistare, sperare o desiderare. Avrebbe alimentato la grande lanterna e la luce sarebbe esplosa riempiendo lo spazio delle sue innumerevoli particelle, dai piccoli villaggi rivieraschi alle sparute case, incrociando lo sguardo stanco di vecchi marinai persi su bastimenti lontani o quello, scintillante di passione, dei giovani innamorati. Guardando la donna negli incantevoli occhi le chiese: "Sarò degno?" Lei gli strinse nuovamente la mano in un gesto carico di profondo significato, e lui comprese. Si avviò quindi per il sentiero scosceso avanzando verso la minuscola entrata e, giunto in prossimità, si fermò per osservare il faro in tutta la sua imponenza. Ebbe solo allora la netta sensazione di trovarsi sulla soglia di una nuova dimensione, infinitamente distante dalla vita che aveva vissuto, e che quel passo sarebbe stato senza ritorno.


D'un tratto un grido disperato coprì le distanze. Lui si bloccò intimorito ma, dopo il primo attimo di sbigottimento, realizzò che quella voce di bimbo non gli era sconosciuta, pur non riuscendo a darle un volto. Dapprima titubante, decise infine di tornare sulla cima del pendio. Qui si voltò per salutare l'anziana contadina che, nel frattempo, aveva ripreso il suo cammino e lei, udito il suo richiamo, rispose di buon grado: entrambi sapevano che quello non sarebbe stato un addio. La nebbia lo avvolse...


Aprì gli occhi con sforzo e gli ci volle qualche minuto per distinguere le forme intorno. Suoni ritmici facevano eco a un appena distinguibile sibilo, proveniente da schermi piatti che rilanciavano tenui riflessi ondulati. Al di là della tenda trasparente una sagoma si muoveva silenziosa davanti a un banco colmo di fiale e flaconi. Nella stanza attigua, separata da un'ampia vetrata, riconobbe su una poltrona sua moglie assopita che teneva in braccio il loro unico bambino. Il piccolo dormiva con un'espressione in viso tanto serena da ricordare le immagini dei cherubini. Tornò con lo sguardo sulla figura chiara che si muoveva di fronte, cercando di attirarne l'attenzione. Provò a pronunciare quella che avrebbe dovuto essere una parola di senso compiuto, ma emise solo un incomprensibile, doloroso gemito. La donna si voltò e la sorpresa fu tale che le sfuggì di mano la preparazione appena ultimata, mandando in frantumi la provetta che la conteneva. Si avvicinò al letto e, con gli occhi velati dalle lacrime, lo chiamò per nome pregandolo di stringere la mano se fosse riuscito a udirla. Percepita la debole ma inconfondibile pressione sulle dita corse al telefono e compose concitatamente sequenze di numeri. Lui era troppo confuso e spossato per seguirla; ebbe appena la forza di voltarsi ancora verso la vetrata e scorgere sua moglie in lacrime, appesa a una cornetta, mentre la donna di fronte a lui ripeteva che qualcuno, qualcuno era tornato tra loro.


(fine)


Nota: ringrazio dal più profondo del cuore l'artista Selene Nardelli (in arte Smiling Red Skeleton, nostra collega su BraviAutori.it) per aver voluto, su mia richiesta, realizzare il dipinto ispirato a questo testo, il quale è utilizzato anche come copertina dell'ebook.



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Namio Intile


L'orologiaio


— Mi aveva detto che per questo pomeriggio sarebbe stato pronto — si lamentò il cliente, e tamburellò con le dita sopra il ripiano di vetro che fungeva da vetrina e da divisorio tra il laboratorio e la zona esposizione del minuscolo locale.

— Mi deve scusare, ma stamattina ho avuto un incidente con l'auto.

— Niente di grave, mi auguro — aggiunse con voce piatta il cliente, senza riuscire a nascondere la propria insofferenza.

— No, per fortuna. Ma una inevitabile perdita di tempo... Pensavo di aver terminato, ma c'è qui ora qualcosa che non va... mormorò l'orologiaio, appollaiato sopra la vecchia sedia di paglia intrecciata che era stata di suo nonno.

Nuovamente si concentrò sulla cassa di acciaio inox aperta tra le sue mani.

— Non è il solito ingranaggio difettoso?

— Stavolta no. È una ruota dentata che… Eh, non ne fanno più di così belli.

— Guardi che se mi costa troppo...

— Non lo ripara? Un simile gioiello? Non si preoccupi del prezzo — lo rassicurò, come si fa coi bambini.

— Ce la fa per oggi? — Domandò spazientito, dopo un paio di minuti.

— Forse domani. Me lo lasci ancora un po'... e mi scusi per l'inconveniente.

Namio Intile era un orologiaio. Per generazioni la sua famiglia si era occupata degli strumenti che misurano il tempo, anzi egli credeva che la sua famiglia si fosse occupata di orologi sin da quando essi esistevano e piccole ruote dentate e bilancieri avevano iniziato a misurare la quarta dimensione.

— Il tempo — mormorò la signora con la veletta démodé entrata senza che lui se ne accorgesse, senza neanche far trillare il campanello posto sopra la porta d'ingresso.

Namio Intile la osservò e si sentì sicuro di non averla mai vista prima, benché il viso gli sembrasse familiare.

Era molto bella, ma fu soprattutto quella voce, calda, avvolgente, sensuale, a provare a forzare una porta che aveva chiuso da tempo.

La sua immaginazione galoppò alla ricerca di un precedente incontro, anche casuale, nei dintorni del negozio; ma non riuscì a ricordare e suppose che si fosse trasferita in zona da poco o che venisse da un altro quartiere.

Perché altrimenti l'avrei notata, rifletté in mezzo al silenzioso frastuono di mille ticchettii.

— Il tempo può scorrere solo in una direzione e sempre alla stessa velocità —  aggiunse la donna, e gli sembrò che volesse concludere un altro pensiero con quella frase.

— Come prego? — Domandò l'orologiaio, frastornato.

È proprio bella, gli balenò nella mente, un essere perfetto.

— A differenza delle altre dimensioni, che si possono percorrere alla velocità che vogliamo e, soprattutto, nella direzione che preferiamo, il tempo scorre solo in un senso: dal presente a un altro presente, che ancora non esiste... spiegò la donna, con voce ferma.

— Einstein la pensava diversamente, credo.

— Davvero lei può credere a un vecchio che fa le faccette quando lo fotografano?

— Be'… — annaspò, allargando le braccia. Cosa posso fare per lei? Deve forse fare un regalo... provò a indovinare l'orologiaio per vincere l'imbarazzo di quella conversazione surreale.

Provò a essere professionale per non pensare quanto fosse incommensurabilmente bella quella donna e si forzò per non mantenere lo sguardo fisso su di lei.

— Sì, è un regalo.

— Una ricorrenza?

— Il dono è per lei — precisò con dolcezza

E quando fu costretto ad alzare gli occhi si accorse che lei lo stava fissando.

Namio Intile sentì le gambe tremare ed ebbe paura di perdersi negli occhi di quella sconosciuta. Profondi e dal colore indefinito.

— Un regalo per me? — Ripeté.

In un momento di lucidità considerò che si stesse prendendo gioco di lui o che fosse un'abile tattica di aggancio per riuscire a vendergli una qualunque banalità.

O magari si tratta di un'astuta ladra, pensò.

— Guardi, mi dispiace, ma io non compro niente — replicò a bassa voce.

— E io non vendo nulla. Vede, mio marito era un ingegnere, ed era irlandese — raccontò la donna, e si avvicinò al banco trasparente mostrando le belle dita affusolate, con le unghie laccate con una tonalità particolare di rosso. Gremory… lui aveva una particolare passione per gli orologi. Non per il design, sia chiaro. Ma per il loro funzionamento.

— Una passione in comune, allora. Ma io come posso...

— Guardi — lo interruppe la donna, e uscì dei fogli di carta dalla borsa. Li sistemò, poi li porse all'orologiaio.

Con cautela l'uomo prese i fogli e li esaminò.

— Cosa ne pensa?

— Soluzioni... cercò le parole, — molto eleganti, originali. Io... non so che dirle. Sono solo un piccolo orologiaio. Perché è venuta da me?

— Sono mesi che la osservo. Da fuori. Chino su quel tavolo col monocolo di precisione all'occhio destro e quei minuscoli attrezzi che si muovono veloci tra le dita, ogni volta come se eseguissero una danza diversa per seguire uno spartito che solo lei conosce.

Namio Intile abbassò lo sguardo, si sentì lusingato e avrebbe voluto baciare le labbra di quella donna che sembrava cogliere l'essenza del suo lavoro. Gli venne fuori soltanto una comica smorfia.

La donna fece per uscire. Mi scusi, lei mi è parso un uomo singolare, ma forse mi sono sbagliata.

— La prego, si accomodi — cercò di fermarla, con fare deciso.

— L'ho già disturbata troppo. Sono entrata per darle questi disegni, ecco tutto; li tenga lei. Sono suoi.

— Miei?

— Sì. Le appartengono adesso. Li merita qualcuno con la stessa passione di mio marito —  concluse, e si voltò verso la porta. Poi sulla soglia si fermò. Un unico consiglio: non tenti mai di realizzare quell'orologio.

— Non capisco.

— L'orologio dei disegni non deve costruirlo... mai. Lei possiede i disegni, non l'orologio — l'avvertì.

— Perché no? — Replicò l'orologiaio, che per un momento pensò che quella donna bellissima non dovesse starci più molto con la testa.

— Perché quest'orologio misura il tempo secondo i desideri del suo costruttore.

— Come ogni orologio —  scherzò Namio Intile.

— Non si burli di me. Sono molto seria. E sono sana di mente, anche se in questo momento lei starà considerando l'esatto contrario. Non lo costruisca. Lo dico per il suo bene.

— Come lei desidera — concluse l'orologiaio, preso da un'improvvisa voglia di sbarazzarsi di quell'essere misterioso il prima possibile.

Le aprì la porta e l'accompagnò oltre l'uscio.

Passarono i giorni, trascorsero i mesi.

Di quelle carte, di quei disegni, Namio Intile si era completamente dimenticato, erano finite tutte in fondo a un cassetto, sotto il banco da lavoro del laboratorio.

Finché un giorno, mentre cercava i suoi occhiali di precisione, quei fogli saltarono fuori e, come spinti da una mano invisibile, caddero in terra. Namio li raccolse e li esaminò, per la prima volta con attenzione. Si rese conto che, nei tanti e proficui anni in cui aveva svolto il suo mestiere d'artigiano, non s'era mai imbattuto in nulla di simile.

Non era che la tecnologia fosse al di là della sua comprensione, tutt'altro. Quei disegni mostravano solo comuni ruote dentate, ingranaggi, bilancieri. Ciò che era stupefacente era invece la meccanica, più precisamente, la logica del funzionamento.

Ebbe un'intuizione e pensò che non fosse solo un'opera di fantasia, che fosse possibile realizzarla e farla funzionare; poi la curiosità prese il sopravvento.

Lesse con attenzione ogni pagina e quindi cominciò ad assemblare il modello dimenticandosi della sua promessa.

Il tempo volò via, senza che se ne accorgesse. Chiuse la saracinesca per la sera e rimase dentro a lavorare, ossessionato da quella intuizione. Non dormì affatto e la mattina seguente l'orologio, come era stato minuziosamente disegnato dal defunto ingegnere, fu pronto.

— Di sicuro non partirà — esclamò a gran voce, e si stupì della vibrazione della sua voce tra le mura ovattate del negozio.

Diede la carica ruotando la ghiera sulla destra e l'orologio, con suo stupore, prese a muoversi in senso orario; dapprima partì la lancetta dei secondi, poi la seguì quella dei minuti, più lentamente.

Osservò il manufatto con attenzione. Funzionava né più né meno come un normale orologio, anche se non avrebbe potuto. Anche se non avrebbe dovuto.

— Che sia tutto uno scherzo? — Mormorò incredulo.

Poi tirò in avanti il datario di un giorno, due, tre, quattro fino alla fine del mese e poi ancora avanti sino ad allinearlo con la data di quel giorno.

Ripose l'orologio, si guardò allo specchio posto di fianco al bancone. Sono proprio un idiota, ma cosa volevo che succedesse?

Uscì che era già mattina avanzata e, dopo aver alzato la saracinesca, si accorse che qualcosa non andava. Davanti a lui la strada era chiusa e vi erano dei lavori in corso per il rifacimento del manto stradale, in stato di avanzamento.

Che strano, non ho sentito qualcuno lavorare questa notte. Sono sicuro che quando ho chiuso il negozio la strada era sana, borbottò tra sé e sé.

Poi si avvicinò all'edicola all'angolo e vide la data del giorno. Era avanti di un mese rispetto a quella che ricordava. Sgranò gli occhi tentando di mettere bene a fuoco e passò a un altro giornale, e a un altro ancora. Poi, spaventato, cercò istintivamente di fuggire tra le mura note del suo negozio.

Nel tragitto s'imbatté in Ermanno, il fiorista che aveva la bottega di fianco alla sua, che lo agguantò per le spalle e disse: — Namio, ma che diavolo ti è successo? È un mese che tieni chiuso e al telefono non rispondi. Sei stato male? Eravamo tutti in ansia per te.

— Sì... rispose l'orologiaio a voce bassa, credendo veramente di stare male, anzi di essere impazzito. Molto male — sussurrò.

Poi la verità gli apparve in tutta la sua scarna crudezza.

Il tempo scorre a mio piacimento, pensò e, nel tempo che un lampo impiega a squarciare l'oscurità, si materializzarono le infinite possibilità che quel prodigio poteva offrirgli.

Rientrò in negozio e vide l'orologio che funzionava regolarmente, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto. Prese il coraggio a due mani e riportò il datario indietro, al giorno da cui era partito. Uscì fuori e dei lavori stradali non v'era traccia. Si affrettò a controllare in edicola e questa volta vide il giorno preciso in cui si doveva trovare: diciassette marzo.

— Sono il padrone del tempo — ghignò soddisfatto, e nei suoi occhi balenò una strana luce.

E così in breve ogni ricchezza divenne sua.

Ogni potere sugli uomini fu suo.

La sua avidità si arricchiva ogni momento di un nuovo desiderio.

Tutte le creature della Terra, tutte le Nazioni, tutti gli eserciti si piegarono al volere del padrone del tempo, stretto al suo prezioso strumento: l'orologio che lo governa.

Passarono degli anni, forse decenni, e un bel giorno si ricordò della donna e del suo dono.

E pensò che sarebbe stato giusto e saggio onorarla con un immenso tempio e che tutti gli abitanti della Terra si dovessero flettere almeno una volta al giorno davanti alla sua immagine.

Impiegò decine di migliaia di uomini nella costruzione di quell'edificio, il più grande mai costruito dall'uomo.

E in quell'impresa ciclopica furono molti quelli che perirono.

