Brigate Rosa

Spazio dedicato alla Gara stagionale di primavera 2024.

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Lodovico
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Brigate Rosa

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leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.

BRIGATE ROSA

Le porte del tram si aprono, avvolgendosi su se stesse, come le tende di un sipario. La vettura è ingombra di cappotti, giacche a vento, giubbotti, ognuno ordinatamente indossato dal suo proprietario umano, a costruire una sorta di muro appena al di sopra della scaletta. Mi chiedo come potrò mai penetrare tra quella folla multicolore stipata come polli in batteria. Un esile varco si crea tra due persone, simile a una fessura in uno scoglio. Ne approfitto e mi ci infilo come farebbe una murena, nonostante l'ingombro delle scarpe col tacco. Già, le scarpe col tacco. Mentre nevica. Milano imbiancata dalla neve è spettacolare tanto quanto invivibile: taxi assenti, mezzi colmi, marciapiedi scivolosi. E la mia auto che, proprio oggi, ha deciso di non accendersi. Mi intrufolo per raggiungere una parte un po' più interna della vettura. Ricordi di gioventù quando prendevo il tram quasi tutti i giorni. Ora mi appare come un crogiuolo di specie umane alquanto eterogenee: alti, bassi, grassi, magri, belli, brutti, profumati, puzzolenti… ecco, questi ultimi sembrano essere in netta prevalenza, comunque. Appesa come un cotechino alla maniglia penzolante dalla sbarra, sbuffo, mentre un uomo cerca di spostarmi per raggiungere l'uscita. Abbasso gli occhi e la vedo. I capelli grigi spettinati ricoprono parte del viso, ma quello è il suo viso. Non guarda verso di me, ma ne riconosco gli occhi. Quegli occhi che non vedevo da quarant'anni.

Autunno 1975. Varcai il portone della Statale. Tre studenti come me ne controllavano l'ingresso. All'interno lo striscione di tela con la scritta "Università occupata", vergata con una vernice spray rossa, ci accoglieva come un potente saluto. L'aula magna era colma di ragazzi in eskimo. Noi ragazze eravamo una minoranza, netta minoranza, ma agguerrita. L'assemblea iniziò tra l'odore di fumo di sigarette e non solo. La vidi subito. Spiccava in mezzo a noi come una macchia di sugo su di una maglia. Avvolta in una tuta azzurra, graziosamente sporca di grasso, i capelli scuri, brillanti sotto i neon della sala e degli occhi grigiastri, ma scintillanti di vitalità. Me lo avevano detto. Una vera metalmeccanica sarebbe intervenuta alla nostra assemblea, una delle poche che si trovavano nelle fabbriche italiane. E lei era una rappresentante del proletariato, della lotta contro il potere dei padroni, come noi studenti lo eravamo contro i professori-baroni. Ricordo l'emozione quando cominciò a parlarci, seduta sulla cattedra, a gambe larghe. Sprezzante e sicura.

E poi nacque la nostra grande amicizia. Passare sere e nottate a parlare di politica e di ideali. Di libertà e di oppressori. Un grande gruppo di persone libere per le quali l'emancipazione veniva prima di tutto e per le quali la lotta al capitale era il nuovo vangelo.

Poi, pian piano, il collettivo perdeva membri, rimanevano solo i più duri, i più convinti, i più forti, tra cui noi due.

Arrivò il momento dell'azione. La chiave inglese faceva male. Se ne accorsero gli studenti fascisti. E la assaggiarono anche i professori, quelli che si ostinavano a bocciare agli esami.

Dieci, eravamo rimasti, solo dieci, del gruppo originario, ma facevamo parte di una famiglia più grande. Le Brigate erano potenti. C'erano studenti e operai, ovunque, pronti alla lotta armata, la stella a cinque punte cominciò a fare paura. BR. Brigate Rosse. Un nome che sarebbe rimasto nella memoria storica dell'Italia. E lei aveva deciso che noi due saremmo state le "Brigate Rosa". Due donne combattenti. Due donne libere. Senza paura, contro il regime. Non mi piaceva quell'appellativo, sembrava troppo inserito nel sistema, il rosa per rappresentare il sesso femminile mi sembrava un concetto borghese, ma lo accettavo di buon grado quando la sentivo parlare di lotta di classe e di contrasto al potere politico rappresentato dal ceto medio.

Poi ci fu anche il bacio. Che rimase unico. Nessuna di noi due era interessata a una relazione sessuale insieme, ma quel bacio significava la liberazione dagli stereotipi, dal perbenismo borghese. Libertà politica, di pensiero, sessuale. E per questa libertà ci saremmo battute entrambe fino alla morte. Due corpi ma un solo pensiero, una sola volontà, una sola mano. Quella che sarebbe servita per agire.

Lo avremmo solo spaventato, quel professore "fascista". Solo spaventato. La pistola, fredda, nella mia mano, pesava parecchio. La alzai con poca convinzione, ma il colpò partì. Il sangue usciva dalla ferita dalla gamba come spruzzato da una siringa. Ero terrorizzata. Non avevo mai visto una cosa del genere. Il professore, steso a terra, era troppo spaventato anche per gridare, le sirene della celere, però, le sentivo. E si avvicinavano. La sua voce ne superò il rumore: «Dalla a me quella pistola, se ti mettono in galera finisci male. Io me la caverò.»

