
Edouard Glissant e la creolizzazione




Incipit: Lo scrittore francese Edouard Glissant usava il termine “creolizzazione” per definire il miscuglio delle culture e la conseguente creazione spontanea di pratiche comuni del tutto nuove...

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Oggi si rifiuta la creolizzazione (come sottoprodotto della globalizzazione) e non si fa altro che discutere di identità, di origini, di tradizioni, come se noi stessi non fossimo il prodotto di millenni di incroci e le nostre tradizioni il frutto di un continuo sincretismo e sovrapposizione. Il tornare indietro, il ricercare nel passato il mondo originario e perfetto, il ritorno al grembo, è stato descritto da Baumann che adoperava in proposito un neologismo da lui creato: retrotopia. Una utopia non rivolta al futuro, ma al passato. Una mitizzazione del passato come luogo dove si viveva bene e meglio perché si era in contatto con l'identità originaria, con le origini viste come luogo senza conflitti.
Il problema è che il futuro, come il presente, è diventato un luogo pieno di incognite, popolato da demoni, produttore di paure e problemi insolubili. E l'attuale pandemia sta a là a dimostrarlo. Ma soprattutto la nostra epoca non riesce più a immaginare il futuro, perché il futuro è diventato totalmente imprevedibile, se non indicibile, e perciò ingestibile. Abbiamo trasformato il futuro in un luogo distopico dove regna il caos. E perciò ecco perché il ritorno in grembo e le varie e infinite retrotopie. Anche il design delle auto, per dirne una, è affetto da retrotopia.
Non mi stancherò mai di dirlo, ma la totale perdita di fiducia nel futuro va di pari passo con l'affermazione della società della tecnica. La scienza, anziché predire ciò che potrebbe avvenire, il mito di Prometeo, produce essa stessa una serie infinite di incognite e di problemi insolubili, il mito di Epimeteo.
Forse per riuscire a rivedere il futuro e aver fiducia anche nella creolizzazione (che è cosa ben diversa dalla globalizzazione) bisognerebbe, una volta per tutte, mettere mano al nostro rapporto con la scienza.
Non tutto ciò che viene immaginato può essere creato, e non può essere vero il contrario. Creare insomma una nuova etica che riesca a gestire e indirizzare quel che la tecnica ci permette di realizzare e impedire che si segua una strada, quando ciò nuoce all'umanità, anche se sia possibile farlo. Penso all'ingegneria genetica, all'intelligenza artificiale, alle applicazioni civili e militari della fisica nucleare.
In soldoni, costruire bombe atomiche nuoce all'umanità, costruire centrali atomiche anche, la manipolazione del DNA umano è da vietare e via discorrendo.
A rileggerti
Oggi il mio grazie va a Francesco Pino, che ha saputo ben focalizzare l'attenzione su temi attuali e dibattutissimi lasciandoci scivolare adagio, senza scossoni, su passato e presente, inserendo peraltro alcune personali riflessioni degne di nota. Inutile aggiungere che il commento di Namio Intile si aggiunge impreziosendo con ulteriori elementi le tematiche rappresentate, aprendo una prospettiva sul futuro che vale davvero la lettura, non fosse altro che per la riflessione sulla vitale importanza delle scelte etiche e consapevoli a cui il genere umano sarà, verosimilmente e sempre più spesso, posto di fronte.
Vorrei anch'io fornire un mio personale contributo, ma il compito è arduo poiché i miei non sono che spezzoni, o lampi se vogliamo, in una trama talmente complessa nella quale solo la conoscenza approfondita, continuamente nutrita e ravvivata potrebbe portare a risultati apprezzabili. Così indegnamente traggo, da ricordi di letture passate, qualche traccia del pensiero di un grande filosofo che, incontrato per caso tra i libri dimenticati su un vecchio scaffale, mi ha incantato con le sue idee. Lui si chiama Henri Bergson.
Tra gli innumerevoli aspetti dal grande maestro discussi, troviamo umanità, progresso, città. Ma troppo scontato sarebbe rifarmi a questo. Piuttosto, vorrei fare un passo più in là e lanciarmi in un accostamento forse azzardato. Mi butto.
Bergson distingueva tra Tempo e Durata. Il primo concetto è quello “scientifico”, fatto di una sequenza asettica di istanti, caratterizzato da un aspetto quantitativo ed esteriore. La Durata invece è “psicologica”: quegli istanti sono legati dalla coscienza, diventando qualitativi e pertanto irripetibili nella sostanza. Questa interiorizzazione implica che il passato sia un vissuto “dinamico”, poiché come il piccolo blocco di neve correndo per il pendio s’ingrandisce, conservando ciò che era stato in origine ma trasformandosi in qualcosa di sempre nuovo, così il “tempo interiore” si accresce mantenendo la memoria del passato ma ricreandolo in qualcosa di nuovo e sempre più importante. L’entità risultante è quella originaria, ma anche qualcosa di diverso. In breve: non ci si può sbarazzare del passato, e, aggiungo io, neanche del futuro.
Per la mia modesta opinione, trovo questo stesso dualismo nei concetti di globalizzazione e creolizzazione, come nei miti di Prometeo ed Epimeteo. Credo che questa sia la direzione del piccolo, interessante saggio, rimarcata dalla successiva recensione di Namio Intile: dobbiamo decidere se vivere questo tempo o subirlo, se aggiungere soltanto, come in una lunga collana di finte perle, o realmente cambiare e divenire qualcosa di nuovo. In definitiva, se il progresso senza coscienza non sia solo regresso.
Grazie Francesco!
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