Hai notato che pace?
Hai notato che pace?
Zeta s’era ritirato a vivere in un appartamento surreale, mimetizzato nella vegetazione, nel mezzo della foresta nera, tra Siegen e Marburgo. Il soggiorno era rivestito in legno tamburato e marmo scuro di Portovenere. L’esterno ricordava la Fallingwater di Kaufmann, la famosa casa sulla cascata dell’architetto Wright.
Zeta era stato un profiler e un criminologo dai metodi poco ortodossi e pseudoscientifici, che aveva risolto numerose indagini su persone scomparse. L’ispettrice Milani lo aveva sempre considerato una specie di mentore. Tra loro c’era sempre stata un’alchimia, una forte complicità umana e professionale.
Fecero colazione insieme. Tra un pretzel col burro e un trancio di schwarzwälder kirschtorte si ritrovarono a evocare degli episodi del passato. Ai bei tempi, in polizia, erano considerati “la strana coppia”: lei esile ed emaciata, lui corpulento, butterato, di pelle scura.
«A quanto pare ho di nuovo bisogno di te», confessò l’ispettrice,
«Stavolta dubito che potrò aiutarti, Ambra.»
«Voglio soltanto che mi ascolti» replicò lei, mentre afferrava dalla ciotola una fetta biscottata, la cosa più affine alle sue abitudini culinarie che ci fosse in tavola.
«Dovresti smettere anche tu e ritirarti da queste parti. Hai notato che pace?»
Quel posto aveva qualcosa di tetro ed era troppo isolato per una donna, soprattutto una mamma con una bambina piccola. Sollevò le sopracciglia e arricciò le labbra.
«Comunque, se devo soltanto ascoltarti, mi sacrificherò. Dopotutto hai una bella voce.»
L’ispettrice Milani non aveva lasciato nulla d’intentato. S’era dedicata a questo caso per anni. Aveva percorso con ostinazione ogni pista investigativa, interpellato esperti, utilizzato ogni ritrovato tecnologico, partecipato a briefing e brainstorming, coordinato task force. Eppure ogni volta s’era ritrovata con un pugno di mosche.
«Usciamo, facciamo una passeggiata» propose Zeta, «questo bosco mi aiuta a concentrarmi.»
L’ispettrice cominciò dall’incendio del canneto del 2007 e dall’intervento dei Vigili del fuoco, chiamati da un’azienda di prodotti siderurgici adiacente a quel terreno. Il getto d’acqua dell’idrante aveva fatto saltare fuori un cranio umano, perciò i pompieri avevano chiamato la polizia. Sul posto l’ispettrice aveva rinvenuto altre ossa umane, disposte in perfetto ordine anatomico. Non essendo in sovrannumero, pensò che quelle spoglie appartenessero a una persona che era morta e si era scheletrizzata sul posto. Soltanto il cranio era fuori posto, perché spostato dagli idranti.
«Proprio un brutto affare», arguì Zeta.
L’ispettrice estrasse un fascicolo dalla borsa, aprì il dossier e indicò qualcosa su una fotografia.
«Verso il greto del Tevere rinvenimmo quel marsupio, al cui interno c’era la carta d’identità bruciacchiata del signor Libero Ricci, un restauratore in pensione che abitava nella vicina Via Luigi Rava. L’uomo era scomparso quattro anni prima, nel 2003. C’erano anche degli indumenti e le chiavi del suo appartamento. Il caso sembrava già risolto.»
Zeta si soffermò a scrutare le foto. Si sedette sulla base di un tronco reciso e si accese una sigaretta.
«Invece?»
«I figli del signor Ricci dissero che gli abiti e le scarpe rinvenute non appartenevano al padre. Perciò ho insistito per estrarre il DNA da quel cranio e confrontarlo con quello dei figli.»
«E…»
«E venne fuori che quel cranio apparteneva a una donna.»
Zeta storse la bocca, mentre la Marlboro si consumava inesorabile tra le sue labbra.
«Abbiamo una prova scientifica che quel marsupio e quelle ossa siano collegati? Che non si tratti di un’incredibile casualità?»
«L’esame del DNA mitocondriale ha evidenziato che il teschio e la spina dorsale appartenevano a una parente della madre di Libero Ricci.»
Zeta sembrò sorpreso. Inforcò gli occhiali, per osservare meglio le foto.
«Considerando le loro età, forse potrebbe trattarsi di una sorella di Libero, una figlia illegittima della madre. Che mi dici delle altre ossa?» chiese.