Feci scivolare quell'oggetto in ferro nella sua mano tesa e scappai come non avevo mai fatto prima. La presero, quegli sbirri fascisti. Le "brigate rosa" si separavano, ma l'avrei ritrovata, me lo promisi. Sarebbe stata solo una separazione temporanea. Poi avremmo ricominciato la nostra lotta contro lo Stato oppressore e la borghesia.

Ora è lì, di fronte a me. Il vecchio cappotto che la avvolge appare logoro. Siede a gambe larghe, come in quel remoto giorno, nell'aula magna, ma il suo atteggiamento sicuro e arrogante ha lasciato il posto a uno sguardo umiliato e triste. Il tram comincia a rallentare come a indicare che la prossima fermata è ormai a poca distanza. La luce fioca del mattino invernale imbianca l'interno della vettura, come la neve ne imbianca l'esterno. I suoi capelli si tingono di bagliori chiari, luminosi, ma opachi e si spostano indietro. Li vedo. I suoi occhi colore dell'acciaio, quello della fabbrica metalmeccanica dove aveva lavorato, si posano sui miei. Mi fissa, tanto da imbarazzarmi. Innumerevoli impietose rughe ne segnano il viso raccolto in un'espressione perplessa.

«Scusi, ma noi ci conosciamo?».

La voce è la sua, ma più incerta. Un sibilo accompagna la parola "conosciamo", probabilmente a causa di un incisivo mancante.

Mi sposto leggermente indietro. Alcuni corpi mi impediscono di muovermi di più. Accorcio il collo all'interno della mia pelliccia di volpe bianca. Fingo di osservare il display del mio iPhone X mentre, da sotto il rossetto, passando attraverso i miei denti bianchissimi, la risposta alla sua domanda si fa sentire, altèra, nella vettura.

«No.»
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Yakamoz
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Ciao Lodovico,

ricambio la visita. Abbiamo scritto due racconti in un certo senso contrapposti. Tu parli di valori: “lei era una rappresentante del proletariato, della lotta contro il potere dei padroni… il regime”, di tempi che io non ho vissuto, ma letto, o visto cose su YT o in TV di quel periodo storico. Io parlo di quella “deriva” capitalista da palcoscenico di oggi, in cui anche ragazzine, come Isabella, ne sono uno stereotipo, ma senza voler generalizzare. Il tuo racconto è scritto molto bene, di immediata lettura, non vedo nessun errore. Forse è un po’ breve, ma compiuto nella storia/messaggio che vuole veicolare. Un po’ controverso il finale:

“la risposta alla sua domanda si fa sentire, altèra, nella vettura.

«No.»”

L'amica di lotta pronuncia un secco "no". Forse rinnega/rimpiange una battaglia che non si è mai conclusa del tutto perché fatta in modo sbagliato? Oppure è semplicemente consapevole che la sua appartenenza politica degli anni '70 non ha più senso oggi? E quindi, secondo lei, è inutile rivangare un passato di lotta che, seppur significativo all'epoca, appare sbiadito e fuori luogo nella "politica da palcoscenico" del presente. Ma potrebbe anche essere delusa dall'evoluzione degli eventi… o addirittura non essere la persona che la protagonista crede di aver riconosciuto. Inoltre, il termine “brigata” oggi, ma credo pure all’epoca, suona molto come terrorista/sovversivo/paramilitare, e potrebbe essere questo l’aspetto discriminante del suo “no”.
Mi sciogli questo dubbio?

Noto questa tua svista:

«Scusi, ma noi ci conosciamo?».

Dopo il punto interrogativo, non si mette il punto fermo.

Tante belle cose, Lodovico

Antonio Giordano

Voto 5 per un racconto piccolo ma significativo e che fa da contrappasso, per contrasto, al mio.

P.S. Rispondo ora, perché prima non riuscivo a collegarmi al sito e a dare il voto.
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Grazie mille del tuo commento.
La protagonista ha cambiato vita, si è "imborghesita" (prendi questo aggettivo solo come spiegazione, non è un giudizio, non mi trovo né da una parte né dall'altra, o forse in parte da entrambe), ha perso gli ideali della lotta di classe e si è trovata "agiata", posizione comoda.
A questo punto interagire con ciò che era prima diventa difficile. Ho un parente sessantottino che ha mantenuto, in parte le sue idee, ma ha vissuto una vita da dirigente di azienda. Niente di male, anzi, ma ci si trova nella vita, non dico a cambiare le proprie idee o i propri ideali, ma ad "adattarsi" alla situazione. Questo era quello che volevo dire nel racconto.
Per quanto riguarda il punto (.) dopo il punto interrogativo (?) se c'è una cosa che adoro di questo sito è la libertà e l'impegno di trovare i difetti.
Scrivo ormai da parecchio tempo. Ciò non toglie che tutti noi possiamo sbagliare qualcosa. E a me fa un piacere immenso quando qualcuno mi fa notare un errore, una svista, vedila come vuoi.
Sono cresciuto immensamente con i commenti in questo sito e l'amico Massimo Baglione lo sa. :D :D
Ben vengano le segnalazioni, chi si offende sbaglia.