Alla fine, davanti alla gigantesca statua di una donna dalle sembianze che seguivano i suoi sbiaditi ricordi, l'uomo più potente della Terra, s'inchinò.

Fu un attimo e Namio Intile, il Signore del Tempo, si ritrovò seduto nella sua vecchia bottega di orologiaio, sulla sedia di paglia che era stata di suo nonno, con l'orologio tra le sue mani.

— L'avevo avvertita — lo rimproverò la donna.

Nel rivederla ne fu sicuro, era bella più di ogni altra donna avesse mai visto in tutto il tempo del mondo.

— Non doveva costruirlo. Soltanto custodirne i disegni.

— Ma… lei chi è? — Balbettò impaurito Namio Intile, e tutta la lunga e felice vita fino ad allora vissuta gli sembrò solo un attimo evanescente, uno sbiadito sogno notturno.

Si sentì stanco e vecchio. Senza forze. Si guardò allo specchio di lato al bancone, come se lo avesse lasciato lì appena la sera prima.

Ma lo specchio non mentiva: il tempo era passato davvero. Era un vecchio, un vecchio decrepito.

— A volte capitano delle cose strane —  commentò la donna.  — Ancora non mi riconosci?

L'uomo fece cenno di sì. Perché proprio io? Perché sono così speciale? — supplicò.

— Non darti l'importanza che non hai. Mi ha vinto la noia. Avevo visto qualcosa di particolare nei tuoi occhi e ho scommesso su di te, perdendo. Tu ti sei dimostrato così banalmente ordinario nella tua avidità.

Tutto qui?

— Tutto qui. Ci rivedremo presto purtroppo — disse la donna alzando le spalle, e uscì in strada, identica a quella prima volta in cui era entrata.


(fine)



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Mariovaldo


Il pacco del Padrino


Per vedere un ritratto di mio padre, che riposi in pace, non serve andare a Palazzo Chiaramonte, nella bella Palermo: "La Vucciria" di Guttuso e talmente famosa che una copia la si trova ovunque, e mio padre è lì.

È quello di spalle, con la coppola e le basette, in alto tra il quarto di bue e il banco dei formaggi.

Un paio d'anni dopo essere stato immortalato, pensò bene d'andarsene per sempre. Io, unico figlio, a tre anni non avevo molte scelte: seguii la mamma che si era trasferita da sua sorella, a Cologno Monzese, periferia di Milano.

In Sicilia non ero più tornato, la mamma si era messa insieme a una brava persona, un operaio di Lambrate rimasto vedovo, e io mi sentivo milanese.

Avevo studiato, incorniciato un diploma, trovato un buon lavoro e mi godevo la mia libertà di scapolone.

Ma evidentemente il sangue conta qualcosa se, a un certo punto, era riaffiorato un desiderio di tornare in Sicilia.

Di sicuro una spinta era venuta dal mio essere un lettore vorace che, un giorno, s'imbattè in Sciascia.

"Ommini, mezzi ommini, omminicchi e quaquaraquà".

Naturalmente, affascinato, affittai la cassetta e vidi più volte il film.

Più tardi, Puzo divenne il mio idolo.

"Gli faremo un'offerta che non può rifiutare".

Questa volta i film erano tre, inutile dire che li vidi e li rividi decine di volte; l'ultima in un cineforum, dove trascinai una riluttante Alessia, la mia ragazza del momento, a passare un pomeriggio e una serata "no stop" per la proiezione di tutta la serie.

A quel punto, nutrito com'ero di quegli autori, dei loro racconti e dei film, devo ammettere che la mia visione dell'isola era un tantino distorta, ma quel fascino perverso che ci attira verso il Male alimentava la mia voglia di conoscere di persona quell'ambiente e quelle atmosfere.

Finalmente, una trasferta di una decina di giorni mi aveva portato a installare dei macchinari in uno stabilimento vicino a Palermo.

Mammasantissima, padrini e picciotti mi si affacciarono alla mente già la prima serata mentre, finito il lavoro, passeggiavo per il centro. Fatto un largo giro, m'infilai per via Argenteria per poi sbucare in piazza Caracciolo.

Mi trovai in ciò che resta della "Bocceria Grande", come la chiamava Agonzio Calandrino, personaggio di un racconto di Camilleri che avevo comprato per sbaglio, pensando fosse della serie di Montalbano. Insomma, ero in piena Vucciria.

Ammetto che, al pensiero di mio padre, un poco mi commossi e cercai, aiutato dalla memoria visiva, quei banchi e quell'angolo dove lui era stato ritratto.

Invano, tutto era cambiato. La vita sa confondere bene le sue tracce e tutto del passato può diventare materia di sogno.

Vagai a caso tra le vie e le viuzze attorno alla piazza, oramai rassegnato, sino a quando fui attratto dall'insegna di un ristorante. Era dipinta a caratteri rossi direttamente sulle vetrate della porta d'ingresso, all'uso americano. Visto che non avevo ancora cenato e quella insegna mi ricordava vagamente qualcosa, entrai e rimasi un attimo senza fiato. Quel posto mi era dannatamente familiare, era forse uno dei famosi "dejà vu" dei quali avevo sentito favoleggiare?

La pianta del locale, lunga e stretta, il pavimento a piccole losanghe bianche e nere, le brutte luci al neon sul soffitto, le sedie con l'ampio schienale ad arco, la disposizione dei tavolini su due file accosto le pareti. In fondo, sulla sinistra, l'alto bancone scuro, prima delle porte della cucina e della toilette. La toilette! Mi si accese la classica lampadina: il ristorante, ostentatamente, era la copia di quello dove Michael Corleone fa fuori un poliziotto corrotto e un boss mafioso, con una pistola nascosta appunto nella toilette.

Affascinato, chiesi un tavolo e m'immersi in quell'atmosfera, crogiolandomi come un maialino nella sua pozza di melma.

Per soprammercato, trovai la cucina davvero ottima, siciliana dura e pura, con tutti i sapori decisi eppure armoniosi di quella terra soleggiata. Per farla breve, m'innamorai del ristorante che da quella sera divenne l'approdo sicuro per tutte le mie cene solitarie.

Ma certo non immaginavo gli sviluppi che ne sarebbero seguiti.

Per alcuni giorni tutto proseguì come al solito: il lavoro, il girovagare serale, il ristorante, la cena squisita, una breve camminata e infine una buona nottata di sonno in albergo. Sino a quella sera, l'ultima della mia trasferta: la mattina dopo mi aspettava un volo per Milano.

Entrai nel ristorante accolto dal "buonasera, ingegnere" del proprietario e dal sorriso a denti falsi di Turi, il vecchio cameriere. Inutile precisare ancora che non ero ingegnere, ci avevo già provato ma senza successo.

Il proprietario, "il Ragioniere" come tutti lo chiamavano con rispetto, era un uomo sulla cinquantina, stempiato e grassoccio, sempre vestito di un'eleganza vistosa ma non sgradevole. Amava dirigere il suo ristorante dalla cassa, leggermente sopraelevata vicino alle cucine. Da lì, con fare regalmente distaccato, inviava i suoi messaggi allo chef e al signor Turi.

Il mio tavolo mi aspettava, invitante, e mi sedetti con un sorriso soddisfatto.

Amavo quel momento, era l'inizio di un'ora di distensione e appagamento dei sensi; o meglio, di alcuni di essi, visto che io ero lì a Palermo e Alessia era a Milano.

Ma era finita, l'indomani sarei finalmente rientrato e la giornata con Alessia era già organizzata.

Mi avrebbe atteso a Linate, il solito motel sulla Paullese già prenotato, a pranzo insieme e dopo… dopo un corno! Dopo tutta quell'astinenza sarebbe stato il pranzo ad aspettare.

Iniziai a immaginare il menù, a partire dagli antipasti: "Prima ci spogliamo, anzi no, io mi faccio spogliare, poi… ", ma qualcosa d'insolito che stava accadendo nel locale mi distolse dai piacevoli sogni a occhi aperti.

Da pochi minuti era entrato un signore anziano, elegantissimo almeno secondo canoni molto sorpassati, un po' claudicante. Era in compagnia di una bella donna di molto più giovane, appariscente e dall'aria sfrontata. Avevo notato che altri due uomini, dall'aspetto poco rassicurante, erano entrati con la coppia ma si erano seduti a un tavolo vicino. Sembravano i tipici "gorilla".

Ma la cosa veramente strana era il comportamento del Ragioniere.

Aveva immediatamente lasciato il suo trono, si era precipitato as accompagnare la coppia al tavolo e ora stava prendendo di persona le ordinazioni con l'aria di un cagnolone festoso ma conscio del proprio ruolo subordinato. In tante serate di frequentazione, mai avevo visto il Ragioniere avvicinarsi al tavolo di un cliente e prendere personalmente le ordinazioni.

Facile per me tirare le conclusioni: era entrato il "Don" del quartiere, o forse qualcosa di più, con i suoi guardaspalle e la bellona di turno. Il proprietario ci teneva a dimostrare tutto il suo giusto rispetto.

Un vero Padrino! Era molto eccitante.

Ma l'eccitazione si trasformò in apprensione verso la fine della cena.

Il Ragioniere si era avvicinato al tavolo del "Don" — oramai lo avevo battezzato così — con una bottiglia in mano. A un cenno dell'uomo, la bellona si era alzata ed era scomparsa nella toilette. Ma il fatto veramente strano era la chiacchierata che si erano fatti il Don e il Ragioniere: avrei giurato che stessero parlando di me. Qualche occhiata di sfuggita, l'eco di una parola pronunciata a voce più alta, che mi sembrava "Milano", i due gorilla che si erano messi a fissarmi come se mi stessero prendendo le misure, il successivo atteggiamento di ostentata indifferenza del Ragioniere, che aveva evitato accuratamente di guardarmi mentre tornava al suo posto di comando, alla cassa.

Appena la bellona tornò dal suo lungo incipriarsi il naso, la coppia, seguita dagli altri due uomini, uscì dal ristorante tra inchini e sorrisi ma senza che si fosse vista l'ombra di un conto.

Stavo ancora rimuginando sull'accaduto, quando la voce del Ragioniere mi fece quasi sobbalzare sulla seggiola.

— Ingegnere, le dispiace se mi siedo un momento?

In realtà il Ragioniere si era già seduto e aveva in mano una bottiglia, la stessa almeno mi parve, che aveva portato al tavolo del "Don". Mi riuscì appena di sussurrare un banale — Prego, si figuri, è a casa sua.

Il Ragioniere sorrise.

— Permette? Vorrei offrirle un buon bicchiere di Passito, è l'ideale per accompagnare i nostri cannoli.

Il tono non ammetteva rifiuti, del resto non avevo nessuna intenzione di rifiutare.

— Ingegnere, lei è un tecnico e di certo non ama le chiacchiere. Verrò al punto. Notai che l'accento palermitano sembrava più marcato del solito. Ero curioso di capire dove si andasse a parare e lo lasciai continuare.

— Così domani la perdiamo, ritorna a Milano, giusto?

Strano, ero sicuro di non aver mai parlato dei miei piani al ristorante.

— Sì, è vero, qui ho finito per ora. Può darsi che debba tornare più avanti.

— Sarà sempre il benvenuto, tra l'altro allo stabilimento si dice un gran bene di lei, pare che nel suo lavoro sia il migliore.

Ah, si chiacchierava a Palermo, a quanto pareva. Quasi mi avesse letto nel pensiero, il Ragioniere proseguì:

Eh, questa è una grande città, ma le voci girano se si sa dove ascoltarle, ho reso l'idea?

A questo punto ero più irritato che sconcertato.

— Che altro si dice di me in questa città?

— Oh, non molto, non molto: lei alloggia qui vicino, al Massimo Plaza, è una persona puntuale e affidabile, nella pausa mangia sempre un panino al formaggio, la sera fa una doccia poi esce, fa un giretto passando dalla Vucciria e viene a cena da me. Vede, non sappiamo poi molto… ah sì, ha una bella ragazza a Milano, mi pare si chiami Alessia, e domani l'aspetta all'aeroporto.

Io vuotai in un sorso il passito e feci cenno di no all'offerta di riempire nuovamente il bicchiere. Ero davvero arrabbiato, avevano ficcanasato troppo.

— Ragioniere, mi pare invece che ne sappiate abbastanza sul mio conto, a cosa devo questo interesse?

— Non mi faccia torto e accetti un altro bicchiere. Versò senza aspettare una risposta — Vede, è normale informarsi sulle persone alle quali si vuole chiedere un favore, non crede?

No, non lo credevo ed ero preoccupato. Un favore… che genere di favore?

Per fortuna lavoravo nell'industria elettronica e non nelle pompe funebri, mi venne da pensare.

— Se posso, volentieri — ma quel "volentieri" suonò un tantino forzato.

— Vossia è troppo modesto, certamente che può, e poi vedrà che è vantaggiosa per tutti, è una proposta che non può rifiutare.

"Omammasantissima eccoci qua, sta capitando proprio a me!". Questo pensiero mi attraversò il cervello in un lampo, e subito mi parve di vedere sul tavolo la testa mozzata di un purosangue con gli occhi sbarrati che mi fissavano accusatori.

Indifferente alla reazione che aveva provocato — il mio pallore doveva essere evidente — il Ragioniere proseguì.

— Vede, abbiamo la necessità di fare una consegna urgente e molto importante, e purtroppo in questo momento non abbiamo nessuno che possa andare di persona a Milano. Mi farebbe un enorme piacere se domani portasse un pacchetto a qualcuno che l'aspetterà a Linate.

— Un pacchetto? Ma, veramente ho la valigia piena, non so se… — provai a balbettare.

— Non si preoccupi, ci starà, è grande così — e accennò col dito al bancone, dove era posato un pacchetto della forma e delle dimensioni di una scatola da scarpe. Anzi, è proprio quello, mi sono permesso di prepararlo.

— Ma… posso sapere cosa contiene? All'aeroporto ora fanno tante domande…

— Lo metta nella valigia e non nel bagaglio a mano e nessuno le farà domande, — rispose molto serio — e poi… è un regalo per qualcuno che lo aspetta, non si preoccupi.

Già, un regalo… magari era droga, oppure una bomba, o un'arma. Le implicazioni di un coinvolgimento in qualche traffico illecito erano spaventose: corriere della droga, o di armi, magari complice di un omicidio… provai ancora a obiettare qualcosa.

— Ma se è importante, non vorrei che il mio bagaglio andasse perso, lo sa a volte succedono questi incidenti…

Lo sguardo bonario del Ragioniere s'indurì di colpo.

— Forse non mi sono spiegato bene? Eppure vossia non è un quaquaraquà, è figlio della Vucciria! Noi chiediamo solo un piccolo favore e il destinatario del pacchetto la compenserà in modo molto soddisfacente, mi creda.

Lasciò che io digerissi le implicazioni: conosceva le mie origini e poi mi offriva la classica carota. Ora sarebbe arrivato il bastone?

