LA CROCIATA DEI BAMBINI
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Un monumento all'ignoranza e al candore «Lunghi anni mi hanno insegnato che questa turba di bambini non può riuscire. E tuttavia Signore, dimmi: è un miracolo?» [Racconto di papa Innocenzo III] Anno del Signore 1212. Le cronache narrano dell'incontro tra il dodicenne Stefano di Cloyes ed il re Filippo di Francia, a cui viene consegnata dal fanciullo una lettera, a suo dire scritta da Cristo in persona, per indire la Crociata. Il rifiuto del re non sarà sufficiente a far desistere il ragazzo, e così ha inizio la famigerata Crociata dei bambini: più di settemila fanciulli si incamminano dal Nord Europa verso Gerusalemme, convinti che il Mare si aprirà davanti ai loro piedi e di avere il compito di riconquistare il Santo Sepolcro. È un evento già suggestivo, in bilico tra lo storico e il leggendario, a fare da teatro per il breve romanzo di Marcel Schwob, che nel corso di otto monologhi, pronunciati rispettivamente da otto personaggi, immortala con "sobria precisione" (detto con le parole di Lalou e Borges) il ritratto di questo esercito puerile che attraversa l'Europa come uno sciame di api bianche per tuffarsi come i maiali di Gerico nel crudele e al contempo sacro Mare Mediterraneo che Serse castigò ma che il Gregorio IX di Schwob assolverà, pieno di compassione per la sua ignoranza creaturale. Affida il suo pennello, il nostro autore, ad una sofisticata tavolozza, una serie ben selezionata di parole che si condensano in un solo colore che ci invita a non soffermarci sui dettagli esteriori della narrazione per andare al cuore, leggendo tra le righe. Il bianco. «Tutte le cose sono bianche» inizia già a dire il Goliardo, che apre il romanzo con il primo racconto, e tutti gli altri troveranno qualcosa da descrivere come "bianco", fatta eccezione per lo scrivano dei due mercanti che illuderanno i bambini per venderli ai saraceni. Ma cos'è questo bianco che pervade il racconto? «Colore del giglio è Nostro Signore Gesù, ma vermiglio il suo sangue. Perché? Non lo so.» dice il Goliardo, mentre il lebbroso si infuria quando il piccolo Giovanni dai capelli rossi, del cui sangue voleva nutrirsi in riscatto per la malsana bianchezza della sua pelle, risponde alla sua domanda «Cos'è il tuo Signore?» con le parole: «Non so. È bianco.»; due battute dopo cadrà invece in lacrime nel sentirgli dire: «Perché dovrei avere paura di te, uomo bianco?». Bianche sono anche le voci che conducono i fanciulli verso la follia, bianca è la vecchiaia del Papa, bianchi sono gli uomini che purificano Maometto nelle parole del Kalandar, bianca è «la fine bianca del grande viaggio» nelle parole della piccola Allys che racconta della bianchezza del paese dei musulmani al fratellino cieco Eustace, che non può vederla ma ne gode, «Perché dice che è il segno della fine. Il Signore Gesù è bianco.» Persino «il mare divoratore, che pare innocente e azzurro. Ha dolci increspature ed è orlato di bianco, come una veste divina.». Ma bianchi sono soprattutto i bambini per (quasi) chiunque li veda: le loro vesti, i loro ossami. Credo che pochi autori siano riusciti in così poco spazio (nemmeno 60 pagine) ad umiliare e al contempo esaltare «la superba ragione degli uomini» in una tanto sublime apologia del silenzio. Perché bianco è ciò che non si può scrivere, eppure si desidera dire, e che questo libro riesce ad indicare. Questi folli bambini bianchi inseguono una chimera, eppure mettono in crisi il mondo intero: riempiono di meraviglia artisti, malati, pontefici, sultani. Chi ne sente parlare si chiede se «abbiamo l'obbligo di credere che il Maligno possieda queste povere creature», ma un suo successore decreterà piuttosto la necessità di «costruire un monumento espiatorio, un monumento alla fede che non sa». L'ignoranza dei bambini dimostra di essere più sensata dell'antica sapienza accumulata da chi li guarda, e che nel guardarli si scopre ignorante. «Non arriveranno a Gerusalemme. Ma Gerusalemme arriverà a loro.» Avranno trovato il loro Graal alla fine? Cosa nasconde una pagina bianca? Se agli occhi del mondo la loro vita è stata inutile, agli occhi del sapiente che non sa è stolta piuttosto quella dello scrivano Francois Longuejoue che, tutto preso dal riempire la sua pergamena con l'inchiostro dei letterati, non usa nemmeno una volta la parola "bianco", né alcun suo derivato. Loda tuttavia dei briganti, disposti a perdere la vita nella tempesta per denaro e per liberare la città di queste fastidiose bocche da sfamare. E sprezzante ci informa che quei bambini «si dice anche che siano meravigliati delle stelle di mare e le credano cadute dal cielo per indicare la via del Signore». Ecco «la superba ragione degli uomini», che giudica la follia e la convenienza, e non si meraviglia e non compatisce. Ma si è già detto abbastanza su di un libro che va letto perché non sa dire niente. Va letto per riconciliarsi con l'ignoranza propria e altrui, e la vanità di tante guerre condotte per stabilire come sia meglio riempire quella pagina bianca. «O mare Mediterraneo! Io ti perdono e ti assolvo. Ti do la santissima assoluzione. Va' e non peccare più. Come te, sono colpevole di peccati che non conosco. Tu ti confessi continuamente sulla spiaggia con le tue mille labbra umide e io mi confesso a te, grande mare sacro, con le mie labbra vizze. Confessiamoci l'un l'altro. Assolvimi e ti assolvo. Torniamo all'ignoranza e al candore. Così sia.» [Racconto di papa Gregorio IX]