Yakamoz ha scritto: 25/03/2024, 16:55 Ciao Lodovico,

ricambio la visita. Abbiamo scritto due racconti in un certo senso contrapposti. Tu parli di valori: “lei era una rappresentante del proletariato, della lotta contro il potere dei padroni… il regime”, di tempi che io non ho vissuto, ma letto, o visto cose su YT o in TV di quel periodo storico. Io parlo di quella “deriva” capitalista da palcoscenico di oggi, in cui anche ragazzine, come Isabella, ne sono uno stereotipo, ma senza voler generalizzare. Il tuo racconto è scritto molto bene, di immediata lettura, non vedo nessun errore. Forse è un po’ breve, ma compiuto nella storia/messaggio che vuole veicolare. Un po’ controverso il finale:

“la risposta alla sua domanda si fa sentire, altèra, nella vettura.

«No.»”

L'amica di lotta pronuncia un secco "no". Forse rinnega/rimpiange una battaglia che non si è mai conclusa del tutto perché fatta in modo sbagliato? Oppure è semplicemente consapevole che la sua appartenenza politica degli anni '70 non ha più senso oggi? E quindi, secondo lei, è inutile rivangare un passato di lotta che, seppur significativo all'epoca, appare sbiadito e fuori luogo nella "politica da palcoscenico" del presente. Ma potrebbe anche essere delusa dall'evoluzione degli eventi… o addirittura non essere la persona che la protagonista crede di aver riconosciuto. Inoltre, il termine “brigata” oggi, ma credo pure all’epoca, suona molto come terrorista/sovversivo/paramilitare, e potrebbe essere questo l’aspetto discriminante del suo “no”.
Mi sciogli questo dubbio?

Noto questa tua svista:

«Scusi, ma noi ci conosciamo?».

Dopo il punto interrogativo, non si mette il punto fermo.

Tante belle cose, Lodovico

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P.S. Rispondo ora, perché prima non riuscivo a collegarmi al sito e a dare il voto.
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Yakamoz
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Lodovico ha scritto: 26/03/2024, 8:21 Grazie mille del tuo commento.
La protagonista ha cambiato vita, si è "imborghesita" (prendi questo aggettivo solo come spiegazione, non è un giudizio, non mi trovo né da una parte né dall'altra, o forse in parte da entrambe), ha perso gli ideali della lotta di classe e si è trovata "agiata", posizione comoda.
A questo punto interagire con ciò che era prima diventa difficile. Ho un parente sessantottino che ha mantenuto, in parte le sue idee, ma ha vissuto una vita da dirigente di azienda. Niente di male, anzi, ma ci si trova nella vita, non dico a cambiare le proprie idee o i propri ideali, ma ad "adattarsi" alla situazione. Questo era quello che volevo dire nel racconto.
Per quanto riguarda il punto (.) dopo il punto interrogativo (?) se c'è una cosa che adoro di questo sito è la libertà e l'impegno di trovare i difetti.
Scrivo ormai da parecchio tempo. Ciò non toglie che tutti noi possiamo sbagliare qualcosa. E a me fa un piacere immenso quando qualcuno mi fa notare un errore, una svista, vedila come vuoi.
Sono cresciuto immensamente con i commenti in questo sito e l'amico Massimo Baglione lo sa. :D :D
Ben vengano le segnalazioni, chi si offende sbaglia.

Grazie, Lodovico, per la tua spiegazione, ma in realtà avevo già intuito che si fosse “imborghesita”. Ho chiesto solo per capire di più, perché potendo approfittare di un collegamento diretto con l’autore, mi sembrava giusto farlo. La gara, per come la vedo io, è un pretesto per confrontarsi, per chi ama scrivere, e nel confronto, se uno nota una svista, un refuso o può dare un consiglio personale, senza alcuna presunzione di superiorità, è una cosa buona. Pure io vengo corretto. Sono umano, sbaglio. Sempre meglio un commento critico e lecito che un banale commento di cortesia, no?
A rileggerci…