«Il medico legale aveva campionato le ossa lunghe della gamba e del braccio destro. Terminati gli esami mi telefonò. Ricordo che per poco non svenni quando affermò che quelle ossa appartenevano a cinque persone diverse, tre femmine e due maschi.»
«Sono andato in pensione giusto in tempo», ironizzò Zeta.
«In quelle ossa non c’erano resti di zinco e di legno, quindi non erano mai state tumulate. Se non ci fosse stato di mezzo un uomo scomparso, forse morto, avremmo pensato a uno scherzo di cattivo gusto di qualche studente di medicina. Abbiamo cercato possibili trafugamenti da ossari o luoghi di studi d’anatomia. Ma niente. Eravamo in un vicolo cieco.»
Zeta si passò una mano sulla barba ispida e ingrigita dagli anni.
«Forse avreste dovuto chiamare la maga Circe.»
L’ispettrice sorrise, perché quella risposta la fece pensare a sua figlia, la piccola Sofia.
°°°
Ambra Milani non ne poteva più di riferirsi alle vittime chiamandole “femmina uno”, “maschio due” e così via. Attribuirgli dei nomi avrebbe reso la cosa più umana, meno macabra.
«Amore, mamma ha di nuovo bisogno del tuo aiuto, sai?»
Sofia diceva che da grande sarebbe diventata come sua madre, “la più grande poliziotta che acchiappa tutti i cattivi del mondo”. Nel frattempo le brillavano gli occhi ogni volta che la mamma fingeva di aver bisogno della sua collaborazione.
«Vorrei che tu scegliessi dei nomi, tesoro. Due da maschio e tre da femmina, i primi che ti vengono in mente.»
La bimba s’imbronciò e infilò un ditino nella bocca.
«Ma mamma! Devo sapere almeno che età hanno!»
Sul volto dell’ispettrice si dipinse un’espressione di stupore. Come aveva fatto a non pensarci prima? Circa un anno prima s’era servita di un laboratorio di fisica chiamato “Circe”, per un caso di persona scomparsa. Circe utilizzava l’innovativo metodo “bomb spike” del decadimento del Carbonio 14, che avrebbe potuto anche attribuire un’età ai reperti ossei.
«Hai ragione!» esclamò, baciandola sulla testa.
Qualche settimana dopo era tornata a mendicare l’aiuto della bimba.
«Stavolta ti dirò anche l’età, pronta?»
«Sì, mamma.»
«Allora il primo è un maschio di 33 anni. Come lo chiamiamo?»
Sofia si morse il labbro superiore, poi quello inferiore. Infine l’illuminazione: «Oliver!»
«D’accordo» rispose la donna, annotando quel nome su un taccuino.
Oliver era il femore, “maschio 2”, un uomo che al momento della morte aveva tra i 25 e i 40 anni. Secondo la genetista e l’antropologo del laboratorio Circe era morto tra il febbraio del 1986 e l’ottobre del 1989. Quindi era la prima vittima, o almeno la prima dei cinque a cui era stato estratto il DNA.
«Adesso vorrei il nome di una femminuccia, di circa ventisette o ventotto anni. Che mi dici?»
La bambina incrociò le gambe e mise di nuovo il ditino in bocca, pensierosa. Era ancora in pigiama e aveva i capelli tutti spettinati.
«Allora… sì, si chiama Annabelle!»
Si trattava di “femmina 2”, morta tra il novembre del 1992 e il febbraio del 1998, quasi dieci anni dopo rispetto a Oliver. Aveva un’età compresa tra i 20 e i 35 anni, questo faceva di lei la più giovane delle vittime. A lei apparteneva la tibia destra.
L’ispettrice Milani annotò: “Annabelle”.
«Adesso ancora una femminuccia, ma stavolta ha quarant’anni…»
«Devo fare pipì! » esclamò Sofia.
Quando tornò dal bagno, la bambina decise che la terza vittima dovesse chiamarsi Eloise. Dall’esame della fibula della gamba destra, s’era stabilito che lei fosse morta quando aveva tra i 35 e i 45 anni, poco dopo Annabelle, tra l’aprile del 1995 e il dicembre del 2000.
Dopo di lei erano state uccise altre due persone, cioè “maschio 1” e “femmina 1”, i primi a essere analizzati ma gli ultimi a essere uccisi. Al primo appartenevano la scapola e il braccio superiore destro, immersi nella fanghiglia. Aveva tra i 40 e i 50 anni ed era morto tra il febbraio del 2002 e l’ottobre del 2006. La bambina decise di chiamarlo Yuri.