— Quanto agli incidenti — continuò — è vero, Dio ce ne scampi, ne possono capitare. Magari uno esce dal ristorante, cade dal marciapiede e si rompe una gamba, o domani a Milano… la Paullese è una strada pericolosa con tutti quei camion… ma non deve preoccuparsi, vedrà che il suo bagaglio arriverà e saremo tutti soddisfatti.

Era arrivato il bastone. Le minacce non erano tanto velate e la Paullese era la statale che avrei preso per andare con Alessia al solito albergo. C'era qualcosa di me che non sapesse?

Ero in trappola, era proprio una proposta che non potevo rifiutare.

Il Ragioniere non aggiunse altro. Aveva ripreso la sua espressione allegra. Si alzò, andò a prendere il pacco e me lo consegnò.

— Ne abbia cura, ingegnere, e tanto per mostrarle quanto le sono grato, non si preoccupi per il conto, stasera è ospite mio. Buona notte e buon viaggio per domani.

Me ne andai, lo confesso. Strisciando lungo i muri e guardando con sospetto a chiunque mi passasse vicino. Mi feci forza pensando che in fondo, ora che avevo quel pacchetto in mano dovevo essere in qualche modo sotto la protezione del "Don".

In albergo non mi riuscì di dormire veramente. Appena chiudevo gli occhi, mi assalivano le immagini del mio amatissimo "Il padrino". Ma il viso dalle guance cadenti di Don Vito sfumava in quello del misterioso Don. Nere automobili a gomme fumanti spuntavano dalle rotonde della Paullese e dai finestrini si affacciavano, letali, le canne dei mitra. "Ho una proposta che vossia non può rifiutare", su questa battuta, pronunciata dal Ragioniere vestito da Don Vito, mi svegliavo di soprassalto, la fronte imperlata di sudore. Accendevo la lampada sul comodino e lo sguardo si posava invariabilmente sul pacchetto che riposava, apparentemente innocuo, sul tavolino sotto la finestra. Di aprirlo non se ne parlava proprio. L'unica cosa che avevo notato, da tecnico, era il peso specifico, che rendeva quella scatola molto meno leggera di quanto apparisse. Ma il fatto in sé non diceva nulla.

Finalmente venne il mattino e io, stravolto dalla stanchezza, lasciai l'albergo per farmi portare da un taxi all'aeroporto.

Stranamente tutto andò nel migliore dei modi: il volo puntuale, il tempo ottimo e l'atterraggio a Linate da manuale.

Un po' di attesa, con tanta ansia, al ritiro bagagli, ma la mia preziosa valigia spuntò sul nastro tra le prime. Arrivai a pensare che dietro tanta insolita efficienza ci fosse lo zampino del potentissimo "Don".

Recuperata la valigia, ne estrassi il pacchetto e mi avviai verso l'uscita.

Passate le porte automatiche, vidi subito Alessia, che però non era sola. Con lei c'era un'altra ragazza. Molto bella, notai, il classico tipo mediterraneo dai capelli nerissimi e ondulati e un viso… mi ricordava qualcuno, ma non avevo il tempo di pensare a questo, volevo liberarmi di quel maledetto pacchetto. Dov'era la persona che doveva prenderselo?

— Ciao tesoro, finalmente! — Alessia mi venne incontro con un sorriso che mi allargò il cuore, nonostante la preoccupazione.

L'abbracciai. Avrei voluto dirle tante cose, quanto mi fosse mancata, soprattutto raccontarle cosa mi stava accadendo, ma la presenza dell'altra ragazza mi frenò. Guardai Alessia con una domanda muta negli occhi.

— Questa è Rosaria, una mia cara amica. Mi ha fatto compagnia nell'attesa, poi le diamo un passaggio alla metro.

Sbrigai in fretta i convenevoli, ero più che mai sulle spine. Ma dov'era quel "picciotto"?

Mi guardavo intorno mentre tutti e tre insieme ci dirigevamo verso l'uscita. Il pacchetto mi pesava come fosse di piombo.

— Roberto cos'hai? Sei nervoso. Sembra che cerchi qualcuno.

— Nulla, anzi sì, in effetti aspetto qualcuno, nulla di particolare, una commissione da sbrigare, una cosa veloce.

Le due ragazze si guardarono e scoppiarono a ridere. Le fissai piuttosto incavolato. Cosa c'era da ridere? Sapessero cosa avevo patito e stavo ancora patendo…

— Non è che mi devi consegnare quel pacchetto che tieni in mano?

La voce di Rosaria era rotta dalle risa e gli occhi le lacrimavano.

Restai un attimo impietrito.

— Ma… come, cosa ne sai… sei tu…? .

Certo che è lei, asino, dalle quel pacchetto e facciamola finita, abbiamo altri programmi, vero?

Questa volta era Alessia a fare sforzi per non contorcersi dalle risate.

Imbambolato, consegnai il pacchetto a Rosaria.

— Grazie, oggi è il mio compleanno e qui ci sono dei buonissimi cannoli, io ne vado matta.

— Mi volete spiegare cosa succede? Io credevo…

— Tu e la tua ossessione per la mafia e "Il] Padrino". Così impari a farmi vedere e rivedere quegli accidenti di film, a parlare sempre di quei libri e a rompermi le scatole con le storie di Montalbano. Ti abbiamo fregato, io e Rosaria, stupidone.

— Come sarebbe a dire che mi avete fregato? Cosa ne sapete di quello che mi è successo?

— Tutto sappiamo! Vedi, la mia amica è di Palermo, e si dà il caso che il proprietario di quel bel ristorantino che ti piace tanto sia suo zio.

Una luce iniziò a illuminare fiocamente le mie meningi.

— Suo zio? Vuoi dire che…

— Voglio dire che lo zio di Rosaria è "il Ragioniere" ed è anche un gran buontempone. Quando la settimana scorsa al telefono mi hai raccontato di quel ristorante e dell'atmosfera da "Padrino", mi è venuto un colpo, sapevo da Rosaria di quel locale, ma per fortuna non ti avevo detto nulla. Poi ho parlato con lei della tua ossessione e abbiamo combinato tutto con suo zio, io ho dovuto soltanto fornire qualche dettaglio su di te.

— Già — intervenne Rosaria — e mio zio ieri sera, quando sei uscito dal ristorante tutto scombussolato, si è attaccato al telefono e a momenti moriva soffocato a raccontarmi di come lui e la sua banda di amici ti avevano messo in mezzo. "Figlio della Vucciria"… è stato grande!

Io rimasi incerto se prenderle tutte e due e strozzarle sul posto o mettermi a ridere con loro. Nel frattempo Alessia aveva preso in mano la situazione.

— Mentre decidi se strozzarci — mi conosceva bene la ragazza! — io vado al parcheggio a prendere l'auto. Voi due aspettatemi qui, ci metto cinque minuti.

Decisi di far buon viso a cattiva sorte, forse quello scherzo crudele me l'ero meritato. Così trovai la forza di fare un mezzo sorriso a Rosaria.

— Però tuo zio, che attore! Fantastico. Sembrava davvero un piccolo Padrino. Pensa che mi aveva parlato anche di una generosa ricompensa alla consegna; mi ha proprio preso bene per il sedere, ci sono caduto come un pirla.

Rosaria mi guardò con una luce strana negli occhi. Poi aprì la borsetta, ne trasse qualcosa, si accostò e mi sfiorò le labbra con un dito, nel classico segno del silenzio, mentre con l'altra mano faceva scivolare nella mia un biglietto da visita.

— Non so cosa avesse in mente mio zio ma se mi telefoni una di queste sere, parliamo della ricompensa.

Mentre Rosaria, come se nulla fosse, armeggiava con la lampo della borsetta che si era inceppata, io rimasi un momento immobile, congelato sul posto.

Non era stata la sorpresa o la prospettiva della ricompensa a raggelarmi: ero maggiorenne e abbastanza scafato da non sorprendermi più di tanto. Avrei dovuto avvertire Alessia di scegliersi meglio le amiche.

Però mi era caduto lo sguardo su quell'elegante borsetta ancora aperta,

Perché, nella penombra di quello che era stato uno sventurato coccodrillo, avevo intravvisto qualcosa decisamente poco consueto: pareva proprio una minacciosa, letale, pistola a tamburo.


(fine)



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Alessandro Mazzi


I passeri


Il telefono squilla per pochi secondi. La fastidiosa musichetta viene interrotta alle prime note dal dito di Sara che striscia verso destra sullo schermo. L'orario è sempre lo stesso, puntuale come la morte. È diventato un appuntamento fisso, qualcosa che ti aspetti ma che non desideri realmente.

Sara rimane muta. Come di consueto non dirà una parola; lascerà che sia la voce all'altro capo della conversazione a parlare, a ripetere per la centesima volta le stesse identiche cose.

Sarà davvero la telefonata numero cento? Non ne è poi così sicura; non le ha mai contate ma di certo sono passati tre mesi da quella prima volta. E da allora il suo smartphone ha squillato inesorabilmente ogni giorno.

Una voce maschile, calda e profonda le giunge all'orecchio; le parla di uccelli, passeri per la precisione, e del loro inquieto muoversi in circoli nel cielo.

La ragazza non dice nulla, sa che non ce n'è di bisogno. La linea cade all'improvviso e nemmeno quella è una sorpresa, anzi si tratta ormai di quotidiana routine.

Sua madre entra nella stanza, osserva la figlia stringere in mano il cellulare.

— Ancora lui? — domanda rivolgendosi alla giovane seduta contro il vetro della finestra.

Sara non risponde. Ci pensano le lacrime a parlare per lei; scorrono rapide lungo i lineamenti del viso pallido sussurrando un "si" troppo amaro per trovar voce.


Giampaolo si appoggia al cancello di ferro. Intorno a lui tutto sembra muoversi al rallentatore. Si sente sospeso in un limbo di irrealtà.

Le acque dell'Adige scorrono inesorabili e tumultuose, mentre una carovana di bianche nubi si sposta al piccolo trotto in un cielo più azzurro che mai.

Lo sguardo dell'uomo si perde nello spettacolo che lo sovrasta. I suoi occhi sono tristi e velati, colmi di ansia. È un uomo stanco, quasi incapace di reggersi sulle proprie gambe; cerca un sollievo lontano, forse irraggiungibile.

Uno stormo di passeri fluttua nervosamente sopra la sua testa. È il segnale che attende, la sua occasione. Prende il telefono e con un paio di tocchi delle dita è in attesa di comunicare con sua figlia. L'uso del cellulare per lui ormai si riduce a quella banale azione.

Un paio di squilli, questione di pochi secondi ed è in comunicazione con la ragazza. C'è un momento di silenzio, quell'attimo in cui ci si aspetterebbe di udire un "pronto", e invece nulla.

— Sara, che significa quando i passeri girano in cerchio? Sono tantissimi, lì vedo sulla mia testa. Cercano qualcosa? — domanda l'uomo a voce bassa.

La voce della figlia non arriva alle sue orecchie. La comunicazione si interrompe come di consueto.

Il volto di Giampaolo è disteso nonostante sembri che l'uomo si stia lentamente consumando in una vana attesa.

Gli sciami nel cielo intanto si muovono in balia della debole brezza primaverile. Volteggiano e creano figure vagamente riconoscibili. La forma di un uomo…


I passeri sono tornati alla finestra. Sara li osserva muta. La sua mente è un tumulto di pensieri ed emozioni. È incapace di esprimersi, fatica a esternare i propri stati d'animo e le lacrime sono il suo unico sfogo, quasi fosse una pentola a pressione sul punto di esplodere.

Sua madre le sta accanto, le posa una mano sulla spalla. Da tempo cerca di aiutare la figlia quattordicenne ad aprire lo scrigno del cuore barricato.

— Forse è tempo che lo lasci andare — sussurra la donna all'orecchio della ragazza.

Sara abbassa lo sguardo; all'improvviso sente di non riuscire più a reggere la vista di tutti quei passeri sul muro esterno della finestra.

— Sono passati tre mesi, Sara. Tre mesi non sono nulla in confronto a tutta la vita che hai davanti. Trova la forza che ti serve…

La frase si spegne di colpo nel silenzio della stanza. Sara singhiozza piano, quasi a non volersi far sentire.

Tre mesi dall'inizio delle chiamate, dalla comparsa dei passeri, dalla morte che ti strappa via ogni certezza.

Il becco di un uccello gratta contro il vetro producendo un fastidioso rumore che gela il sangue nelle vene di Sara. Quel suono arriva dritto al cuore della giovane, si condensa nell'aria e si traduce in parole umane.

— Liberami da questo tormento — piagnucola una voce familiare nella sua mente.


Passano ventiquattro ore e il telefonino squilla di nuovo. La reazione della ragazza è fulminea, forse più del solito.

La stessa domanda di ogni giorno riecheggia nelle orecchie, si propaga fino a raggiungere il cervello, risvegliando e scuotendo ogni organo del corpo.

Sara trema: sa che non le resta molto tempo prima che la comunicazione si interrompa. Ma oggi è diverso, è decisa a chiudere questa storia.

Con voce ferma e decisa risponde per la prima volta.

— Ti voglio bene, papà. Scusa se non te l'ho mai detto prima. Ora è tempo di dirsi addio.

Il fiato si spezza in gola e quel crac immaginario genera un'esondazione di lacrime. La diga che ostruiva il cuore è finalmente abbattuta; emozioni contrastanti bagnano il viso di Sara.

Sua madre l'abbraccia. È fiera di sua figlia, sa che ha compiuto un importante passo nel tortuoso cammino della vita.

Dall'altra parte del telefono giunge un lieve sospiro, poi uno sbattere d'ali frenetico sovrasta ogni cosa col suo rumore. La conversazione termina per l'ultima volta.

In un posto remoto e imprecisato, un uomo di nome Giampaolo, padre di una figlia chiamata Sara si sta lasciando andare al flusso inesorabile del destino.

Stormi di passeri lo avvolgono, coprendolo interamente. Lo sollevano in alto e piano piano si dileguano nel rossore del crepuscolo serale. Dell'uomo non resta traccia.


Gli occhi umidi di Sara risplendono del colore caldo del cielo. Gli uccelli disegnano una forma vagamente umana e si disperdono in una danza armoniosa, svanendo dietro l'orizzonte.

— Non torneranno più — mormora Sara, guardando la madre seduta vicino a lei.

La donna accarezza i lunghi capelli biondi della figlia, che le pone un'ultima domanda.

— Cos'erano quei passeri, mamma? — chiede in tono dubbioso, sapendo che sua madre ha sempre una risposta a tutto.

— Qualcuno li chiama psicopompi. Traghettano nell'aldilà le anime inquiete che faticano a trovar pace. Con le tue parole hai liberato tuo padre, gli hai dato l'ultima cosa che lo legava a questa esistenza terrena.