Cari saluti, Lodovico

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Quanti ex-sessantottini pentiti si riciclarono a cantori dei padroni che prima avevano combattuto? Sicuramente più di quelli "duri e puri" che rimasero nelle loro posizioni, pagando di persona un conto salato, escludendo ovviamente quelli che scelsero la lotta armata. Di sicuro il potere odierno fa di tutto per convincerci che la lotta di classe è finita (e che hanno vinto i ricchi), ma la Storia è strana, a volte enigmatica. Basta che qualche filosofo da strapazzo ne evochi la sua fine, che subito questa riprende a correre...
La protagonista del racconto ha completamente rinnegato il suo passato da ribelle: possiede un I-Phone, si è sbiancata i denti, si è integrata nel mondo del consumo. Ed ecco che accade l'imprevedibile: gli anni '70 che ritornano, la vecchia compagna di lotta, ma quanto è cambiata. Appare stanca e sfiduciata, poco curata nell'aspetto, una metafora della classe operaia umiliata e offesa. Le due si trovano di fronte, e la prima non se la sente di rapportarsi alla seconda: si vergogna del proprio passato, oppure di aver abbandonato al suo destino la ragazza di più umili origini? L'autore ci lascia nel dubbio, ognuno può trarre le sue conclusioni.
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@Lodovico
Un racconto che mi getta addosso un velo di tristezza e delusione perché, come diceva Gaber: "La mia generazione ha perso".
Jacopo
°
Il senso di quanto scrivi è di seguito rappresentato:
"Compagno di scuola, compagno di niente
ti sei salvato dal fumo delle barricate?
Compagno di scuola,
compagno per niente
ti sei salvato
o sei entrato in banca pure tu?
(Antonello Venditti)
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Un bel racconto che ricorda i tempi difficili del passato, colmi di ideologia, di contestazioni e poi di "tradimenti" di molti, così come anche la protagonista che si è piegata ai più, scegliendo la vita borghese, comoda, e fingendo pure di non riconoscere l'amica di tante lotte e ideali condivisi.
Il racconto ha, secondo me, la giusta lunghezza, e pur essendo di non troppe parole, racchiude tutto un significato importante, dire altro, sarebbe stato superfluo. Bello l'incipit, che introduce nell'incubo quotidiano di chi è costretto a servirsi dei mezzi pubblici per portare il lettore a ben altre riflessioni. Bravo, come sempre. Voto 5
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Il racconto si lascia leggere davvero bene, scorre, è scritto perfettamente. Le immagini emergono egregiamente dalle parole, ed è un racconto che spinge a molte riflessioni. È un accurato spaccato di vita ed ideali di un tempo che non ho vissuto in prima persona (non ero ancora nata!) Ma che ho appreso bene nei testi, canzoni, poesie, saggi, etc, ma anche nei racconti di chi invece lo ha visto e vissuto. È molto vero, lascia un po' l' amaro in bocca sia perché la protagonista "tradisce" l' amica nel momento in cui accetta che sia lei a prendersi la colpa, sia perché alla fine rinnega i valori che aveva scelto di diffondere. Ma quest' amaro lasciato dal racconto porta a farsi molte domande sull'animo umano.
Un passaggio mi ha particolarmente fatto riflettere: quando la protagonista si trova in mano un arma, ha solo voglia di spaventare il professore, eppure parte il colpo, succede la tragedia. Ecco leggendo lo stato mentale della protagonista, mi è venuto in mente di chiedermi: "quanto spesso capita che siamo armati di buone intenzioni, ma abbiamo in mano gli strumenti sbagliati? Quanto velocemente si passa dalla parte sbagliata, perché non si ha o la capacità di discernimento di quali siano gli strumenti giusti oppure perché banalmente questi non sono disponibili?"
E mi sono chiesta anche se davvero oggi stiamo dando validi strumenti ai giovani, anche per contrastare le ingiustizie o se solo gli stiamo buttando addosso vuote "campagne idrologiche " a cui aggrapparsi per distoglierli dal pensare davvero.
Tornando al racconto davvero molto ben scritto ed esposto, i miei complimenti.
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Andr60 ha scritto: 26/03/2024, 18:49 Quanti ex-sessantottini pentiti si riciclarono a cantori dei padroni che prima avevano combattuto? Sicuramente più di quelli "duri e puri" che rimasero nelle loro posizioni, pagando di persona un conto salato, escludendo ovviamente quelli che scelsero la lotta armata. Di sicuro il potere odierno fa di tutto per convincerci che la lotta di classe è finita (e che hanno vinto i ricchi), ma la Storia è strana, a volte enigmatica. Basta che qualche filosofo da strapazzo ne evochi la sua fine, che subito questa riprende a correre...
La protagonista del racconto ha completamente rinnegato il suo passato da ribelle: possiede un I-Phone, si è sbiancata i denti, si è integrata nel mondo del consumo. Ed ecco che accade l'imprevedibile: gli anni '70 che ritornano, la vecchia compagna di lotta, ma quanto è cambiata. Appare stanca e sfiduciata, poco curata nell'aspetto, una metafora della classe operaia umiliata e offesa. Le due si trovano di fronte, e la prima non se la sente di rapportarsi alla seconda: si vergogna del proprio passato, oppure di aver abbandonato al suo destino la ragazza di più umili origini? L'autore ci lascia nel dubbio, ognuno può trarre le sue conclusioni.
Esatto, entrambe le cose, disagio per le azioni fatte (anche non del tutto volontariamente) nel passato ed essere passata "dall'altra parte della barricata".
Grazie del commento. :)
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Jacopo Serafinelli ha scritto: 27/03/2024, 18:51 @Lodovico
Un racconto che mi getta addosso un velo di tristezza e delusione perché, come diceva Gaber: "La mia generazione ha perso".
Jacopo
°
Il senso di quanto scrivi è di seguito rappresentato:
"Compagno di scuola, compagno di niente
ti sei salvato dal fumo delle barricate?
Compagno di scuola,
compagno per niente
ti sei salvato
o sei entrato in banca pure tu?
(Antonello Venditti)
Esattamente, anche se il significato di "ti sei salvato" è un po' ambiguo. Nella vita si può anche cambiare. Il brutto è quando si cambia per meri motivi economici o di comodità.
Grazie del commeto.
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Laura Traverso ha scritto: 09/04/2024, 21:49 Un bel racconto che ricorda i tempi difficili del passato, colmi di ideologia, di contestazioni e poi di "tradimenti" di molti, così come anche la protagonista che si è piegata ai più, scegliendo la vita borghese, comoda, e fingendo pure di non riconoscere l'amica di tante lotte e ideali condivisi.
Il racconto ha, secondo me, la giusta lunghezza, e pur essendo di non troppe parole, racchiude tutto un significato importante, dire altro, sarebbe stato superfluo. Bello l'incipit, che introduce nell'incubo quotidiano di chi è costretto a servirsi dei mezzi pubblici per portare il lettore a ben altre riflessioni. Bravo, come sempre. Voto 5
Grazie mille del commento, detto questo la lunghezza del racconto è il mio standard, fatico a scrivere racconti sopra i 10.000 caratteri, ma non sotto i 2.000... :-D
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Marirosa ha scritto: 16/04/2024, 9:21 Il racconto si lascia leggere davvero bene, scorre, è scritto perfettamente. Le immagini emergono egregiamente dalle parole, ed è un racconto che spinge a molte riflessioni. È un accurato spaccato di vita ed ideali di un tempo che non ho vissuto in prima persona (non ero ancora nata!) Ma che ho appreso bene nei testi, canzoni, poesie, saggi, etc, ma anche nei racconti di chi invece lo ha visto e vissuto. È molto vero, lascia un po' l' amaro in bocca sia perché la protagonista "tradisce" l' amica nel momento in cui accetta che sia lei a prendersi la colpa, sia perché alla fine rinnega i valori che aveva scelto di diffondere. Ma quest' amaro lasciato dal racconto porta a farsi molte domande sull'animo umano.
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Grazie mille del commento, nemmeno io ho vissuto quei tempi, anche perché nel '68 avevo quattro anni, però ho un cugino di Milano che ha vissuto quegli anni e ho conosciuto lui e molti suoi amici. Lui, però, nonostante abbia fatto carriera, è rimasto un sessattottino dentro. Come alcuni dei suoi amici che hanno mantenuto parte dei loro ideali nonostante la vita li abbia portati "dall'altra parte".
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Un racconto che in diecimila battute parla di un passato denso di speranze e avvenimenti. Quello che più mi ha colpito è la prosa armoniosa e veramente efficace. Alla fine penso che la protagonista pronunci un "no" pesantissimo, pieno di sensi di colpa aumentati da quel bacio che non ha dimenticato. Non avrà dormito quella notte, mentre l'indomani...sarà un altro giorno.
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Messaggio da leggere da Giovanni p »