La seconda aveva cinque anni in più, e con i suoi 45-55 anni era la più anziana. Era stata uccisa forse pochi mesi dopo Yuri. Suoi erano il teschio, le vertebre e l’emicostato destro, che presentava delle fratture costali. Sofia decise che questa donna (il cui DNA mitocondriale la identificava come una parente della madre di Libero Ricci) si chiamasse Bea.
La bambina andò a fare colazione, fiera di aver dato il suo contribuito al trionfo della giustizia, mentre sua madre si rinchiuse in bagno a rimuginare, bofonchiando da sola.
Oliver, 33 anni, morto nel 1987. Annabelle, 27-28 anni, morta nel 1995. Eloise, 40 anni, morta nel 1998. Yuri, 45 anni, morto nel 2004. Bea, 47-48 anni, morta tra il 2004 e il 2005.
Che diavolo avete in comune?
°°°
«Infatti la maga Circe ha parlato. Ecco qua» disse l’ispettrice, porgendo dei documenti a Zeta. «Ti presento Oliver, Annabelle, Eloise, Yuri e Bea.»
«Vedo che gli hai attribuito dei nomi, come t’ho insegnato io.»
L’ispettrice assentì.
Zeta accese una cicca e scrutò a lungo i documenti sulla datazione delle ossa.
«Queste ossa appartengono a persone morte in un intervallo di circa venti anni. Ma tu hai detto che erano disposte in perfetto ordine anatomico.»
«Sì.»
«Secondo te, cosa vuol dire?»
«Che qualche maniaco ha fatto un puzzle umano con le ossa delle sue vittime.»
«E lo ha fatto bene, con tutte le ossa al posto giusto, anche le più piccole. Senza doppioni. Ma la cosa più incredibile non è questa...»
L’ispettrice sollevò un sopracciglio.
«L’incendio è stato doloso, scommetto?»
Adesso l’ispettrice aggrottò tutta la fronte.
«Parrebbe di sì. Perché?»
Zeta giocherellò con la strana collanina che indossava. Poi socchiuse gli occhi. Immaginò di trovarsi in quel posto, una specie di giungla fangosa di baracche, topi, detriti, materassi.
«Vicino al fiume il terreno non è stabile: la percolazione, le intemperie, gli smottamenti. Inoltre quella zona è ricca di animaletti e roditori, di certo attratti da resti corporei. Non è possibile che quelle ossa siano rimaste ferme lì per vent’anni.»
«Eppure è così…»
«Se fossero state disposte con precisione, poco prima dell’incendio? Rifletti. Ha voluto farvele trovare così. È un necromane esibizionista.»
«Quindi avrebbe appiccato lui l’incendio, per farci trovare…»
«Sì, il suo capolavoro.»
«Ma avrebbe rischiato di carbonizzare le ossa. Alcune sono molto danneggiate dalle fiamme. Questo mi fa pensare che…»
«Non pensare col tuo metodo, pensa col suo. Perché non colloca queste ossa in qualsiasi altro luogo, al chiuso, lontano da sguardi indiscreti? Perché le dispone in un canneto, vicino a un posto abitato? Rifletti.»
Zeta sembrava invasato, i suoi occhi brillavano e cominciava a muoversi in modo frenetico, come in preda alle allucinazioni. Era più giusto forse chiamarle ispirazioni, visioni, intuizioni. Qualcosa di soprannaturale, come ai vecchi tempi. Con uno scatto afferrò l’ispettrice per un braccio.
«Guarda questa foto. Le canne sono abbastanza alte per nasconderlo, abbastanza secche per provocare un incendio. Un caso? Vicino c’è un campo rom, delle abitazioni, insomma qualcuno che chiamerà i pompieri prima che sia troppo tardi. Certo, l’incendio potrebbe essere divampato più velocemente del previsto. Non è facile controllare le fiamme. In ogni caso i pompieri sono arrivati in tempo e lui ha ottenuto il suo scopo.»
«Sì, è possibile…»
«Questo spiega anche perché nessuno ha percepito gli odori della decomposizione dei resti. Dimmi delle ricerche sulle ossa. Per esempio i denti sui mascellari del cranio di “femmina1”, cioè di… come la chiami tu?»
«Bea.»
«I denti di Bea, la parente della madre di Libero, scomparsa tra… cos’era il 2002 e il 2006? Qui dice che erano usurati ma non presentavano interventi odontoiatrici, nonostante la donna avesse circa cinquant’anni. Con questi elementi non avete trovato nessuna corrispondenza con donne scomparse?»
