Corrispondenze (tante belle cose)

Spazio dedicato alla Gara stagionale d'inverno 2022/2023.

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Iannelli
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Corrispondenze (tante belle cose)

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Corrispondenze
(Tante belle cose)

Caro Vincenzo,
ho deciso di scriverti perché è il modo migliore per farti sapere quello che penso da tempo di te e di noi due, e che non ho mai avuto il coraggio di dirti.
Conosco altri modi per farlo, non ne conosco di più adatti. Scrivere una lettera è come quando guardi nello specchio retrovisore della macchina di papà: vedi riflessa la tua immagine e ciò che la circonda, ciò che sta vicino, ma soprattutto, se poni attenzione, ciò che sta lontano. Se osservi bene bene, fissando nello specchio, ti accorgi di alcuni particolari, dietro di te, che ti erano sfuggiti. L’immagine si allarga, e allora noti il faro sinistro (o forse destro, ho difficoltà con le immagini riflesse…) dell’auto che ti segue, più opaco dell’altro, gli alberi che si rimpiccioliscono ai lati della strada pian piano che vai avanti, le nuvole ferme nel cielo che corrono con te. Il tuo sguardo ti conduce attraverso un viaggio immobile, che ti lascia esattamente nel posto da cui ti sei allontanato, senza che ti sia mosso mai davvero, ma che alla fine ti porta comunque alla meta. È un viaggio strano perché non ti ha spostato di un millimetro. Ti ha fatto partire cinque anni fa e ti ha condotto fino a qui, nello stesso punto di partenza. Lo senti lungo e ricco di incontri e di imprevisti, di soste e di ripartenze. Ti ha divertito e ti ha stancato, ti ha commosso e ti ha intristito, ti ha smarrito e ti ha ritrovato. Eppure…
Eppure, sei ancora qui, proprio qui, esattamente dove stavi, all’inizio, prima del viaggio. Non è cambiato niente? È cambiato tutto. La domanda giusta non è: “Dove sei arrivato?”, ma: “Quando sei partito?”. E soprattutto: “Con chi?”
E allora, la lettera che ti sto scrivendo mi aiuta a guardarmi indietro, e a vedermi mentre percorro il mio cammino che mi ha portato fino ad oggi, con te accanto, per tutto questo tempo.
Caro Vincenzo, lo so che non avrai difficoltà a comprendere quello che sto per dirti. Lo conosci già. Ce lo siamo ripetuti diverse volte.
Ricordo il tuo racconto dell’estate precedente, quando ti trovasti immotivatamente su una barca al largo, sulla quale non avresti scelto di salire nemmeno contro la tua volontà, su un mare profondo e limpido come lo sguardo della tua ragazza (dicesti proprio così…). Tutti gli altri contenti, a fare scherzi inutili e tuffi scoordinati, a mostrare deltoidi allegri e sorrisi scolpiti. Tu no. Tu non vedevi l’ora di approdare in terra ferma, a sfiammare la pelle con doccia e creme e a spalmarti sul primo riparo cordiale e silenzioso. Dicesti che quella giornata fu larga come la misericordia di Dio, anche se in realtà durò poche ore, aggiungendo che puntualmente ti ritrovavi al primo giorno di scuola, dopo aver chiuso gli occhi la sera prima, che era fine giugno… Erano i tuoi migliori esempi per dimostrare che non è il tempo che passa, ma siamo noi che passiamo.
Questo tempo è passato veloce, caro Vincenzo, io un po’ meno. Non mi dispiace. Io ho assistito al suo passaggio. Mi piaceva stare da solo e riempirlo di un sacco di cose: di voci, di silenzi, di sguardi e di noia, quella che prima ti ammorbidisce i muscoli e poi li rinforza, pronti nuovamente a ripartire. Sei passato anche tu. Ho sempre pensato che non è tanto importante raggiungere il traguardo, quanto il cammino che fai per arrivarci. Mi rispondevi che ancora più importante è lasciare impronte su quel percorso, per chi procede accanto a te e per chi verrà dopo di te.