Un racconto che parla del tempo che passa e che lascia il segno.
Le due protagoniste si rivedono, ma la giovinezza è ormai passata e le emozioni legate a essa sono ormai parte di un'altra vita.
Si potrebbe ragionare dell'evoluzione di una delle due come qualcosa di positivo, come anche della coerenza dell'altra come una virtù.
Gli spunti di riflessione sono molteplici e sei stato bravo a raccontare invece che imporre un punto di vista specifico.
La scrittura è essenziale, pulita.
Ho apprezzato il racconto è il modo in cui è stato scritto.

Complimenti.
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Letylety ha scritto: 18/04/2024, 23:41 Un racconto che in diecimila battute parla di un passato denso di speranze e avvenimenti. Quello che più mi ha colpito è la prosa armoniosa e veramente efficace. Alla fine penso che la protagonista pronunci un "no" pesantissimo, pieno di sensi di colpa aumentati da quel bacio che non ha dimenticato. Non avrà dormito quella notte, mentre l'indomani...sarà un altro giorno.
Grazie mille, ho apprezzato molto il commento, e il "no" della protagonista è pesantissimo, come dici tu, e pure un po' vergognoso, nonostante si parli di azioni illegali.
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Giovanni p ha scritto: 20/04/2024, 10:25 Un racconto che parla del tempo che passa e che lascia il segno.
Le due protagoniste si rivedono, ma la giovinezza è ormai passata e le emozioni legate a essa sono ormai parte di un'altra vita.
Si potrebbe ragionare dell'evoluzione di una delle due come qualcosa di positivo, come anche della coerenza dell'altra come una virtù.
Gli spunti di riflessione sono molteplici e sei stato bravo a raccontare invece che imporre un punto di vista specifico.
La scrittura è essenziale, pulita.
Ho apprezzato il racconto è il modo in cui è stato scritto.

