Sarajevo
Sarajevo
Una mattina di maggio prese in mano la penna, la caricò con l’inchiostro blu che teneva sulla mensola e la fece scorrere sul filo del più recente passato.
Carica a pompa, innesto a baionetta, ed è tutto pronto.
“Ceka, ceka!” dicevano i bambini in quel grande stanzone della fabbrica abbandonata. S’era patito tanto prima di trovare una nuova sede per la distribuzione della posta e finalmente quell’edificio in disuso era apparso come una manna dal cielo. Tutti i fascicoli della vecchia contabilità erano stati ammassati in quell’ultima stanza in fondo al corridoio. Dopo il suo ultimo viaggio lui aveva scelto di appoggiare il sacco a pelo proprio laggiù, quasi si sentisse in procinto di uscire definitivamente da tutto quello sfacelo. L’andirivieni della guerra, giunta alle sue ultime battute, non gli aveva dato modo di prestare molta attenzione al disordine montante che circondava il suo giaciglio, e a questo si aggiungeva il suo naturale disinteresse per le carte e le contabilità, così come per l’ordine ed i numeri. Perciò s’era andato accrescendo quel disordine dello stanzone che assumeva sempre più l’aspetto d’una sala di giochi e d’anarchia. Anche fuori le cose non andavano poi bene. S’era avviata una forma di normalizzazione imposta con le armi, e forse in parte era sopravvenuta anche quel tipo di stanchezza tipica della peggiore crudeltà, che si esaurisce nella propria ferocia. Lui sentiva una spossatezza opprimente ogni volta che si buttava su quel letto improvvisato tra le carte sparse. La sua fiducia avrebbe avuto bisogno di una fede ben grande; qualcosa che non aveva coltivato a suo tempo e per la quale non si sentiva preparato, né degno abbastanza.
Un giorno vennero a lamentarsi per lo stato di gran confusione degli incartamenti della fabbrica e lui dovette scoprire che i ragazzini usavano la sua stanza come sala giochi quando era assente. Fece la faccia seria. Li portò tutti sul luogo del delitto e coi segni che a suo vedere dovevano essere quelli della severità accompagnò le poche parole bosniache che conosceva per dir loro di mettere tutto a posto. Ma più che le parole doveva essere stata la sua faccia stanca a parlare ai bambini, che in anni di guerra s’erano fatti furbi e interpretavano subito la volontà degli ‘umanitari’, sempre dietro a sbracciarsi e a dare ordini come qualcuno capitato lì per caso. Così capirono che la prima a voler essere assecondata non era la sua intransigenza ma la sua stanchezza. “Ceka, ceka” dicevano, invitandolo a sedere sul proprio sacco a pelo e facendo segno di aspettare comodamente, che avrebbero pensato a tutto loro, “nema problema”.
E presero così ad imitare le catene degli uomini che per anni s’erano passati di mano in mano i viveri, le armi e le macerie. Passandosi i fascicoli della contabilità imitavano il gioco stanco dei grandi che s’arrabattavano a distruggere per poi ricostruire. E lo osservavano sorridendo mentre lui ammiccava bonario a quello spettacolo infantile. Avevano preso con serietà quel gioco da adulti perché adesso, per la prima volta, era stato dato anche a loro il compito di rimediare a una colpa, a un danno provocato. E si sentivano essi pure parte in causa in quella farsa di ricostruzione. Sorrideva della loro ingenuità e quelli ricambiavano con simpatia la sua complicità, perché non li rimproverava ancora una volta magari cacciandoli via e togliendo loro l’occasione di rimediare al torto, alla marachella. Non facevano che passare da un disordine ad un altro più completo e fantasioso. Mentre li guardava avvertì qualcosa sotto la gamba. Era una vecchia stilografica finita lì per caso o meglio, per gioco. Allora sempre per giocare prese a smontarla con la perizia d’un artificiere davanti al suo piccolo pubblico che abbandonata l’opera di riordino s’era fatto attento e silenzioso tutt’intorno ad osservare quella delicata operazione. Si caricava a pompa, innesto a baionetta. Era una mattina di maggio.
- Massimo Baglione
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Re: Sarajevo
Ho tolto il tuo indirizzo email dal fondo del tuo racconto sennò verrebbe usato malevolmente dagli spammer.