Cinque anni. Tanti. Una traversata a volte lenta, a volte veloce, ma non lunga. Non per me. Ricordo che avevi sentito dire da una persona importante che spesso la gente si sforza di allungare la propria vita, quando invece dovrebbe provare semplicemente ad allargarla. All’inizio non mi era chiaro cosa volesse dire quella persona importante. Poi me lo hai fatto capire meglio. Da appassionato conoscitore di animali citavi spesso l’esempio di una farfalla che vive al massimo 24 ore. Potremmo mai chiederle, dicevi, di attendere “solo” cinque minuti? Quando poi succede, come con la tua fidanzata, che aspetti anche un’ora, accanto ad un citofono dal quale per 12 volte senti la sua voce che dice: “E solo cinque minuti!”, avresti sottratto alla farfalla 1/228 del suo tempo vitale. In pratica, è come se la tua fidanzata ti stesse chiedendo di attendere “solo” 3 mesi e mezzo! In ogni caso, il ragionamento non è mai stato condizionato dal fatto che si chiamasse Effimera, e mi riferisco, naturalmente, alla farfalla…
A volte sentivo fare dagli altri, anche da te, scusami se te lo dico, domande inutili, fatte solo per far passare il noioso tempo che la scuola ti dà, o per soddisfare la curiosità immediata del momento, o anche semplicemente per andare oltre l’interrogativo del quesito e nascondere in realtà un esclamativo: “Sono qua!”. Ne ricordo una in particolare, fatta da Gianmarco, quello dell’ultimo banco della quarta fila, accanto al termosifone gocciolante, nell’angolo posteriore dell’aula. “Esistono domande inutili?”. Vittoria, con il suo abituale tempismo, rispose: “La tua!”. Dopo le scontate risate, prolungate quanto più si potesse, alzasti la mano chiedendo di parlare. “Secondo me non esistono domande inutili, qualche volta lo sono alcune risposte. Ma la cosa più inutile è non porsele mai”.
Era una giornata di inizio maggio. La primavera entrava da tutti gli spiragli possibili, si infilava dalle guarnizioni consumate delle finestre con i suoi tiepidi spifferi e riscaldava troppo una metà dell’aula e troppo poco l’altra, in modo da creare una convivenza perfetta di due fasce climatiche, divise da una linea d’ombra che le separava e che sottraeva lentamente centimetri all’una, aggiungendoli all’altra, a seconda del pigro spostamento dei raggi del sole. Quella risposta d’un tratto abbassò di diversi gradi la temperatura di tutta l’aula, proiettandoci in una giornata di ottobre avanzato, dal cielo limpido e dall’aria fredda, che non fa male, ma ti contrae il viso e ti stringe gli occhi. Molte nostre bocche rimasero un po’ semiaperte, per qualche istante, ma non uscì né un suono, né un alito di vapore, malgrado ci fossimo trovati all’improvviso in pieno autunno… Qualcuno, provando a sciogliere quei brividi silenziosi, disse che non tutte le domande hanno una risposta, ma che a volte porsi la domanda è importante comunque, anche quando sai che non c’è risposta.
Penso sia stata la giornata più larga di tutto il quinquennio.
Caro Vincenzo, mi auguro che il tuo tempo passato insieme a me e a noi non sia stato inutile, o almeno non sempre. Abbiamo parlato di tanti argomenti, abbiamo affrontato tante discussioni, abbiamo conosciuto tante cose, anche se, ogni volta che finiva la giornata e tornavo a casa, rispondevo sempre: “Niente, nessuna novità” all’immancabile domanda appena entravo: “Com’è andata oggi, che hai fatto?”. Ti confesso che mi sembrava di dover svelare un segreto, di dover spifferare cose che invece era giusto rimanessero conservate lì, nel riserbo della nostra classe, e che quel voler sapere a tutti i costi quali misteriose magie avvenissero, lo pativo come un’indiscreta violazione delle nostre confidenze.
Mi dispiace non averti detto tutto questo prima, non ne ho avuto il tempo, e questa è la bugia più grande che ho raccontato. Ne ho dette altre. Non molte. Ho cercato di distribuirle equilibratamente nei cinque anni, in modo che nessuno se ne accorgesse e che potessi giocarmi i miei jolly al momento opportuno. Sono stato in buona compagnia…