Complimenti.
Il tempo passa e pure gli ideali cambiano. Non che giustifichi le azioni della lotta armata, anzi, ma erano altri tempi, altre vite, altre situazioni.
Tutto è un po' esagerato e romanzato, ma sono storie che ho "sentito" e che mi hanno lasciato una memoria di quei tempi che non ho vissuto di persona, ma attraverso amici "sessantottini" che quei tempi li hanno visti dal vivo. Grazie!
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Il punto di vista è quello della protagonista, e il narratore è un io narrante. L' espediente dei due distinti tempi verbali, per il passato e per il presente funziona. Le similitudini iniziali sono riuscite (le tende di un sipario per le porte del tram, la fessura in uno scoglio per il varco tra la folla) e lasciano presagire al lettore un altro tipo di racconto rispetto a quello che leggerà. D'altra parte sin dalle prime battute riesci a costruire una figura femminile che ha raggiunto una certa posizione sociale, con i tacchi la pelliccia i denti bianchissimi l'auto che non parte, e che si trova a disagio tra la folla costretta a servirsi dei mezzi pubblici. Allo stesso modo fai con l'antagonista, che è il suo esatto opposto.
E quindi nel tuo antefatto costruisci i due idealtipi della bella e buona e della brutta e cattiva.
Se l'antefatto funziona, con la costruzione dei personaggi, forse con l'analessi e il ribaltamento seguente direi meno, soprattutto nel finale, che scioglie e spiega, ma non riesce a convincermi.
Forse perché è tutto troppo semplice, l'idea è lineare, ma qualcosa stride: il professore ferito ha certo visto chi delle due gli ha sparato alla gamba e comunque ha visto che hanno agito insieme. E le due amiche potevano benissimo scappare tutt'e due, mentre sembra che una aspetti la polizia proprio per farsi prendere e così dare avvio al ribaltamento delle posizioni che è il tema del racconto. Quindi la costruzione artificiale si nota, forse troppo. Il particolare della pistola non dice nulla, se non che una ha più coraggio ed è più altruista dell'altra, come il finale dimostra appunto ed è strumentale alla costruzione dei caratteri e al finale della storia. Le due donne hanno agito insieme, chi è stata a sparare è quasi irrilevante in un processo ed è improbabile che la studentessa borghese non sia uscita anche lei con le ossa rotte dall'esperienza della lotta armata di quegli anni. Se poi aveva una pistola in mano, con un colpo in canna, qualcuno l'aveva procurata e aveva indicato il bersaglio, non l'aveva trovata nell'uovo di Pasqua. Un gruppo armato non si muoveva per caso. Mentre così come l'hai descritto l'episodio sembra una bravata. Ma allora perché ricordare le BR e la lotta armata? Avrebbe avuto più senso un episodio di bullismo qualsiasi da cui poi una delle due si era dissociata.
Ma il punto in cui vuoi condurre il lettore dipende dal non detto sulla vita dei due personaggi. È buona la donna che ha scontato una pena per un fatto che non ha commesso, evidentemente senza parlare e tradire l'amica, è cattiva l'altra che si è rifatta una vita senza pensare al male che ha fatto, a chi ha sparato e a chi ha sopportato il fardello in sua vece, e che per giunta fa finta di non riconoscere chi le ha salvato il futuro. Mi spiace, forse una caratterizzazione del genere è troppo facile, troppo costruita, e io non riesco a crederci.
E quel Brigate Rosa del titolo, in contrapposizione alle Rosse. Forse può venire in mente solo a chi non ha vissuto quegli anni, e il ricordo è sbiadito perché mediato dai ricordi altrui. Ma se la memoria, per forza di cose, non aiuta, esiste sempre la storia.
Tuttavia è un ottimo racconto, la mano è quella di un professionista direi, ma purtroppo mi hai convinto solo in parte.
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Namio Intile ha scritto: 24/04/2024, 11:19 Il punto di vista è quello della protagonista, e il narratore è un io narrante. L' espediente dei due distinti tempi verbali, per il passato e per il presente funziona. Le similitudini iniziali sono riuscite (le tende di un sipario per le porte del tram, la fessura in uno scoglio per il varco tra la folla) e lasciano presagire al lettore un altro tipo di racconto rispetto a quello che leggerà. D'altra parte sin dalle prime battute riesci a costruire una figura femminile che ha raggiunto una certa posizione sociale, con i tacchi la pelliccia i denti bianchissimi l'auto che non parte, e che si trova a disagio tra la folla costretta a servirsi dei mezzi pubblici. Allo stesso modo fai con l'antagonista, che è il suo esatto opposto.
E quindi nel tuo antefatto costruisci i due idealtipi della bella e buona e della brutta e cattiva.
Se l'antefatto funziona, con la costruzione dei personaggi, forse con l'analessi e il ribaltamento seguente direi meno, soprattutto nel finale, che scioglie e spiega, ma non riesce a convincermi.
Forse perché è tutto troppo semplice, l'idea è lineare, ma qualcosa stride: il professore ferito ha certo visto chi delle due gli ha sparato alla gamba e comunque ha visto che hanno agito insieme. E le due amiche potevano benissimo scappare tutt'e due, mentre sembra che una aspetti la polizia proprio per farsi prendere e così dare avvio al ribaltamento delle posizioni che è il tema del racconto. Quindi la costruzione artificiale si nota, forse troppo. Il particolare della pistola non dice nulla, se non che una ha più coraggio ed è più altruista dell'altra, come il finale dimostra appunto ed è strumentale alla costruzione dei caratteri e al finale della storia. Le due donne hanno agito insieme, chi è stata a sparare è quasi irrilevante in un processo ed è improbabile che la studentessa borghese non sia uscita anche lei con le ossa rotte dall'esperienza della lotta armata di quegli anni. Se poi aveva una pistola in mano, con un colpo in canna, qualcuno l'aveva procurata e aveva indicato il bersaglio, non l'aveva trovata nell'uovo di Pasqua. Un gruppo armato non si muoveva per caso. Mentre così come l'hai descritto l'episodio sembra una bravata. Ma allora perché ricordare le BR e la lotta armata? Avrebbe avuto più senso un episodio di bullismo qualsiasi da cui poi una delle due si era dissociata.
Ma il punto in cui vuoi condurre il lettore dipende dal non detto sulla vita dei due personaggi. È buona la donna che ha scontato una pena per un fatto che non ha commesso, evidentemente senza parlare e tradire l'amica, è cattiva l'altra che si è rifatta una vita senza pensare al male che ha fatto, a chi ha sparato e a chi ha sopportato il fardello in sua vece, e che per giunta fa finta di non riconoscere chi le ha salvato il futuro. Mi spiace, forse una caratterizzazione del genere è troppo facile, troppo costruita, e io non riesco a crederci.
E quel Brigate Rosa del titolo, in contrapposizione alle Rosse. Forse può venire in mente solo a chi non ha vissuto quegli anni, e il ricordo è sbiadito perché mediato dai ricordi altrui. Ma se la memoria, per forza di cose, non aiuta, esiste sempre la storia.
Tuttavia è un ottimo racconto, la mano è quella di un professionista direi, ma purtroppo mi hai convinto solo in parte.
Beh, che dire, una critica sensatissima e condivisibile. In effetti ho vissuto quegli anni solo per sentito dire, concordo assolutamente per quanto riguarda i difetti di trama, primo fra tutti quello che riguarda la responsabilità della sparatoria e l'avere "costruito" due figure un po' troppo stereotipate.