Sara dà un'ultima occhiata alla finestra: probabilmente non riceverà più quelle telefonate. Gli uccelli se ne sono andati per sempre e con loro anche suo padre.

Mentre gli ultimi bagliori di luce nel cielo svaniscono, la ragazza si lascia andare al fiume in piena delle sue emozioni. Sa che almeno quelle rimarranno.


(fine)



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Francesco Pino


Vent'anni


Ma te lo ricordi che avevo appena compiuto vent'anni? Tu li avevi fatti un mese e mezzo prima di me. Il sole sorgeva molto tardi per noi che seguivamo i consigli del buon Angelo: "vatti a coricare tardissimo e alzati verso mezzogiorno, così metà della tua lunga giornata da disoccupato sarà passata senza che tu te ne accorga". Te lo ricordi che ti chiamai dalla cabina telefonica di Piazza Roma e tu non capisti la mia goffa battuta? "Ciao, ti ho telefonato perché vorrei il tuo numero di telefono". Te lo ricordi quel giorno dopo, quando le rondini vennero a fare il nido dentro i tuoi occhi? Be', sì… il nostro fiato aveva il gusto dell'erba e della birra, ma avevamo vent'anni.


Il fuoco soffiò per ravvivare ogni piacevole futilità perduta tra le strade della nostra città e io smisi di sfaldarmi al vento, perduto nella nebbia della mia giovinezza. Ogni secondo passato insieme annullava quelli che ci avevano diviso, te lo ricordi? Tutto divenne calmo all'improvviso per me, tutto o quasi. Restava da calmare il mio cuore, che si era accorto di non aver mai amato senza di te.


Te lo ricordi che il sabato sera finiva in quella casa di campagna dei tuoi nonni? Quella col vetro della stanza da letto rotto… che freddo che faceva in inverno anche sotto le coperte! Guardavamo le mattine con la coda dell'occhio, da lì dentro non si usciva mica! Quei gesti che erano quelli che immaginavo già prima di incontrarti: chiudevi le tende e aprivi le bottiglie. E parlavamo; di me, di te, di noi… era tutto lì. È così che i ragazzi diventano uomini, quando quei gesti, quelle speranze, quelle illusioni mettono radici dentro i loro cuori; misere regioni senza luce fino a quando non si comincia ad avanzare tra quelle radici.


Se non avessi osato non avrei avuto nulla oltre che i miei vent'anni. E poi ne passarono cinque in un mondo che ci sembrava pieno di sole; tu socchiudevi gli occhi ai suoi raggi e le stagioni e la storia avevano i tuoi vent'anni. La gioia alimentava il sangue nelle mie vene e non ricordavo più dov'ero stato prima. Te la ricordi quella notte d'agosto sulla spiaggia? Quando le prime luci del mattino battevano contro i ciottoli tu già dormivi, mentre io restavo sveglio e vagamente preoccupato.


Era un mattino d'ombra, che si piantò in me sotto un cielo libero da nubi, ti ricordi? Non è vero che basta fare tutto il possibile per continuare a essere amati; non è vero che ci vuole amore e null'altro. Una volta nella vita, da un momento all'altro, tutto torna all'inizio; a com'era prima. Ci vuole molto tempo per decifrare il linguaggio di quell'ombra, mentre un album fotografico ti morde le labbra, mentre lo sfogli centinaia di volte con centinaia di bicchieri in mano.


Ne è passata di acqua sotto i ponti. Lentamente è passata, mica velocemente come fai tu con quel bambino che tieni per mano mentre fai finta di non riconoscermi. C'è qualcuno che le radici le ha messe a casa tua, o forse tu a casa sua. Non ci sono solo le rondini da seguire. E poi, in ogni caso, a poco a poco, le rondini non le vedi volare più; e questo vale sia che si parta sia che si resti. Tengo anch'io dei bambini per mano ogni giorno della mia vita, ho una casa in cui ho messo le radici anch'io, ha tante porte e tante finestre. E mentre passi via bevo il mio decaffeinato che, chissà com'è che accade, sembra avere il gusto di quell'alito che sapeva di erba e di birra. Ti ricordi quanto tempo è passato dal nostro ultimo bacio? Son passati vent'anni, e poi non ci rivedemmo mai più.


(fine)



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Laura Traverso


Anime Pure


Strano, sono in anticipo.

Di solito arrivo sempre trafelata al binario di partenza quando il trillo del campanello ne annuncia già l'arrivo.

Oggi, invece, mancano ancora parecchi minuti prima che quel treno faccia sosta qui, dove ogni mattina lo attendo con impazienza.

Assaporo così il piacere di guardarmi attorno. L'attesa di quel mezzo che tanto amo riesce sempre a regalarmi piacevoli sensazioni. Ogni volta che lo scorgo avvicinarsi lento alla Stazione, nonostante sia abituata al suo arrivo da ormai tanti anni, provo sempre la medesima e familiare sensazione: di accoglienza e protezione. So che di lì a poco, seduta all'interno del suo ventre, vedrò sfilare davanti ai miei occhi il consueto paesaggio circostante, che cambia colori e umori a seconda del tempo e delle stagioni.

Sul binario affollato sostano soprattutto ragazzi che vanno a scuola.

Sono tutti vestiti alla moda e radunati in piccoli gruppi. Ostentano atteggiamenti disinvolti.

Distolgo lo sguardo dai giovani, ci sono anche parecchie persone adulte, gente che del look importa poco. Persino troppo poco.

Appaiono spente, già stanche prima di iniziare la giornata lavorativa, o forse scoraggiate per tutto ciò che la nostra società ci propina ogni giorno: scandali politici, corruzioni, precarietà e perdita di lavoro, caduta di stile e di valori.

Degli anziani, invece, non c'è neppure l'ombra, o quasi, ma è comprensibile.

A quell'ora, forse, dopo una vita di lavoro, i più saranno a casa a godersi il meritato riposo.

Penso con un po' di tristezza che tra pochi anni farò anch'io parte della nutrita schiera dei pensionati. Ma ancora non ci voglio pensare, passo velocemente oltre col pensiero.

La mia attenzione è quasi subito attratta da una scena a me particolarmente gradita.

Senza rendermene conto, come attirata da una calamita mi avvicino alla panchina dove sostano quelle presenze. Mi metto in ascolto ma senza volerlo dare a vedere, cerco di assumere un'aria distaccata e indifferente.

Poi mi viene da ridere pensando a quante messe in scena noi umani siamo capaci di rappresentare: adesso sto interpretando la parte dell'indifferente mentre invece fremo dalla curiosità di saperne di più.


"Ti ho detto di tacere, lo sai che altrimenti disturbi".

Mi giunge questa frase. Colma, però, d'infinita dolcezza. Il tono della voce non lascia dubbi, se ne percepisce l'amore, nonostante le parole pronunciate vogliano essere di leggero rimprovero.

Non riesco a trattenere un sorriso e inizio a dialogare senza rendermene conto. "Be', avrà pur diritto di parlare. Riesce a immaginare se ci obbligassero a restare muti? Sa che tristezza, non lo potremmo proprio fare…"

"Sì, lo so, — risponde la donna — ma tanti si lamentano e io non voglio che dia fastidio, non voglio dar motivo…"

"Ma lasci correre, non si preoccupi, non ne vale la pena. Tanta gente si lamenta per niente. E poi è così bello, e ha davvero uno sguardo buono". Intanto la mia mano va a posarsi sulla sua testolina bionda.

È piacevole sentirne la morbidezza attraverso il contatto delle mie dita. Pare di affondare le mani tra fiocchi di soffice e morbido cotone. Mentre l'accarezzo ne colgo lo sguardo, i suoi occhi si fissano nei miei con totale fiducia; lui si abbandona felice a quelle coccole inattese.

"Ma è una "Lei" — precisa la signora — e sì, è molto buona, affettuosa e intelligente. Comprende che tra poco arriverà il treno, è felice e vuol parlare, dimostra così la sua gioia".

Seduta sulla stessa panchina c'è un'altra donna. Interviene nella conversazione, capisco che si conoscono, rivolge parole d'elogio all'anziana e alla sua tenera amica.


"Ma lo sa che lei lavora?" Con un tono sommesso e sottovoce, guardandosi un po' attorno come a non volersi far sentire, mi dice queste parole.

La guardo. Credo di non aver capito bene e penso: "Ma cosa sta dicendo questa? Farnetica forse?".

Però voglio cercare di capire, forse mi trovo dinnanzi una pazza. La osservo con maggior attenzione.

L'esile figura che mi sta davanti, devo ammettere, non ha davvero nulla di strano; è una signora anziana vestita in modo semplice e ordinato.

Sul suo volto sorridente e mesto trovo l'espressione di un contenuto orgoglio per quello che mi ha appena rivelato.

Mentre mi parla guardo i suoi occhi e vi scorgo una luce che scalda il cuore e rassicura la mente.

Il mio istinto mi suggerisce di fidarmi.

Avverto la quasi certezza di essere dinnanzi a qualcosa di eccezionale, che nulla ha a che vedere con l'essere fuori di testa.

Sono stata precipitosa nel giudicare, mi vergogno un po', a volte si è davvero troppo rapidi e critici nel tacciare giudizi sugli altri.

Ma intanto la curiosità sale, non riesco più a trattenere lo stupore: chiedo spiegazioni su ciò che, intuisco, è ben felice di raccontarmi.

Non senza imbarazzo dico: "La prego, si spieghi meglio, cosa vuol dire che lei lavora?"

"Certo, lei lavora, si occupa dei risvegli" risponde.

"Ah, ho capito, veglia le persone che non stanno bene, le sta accanto…"

"No, è proprio il contrario di ciò, lei non veglia, ma sveglia, o meglio, risveglia".

La guardo stralunata cercando di incrociare lo sguardo della giovane donna, la stessa che si era introdotta nella conversazione e che pareva essere a conoscenza anche di quel dettaglio "lavorativo".

Lei, però, non dimostra stupore. Sorride pacatamente e senza l'ombra di ironia accondiscende al racconto dell'anziana signora.

Sono tesa e attenta a quanto accade sotto i miei occhi.

Comprendo che stia dicendo il vero. Non c'è l'ombra della menzogna in quelle parole che ancora continuo a non capire e che mai mi sarei potuta immaginare.

"Si, lei si chiama Alessia; è famosa. Ci chiamano da tutte le parti d'Italia. Siamo state anche in Sardegna"

"Siete state anche in Sardegna? Mi dica, mi faccia capire, non ho mai sentito nulla di simile, sono veramente senza parole…"

"Certo, andiamo ovunque e a volte siamo tanto stanche. Alessia si occupa di risvegliare i bambini dal coma"

"I bambini dal coma? Ma è incredibile, come fa?"

"Le va vicino e respira loro sul cuore e sui piedini, poco alla volta si risvegliano di solito, è successo già tante volte…".

Per un lungo attimo resto senza parlare. Sapevo certamente delle tante doti che i cani possiedono. Alcuni sono specializzati nei salvataggi in mare, altri, i cani molecolari, son capaci di trovare le persone scomparse, o perlomeno di condurre sulle loro tracce.

Avevo sempre osservato, con infinita tenerezza, i cani guida che, lenti e pazienti, accompagnano i non vedenti, ma l'aspetto appena appreso proprio mi mancava.

Un simile potere, una così eccelsa particolarità, davvero non l'avevo mai sentita raccontare.

Riprendo ad accarezzare la piccola creatura a pelo raso e di colore biondo.

Mi guarda, i suoi occhi dolci e buoni esprimono amore e io mi sento piccola e inutile dinnanzi a un simile prodigio.

Chiedo: "Non ha paura che gliela portino via? Faccia attenzione, sono al corrente dei pericoli che incombono sul mondo animale, soprattutto in questi ultimi tempi ci sono stati tanti furti di cani, avvengono anche da giardini privati. Persone senza scrupoli li rubano per poi destinarli all'accattonaggio e anche ad altro, di peggio… ".

"Non la perdo d'occhio un istante. La tengo sempre vicina a me. Pensi che mi hanno offerto tanto denaro per averla, per utilizzarla ancora di più a scopo terapeutico. Ma io non la darei per tutto l'oro del mondo. E anche se sono anziana mi trascino assieme a lei affinché possa svolgere il suo lavoro di risveglio. Speriamo di poterlo fare ancora per molto, neppure Alessia è più tanto giovane, ha già compiuto i sei anni".

Intanto il trillo del campanello ha annunciato l'arrivo del treno, la cagnolina sembra elettrizzata; freme, è seduta e guarda in direzione di quel mezzo sferragliante che già si vede in lontananza.

Alza una zampetta. Mi preoccupo e domando se per caso non abbia male alla zampa anteriore che tiene piegata e sollevata.

"Ma no, fa sempre così, è il suo modo per manifestare la gioia di viaggiare, le piace andare in treno, si emoziona, è felice".

Il treno sosta e saliamo tutti.

Mi piacerebbe andare a sedermi vicino a loro ma temo di esagerare. Ho già saputo tanto. Non vorrei apparire indiscreta e impicciona.

Ci salutiamo. Salgo e mi avvio, con dispiacere, in un altro scompartimento.

Ho il cuore in tumulto per quello che ho appena appreso.

La mia mente vaga, sono vicino al finestrino come sempre, ma non vedo praticamente nulla, penso soltanto alla straordinarietà degli animali, soprattutto dei cani, e mai avrei potuto immaginare ciò che avevo appena vissuto e visto con i miei occhi: che avessero anche il potere di risvegliare i bambini dal coma.

Mi si riempiono gli occhi di lacrime.

Ho appena incontrato due anime meravigliose: l'anziana donna con la sua cagnolina prodigio.

Intanto son passati parecchi minuti, sono quasi giunta in centro città. Alla fermata precedente al capolinea vedo scendere Alessia con la sua mamma umana.

Sono bellissime mentre si avviano lentamente verso l'uscita del binario, al sottopasso.

E intanto continuo a pensare, a visualizzare la possibile e prossima scena; mi domando verso quale bambino saranno dirette. Grazie a quel soffio amorevole e continuo che la cagnolina gli appoggerà sul cuore, quel bimbo, poco alla volta, si risveglierà e tornerà a vivere.

Mi sembra un'alchimia, un sogno; invece è tutto vero.


La bella e mite Alessia sgambetta tutta fiera. La signora, invece, avanza un po' faticosamente trattenendola con un guinzaglio rosso avvolto nella mano, come una madre premurosa e attenta.

Camminano una a fianco all'altra e sono davvero incantevoli a vedersi.

Dopo pochi istanti spariscono, non si vedono più. Il mio sguardo le insegue inutilmente, si sono ormai addentrate nel sottopassaggio.

Il treno si muove lentamente, sferraglia, riprende la sua corsa, si fa per dire…

Tra poco arriverò a destinazione. Siamo un po' in ritardo. Quel mezzo locale che ogni giorno trasporta tanti pendolari accusa il suo tempo. A volte sembra perdere un po' i colpi.