Ricordo quando parlasti della morte della tua Lilly. Un’agonia di due giorni, quella povera bestiolina, che ha lasciato in te e in tutta la tua famiglia un vuoto incolmabile e un dolore straziante. Non ti ha permesso ovviamente di prepararti bene sulle cause della fine dell’Impero romano d’Occidente, e non hai potuto focalizzarti sui comparativi e sui superlativi, ma il tuo stato d’animo fu ben compreso da tutti: chi di noi non ha avuto il suo adorato animaletto, che fosse un opossum o un pesce rosso, prematuramente morto di qualunque causa immaginabile, anche di vaiolo, debellato pure per gli umani dal ’79? In qualche caso hanno subito la funerea sorte un paio di volte, forse in ragione di una ignota capacità autorigenerativa. D’altra parte, perché l’araba fenice sì e il mio piccolo Romeo no?! Naturalmente, in tutti questi casi di lutto familiare, la solidarietà era unanime e convinta…
Caro Vincenzo, i saluti in una lettera sono la parte apparentemente più semplice. Basta un arrivederci, grazie di tutto, e fine. Però questo momento lo sto vivendo con difficoltà.
Vedere materializzarsi pian piano, da sinistra a destra, sul foglio, sempre più chiaro, sotto la tua mano, il punto e a capo di una storia, è un tratto di penna incancellabile. Non è semplicemente la fine di una lettera. È la fine di un frammento di viaggio che proseguirà altrove e con altri compagni, ma che adesso si deve arrestare, per forza. Non ho mai amato le interruzioni: le pubblicità durante il cambio di campo di Federer, i silenzi tra una canzone di Sergio Caputo e un’altra di Rino Gaetano, l’attesa in pizzeria tra il caffè bollente e il limoncello ghiacciato, l’arrivo al casello per pagare il pedaggio della tratta Frosinone-Caserta Sud. Ho vissuto l’installazione del telepass sulla mia auto con maggiore gioia del gol di Koulibaly in Juventus – Napoli, 34^ giornata, stagione 2017/18.
E se evitassimo questo disagio? Accetteresti un’eccezione allo stretto rispetto della struttura epistolare? Mi limito a un po’ di auguri per il prossimo anno, ci aggiungo uno “stammi bene”, un pizzico di “fammi sapere di te” e “ci vediamo presto” quanto basta, che ne dici?
Caro Stefano,
un compito svolto quando non è richiesto, dunque non dovuto, non può che essere sentito. Per questo ha un valore inestimabile, per questo lo conserverò tra le cose più care, tra i doni preziosi.
Questo tempo è scorso via, in un battito di ciglia. D’altronde lo sappiamo tutti che quando si trascorre in piacevole compagnia, insieme a persone piacevoli, facendo cose piacevoli, il tempo vola. Viceversa, quando la noia prevale, il tempo non passa mai. Nella vita non si può mai sapere. Oggi ci sei, domani chissà. Certo, sarebbe meglio non cantare vittoria troppo presto. In ogni caso, parlare in modo diretto mette al riparo da equivoci: patti chiari e amicizia lunga. Infatti io sono ottimista, sono convinto che a tutto c’è rimedio, tranne che alla morte. E poi, diciamocela tutta: non esistono solo il bianco e il nero, ma ci sono tante sfumature di grigio.
Caro Stefano, potrei andare avanti per secoli con questi luoghi comuni, aggiungendo un “qua una volta era tutta campagna”, o “il film è bello, ma il libro è tutta un’altra cosa”, così, a caso. Potrei riempire pagine intere, per quanti ne ho ascoltati e letti. Soprattutto dai colleghi.