Grazie del commento e dell'apprezzamento per la scrittura. A presto!
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PRIMO PARAGRAFO: Le porte del tram si aprono, avvolgendosi su se stesse, come le tende di un sipario. La vettura è ingombra di cappotti, giacche a vento, giubbotti, ognuno ordinatamente indossato dal suo proprietario umano, a costruire una sorta di muro appena al di sopra della scaletta. Mi chiedo come potrò mai penetrare tra quella folla multicolore stipata come polli in batteria. Un esile varco si crea tra due persone, simile a una fessura in uno scoglio. Ne approfitto e mi ci infilo come farebbe una murena, nonostante l'ingombro delle scarpe col tacco. Già, le scarpe col tacco. Mentre nevica. Milano imbiancata dalla neve è spettacolare tanto quanto invivibile: taxi assenti, mezzi colmi, marciapiedi scivolosi. E la mia auto che, proprio oggi, ha deciso di non accendersi. Mi intrufolo per raggiungere una parte un po' più interna della vettura. Ricordi di gioventù quando prendevo il tram quasi tutti i giorni. Ora mi appare come un crogiuolo di specie umane alquanto eterogenee: alti, bassi, grassi, magri, belli, brutti, profumati, puzzolenti… ecco, questi ultimi sembrano essere in netta prevalenza, comunque. Appesa come un cotechino alla maniglia penzolante dalla sbarra, sbuffo, mentre un uomo cerca di spostarmi per raggiungere l'uscita. Abbasso gli occhi e la vedo. I capelli grigi spettinati ricoprono parte del viso, ma quello è il suo viso. Non guarda verso di me, ma ne riconosco gli occhi. Quegli occhi che non vedevo da quarant'anni.

MIO COMMENTO

La prima figura retorica che ci offri introducendo la scena nell’incipit non è propriamente il massimo: anzi, direi, che è quella che per prima viene in mente. Il sipario che si apre, come si aprono le porte del tram. Okay, ci sta, per carità. Ma ti suggerisco di trovarne un’altra.
Ma le metafore abbondano, e però non sempre si dà l’idea della scena contestualizzata. Scrivi: “Un esile varco si crea tra due persone, simile a una fessura in uno scoglio” ti faccio notare che qui, giustamente dici un varco tra due persone, ma poi affermi “simile a una fessura in uno scoglio”, il che c’è una stonatura tecnica di fondo, in quanto la frase dovrebbe essere “simile a una fessura tra due scogli”, sennò la murena s’infila dentro lo scoglio per rimanerci e non oltrepassare, come sembra dal contesto narrante volessi intendere.

Poi scrivi: “Nonostante l’ingombro delle scarpe col tacco”, ma le scarpe col tacco creano ingombro a che cosa?
In pratica, ti faccio anche notare che per esprimere il concetto di folla nella vettura (come la chiami) utilizzi più contesti: “ingombra di cappotti, giacche a vento, giubbotti”; “una sorta di muro appena al di sopra della scaletta”; folla multicolore stipata come polli in batteria (che sono ben due tutte in una frase); e poi ci metti addirittura anche le scarpe col tacco che ingombrano!
Mentre anche per il varco, siamo lì: si ripete in concetto.

Poi scrivi: “Mentre nevica. Milano imbiancata dalla neve è spettacolare tanto quanto invivibile: taxi assenti, mezzi colmi, marciapiedi scivolosi. E la mia auto che, proprio oggi, ha deciso di non accendersi.”
I taxi infine sono assenti o mezzi colmi? Scusa, ma non l’ho capito. E l’auto invece di mettersi a moto “si accende”.
Okay, mi fermo qui, solo per evidenziare che anche un editor distratto ti avrebbe indicato quello che ti ho indicato io. Non c’è nessuna scortesia da parte mia, ma un conto è rilevare refusi è qualche frase frettolosa scappata via, un conto è rilevare le cose che assolutamente non vanno in questo testo.
E guarda che mi sono fermato al primo paragrafo.
Tuttavia, leggo che per alcuni commentatori questo è un ottimo racconto: be’, io ti ho lasciato il mio “onesto” commento da lettore vorace, poi sarai tu a decidere se è un ottimo racconto per come ti hanno scritto oppure no. Ciao. Alla prossima.
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Ciao Lodovico,
è bello rivederti qui, e rileggerti.
Due persone, una storia "vera", ed è subito un quadro perfetto della nostra storia, e dei nostri vizi.
Ma tu ci riesci senza gli eccessi di chi ha bisogno di gettarsi nel sesso o nella violenza: peschi semplicemente in ciò che tutti conosciamo fin troppo bene, pur cercando d nasconderlo.
Non ho nulla da dire sul tuo racconto: è perfetto così, e fa pensare. Al solito, sei su un altro piano. È inevitabile spostare il commento dal racconto al tema che propone.
Che è stata di quella stagione di lotta durata una generazione, forse due? Il gruppo degli irriducibili si assottigliava poco a poco. Sei straordinario nel non chiedere esplicitamente come mai, che fine hanno fatto quegli irriducibili "Pietro, prima che il gallo canti, mi avrai rinnegato tre volte", ma nel rispondere solo alla fine, en passant, semplicemente informando della marca del cellulare della protagonista.
Stracci l'anima, quando il sorriso della metalmeccanica mostra un incisivo mancante: la prossimità nel racconto dell'episodio dell'attentato lascia poco spazio alla fantasia, eppure non hai detto nulla...
La tua è una penna d'altri tempi, tempi decorosi, rispettosi dell'altrui intimità: quando non era necessario ripetere 9 settimane e mezzo sullo schermo, per far capire con un solo sguardo, al massimo con un bacio appena appoggiato sulle labbra, che i protagonisti del film si sarebbero amati. Il che ti permette di pescare tra i sentimenti.
Ovviamente, ognuno potrà trarre le proprie conclusioni, dal tuo racconto. Approfitto di quest'ambiente più "amichevole" per dirti le mie: ci hanno corrotto. Il "benessere", il denaro, l'arrivismo, la carriera, il miraggio di diventare qualcuno, qualcosa.
Non parlo così perché fossi immune a queste tentazioni, al contrario! Ma sono stato "fortunato", e in qualche modo la mia esperienza di vita è andata al contrario: ero partito borghese, e oggi sgomito per arrivare alla pensione (ma di fatto, oggi, chi non sgomita per arrivare alla pensione?).
Rinnegare la breve stagione che anch'io ho visto (non vissuto)? Anche in ciò sono stato fortunato: io non ero affine agli irriducibili, ma Fisica era un ambiente assai più equanime e tollerante di tanti altri, e vedevo le ragioni a venire. E oggi mi pare così incredibile che la gente non sappia spiegarsi come siamo arrivati così in basso, come società.
Rinnegare qualcuno, qualcosa? Ho commesso sciocchezze nel campo dell'amicizia, e sono stato perdonato già tempo addietro. È la cosa più divina che esista. Ho imparato (tre volte fortunato) che chi rinnega, rinnega prima sé stesso, e non ho niente da rinnegare, al contrario!
Ora che ci penso, che strano... Io ho un incisivo mancante... :D
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Re: Brigate Rosa