- Roberto Bonfanti
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Bello il parallelo fra la stilografica e il fucile, in effetti sono entrambe armi, di volta in volta resta da stabilire quale delle due sia più efficace; io propendo per la penna.
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Pensavo fosse impossibile trovare qui un racconto sulla guerra che non fosse saturo di cose già viste, ma qui siamo davvero davanti a un esempio curatissimo di realismo, padronanza di stile e storia. E' vivo, coinvolge e resta dentro. Sono rimasto impressionato.Roberto Bonfanti ha scritto: ↑02/07/2019, 21:36 Il tema della guerra e delle sue conseguenze è uno fra i più gettonati nei racconti di queste gare, trovo che qui il livello si alzi notevolmente, non c’è traccia di retorica, di manierismo. C’è la stanchezza di chi non ne può davvero più e, fra torti e ragioni, sceglie la complicità di bambini, fatti furbi, certo, smaliziati, sicuro, ma pur sempre bambini che prendono le cose, anche quelle dei grandi, come un gioco.
Bello il parallelo fra la stilografica e il fucile, in effetti sono entrambe armi, di volta in volta resta da stabilire quale delle due sia più efficace; io propendo per la penna.
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colpisce, questo sì, ma non morde. o almeno non mi sento morso io.
apprezzabile il paragone tra penna e fucile, anche se mi sa tanto di artificiale.
scusa, ma proprio mi arriva questo
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Tradotto: "Non c'è nessun problema qui va tutto bene".
Le ultime parole di una trasmissione intercettata poco prima che quella apparente tranquillità mutasse in cenere e distruzione.
Esistono molteplici angolazioni da cui poter osservare ogni singola istantanea raffigurante quei momenti.
Par di udire, in sottofondo, le note della canzone "Lupi petama" risuonare nel racconto:
C'è il punto di vista di chi in quella situazione ha vissuto e sofferto, provando una sensazione di pace e tranquillità temporanea che in quei casi conta mille fatta uno la stessa sensazione per chi in simili situazioni non si è mai, fortunatamente, trovato.
C'è il punto di vista di un operatore in territorio ostile mentre illumina quel bersaglio, dove tutto apparentemente va bene, intercettando contemporaneamente quella trasmissione. Operatore che poco dopo assiste in prima fila ad una sequela infinita di bagliori confermando con una tristezza infinita la distruzione del bersaglio per mezzo di quello stesso dispositivo da cui aveva udito le anzidette parole: nema problema ...
Sono tante le postazioni di osservazione ed ascolto in questi ambiti, o teatri operativi se preferiamo.
L'Animo umano può immedesimarsi in tutti questi sentimenti di gioia, momentanea liberazione, voglia di vivere ben raffigurata dai bambini e così via. Ma non solo in questi sentimenti come ben sappiamo.
Certamente qualsiasi arma non sarà mai efficace quanto può esserlo una penna.
Non mi par di rammentare alcun conflitto ove sia stata innestata prima la baionetta che il pennino sull'arma, nel corso dei secoli, almeno da quando l'essere umano ha imparato a leggere e scrivere.
Efficace istantanea raffigurante situazioni dove, ancor oggi, nella storia dell'umanità un bel "stoj" non fu mai scritto.
Trovo buono e significativo il racconto.
https://www.youtube.com/watch?v=HTRHL3yEcVk
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Bravo, a rileggerti.
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Re: Sarajevo
Se invece state solo rispondendo, non serve specificare.
Ricordatevi anche che il testo del commento deve essere lungo almeno 200 battute.
Vi rimando alle istruzioni delle Gare letterarie.
La Gara 11 - Parole in padella
A cura di Pia.
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Calendario BraviAutori.it "Writer Factor" 2015 - (in bianco e nero)
A cura di Tullio Aragona.
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Gara d'autunno 2020 - Beu, e gli altri racconti
A cura di Massimo Baglione.
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Kriminal.e
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Fungo più, fungo meno...
Nessuno li ha mai raccontati in maniera avvincente.
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Una breve storia di Fantascienza scritta da Carlo Celenza, Ida Dainese, Lodovico Ferrari, Massimo Baglione e Tullio Aragona.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.
La Paura fa 90
90 racconti da 666 parole
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