Tu invece hai evitato il più imperdonabile degli errori, quello che non tollero in alcun modo, innanzitutto da me stesso. La banalità. Anche io cado di tanto in tanto in questa scorciatoia, che ti induce a non dire nulla dicendo troppo. Tu hai detto tutto dicendo poco. In modo non scontato. Perché sincero. O meglio, autentico. Hai espresso il tuo pensiero in modo molto tuo, parlando a voce alta ad una persona che sentivi vicina, che sapevi ti avrebbe ascoltato senza soppesare le parole, senza esprimere giudizi, senza sottoporti a valutazione. Proprio con quello che fa questo di mestiere! Soppesa, esamina, calcola, vaglia, misura e perizia, e poi, acquisiti i dati, rilascia l’attestato. Sai, quello che una volta era la pagella e che ora si chiama “Documento di valutazione”, che fa più catasto. A proposito, sai perché si chiama pagella? Deriva dal latino pagellam, un diminutivo di pagina. Quindi letteralmente una piccola pagina, una paginetta, praticamente un foglietto. Ecco: alla fine tu e i tuoi compagni siete compresi e ridotti in una pagina che dice quanto valete, cosa sapete fare, cosa e come avete imparato, cosa farete in futuro e in qualche caso dove si svolgeranno le vostre nozze e pure quanti figli avrete! Una specie di palla di vetro che parla di voi e di ciò che siete, ma anche un po’ di quello che sarete. Un ritratto del presente, con vista sul futuro. Hai capito di cosa sono capace? E tutto questo trascorrendo con te solo alcune ore a settimana, ascoltandoti quando ti chiedo io di parlare e zittendoti quando non mi va di sentirti. Uno strapotere che manco Nembo Kid, che per altro credo tu non abbia mai sentito nominare.
Caro Stefano, a differenza tua, il mio viaggio con te è stato lungo, molto lungo. Non lo prendere però come un limite. Sai bene quanto io sia nemico dei tempi rapidi, delle abbreviazioni, delle pause brevi e dell’Alta Velocità. Potessi, salirei sempre su un “accelerato” che, contrariamente a come il nome sembra suggerire, era un treno dei miei tempi, quelli passati (e lenti…), che decelerava pure quando il cielo si rannuvolava, così, per prudenza. Quando ci salivi, non era affatto scontato che nella stessa giornata avresti raggiunto casa. Dipendeva dalle condizioni meteo e dalla stagione in cui ti trovavi: in primavera, di sera, andava un po’ più lento, perché le sfumature vespertine vanno contemplate. Ho sempre nutrito il forte sospetto che fossero provvisti della retromarcia, come diceva Sir Winston Churchill dei carri armati italiani. Magari gli accelerati arrivavano in ritardo, ma almeno erano pacifici.
Caro Stefano, devo ringraziarti di due cose.
Sai, la gratitudine è un sentimento non molto diffuso, di questi tempi, e ancor meno esercitato. Un po’ come il cattolicesimo, che conta praticamente la maggioranza assoluta di “iscritti” al club, si celebrano comunioni e cresime a rotta di collo, ci si sposa in chiesa, che altrimenti che penserà la gente? Ma poi a messa ci vanno quasi solo le vecchiette, la materia alternativa nelle scuole si diffonde come la scarlattina, i matrimoni civili sono in aumento e tutta una serie di altre cose che dimostrano incontestabilmente che lo spirito cristiano, nella quotidianità, si è annacquato e che, rimanendo nella terminologia scolastica, l’organico di fatto è di gran lunga inferiore a quello di diritto. Però sono il meno adatto a parlare di questo argomento, essendo politeista. Ho ben due religioni in cui credo ciecamente e che celebro con scrupolo, fede e costanza: la laicità e il Napoli, elencati in ordine rigorosamente alfabetico…
Sempre più di rado si sentono pronunciare due parole ormai desuete, non strettamente sinonime ma che in qualche caso si potrebbero scambiare tra loro, senza ingenerare equivoci, anzi, arricchendone semantica e valore: grazie e scusa. Ci vuole coraggio a dire grazie, di più a chiedere scusa. Per entrambe devi metterti in discussione e devi “cedere” una parte di te, svelandone zone nascoste, quelle più delicate, perché più vulnerabili.