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P.S.: sono abituato a scrivere il mio commento e poi a sfogliare quelli degli altri.
Per questo racconto, alcuni sono positivi, altri notevolmente meno, e chiedono maggior "razionalità" di tutto l'apparato narrativo.
Anticipo che sarò sgradevole, ma certe cose mi fanno bollire il sangue. Chiedo scusa a Lodovico.

Personalmente, ritengo che un approccio rigido alla lettura sia una cosa da bacchettoni insoddisfatti (lo affermo pur riconoscendo in me un bacchettone insoddisfatto). La lingua, bontà sua, non è un teorema di matematica (e qualcosa, di matematica, ne capisco. Se volete rendere questo la lingua, ci rivediamo a Filippi), e fortunatamente le espressioni, gergali o approssimate, ne sono linfa vitale.
Namio: invochi una maggior razionalità dei personaggi. Ricordo un episodio del quale dovrei solo vergognarmi: salito con un'antica fiamma su un bus (mai fatto in vita mia), all'arrivo del controllore scesi di corsa e la lasciai lì. Il controllore la fece scendere senza elevarle contravvenzione, non senza averle giustamente espresso la sua opinione sulla mia misura di uominicchio: "Signurì, è 'o fidanzato vuosto?"
Questo, per ricordare che è facile, a una certa età, valutare certe cose, con il nostro bagaglio di esperienze, ma credo che al contrario il "non tutto è perfettamente pianificato" sia parte della vita stessa (e negli anni 60 e 70, poi...). Persino gli anglofoni hanno l'espressione "Shit happens", e da dove arriva quella "shit", se non dall'imponderabile, dal fattore umano, dal fattore umano con poco più di 20 anni?
Giampiero... sono abbastanza poco attento da potermi sbagliare, ma credo sia la prima volta che ci incrociamo. Trovo il tuo commento insensato da capo a piedi. Se volevi scrivere il racconto, potevi farlo, accomodati. Questo è il racconto di Lodovico. Il concetto secondo il quale l'editor indossa i panni di un Dio malvagio che suggerisce all'autore addirittura le metafore con le quali dare inizio al proprio racconto lo trovo "disturbante". Non c'è scrittura se non c'è autore, e l'autore ha un proprio gusto e una propria personalità. Hai tutto il diritto di osservare gli "sbagli", ma sullo stile ci vuole una bella faccia tosta!
Detto questo, "una fessura in uno scoglio" è esattamente quello che è: tra due scogli non c'è nessuna fessura proprio perché sono DUE scogli: uno accà e uno allà. Al limite c'è uno spazio, tra DUE scogli. Non trascendo (lo spirito napoletano alle volte è terribile), ma da che mondo è mondo le fessure sono proprie di UN corpo. "Si informi".
E per l'ingombro delle scarpe col tacco, l'unica parola forse non azzeccata è "ingombro" (molestia? scomodità? difficoltà a camminare in un ambiente stipato?), ma sempre in virtù di quella lingua che i grammatici amano tanto al punto di volerla ammazzare (bella, codificata e ferma, certa, immutabile, perfetta (il tempo del passato), MORTA), io avevo capito cosa volesse dire Lodovico. Incredibile?
A me pare incredibile che dell'unica cosa che realmente conti in una gara di racconti, i racconti, ci si possa fissare su dettagli in maniera morbosa, da anatomisti, dimenticando che un racconto è un corpo VIVO, e col conseguente rispetto va trattato.
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