«Nessuna valida. Lo stesso per tutte le altre ossa. L’unico confronto che per un certo periodo era sembrato funzionare era quello tra “femmina2”, cioè Annabelle, e Alessia Rosati, la studentessa di lettere scomparsa nel 1994. Quel caso aveva analogie perfino con quello di Emanuela Orlandi. Siccome Libero Ricci in passato aveva lavorato per alcuni committenti in Vaticano, la questione aveva affascinato tutti, compresa la stampa. Ma anche in questo caso il DNA non ha dato riscontri.»
Zeta rimase in silenzio qualche istante, poi scosse il capo, dispiaciuto.
«Allora è in gamba. Forse troppo, Ambra. Come temevo non posso esserti utile.»
L’ispettrice assentì con riluttanza, mentre si cacciava le mani in tasca.
Per non deluderla, Zeta tentò di darle qualcosa: «credo che il tuo uomo sia un maschio, tra i trenta e i sessant’anni, bianco, ben integrato, con un’ottima conoscenza dell’anatomia umana. Non possiamo affermare che le ossa appartengano a sue vittime, perciò potrebbe essere qualcuno che – forse per il lavoro che svolge – ha la possibilità di reperire ossa umane. È un uomo discreto e metodico, perché ha lavorato per anni a questa cosa, senza mai farsi notare. Ma è anche esibizionista e narcisista, perché ha esposto il suo puzzle pretendendo un riconoscimento.»
«Che altro possiamo fare?»
«Andare a fondo sulla famiglia Ricci, senza escludere amici e conoscenti. Non mi dispiace neanche la pista che punta in Vaticano. Poi farei esaminare le altre ossa, tutte. Sempre che il magistrato vi autorizzi. Tutto questo potrebbe rivelarsi un buco nell’acqua, un ulteriore spreco di risorse e di tempo.»
«Sai che ti dico? Io non riesco a odiarlo questo maniaco. E sai cosa penso? Che un giorno, indagando altrove, si estrarrà un DNA che combacerà con uno di quelli prelevati dalle ossa. O forse ci sarà qualche novità tecnologica, o una testimonianza tardiva, inattesa. Chissà, un colpo di fortuna... e lo prenderanno. Forse non io, ma lo prenderanno.»
«Oppure no…»
«Già. Oppure no.»
Per tutto il viaggio di ritorno, l’ispettrice non riuscì a togliersi dalla testa l’ultima immagine di quella giornata surreale, in cui Zeta afferrava la sua piccola mano chiudendola dentro la sua. Poi, con quel suo modo suadente, l’aveva di nuovo rincuorata: «ho la sensazione che lo troverai, quando starà per morire. Non si porterà questo capolavoro nella tomba. Vedrai, vorrà comunicarlo al mondo.»
°°°
Zeta accese il camino e si sedette di fronte al fuoco. Sul viso illuminato d’arancio dalle fiamme, comparve un ghigno indecifrabile, tra sollievo e amarezza. L’ispettrice Milani era una delle poche detective capaci di risolvere quel rompicapo, perciò quando gli aveva telefonato per annunciarsi, lui s’era immaginato un epilogo differente. Per quale altra ragione quella donna avrebbe percorso tutti quei chilometri, da sola, dopo tanti anni? Invece era rimasto spiazzato, forse perfino deluso, nel constatare quanto si fosse sbagliato.
Zeta accese una sigaretta e strinse in pugno la collana che stava indossando: un girocollo in ossa carpali. Possibile che l’ispettrice non si fosse accorta di nulla? Neanche della calotta cranica trasformata in una ciotola piena di fette biscottate?
Diede un’ultima boccata alla sigaretta e sorrise, quando un pensiero sfiorò la sua mente. E se l’ispettrice avesse capito tutto?
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(Il racconto è liberamente ispirato alla vicenda irrisolta del "collezionista di ossa" della Magliana).
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purtroppo le ultime righe me lo fanno cadere completamente. vero è che avevo intuito, ma dire che le gambe del tavolo sono femori e tutte le altre cose ma lei non se n'è accorta... boh, mi sono cascate le braccia e mi spiace davvero.
per il resto è, ripeto, ben scritto e senza refusi, con ottime descrizioni
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Un’altra piccola incongruenza: Zeta dice che il soggetto ha tra i trenta e i sessant’anni, subito dopo “ha lavorato per venti anni a questa cosa”.
Risolvendo diversamente il finale il racconto ne guadagnerebbe molto.
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Bella l'immagine finale dell'uomo col "ghigno indecifrabile ". Ecco, il tuo racconto dovrebbe fermarsi lì, lasciando il lettore sospeso, lasciando intendere senza svelare troppo esplicitamente o magari limitandosi al particolare della collana, ma senza esagerare con tutti quei mobili e soprammobili fatti di ossa. Bello spunto per un film.
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