Avrei troppe cose per cui chiedere scusa, caro Stefano, e non solo a te. Troppi dolori inferti, troppe ingiustizie commesse, troppe amarezze arrecate, troppe parole sbagliate, troppi silenzi imposti. Il mio mediocre coraggio mi permette di limitarmi a pochi “grazie”, sollevandomi dall’imbarazzo dei troppi “scusa”.
La prima cosa di cui volevo ringraziarti è di avermi dato finalmente del tu.
Non è la tua raggiunta maggiore età, Stefano, che ti ha autorizzato a rivolgerti in questo modo a me.
Quando studiavo alle medie, nell’Alto Medioevo, mi scappava ogni tanto un “Prof, posso dirti una cosa?”. Malgrado la sua puntuale correzione, ero contento del mio involontario “errore”. Perché le volevo veramente bene. Trovo che non ci sia niente di più offensivo, innanzitutto nei confronti di se stessi, che rivolgersi a qualcuno per cui non nutri affetto, o di cui non hai stima, dandogli un ipocritamente ossequioso lei.
Una volta un alunno mi ha chiamato papà. Ho giocato d’anticipo: l’ho ringraziato.
Il secondo grazie è per la tua memoria. Mi hai rievocato episodi che avevo dimenticato anche di aver vissuto. Ricordandomeli mi hai restituito intatto il mio passato, non offuscato dalle nubi del tempo e distorto dalle involontarie dimenticanze, ma riportato alla sua forma originale, come una statua greca restaurata, a cui non ripristini solo la sua autenticità, ma anche i colori svaniti e la lucentezza degli occhi.
I saluti, invece, io non li evito. Innanzitutto perché sai bene che sono un purista e la forma della lettera va rispettata, a tutti i costi. Poi perché il saluto avvicina, non allontana. Esprime prossimità e voglia di rivedersi, desiderio di incontrarsi nuovamente, rievocando il periodo del liceo, che quando lo frequentavamo noi sì che era serio, oggi non più come quello dei bei tempi andati, ma dove andremo a finire, di questo passo?... E così via, un luogo comune dopo l’altro, che avranno la tenera dolcezza della malinconia, e non la patetica amarezza della nostalgia.
Caro Stefano, ti lascio al tuo futuro con il saluto più bello che io abbia mai ricevuto in dono. È quello di mio zio Paolo, che me lo regalava dopo aver trascorso larghe giornate insieme a lui, ragionando di Luciano De Crescenzo e di Roberto Murolo, a suo giudizio i più grandi cantori della napoletanità. Quando andavo via mi diceva, sempre: “Tante belle cose”.
Somigliava ad un augurio.
Buona vita, Stefano, e tante belle cose.
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Alberto Marcolli
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Commento Corrispondenze (tante belle cose)

Messaggio da leggere da Alberto Marcolli »

Ci sono ben 92 “che” in 222 righe.
Prima di procedere oltre con il mio commento, chiedo all’autore di provare a ridurli. Non dico di eliminarli, ma una “scremata” è necessaria.
Ho anche trovato delle "d" eufoniche.
esempio - - ad oggi - - a oggi
ad un - - a un

Buon lavoro
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Marino Maiorino
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Commento

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Bellissima!
Ho vissuto qualche volta l'emozione del lasciar andare studenti per la loro strada. Questo Stefano è ovviamente un eccezione, come c'è sempre quello studente al quale il tutore si lega di più. È trasparente il sentimento, il legame affettivo tra una generazione e la seguente, solo 2500 anni fa sarebbe stato arricchito facilmente anche da altre connotazioni, perché il legame che si stabilisce è vero, profondo.
Letterariamente il testo non è un'opera maestra, o meglio, non brilla per quello, ma proprio per la sua capacità di comunicare il fiume di emozioni che un docente nutre per un suo studente. È davvero comprensibile quel ringraziamento al "Papà" detto per errore.
Bravo, bravo, bravo.
«Amare, sia per il corpo che per l'anima, significa creare nella bellezza» - Diotima

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