Il ritardo di quel giorno, però, al momento non mi viene neppure in mente. Adesso ho altro a cui pensare, sono ancora troppo immersa in quella storia che sa di magia, ma che magia non è.

Il treno sbuffa, si ferma, siamo arrivati al capolinea. Scendo.

Mentre mi incammino rivolgo un pensiero colmo di gratitudine alla vita, alle tante cose belle e inaspettate che sempre ci regala. Oggi mi ha fatto incontrare due anime meravigliose che non dimenticherò mai.

Son certa che ogni volta che sarò in attesa del treno il mio sguardo vagherà attorno con la speranza di incontrarle ancora.

Sento una spinta, la gente ha fretta e qualcuno mi ha urtato, il mio andare così lento disturba il passo veloce di chi deve camminare alla svelta. Guardo l'orologio e affretto l'andatura. Accidenti, devo sbrigarmi. L'inesorabile passare del tempo, registrato attraverso il monotono movimento delle lancette dell'orologio, mi indica che è tardi, più del solito. Non mi va arrivare in ritardo e dare al mio capo la soddisfazione di potersi sfogare su di me.

A lui non sembra vero di poter infierire con chi gli capita a tiro. È sempre scontento e nervoso. Gli sale facilmente l'embolo, e quanto accade, e accade, si salvi chi può.

Adesso procedo rapida, la fretta mi spinge quasi a correre. Mi sono immediatamente adeguata al passo frettoloso degli altri. Avanzo, mi pare quasi di volare. Colpa del vento di mare che quel mattino soffia più del solito sulla mia città. Intanto si è messo anche a piovere, ma è una pioggia leggera quella che cade, è davvero poca cosa; non sto neppure a tirare fuori l'ombrello dalla borsa. Ormai sono quasi arrivata.

Finalmente eccomi a destinazione. Sono davanti al portone dell'ufficio e come un fulmine mi catapulto al suo interno.

Sono trafelata ma felice e in orario. Il cerbero dovrà trovare un altro motivo per sclerare.


Questa che ho narrato è una storia VERA. (Ho incontrato Alessia con la sua mamma umana il 3 ottobre 2014 alle ore 7,30 alla Stazione di Genova).


(fine)



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Athosg


La battaglia - vegani contro tutti


In una giornata piovosa Giobbe era fermo al semaforo in attesa del verde. Mentre il pensiero inseguiva il sole nascosto dietro le nuvole, all'improvviso un colpo secco, rimbombante in tutto l'abitacolo, lo riportò alla realtà cupa della giornata.

Vide una mano strisciare sul parabrezza, come a disegnare strani ghirigori. Emise un sospiro di rassegnazione e si piegò verso il portaoggetti. Da lì prese un salame e lo picchiò con forza contro il vetro. La mano subito si bloccò, i polpastrelli grattarono come un polpo il vetro per poi richiudersi in un pugno. Un ultimo colpo e via.

Una donna sulla quarantina si allontanava saltellante, urlando parolacce. Una biondina dai capelli stopposi, pallido ricordo di una bellezza fiorita avvelenatasi ai pozzi delle ideologie. L'occhiata strabica lanciata di sghimbescio rivelava uno stato d'animo esaltato.

La conosceva di vista, era una vegana che da qualche tempo sostava vicino all'incrocio per attaccare i conducenti delle auto, rei di non spegnere il motore al semaforo rosso. Da qualche mese un folto gruppo vegano aveva iniziato una guerriglia verso buona parte della popolazione di Pisellonia, una ricca e benestante cittadina della pianura di Padania.

Le voci circolanti dicevano che a capo di questo gruppo ci fosse un'amazzone bionda di nome Aria. La loro filosofia era un mix d'ideali ambientalisti e credenze popolari, una decina di dogmi che propugnavano la lotta per l'inquinamento e il consumo di carne animale, prendendo a prestito le più disparate teorie negazioniste. Nelle ultime settimane l'ideale di purezza aveva raggiunto livelli parossistici, e la recrudescenza del pensiero portava gli adepti a isolarsi dalla vita sociale, per poi attaccare le varie zone della città che reputavano malate.

Appena rientrato a casa, trovò Giuseppina in reggiseno che stava scegliendo una camicetta dall'armadio. Era tutta rossa in viso, e appena lo vide sbottò.

"Non ne posso più di questi vegani. Ero al Caffè Lozza e bevevo un bicchiere di latte. È arrivato uno di loro, mi si è parato davanti e si è alzato la maglietta. È rimasto a petto nudo e sopra ci aveva tatuato LOTTA SEMPRE! Uno schifo!"

"Ccccc… " imprecò Giobbe "anch'io oggi ne ho incontrata una. Ho tirato fuori il salame e la spavalda se n'è fuggita ululando".

"Ti è andata bene, con me questo ha cominciato a dire che bevevo latte animale, che era un sacrilegio perché le mucche erano sfruttate. Mi veniva quasi da ridere, ma ho cercato di metterla sul piano del dialogo, conoscendo le problematiche relative allo sfruttamento di questi animali. A un certo punto il tipo si è trovato senza argomenti e ha fatto per andarsene, ma proprio sulla porta si è fermato, si è girato e mi ha tirato un uovo, qui, proprio sulle tette".

Giobbe rise nervoso. "E per forza, è da lì che esce il latte!"

"Fanculo, vorrei vedere te. Il salame non mi stava nella borsetta e allora l'ho lasciato a casa. Oggi mi compro una borsa grande, ci metto non uno ma due salami. Ho visto in Corso Como un banchetto che vendeva salami da passeggio. Mi proteggerò con quelli".


Era venerdì pomeriggio e i due ragazzi tornarono al lavoro per l'ultima fatica prima del fine settimana. Il tempo volgeva al bello e nel weekend avevano progettato di andare al mare.

La sera Giobbe ricevette la telefonata di Francesco, un amico di lunga data. Era un ragazzone di trentacinque anni che aveva abiurato la dieta vegana. Un omone di più di 80 kg, 20 dei quali accumulati negli ultimi quattro anni, da quando aveva cominciato ad avere un'alimentazione completa.

Era stato un passaggio chiave della sua vita e, come spesso accade, avvenne per amore. Aveva conosciuto Eva, una dolce ragazza figlia del macellaio del paese. Passava ore e ore a casa della fidanzata nei momenti liberi, e vai oggi e vai domani, le sue granitiche certezze cominciarono a traballare davanti ai manicaretti che gli preparava la suocera. Intingoli al brasato, ossi buchi con piselli e tanti altri piatti della cucina locale finivano sulla tavola imbandita.

In poco più di tre mesi il ragazzo passò dalle tristi pietanze vegane, alle enormi bistecche sanguinolente della signora Marisa, facendo a fine pasto la scarpetta sul sangue rappreso nel piatto. Gli amici del gruppo lo vedevano come un anticristo, non riuscendo a capire il senso di questa conversione. Lo scopo di quella telefonata era per informarlo della sagra gastronomica che si sarebbe tenuta la settimana successiva. Era il quinto anno che la rassegna aveva luogo, e ogni edizione era sempre più affollata di gente.

"La stiamo preparando ben bene. Abbiamo già alzato le palizzate intorno all'arena ristorante, crediamo di raggiungere una capienza di 300 posti. Ho preso contatto con le migliori aziende, arriverà il prosciutto da Langhirano, la coppa da Piacenza, il lardo da Colonnata e dal Trentino uno speck che fa rabbrividire tanto è buono. Come carne alla griglia ci saranno braciole e fiorentine. Contorni patate e verdura, chissà mai che arrivino dei vegetariani" lo informò Francesco.

"Magari i tuoi ex accoliti!" gli fece eco Giobbe. "Sembra tutto buono e tu sei un grande organizzatore, su questo sono tranquillo. Lo sono un po' meno sul resto, non vorrei assistere a qualcosa di spiacevole, tipo assalti di protesta di qualche esaltato" continuò sempre più dubbioso.

"Stiamo preparando tutto per bene. Sulle palizzate abbiamo messo 142 salami, mi sembra un buon deterrente, e due guardie gireranno intorno al campo a controllare i movimenti delle persone. Inoltre sono in contatto con il servizio segreto anti-vegano e al momento non ho segnalazioni particolari" lo rassicurò Francesco.

"Sì, però recentemente si è saputo che tanti uomini del servizio facevano il doppio gioco. Ormai si parla apertamente di servizi segreti deviati, pericolosi come quelli degli anni settanta. E qui non ci sono solo soldi o potere, c'è in ballo l'Idea, questo mix esaltato di pulizia, rispetto e amore. Anche la famiglia è ormai rappresentata in una forma autarchica e i giovani sono sempre più attratti da queste forme di chiusura. Francesco, te lo dico sinceramente, sono un po' preoccupato per te. Oggi a Giuseppina un tizio ha fatto delle storie perché stava bevendo un bicchiere di latte, e alla fine le ha tirato un uovo, capisci?" insistette Giobbe.

"Comunque un tavolo per te sarà sempre pronto, chiamami il giorno prima se decidi di venire. OK? Ciao miscredente" lo salutò Francesco

"Ok, ti chiamo settimana prossima".

Giuseppina al termine della telefonata lo guardò di sottecchi. Lui la zittì con un gesto della mano, ci avrebbe pensato più avanti.


Il giorno dopo andarono al mare per un tranquillo week-end. Evitarono sagre e altre manifestazioni all'aperto, perché volevano stare tranquilli e non avere intralci alla loro libertà.

La domenica sera fecero ritorno a Pisellonia. Stanchi e coloriti in viso trovarono una sgradita sorpresa vicino a casa. Sul muro di una fabbrica una mano infelice aveva scritto a vernice rossa: VEGAN FREE e MORIRETE CON GLI ANIMALI UCCISI.

Sgomento, Giobbe fermò la macchina e scese a guardare. La vernice colava sul muro, come un vero e proprio marchio che lascia dietro di se il senso delle sue missive. Il disegno di una carota e una sigla, FIGA, che interpretò essere l'acronimo di Fronte Intercontinentale Genesi Animale, completava l'opera.

Giobbe e Giuseppina si guardarono e cominciarono a ridere.

"Ma come si fa a mettere una sigla così! Lo conoscono l'italiano?" Giobbe arretrava continuando a ridere, mentre Giuseppina era piegata su sé stessa. I due ragazzi guardarono al cielo, alzando le mani esclamando all'unisono "Oh Signur, oh Signur".

Furono comportamenti che non passarono inosservati. Nell'oscurità quattro figure li stavano esaminando. Erano quattro vegani, tre smilzi e una ragazza molto imponente dall'aria battagliera.

"Che c'è da ridere, idioti?" parlò per prima la cicciona.

"Ridevamo per l'acronimo, sembra fatto apposta. Mi sembra, oltre che comico, un po' volgare" gli rispose Giobbe cercando di mantenere il sangue freddo.

"Guardate, non voglio fare polemiche, non sono un gran consumatore di carne, rispetto la natura, più passa il tempo e più ne ho bisogno, ma fossi in voi terrei un atteggiamento più permissivo, rispettando le altre persone" continuò avvicinandosi alla portiera dell'auto.

"Sì, dite così e poi non rispettate nulla, né la natura né gli animali. Bastardi" inveì la ragazza. Indossava una gonna larga gialla e una maglietta strettissima che non riusciva a celare i capezzoli aguzzi come i chiodi di verdoniana memoria.

"Senti amica, non siamo nemici. Siamo persone tranquille" intervenne Giuseppina.

Il clima si era fatto pesante, quasi irreale. Giobbe capì che doveva agire in fretta. Fulmineamente entrò in macchina, da sotto il sedile prese un salame e lo presentò in faccia ai quattro. Sorpresi e nauseati, lo guardarono in cagnesco, e se ne andarono a gambe levate.

"Giobbe hai visto cosa aveva in fronte la ragazza? Sembrava un capezzolo".

"Era proprio un capezzolo. Proprio oggi ho letto un articolo che spiegava che la nuova moda consiste nel farsi impiantare in fronte un capezzolo di vitellina. Ormai i tatuaggi li fanno solo i sessantenni".

"Dio mio. E dove lo trovano questo capezzolo? Dal macellaio?"

"Sinceramente non lo so. È una buona domanda" rispose Giobbe con un sorriso pensieroso.

"Prevedo una settimana movimentata. Non so se avvisare Francesco" disse mentre riponeva il salame.

"No, lascia stare, è un ragazzo avveduto, i servizi e le guardie dovrebbero circoscrivere il problema".

"Ok, torniamo a casa che è già tardi" disse Giobbe non prima di essersi fatto un'altra risata guardando la firma del movimento.


La settimana iniziò senza particolari scossoni, e gli abitanti di Pisellonia cominciavano a frequentare la festa. Il mercoledì Giobbe chiamò Francesco per informarsi su come stesse andando l'evento. Non fece cenno dello strano incontro con i membri del FIGA, per non creare un inutile nervosismo. Tutto però stava andando bene e il ragazzo era molto contento. Gli prenotò un tavolo per il venerdì successivo.


Quella sera arrivarono alle otto spaccate. L'accampamento si stava preparando alla cena, l'aria era mite e si prospettava una serata piacevole.

Parcheggiarono la macchina lontano dalla festa, poiché già molta gente affollava gli stand. Una grande palizzata circondava l'area; una guardia era d'avamposto all'entrata, mentre l'altra girava intorno al perimetro. I salami, infilzati in ordine millimetrico, fungevano da deterrente a eventuali attacchi.

Entrarono e subito videro Francesco che correva loro incontro con il sorriso più bello che potesse esibire. Nel suo grembiule bianco con strisce azzurre sembrava più giovane della sua età. Alto e atletico faceva una gran figura.

Li accompagnò al tavolo apparecchiato con il menù in bella evidenza. Sapevano già cosa avrebbero ordinato: antipasto misto e poi una braciola ai ferri con patate arrosto. Vino rosso a volontà.

Ogni tanto Giobbe guardava verso l'entrata e tutto sembrava tranquillo nonostante gli avvenimenti degli ultimi giorni.

Fu servito l'antipasto, composto di affettati freschi e nostrani, cipolline, carciofi e il famoso speck del Trentino che si scioglieva in bocca. Giuseppina mangiava con molto appetito e il vino scorreva nella gola che era un'autentica goduria. Entrambi mostrarono il pollice alzato a Francesco, che sorrise a sua volta.


Una canzone del Liga faceva da sottofondo al cicaleccio di mille parole, quando al tavolo vicino ai ragazzi improvvisamente piombò un uovo. L'attenzione fu destata prima dal rumore secco del guscio che si spezzava e poi più morbido, prolungato, del liquido che si spargeva sul tavolo. I commensali si guardarono stupiti. Qualcuno abbozzò un commento neanche tanto articolato al cospetto di un fatto così singolare.

Giobbe capì subito che c'era qualche problema.

Passarono pochi secondi e l'allegria si tramutò in un cieco trambusto. Una quarantina di vegani varcò la porta, cominciando a girare per i tavoli gridando "miscredenti" e "hasta la verdura". Rompevano direttamente le uova sulla testa della gente. Il sipario era tolto e un piccolo girone infernale si presentava sotto gli occhi di tutti. I commensali, superata la prima sorpresa, cominciarono a scappare inseguiti dall'orda di pazzi urlanti, mentre qualcuno cominciava ad accennare una reazione, imbastendo dei corpo a corpo.

I bambini, vedendo i grandi in un atteggiamento mai visto, ridevano come se si trovassero nel migliore dei luna park.

La battaglia infuriava e con essa la sporcizia che si spandeva su tutto il prato. Vino, birra, avanzi di carne amalgamati da un impasto di uova, erano diventati un tappeto reale. Tavoli e sedie erano rovesciati da persone che lanciavano al cielo urla belluine, inseguendosi senza freni inibitori.

Giuseppina era stata colpita da due uova, uno in faccia e l'altro dietro il collo, e non sapeva più se ridere o piangere. Giobbe era fuori di sé, cercava con gli occhi Francesco, ma non lo trovava. Continuava a osservare il campo di battaglia, dove i vegani stavano perdendo l'iniziale vantaggio del primo attacco. Ora i cosiddetti carnivori si stavano ribellando, coalizzandosi l'un l'altro andavano quattro alla volta a prendere ogni vegano. Ed erano botte su botte fino a farli strisciare nell'orrida melma che copriva il terreno. Questo però era un vantaggio parziale, perché a loro volta le reazioni dei vegani erano imprevedibili e fior di teste cotonate di signore eleganti erano violate e impiastrate da tutto lo schifo possibile.

A un certo punto un urlo sovrumano si stese sul campo di battaglia. La cicciona! Giobbe la guardò esterrefatto mentre l'amazzone richiamava dall'esterno un battaglione composto di una trentina di ragazze equipaggiate con fucili sparauova. Erano di produzione vietnamita su licenza cinese e potevano spararne una dozzina in venti secondi.

Come marines, le amazzoni si gettavano a terra per evitare la contraerea dei carnivori, e sparavano ad alzo zero. Terminate le munizioni si combatteva a mani nude. Anche i ragazzini cominciarono a partecipare con azioni di disturbo, in soccorso delle madri in difficoltà, urlanti, isteriche e sfatte.

Finalmente Giobbe vide Francesco davanti alla cucina insieme alla cicciona. Come due generali sembravano stessero trattando un armistizio. O qualche tipo di resa. Giobbe scattò correndo verso di loro con la camicia e i pantaloni sporchi e i capelli unti.

Non poteva sopportare l'incursione dei movimentisti del FIGA, si sentiva in dovere di risolvere la questione.

"Ma siete impazziti? Checcazzzo volete fare, massa d'imbecilli?" apostrofò malamente la generalessa.

Il suo amico fu felice di vederlo arrivare in suo soccorso, mentre la ragazza lo guardò con sguardo arrogante.

"Voi non rispettate le regole, siete dei primitivi e dovete smetterla di mangiare la carne. Solo la verdura ti può elevare al livello superiore, dobbiamo essere come le piume, trasportate dal vento" filosofeggiò la femmina alfa.

"Una piuma? Ma che dici? Tu, trasportata dal vento? Ci vuole un TIR per te, un trasporto eccezionale." Le urlò, tirando fuori il salame per piazzarglielo davanti agli occhi. La cicciona cominciò schifata a indietreggiare, ma Giobbe la fermò e le chiese:

"Qual è il tuo nome?"

"Aria".

"Bene Aria, ferma i tuoi soldati che devo farti una proposta" la incalzò.

"Non mi fido di te" replicò Aria.

"Fidati!", replicò a suo volta Giobbe, urlando.

In quel momento un'amazzone magrissima si avvicinò alla cucina. Teneva un uovo in mano e con tutta forza lo tirò verso Giobbe. Lui la riconobbe subito come la donna del semaforo. L'uovo, lanciato con precisione, colpì Giobbe sulla fronte con un colpo secco ma non si ruppe. Un destino complice fece sì che l'impatto avvenne nell'unico punto infrangibile, una specie di tallone d'Achille al contrario. Salì un paio di metri e ridiscese giù, nella provvida mano di Giobbe che lo raccolse.

Aria rimase esterrefatta nel vedere la scena, un arcano sortilegio fece riaffiorare le credenze secolari di pipponi mitologici.

Anche buona parte dell'esercito vegano vide la scena e improvvisamente si fermò. Il Messia si era materializzato davanti a tutti.

Ieratico come un eremita, Giobbe fece un cenno all'amazzone Aria.

"ooohhhhhhhaaa" urlò la generalessa, e come d'incanto tutti si fermarono. Tutta l'area era un campo di battaglia, bottiglie rotte, piatti rovesciati, uova esplose a migliaia. Le persone si guardarono stupite mentre si ripulivano i vestiti con le mani unte. Solo i bambini continuarono a sguazzare nella loro zona giochi, diventata ormai un putrido laghetto di liquami.

I movimentisti erano sparsi per tutta l'area, silenziosi e guardinghi.


Giobbe prese la parola. La sua voce era profonda e il suo sguardo trapassava i corpi.

"Basta, credo sia venuto il momento di dire basta! Stop a queste inutili contrapposizioni, o tra qualche tempo ci scanneremo non con le uova ma con le mannaie. Non mangeremo più animali non per una libera scelta ma perché la lotta si sarà estesa tra gli esseri umani".

Non volava una mosca.

"Popolo vegano, io non sono con voi e non sono contro di voi. Io sono sopra tutte le cose. Dobbiamo cercare un dialogo, una via d'uscita giusta ed equilibrata. La vita civile deve riprendere il suo corso a Pisellonia. Prendo l'impegno che lunedì ci incontreremo per discutere e trovare un'intesa. Ho già in mente qualche idea che spero possa piacere a tutti. Sarà un decalogo sull'alimentazione, dove cercheremo di trovare i giusti compromessi.

Ora però, ripeto basta! I bambini e gli anziani ci stanno guardando, e noi dobbiamo essere di esempio per i primi e di aiuto e sostegno per i secondi".

Il mormorio iniziale, dapprima sommesso, salì d'intensità sino ad arrivare a un'autentica ovazione.

Francesco lo guardava stupito mentre Aria già sembrava un'adepta. Anche il capezzolo in fronte vibrava d'energia positiva.

Giobbe riprese la parola.

"Le notizie di quanto successo stanno girando per tutta la nazione. Pare che il noto giornalista Bruno Moto abbia già inviato una troupe. Diamo il buon esempio. Propongo come facevano gli indiani di fumare il calumet della pace. Siccome però ci sono tanti bambini e anziani che non fumano, propongo… "

Ormai la folla era eccitata. La battaglia di pochi minuti prima era già dimenticata.

"EH EH ALÈ EH EH ALE EH EH ALÈ" urlavano tutti i guerrieri.

Francesco passò a Giobbe un biglietto, dov'era scritta la lista degli ingredienti di una ricetta.

Giobbe lesse il biglietto e gli rispose di rimando con un occhiolino, riponendo il foglio in tasca.

"Propongo l'antica formula di tarallucci e vino, naturalmente per i bambini coca cola".

"SIIIIIII SIIIIIII SIIIIIII" esplose la distesa di teste imbrattate con una sola voce. Anche i movimentisti si erano uniti ai cori e Aria sembrava più bella mentre faceva amicizia con Giuseppina.


Francesco si era attivato in modo superbo, prendendo contatto con tutti i ristoratori pugliesi della città. Un enorme piatto, contenente trenta chili di tarallucci, fu sistemato vicino all'area dei bambini. Furono portate le sedie per gli anziani, e la gente cominciò a mangiare e bere con gusto. La comunità, pur con i vestiti sporchi e strappati, si stava conoscendo con il cuore senza paura, scambiandosi opinioni sulle differenze di credo in fatto di alimentazione.


Giobbe avvicinò l'amico e con un sorriso gli sussurrò: "La verità deve sempre mimetizzarsi per ottenere il suo scopo".

"Grazie di tutto Giobbe, questi tarallucci allo speck e formaggio sono il nostro calumet della pace" gli rispose Francesco mentre lo stringeva in un fraterno abbraccio.


(fine)



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Fausto Scatoli


Alba d'oriente


— Ma stai scherzando, Nick? In India?

— No, Mark, non scherzo affatto, saresti il mio sostituto per un anno. Hai qualche giorno per pensarci e darmi una risposta. Diciamo quattro o cinque, non di più.

Rimasi muto, in quel momento non mi uscivano parole.

— Mark, ci sei?

Mi ripresi: — Sì, sì, scusa. Stavo pensando…

— Tranquillo, pensaci e poi mi farai sapere. Attendo notizie quanto prima. E non deludermi, mi raccomando. Ti saluto.

— Sì, certo. Ciao, Nick, ciao.

Chiusi il telefono e andai al mobile bar. Avevo bisogno di sostegno e una bella dose di whisky mi avrebbe aiutato di sicuro.

Sorseggiando l'Ancnoc invecchiato dodici anni, uno dei pochi che mi soddisfacevano, pensai a quanto mi era appena stato proposto. Un anno di cattedra alla Vikram University di Ujjain, nel Madhya Pradesh, a insegnare zoologia.

Certo, visto il momento sarebbe andato benone, ma era solo un anno. E poi?

"Devo pensarci. Andare là vuol dire tagliare ogni ponte e mi sta bene, ma non avrei sbocchi sul futuro. Non al momento".

Versai dell'altro whisky.


Mi svegliai sudato, con un'erezione come non avevo da tempo e un mal di testa micidiale. Forse il whisky era stato troppo.

Dopo una doccia rilassante presi il telefono.

— Nick? Sì, sono Mark.

— Ehilà, Mark, hai già preso una decisione? Ti avevo dato più tempo…

— Lo so, ma prima faccio e meglio è, almeno credo. Comunque ho deciso di accettare.

— Perfetto, Mark. Sapevo che non mi avresti deluso. Ti spedisco subito i documenti necessari a dimostrare che verrai per lavoro, così basterà un semplice visto. Ti mando anche delle mail esplicative che ti possano prefigurare cosa dovrai fare. Tu pensa al passaporto e prenota il biglietto, ci risentiamo a breve, magari su Skype.

Era eccitato, come lo ero stato io al risveglio.

Sarà stata la sbornia, ma non avevo fatto altro che sognare di fare l'amore con Sally. In mille luoghi diversi e in altrettante posizioni.

Sally… otto anni di matrimonio dove pareva tutto così bello tra noi e d'improvviso mi aveva lasciato per una sua vecchia fiamma. Ancora mi veniva difficile crederci.

E faticavo ad accettarlo, ero quasi allo sbando. Per questo, dopo averla sognata tutta notte decisi di accettare. Per cambiare tutto o almeno provarci.


"I passeggeri del volo Jet Airwais 177 per Mumbai sono pregati di recarsi all'imbarco. Ripeto, i passeggeri…"

Il terminal 5 di Heathrow è quasi sempre un formicaio, ma soprattutto è un misto totale di razze, colori e voci. E in quel giorno non si smentiva.

Mi misi tranquillamente in coda per salire sulla navetta che mi avrebbe portato al Boeing per Mumbai. Otto ore di volo e poi altro aereo per Indore, dove ci sarebbe stato Nick ad attendermi.

Durante il viaggio per Mumbai mi assopii più volte e sognai. Sally, sempre lei.

Me ne andavo per provare a dimenticarla e mi stava tormentando. O forse ero io a tormentarmi richiamandola inconsciamente.

— Signore, che tipo di pasto desidera? Europeo o indiano?

La voce della hostess mi tolse dal torpore.

Visto che mi ci stavo recando decisi che sarebbe stato opportuno provare il cibo asiatico.

— Indiano, grazie.

— Bene. Da bere?

— Acqua naturale.

Si rivolse a un altro passeggero e richiusi gli occhi cercando di pensare a cosa mi aspettava. Nuovo lavoro, anzi, stesso lavoro ma in ambiente diverso e soprattutto nuovi luoghi da conoscere e ritmi da trovare.


Non avevo mai assaggiato cibo indiano ed ero convinto fosse simile al cinese, che invece conoscevo bene, ma mi sbagliavo. Non so di preciso da cosa fosse composto il pasto, erano tutti assaggi, bocconcini con profumi e aromi davvero invitanti.

Fatto sta che dovetti chiedere altra acqua per spegnere le fiamme che sentivo in gola.

— Forse avrei dovuto avvisarla, signore, ma non sapevo fosse la prima volta — disse l'hostess porgendomi un'altra bottiglia.

— Non si preoccupi, passerà. Ho vissuto momenti peggiori. Fece un sorriso e si ritirò.

Sei ore dopo ero in volo da Mumbai a Indore e ancora sentivo lo stomaco protestare.

L'aereo toccò terra poco dopo le sei di sera, in perfetto orario. Nick mi aveva preparato all'impatto olfattivo con l'India, ciò nonostante quando scesi dal bus ebbi un senso di repulsione.

Non era puzza, era qualcosa di cui l'aria era permeata. Quello che al momento mi faceva quasi ribrezzo era l'odore dell'India e un giorno l'avrei amato, ma ancora non lo sapevo.


Sbrigate le pratiche in aeroporto, recuperai la valigia e mi recai all'uscita. Stava calando la sera e il cielo imbruniva. Fermandomi un istante a osservare il tramonto sperai con tutto il cuore si potesse trasformare in una nuova alba per me.

— Mark, Mark, sono qui.

La voce di Nick mi distolse da pensieri profondi. Mi corse incontro agitando le mani, si capiva che era felice di vedermi. Lo conoscevo dai tempi dell'università ed eravamo sempre rimasti in contatto pur non avendo un'amicizia particolare, eppure mi abbracciò e cominciai a sospettare qualcosa.

— Non vedevo l'ora che arrivassi. Dammi la valigia, vieni, c'è un taxi che ci aspetta. In un'oretta siamo a casa, vedrai.

— Ehi, Nick, calma. Cos'è tutta questa agitazione, mica è arrivata la regina.

Si rilassò un poco. Sembrava pervaso di ansia. Hai ragione, scusami. Vieni, seguimi.


In realtà ci mettemmo un'ora e mezza, quasi due. Una volta fuori città il traffico non era notevole, però attraversammo parecchi paesi e anche se ebbi modo di ammirare poche cose, vista l'ora, trovai tutto piuttosto piacevole.

Durante il viaggio Nick mi spiegò che a breve si sarebbe dovuto assentare per un periodo piuttosto lungo e quindi mi aveva chiesto di sostituirlo alla Vikram University dove teneva lezione.

— Ho fatto il tuo nome e hanno accettato senza problemi. "L'importante" mi hanno detto, "è che si tratti di una persona capace e, ovviamente, in regola in tutto e per tutto." E tu lo sei.

Mi stava adulando.

— Domani ti porto là e ti presento sia ai colleghi che agli studenti, così comincerai a farti conoscere.

Andò avanti per tutto il tempo mentre io rispondevo a poco più che monosillabi cercando di scoprire qualcosa in più sul suo strano comportamento.

Nonostante il buio ormai incombente, mi colpì uno stupendo arco all'entrata della città. Doppio arco, per l'esattezza, di tipica manifattura indiana. Magnifico.

Nick se ne accorse. Bello, vero? Ce n'è uno a ogni entrata, tutti diversi. Imparerai a conoscerli.

Il taxi si fermò davanti a una villetta. Nick pagò l'autista che subito se ne andò.

— Abito qui. È un quartiere periferico di Ujjain. In realtà è un vero paese e si chiama Parsvnath City, ma ormai fa parte della città. La Vikram è poco distante, in dieci minuti ci arrivi a piedi.

Entrammo.

Bella casa. Salone con cucina, due camere, bagno e studio. E sopra un balcone grande come tutta la costruzione. Ci poteva comodamente abitare una coppia con figli.

— Caspita — me ne uscii, — devi prendere bene se ti puoi permettere un posto simile.

— No no, mi costa meno di trecento sterline al mese di affitto. Quattrocento dollari, per l'esattezza.

— Così poco?

— Caro mio, devi imparare tante cose di questo splendido paese. Ne avrai tutto il tempo, ora usciamo a mangiare un boccone. Offro io.

— Mangiare? Sì, OK, purché non sia come quello che mi hanno dato sull'aereo. Ho ancora lo stomaco che si lamenta.

Scoppiò in una risata: — Proprio come accadde a me, ma ci si abitua, te lo garantisco.


Nel locale l'odore delle spezie era pazzesco.

— Una cucina per stomaci forti, questa.

— Se parli di quella tradizionale ti do ragione, ma in città c'è di tutto ormai. Qui fanno un ottimo pollo alla brace, per esempio. O lo vuoi all'indiana, tandoori?

— Non scherziamo, vada per il pollo alla brace. E una birra, se ce l'hanno.

— Certo che sì. Ora chiamo la ragazza — rispose alzando la mano per farsi vedere.

Giunse tutto in breve tempo e mentre masticavo con piacere Nick disse: — Lo sai che qui passa il tropico del cancro?

— Davvero? Vuoi dire che siamo ai tropici? — risposi sghignazzando. Me li sono sempre figurati diversi.

— E vedrai quando arriveranno i monsoni… —

Lo guardai. In che periodo?

— Maggio, di solito. Fra quattro mesi abbondanti.

La serata si chiuse lì. Mi cadde addosso la stanchezza del viaggio e Nick lo notò. Meno di un'ora dopo dormivo di gusto.


Nei due giorni successivi Nick mi portò alla Vikram dove ebbi un colloquio col rettore e parte della dirigenza presentando tutte le mie credenziali, poi cominciai a conoscere i colleghi e infine mi portò con lui all'aula in cui avrebbe tenuto la lezione e presentato ai ragazzi come suo sostituto per i mesi a venire.

Sabato e domenica li passammo invece girando per la città con i riksciò. Mi fece vedere alcuni templi e mi portò nelle vie centrali, dove si trovavano i negozi migliori. Ma soprattutto continuava a dire che sarebbe partito a breve e non ne spiegava il motivo trincerandosi dietro oscure storie di famiglia.

L'accordo tra noi prevedeva che in sua assenza avrei gestito la casa, ma al ritorno gliela avrei resa e pertanto, nel frattempo, avrei dovuto cercarmi una sistemazione per il futuro.

— Non è difficlie, vedrai. Ci sono molte buone occasioni, anche d'acquisto.

— Ma figuriamoci se acquisto. Tra un anno o anche meno torno a Londra, tranquillo.

Sbagliavo.

Per tutta la settimana, mentre Nick era al lavoro, approfondii le conoscenze con gli altri docenti, alcuni studenti e la città di Ujjain. Soprattutto con quest'ultima dialogai parecchio.

L'odore non lo sentivo più, mi ero assuefatto, ma camminando lungo le vie mi accorsi di quanta sporcizia vi fosse in ogni angolo e di come mi irritasse il comportamento degli indiani: sputavano per strada, si soffiavano il naso tappando prima una narice e poi l'altra. Sembravano non conoscere l'educazione. Se poi aggiungiamo che ogni tanto capitava di trovarsi davanti una mucca o i suoi escrementi… No, non era una città fatta per me.

— L'India è questa e gli indiani sono così, Mark.

— Sarà, ma non mi pare il massimo della vita. Tropico del Cancro… mah.


— Cazzo, Nick, sono qui da due settimane soltanto, non puoi partire così di fretta.

— Mi spiace, ma devo assolutamente andare, Mark. Un giorno ti spiegherò ogni cosa.

— Certo, come no. E intanto io resto qui a cercare di sopravvivere in una città dove ancora non conosco nessuno o quasi. Sembri una moglie o un'amante che se ne va sul più bello.

Qualcosa nelle mie parole lo colpì e rimase in silenzio per qualche istante, pensando a cosa dire.

— Tornerò presto, vedrai.

— Ecco, appunto. Va bene, d'accordo, segui la tua via, cercherò di arrangiarmi.

— Grazie, Mark…

— Ma quando torni facciamo i conti, te lo garantisco.

Non volle neppure lo accompagnassi all'aeroporto, prese un taxi e se ne andò lasciandomi mille dubbi e domande senza risposta.


Partito lui presi il suo posto in università, mi immersi nel lavoro e nella conoscenza del paese.

Cominciai così ad apprezzare tante cose, a partire dal cibo, facendomi consigliare da colleghi e studenti.

Conobbi il masala dosa e le altre mille varianti della farina di ceci di cui fanno uso in India, dal chapati al samosa passando per le pakora. Ne uscivano dei piatti che se non erano conditi con aromi a dismisura, risultavano davvero gradevoli.

Ma poco a poco prese lentamente a piacermi anche il gusto delle loro spezie, delle loro strade, vie, case, negozi, abiti. Donne.

Già. Sarà perché ci passa il tropico del cancro, ma come un cancro questa città e i suoi componenti entrarono in me e cominciarono a divorarmi.


Una dozzina di giorni dopo la partenza di Nick, tornando a casa dalla Vikram trovai una sorpresa.

Sul momento non credetti ai miei occhi: seduta davanti alla porta c'era Sally.

Nel vedermi sbarrò gli occhi e disse: — Mark, che ci fai qui?

— Scusa sai, ma io qui ci abito. Che ci fai tu, piuttosto?

— Io… ecco, io ero venuta per Nick. Dove lo posso trovare? Avevo capito che ci abitava lui in questo posto.

Sentii il cervello partire con una serie di elaborazioni.

— Nick? E perché lo cerchi, se non sono indiscreto?

— Be', vedi, io… oh, cazzo, Mark, è lui il mio amante, quello per cui ti ho lasciato. È venuto un paio di volte da me, poi ci siamo accordati per trovarci qui.

L'elaborazione si concluse e scoppiai in una risata memorabile. Ogni cosa si sistemava, ogni tassello del puzzle al proprio posto.

— Sally, Nick è in Inghilterra, o almeno credo. È partito due settimana fa. Mi ha chiamato a sostituirlo nel lavoro perché diceva di avere un impegno di famiglia molto importante. Adesso capisco tutto, anche perché aveva tanta fretta di andarsene — dissi ridendo come un matto.

— Che c'è da ridere, io non ci capisco nulla, invece. Mi aveva chiesto di raggiungerlo qua dove si era sistemato, per vivere insieme.

— Ti ha buggerato, Sally, come ha fatto con me. Però c'è una differenza e lo sai. Io non sono infastidito più di tanto, tu sì. Tantissimo.

In un attimo comprese l'accaduto, la truffa di Nick e quanto vi era collegato. Scoppiò in lacrime e non ebbi il coraggio di lasciarla sulla soglia, la feci entrare.


Dopo essersi sfogata e aver scaricato la tensione tornò a essere la Sally che conoscevo, ma c'era una differenza: non mi interessava più e, per fortuna, lo capì subito.

Rimase a dormire da me e il giorno successivo la portai in giro per la città, come aveva fatto Nick con me, ma sempre rimanendo distaccato. Cosa non difficile, sebbene non l'avessi mai ritenuto possibile.

La sera venne di nuovo colpita da una crisi di pianto e mi chiese di accompagnarla a Londra.

— No, Sally. Posso accompagnarti all'aeroporto, ma oltre non vado. Io resto qui.

Non era una sciocca. Annuì.

Si fermò altri due giorni, poi andammo in taxi fino a Indore e si imbarcò per Mumbai, dove avrebbe preso il volo per Londra.

Tornando verso casa mi ritrovai a sorridere ripensando a lei.

Una volta arrivato esplosi in una risata tremenda, poi mi masturbai violentemente, piangendo e pensandola.


Passò un altro mese tra alti e bassi, ricordi e rimpianti, poi venni convocato dal rettore.

— Il signor Wailey ha dato le dimissioni, lei se la sente di prendere il suo posto in via definitiva?

— Come, scusi? Nick si è licenziato?

— Sì, Nicholas Wailey si è licenziato, se così vogliamo dire. Lei?

— Mah, non so. Senta, posso darle la risposta fra qualche giorno?

— Certo, signor Greebe, ma tenga presente che prima lo fa e meglio è.

M'illuminai d'improvviso: — Ha ragione, accetto la proposta.

Mi guardò, perplesso. È sicuro, signor Greebe? Non vuole pensarci almeno un poco?

— No, va bene così. Accetto. Gli porsi la mano e me ne andai, sorridendo, a conoscere parti della città che mi mancavano.


Con la nuova euforia che mi permeava mi trovai a frequentare luoghi già conosciuti avendo uno spirito diverso e trovarli cambiati, per niente uguali a prima.

E m'innamorai.

Del cibo.

Della vita.

Del tropico del cancro.

Di Bhavya. Dolce, bella, elegante, come dice il suo nome. Occhi neri dentro un volto ramato. Una dea indiana, tutta per me.

Anche lei, come un cancro, entrò in me e prese a espandersi, a consumarmi.

E lo fece a tal punto che la chiesi in moglie secondo le regole indiane. Mi sentivo ridicolo e al tempo stesso orgoglioso quando uscimmo dal tempio dedicato a Shiva, novelli sposi tutti ricoperti di fiori colorati. Quell'alba che speravo di trovare era arrivata e mi illuminava corpo, anima e cuore.


Sono passati anni, qui al tropico del cancro, e non ho più avuto notizie di Nick e Sally.

Non sento la mancanza della nebbia londinese. Qui si sta bene tutto l'anno, a parte il periodo dei monsoni, comunque sopportabile senza fatica.

La casa l'ho comprata e ci vivo con mia moglie Bhavya e i nostri figli, Ramesh e Jyoti.

Ora lei aspetta il terzo ed è felice.

E pure io, sebbene i tropici me li aspettassi diversi.


(fine)



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Ibbor OB


Lo sbarco


Era partita a notte fonda per essere lì all'alba. Il freddo le entrava nelle ossa e l'aria impregnata di salsedine le bruciava la gola. Nonostante questo, però, si sentiva dannatamente bene: era esattamente dove voleva essere. Urlava con tutto il fiato che aveva in corpo. I lunghi capelli blu ondeggiavano in balia della brezza marina impigliandosi nei grandi orecchini rotondi che indossava. La maglietta stretta sottolineava le dolci curve di quel corpo curato. Si scagliava ripetutamente contro gli scudi trasparenti di quei maledetti uomini dello stato, che considerava l'avanguardia armata di una società ricca che da sempre schiacciava i poveri del mondo. Gli ematomi sulle costole e sulle gambe per lei sarebbero stati dei trofei da esibire: nessun dolore, nessuna paura.

"Fateli scendere! Fateli scendere!". Urlava, assieme alle sue compagne e ai suoi compagni di lotta.

"Fateli scendere! Fateli scendere!". Era evidente che la ragione fosse dalla sua. I profughi sarebbero sbarcati, senza alcun dubbio. Chi si opponeva stava dalla parte sbagliata della storia. E avrebbe perso.

A un certo punto, inaspettatamente, si aprì un varco fra la piccola folla degli uomini in divisa e si intravidero i volti dei naufraghi, recuperati da pochi giorni dal mare. Fuggivano dalla guerra. Almeno questa era l'opinione comune. Le facce stanche ma lo sguardo fiero. Li osservava con vera ammirazione e commozione. Avrebbe voluto abbracciarli, accarezzare quei capelli crespi, sentire i loro muscoli consumati dagli stenti. Dare conforto alle loro pance vuote.

"Eccoli! Eccoli! Scendono! Da questa parte! Venite! Forza!". I sui compagni gridavano attorno a lei mentre si spostavano tutti dall'altro lato del molo. Riuscì ad avvicinarsi e per un istante sfiorò con le dita la mano di uno di loro. Percepì il calore di quel corpo forte e di quella pelle ruvida e possente. Sentì una dolce sensazione lungo le sue fragili ossa indistruttibili. Fu un attimo. Poi la rabbia e la foga si riappropriarono della sua mente. "Fateli scendere! Fateli scendere!"


Assan aveva imboccato la passerella per primo. Mentre camminava lentamente, con la testa china, guardava interessato la donna bianca che si agitava e gli correva incontro. Era bella. Gli sorrideva. Benché non capisse bene la sua lingua, era sicuro di aver compreso il significato delle sue parole. Soffocò un sorriso compiaciuto. Si aggiustò la coperta termica che gli avevano dato appena sceso dal barcone in modo da coprire leggermente il suo volto… non si sa mai, pensava.

Per un brevissimo istante la sua mente lo riportò al mondo che aveva lasciato. Alle persone che aveva ucciso, alle sue mogli e ai figli abbandonati mesi prima senza preavviso. Ai lunghi anni passati al servizio di vari signori della guerra e ai suoi compagni, anch'essi partiti per quel suo stesso viaggio, che ora si accingeva a portare finalmente a termine. Lui era lì ora. Finalmente era sbarcato. A loro avrebbe pensato forse più avanti, appena si fosse sistemato. Magari si sarebbe lasciato tutto alle spalle, come aveva pensato tante volte. Non voleva deciderlo adesso comunque. Per uno come lui non era una scelta facile e forse nemmeno conveniente dopotutto. Gli avevano raccontato tante cose di questa terra lontana e lui non ci aveva creduto davvero. Ora, dopo aver visto lo sguardo di quella donna bianca, non sapeva più cosa pensare.


D'un tratto vide una delicata mano femminile protesa nella sua direzione. Era lei. Notò gli anelli. La perfezione della pelle e l'assenza di tagli o callosità di alcun genere. Con un movimento che dissimulava involontarietà, si avvicinò e sfiorò quella pelle candida e bianca. Capì con soddisfazione e incredulità quanto quella donna e pure tutti quegli altri esagitati con lei fossero dalla sua parte. I loro sguardi si incrociarono per un fugace attimo. Per la seconda volta soffocò un leggero sorriso compiaciuto.


Chissà cosa avrebbero pensato se avessero saputo chi era davvero e cosa aveva fatto per arrivare dov'era. Non rischiava molto pensò fra sé e sé, era certo che nessuno avrebbe voluto sentire quella versione della storia né tantomeno crederci.


Immerso in questi pensieri andò avanti procedendo con gli altri verso i pullman preparati per scortarli in qualche altro luogo.


(fine)



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Roberto


Il professore


Il fuoco scoppiettava nel camino. Lungo le pareti nere di fumo, scintille salivano dai ciocchi stagionati. Il pavimento era di tavole grezze di pino; i muri, intonacati in maniera grossolana, erano un po' sporgenti o lievemente rientranti.

Il vecchio tavolo stava accostato alla parete, tre sedie di paglia intorno. Una scala nell'angolo portava al piano di sopra, quello della camera da letto; riscaldata dal tiepido intonaco che copriva la canna del camino. Il tepore durava finché il fuoco non si spegneva di notte, e allora si stava caldi solo avvolti stretti nella vecchia trapunta.

Dall'unica finestra entrava la luce del giorno, ora quasi al tramonto. Il rosso della sera si mescolava al rosso della fiamma e nel silenzio della stanza si provava una sensazione di pace.

A lato della finestra, fra questa e l'angolo del muro, stava una libreria di castagno, scura, con i ripiani incurvati sotto il peso di libri accatastati in tutte le posizioni, qualcuno spinto a forza fra uno e l'altro.

Un uomo alto, non vecchio, sedeva comodo in una poltrona accostata al camino con i piedi scalzi sullo scalino rialzato. Leggeva.

Un po' più in là, arrotolato e con la schiena appoggiata allo stesso scalino stava un cane da caccia, bruno, muso sopra le zampe, occhi chiusi e russava lievemente accordandosi al rumore del legno che bruciava.

L'uomo chiuse con uno scatto il libro. Il cane aprì subito gli occhi, subito allerta. Spingendosi sui braccioli, intorpidito dalla posizione seduta, l'uomo si mise in piedi, infilandosi le ciabatte.

Il cane fu subito in piedi anche lui, scrollandosi vigorosamente, tanto che il pelo fulvo fluttuava attorno al suo corpo dandogli una forma indefinita.

"Altair, non è il caso che ti alzi. Vado solo nella legnaia a prendere un altro po' di legna, stai tranquillo"

Inutile: già gli annusava le gambe per poi dirigersi verso la porta.


A metà settembre l'aria lassù, a oltre mille metri, era piuttosto fresca; anzi, fredda, sul far della sera.

Verso nord c'era una muraglia altissima, prossima ai tremila metri: una lunga cresta orizzontale che chiudeva la valle. Brillavano ancora i ghiacciai illuminati dai raggi obliqui del sole al tramonto. La luce si rifrangeva sui seracchi e molte tonalità dello spettro luminoso lampeggiavano e coloravano quei pendii che erano in realtà di un biancore abbagliante.

La casa, quattro sassi e un tetto di pietra, era situata, assieme a una decina di altre simili, su un cucuzzolo al centro della valle; sopraelevato di parecchio rispetto al fondovalle. La stradina asfaltata ma piena di buche che da giù saliva fino al borgo era ripidissima e non sempre praticabile d'inverno.

Vivevano lassù non più di venti persone, la maggior parte giovani, alcuni sposati.

"Fresco eh, professore? Un po' di legna per stanotte?"

"Salve Carlo. Come va? Sì, la cassetta è quasi vuota e preferisco uscire adesso, fin che c'è luce".

Erano d'accordo gli abitanti di quella piccola frazione: tutti facevano legna nei boschi, poi la accumulavano in un'unica legnaia e se ne servivano ogni volta che ne avevano bisogno.

"Aspetta prof, ti do una mano".

"Grazie, molto gentile, Carlo".

Si avviarono su per la scala esterna di legno dal mancorrente traballante, grigia per gli anni e ancor di più per la pioggia e la neve.

"Ecco, mettiamola lì, nella cesta"

Carlo si premurò di sistemare la legna con ordine. Poi si alzò per uscire,

"Carlo, è quasi ora di cena. Siedi un momento. Ci vuole un aperitivo, che dici?" nel mentre apriva una credenza ordinata, dove stavano impilati dei piatti, delle pentole, qualche bicchiere capovolto e alcune bottiglie di cui una trasparente, di grappa fatta in qualche fienile.

"Ti ringrazio, prof, ma non è il caso", ma già scostava una sedia dal tavolo e si sedeva con piacere.

"Figurati, Carlo. E Sara, come sta?"

"Bene, grazie. Il raffreddore le è passato e posso infine sentirla parlare con la sua voce squillante mentre mi rimprovera perché lascio tutto in disordine. Ancora poche settimane e nasce il secondo!"

Si guardava intorno, nel frattempo:

"Vedo che non smetti mai di leggere, eh prof?" mentre sfogliava il libro rimasto sulla poltrona.

Lo chiamavano tutti prof o professore, dopo che, tre anno addietro, era arrivato nel borgo con una montagna di libri.

"Che mestiere fai?" fu una delle prime domande che gli fecero.

"Ormai sono in pensione, dall'anno scorso. Ho insegnato filosofia. In un certo senso mi sento come se non avessi mai smesso.

Dicono che Socrate, mentre gli preparavano il veleno per ucciderlo in carcere, stava imparando una nuova melodia al flauto. Gli amici che lo circondavano gli chiesero (con pessimo gusto, secondo me) perché mai si sforzasse di imparare un nuovo brano, dal momento che… Lui rispose: 'È vero, sto per morire, ma morirò conoscendo una musica che non conoscevo prima'. Capito, Carlo? Bada che ti racconto questo aneddoto non certo per paragonarmi a Socrate, sia chiaro. Ma anch'io sento quasi un bisogno fisico di leggere, non posso farne a meno.".

Il professore, abbiamo detto, era arrivato lassù tre anni prima. Durante una gita in montagna era capitato in quello sperduto borgo.

La giornata era meravigliosa, tutti i colori della tarda primavera cospiravano a far sembrare quelle quattro case come fossero magiche, un'emanazione del bosco. Anche il cielo, senza una nuvola, contribuiva con un azzurro intenso a marcare il confine fra la roccia e l'aria. E il silenzio! Questa pace interrotta solo dal fruscio delle foglie morte e di quelle nuove sui giganteschi castani…

Si era innamorato del posto e della gente, dopo essere tornato e tornato più volte.

Aveva comprato quella casetta dove ora viveva e ci si era trasferito nonostante le difficoltà logistiche per scendere ogni giorno a fondovalle, a scuola.

Era solo; dunque non doveva convincere nessuno.

Ma, contrariamente a quel che si pensa, non si era stabilito in quel posto remoto per amore della solitudine, per sfuggire alla vita frenetica, per la pace interiore.

Se questo fosse stato il suo scopo non avrebbe resistito più di qualche settimana.

La mancanza apparente di 'vita' l'avrebbe oppresso inesorabilmente.

No, era venuto quassù perché si era reso conto, dopo una vita frenetica ma priva di contatti umani, che qui poteva finalmente trovare un universo di sensazioni e di amicizie.

Qui poteva conoscere tutti, ed erano tantissimi a paragone con le moltitudine amorfe che corrono ogni ora del giorno nelle città. Qui poteva sperare esistesse ancora la 'persona'. E qui era venuto, una scommessa con sé stesso.

Ricordava alle volte la vita nel condominio dove abitava. Lasciando perdere le baruffe e gli odii alle riunioni dei condomini, si era reso conto, con sgomento, di non sapere quasi i loro nomi. Quando li incontrava per la scala o in ascensore, a malapena riceveva un '…giorno'; e poi via, ognuno per conto suo.

In dieci anni non era riuscito a farsi invitare, non dico per una cena, ma quantomeno per un caffè; anche al bar. Neppure se era lui a invitare ('mi spiace, oggi proprio non posso; un'altra volta, d'accordo?').

Mentre sorseggiavano in silenzio il loro martini, Altair aveva appoggiato il muso sulla coscia di Carlo

"Certo che il tuo cane è un tesoro, professore. È buono come il pane, ha degli occhi così neri, profondi…"

"È vero, è buono. Lo sai che Altair è una stella?"

Carlo era ingegnere edile, un giovane di quarant'anni, sempre in movimento fra i cantieri del fondovalle e la sua meravigliosa casa. Era nato proprio lì, in quella frazione. Durante gli anni al poli aveva conosciuto Sara. Si erano sposati ed erano venuti quassù. Mai avrebbero lasciato quello che per loro era un paradiso. Ora aspettavano un secondo figlio, ancora poche settimane di attesa.

"Sì, prof, lo so. Nella costellazione dell'aquila, bellissima. Come sai ho un piccolo telescopio a casa, ma mi capita di guardare il cielo più spesso a occhio nudo. Mi pare di percepire meglio la sua immensità. Cosa vuol dire Altair?"

"Vuol dire 'l'aquila volante', dal nome arabo che risale al medioevo.

L'hai chiamato 'il tuo cane', parlando di Altair. So bene che, se vogliamo intenderci e uscire da gineprai inestricabili, bisogna che usiamo i possessivi: mio, tuo, loro, eccetera. Ma, forse, non è del tutto corretto, se ci pensi. E qui entra, spero di non essere pedante, il professore di filosofia. Cosa vuol dire 'mio'? Sarei disposto, a mente fredda, a dare la mia vita per lui? Per quanto gli voglia bene, sono quasi certo che no, non lo farei. E lui? Ci scommetto tutto quello che vuoi: morirebbe per me. Allora… chi è di chi? Mi ama a tal punto da sacrificarsi per me. Non è più giusto dire che sono 'suo', invece di dire che lui è 'mio'?"

"Professore, professore… con te non discuto; tanto lo so bene che mi puoi girare come vuoi. Non te l'ho mai detto, ma sono proprio contento che ti sia unito a noi. E così pensano tutti gli altri. Siamo un po' montagnini e non ci piace scoprirci troppo. Be'! Ora vado, c'è Sara che mi starà aspettando ed è meglio che l'aiuti, fatica non poco in questi ultimi giorni. Ciao, buona notte".

"Buona notte anche a te, Carlo. E saluta Sara".

Se n'era appena andato, quando sentì bussare leggermente.

"Sì? Avanti, apri"

Era Sofia, la figlia di Caterina, la vecchia del paese. Dicevano, ma appena sussurrato, che era una 'strega'; nel senso buono del termine, forse una fattucchiera. Qualcuno diceva che era una sensitiva: ti toccava e sapeva tutto di te.

"Ciao, Sofia, entra entra!"

"Ciao Giacomo, ti ho portato una minestra di fagioli, se la vuoi. Te la manda la mamma… e anch'io ovviamente", e un sorriso le accendeva gli occhi verdi.

Era l'unica che lo chiamava per nome. Ancora una bella donna, forse di cinquant'anni, ma giovanile, energica e dolce. Il prof si illuminava quando la vedeva.

"Grazie Sofia, siete molto gentili, tu e tua madre. Uno di questi giorni farò qualcosa di speciale e sarete tutti invitati, mi sembra il minimo".

"Oh, non preoccuparti, Giacomo. Quando lo fai, comunque, dimmelo prima, che ti vengo ad aiutare. D'accordo?"

"Certo, Sofia", ma già era sulla scala e scendeva veloce.

La porta si chiuse e lui rimase per un momento a fissare quell'uscio muto.

Ogni partenza gli trafiggeva il cuore, come quando Elena, la sua Elena, se n'era andata. Erano passati più di trent'anni ormai. Per lei, pensava, avrebbe potutto usare il possessivo 'sua'. Il mondo aveva continuato a girare, insensibile a tutto.


Si era giunti all'estate, il ventiquattro di giugno, san Giovanni.

Vicino al borgo c'era un'ampia radura, quasi piana. Avevano accatastato legna e fascine e la pira era alta quanto un uomo.

L'antica tradizione celtica, ereditata e trasformata poi dal cristianesimo, si riferiva al sole e al solstizio d'estate. I fuochi dovevano essere lo stimolo perché il sole risplendesse forte e presto divennero il simbolo dell'amicizia virile.

Tutti gli uomini e le donne del borgo s'erano affaccendati durante il giorno. Ora riposavano all'ombra di qualche elce, pronti a consumare un pasto frugale con la smania di accendere il falò. L'avrebbero visto anche dal fondovalle, sicuro. Gli uomini e i ragazzi più coraggiosi l'avrebbero saltato quando fosse un po' scemato. La festa stava per iniziare.

Il prof era seduto sull'erba tenera, tutti intorno alla pira a formare un cerchio. Era calata la notte e i 'grandi' avevano acceso le fascine.

In breve le fiamme si alzarono, almeno tre o quattro metri. Il riverbero della luce rendeva i volti quasi spettrali e deformi. Tutti ridevano. Il calore li aveva costretti ad allontanarsi un po', prima che la peluria delle braccia prendesse fuoco; e si cominciasse a sentire quel caratteristico odore di pollo rosolato. Che, ad ogni modo, in breve avrebbero sentito tutti.

Giacomo era seduto vicino alla vecchia Caterina e a sua figlia. Le aveva aiutate ad alzarsi e a spostarsi indietro.

Una volta sedute fece per abbandonare le loro mani, ma Caterina continuava a trattenere la sua fra le sue vecchie dita. Lo fece sedere al suo fianco, così lui era in mezzo fra madre e figlia. Poi gli parlò piano:

"Sei triste, vero prof?"

"No, Caterina, anzi è un'allegra compagnia e mi sto molto divertendo"

"Sentimi bene, prof. Devi lasciarla andare, chiunque essa fosse. Lasciala! Se, come penso, le vuoi bene, lasciala andare. Sarà sempre con te comunque, ma tu sei quello che deve lasciarla libera"

I ragazzi e i giovani stavano saltando il fuoco, capelli e peli di braccia e gambe bruciacchiati. Il fuoco era basso e faville salivano nel vento della notte.

La gente si stava ritirando salutandosi.

Giacomo si avviò con le due donne, poi la vecchia entrò in casa.

"Buonanotte, Giacomo, diceva Sofia. Mi sono molto divertita. Guarda che bel cielo, guarda lassù"

In alto, sopra la testa, luccicava la W di Cassiopea. Loro erano un po' girati e la lettera pareva quasi verticale, una E stilizzata.

"Domani scendo in paese a far delle compere. Mi accompagni?"

Certo, l'avrebbe accompagnata.


(fine)



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