Tra gli applausi della folla

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Leonardo74
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Tra gli applausi della folla

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La battaglia contro il cerchio alla testa era perduta. L’intruglio alle radici di passiflora s’era rivelato un superfluo palliativo da erborista. Si voltò più volte sui fianchi, smaniando, grufolando in quella cuccia imbevuta di sudore, gravida di muffa e batteri.
Fuori un’alba plumbea dissipava il chiarore nebuloso dei lampioni a gas e penetrava in ogni spiraglio, costringendolo a coprirsi gli occhi con gli avambracci. La pioggia batteva sullo zinco della grondaia mentre il vento schiaffeggiava le pareti di lamiera. Il metallico trambusto era inframezzato da sordi muggiti vomitati dal firmamento.
Si sollevò a stento, avvolto dentro una coperta infeltrita.
Come si era ridotto? Un animale misantropo, un ammasso di stracci che cammina.
Sopra la vecchia stufa a legna, color verde trifoglio, erano poggiati un peltro, un barattolo di gelatina di vitello, del pane raffermo, qualche crosta di formaggio e una pentola ripiena di brodaglia. Qua e là campeggiavano bottiglie di assenzio e Vin Mariani. Un tinello in ceramica traboccava acqua per le perdite dal soffitto, mentre un gruppo di mosche andavano a ronzare sulla mensola in alto, dove c’era qualcosa fuori dalla sua portata visiva. Andò a tentoni e con uno sforzo afferrò un vasetto in vetro pieno di marmellata alle visciole. Le infestazioni di muffa erano solo in superficie, così infilò le dita in quella densa gelatina rossastra. Aveva quasi la consistenza della materia grigia, durante un’emorragia cerebrale. Quel sentore di sangue non ancora ben rappreso gli provocò una violenta erezione.
Dalla sacca di tela estrasse diversi ipotetici rimedi al suo stato di salute, rinchiusi dentro piccoli barattoli di vetro. Su uno c’era scritto “morfina”, su un altro “tintura di oppio aromatizzata”, su un altro ancora “laudano”, oppure ancora “stricnina curativa al cioccolato”.
Decise per una combinazione incoerente, a base di stricnina, alla quale aggiunse una manciata di polvere antipiretica Peretti, mescolata con dell’oppio. Dopo pochi istanti i suoi occhi si gonfiarono oltre la saturazione, imbalsamati in un umido sguardo bovino. Le lacrime si pietrificarono sottopelle, rimanendo imprigionate nelle ghiandole e nei condotti lacrimali. L’organismo sprofondò in uno stato di indifferenza, mentre la pelle cominciava a formicolare e dall’ippocampo sopravvenivano le prime allucinazioni.
Vide ragazzini e ragazzine senza volto che giacevano immersi in una pozza di sangue nero e denso, come carbone liquefatto. Poi vide la ragazza, Louise, e la rivoltella con la quale le aveva sparato quattro colpi. Il revolver era tirato a lucido, poggiato sopra un giornale e affianco c’era del solvente. L’afferrò e si passò la canna fredda sul naso, dentro i folti baffi, tra gli occhi. Doveva essere certo che non si trattasse di un’allucinazione.
Era reale.
L’amava, e lei non gli aveva lasciato scelta.
Strisciò il mirino sulle labbra, sullo zigomo lungo tutto il profilo sinistro, premendo contro la barba ispida. Poi cadde a terra in posizione fetale, madido di sudore. Sull’orizzonte sbieco della vista semiprona comparve ancora il volto dell’amata donna. Era bella, ma aveva umiliato i suoi sentimenti più puri.
Afferrò la pistola, chiuse gli occhi e si conficcò la canna in gola. Si può morire durante un’allucinazione? L’amaro della stricnina gli spalancò gli occhi, che videro ancora lei, con la testa spappolata che rideva di lui. Sguaiata, impietosa. Le sue labbra sussurrarono più volte “sangue”, poi estrasse la canna dalla bocca, insieme a qualche filamento di bava e a qualche lacrima finalmente sciolta e precipitata dagli occhi. Percepì se stesso come una larva che strascica lenta e inesorabile verso la follia e la morte.
D’un tratto il cuore prese a bussare sul petto. Gli venne la mascella rigida per l’adrenalina. Deglutii e gli sembrò di ingoiare dei pezzi di vetro. “Sangue, sangue”. Digrignò i denti. Tentò di mormorare ancora, ma la bocca era un forno e la lingua una lumaca morta.
Poggiò la volata dell’arma sulle labbra, facendosi strada tra i denti, che si opponevano. Uscì allora dalla bocca trascinando la canna sulla mascella, verso l’orecchio.
Esplose un colpo e il mondo si oscurò in un sibilo cieco.
Ne esplose un altro e tutto sembrò finito.

***

Nella sua lunga carriera di magistrato e giudice istruttore, Emile Fourquet si era già confrontato con avvocati difensori pronti a utilizzare l’infermità mentale per salvare i loro assistiti dalla ghigliottina. Charbonnier non era diverso. L’unico terreno praticabile per la difesa, nel caso Joseph Vacher, era quello della sua presunta irresponsabilità: il mostro agiva in preda a un raptus, a irrefrenabili pulsioni morbose e ossessioni sessuali.
La seduta privata, che si teneva in casa del paffuto giudice De Coston, anticipava di fatto i nodi che sarebbero emersi nel processo. Tra questi c’era l’internamento dell’imputato nell’istituto psichiatrico di Saint-Ylie, da tutti conosciuto come manicomio di Dole.
Nel tentativo di affermare l’infermità mentale del suo assistito, l’avvocato Charbonnier non lasciò nulla di intentato. Incominciò dal morso di un cane idrofobo, che il giovanissimo Vacher aveva subito quando era ancora un bambino, e proseguì con l’adolescenza e il maltrattamento che il suo cliente riservava agli animali, tagliandoli a pezzi mentre erano ancora vivi. Da maggiorenne le cose non erano andate meglio. Come candidato postulante tra i maristi di Sant-Genis-Laval, Vacher si era dimostrato troppo eccentrico e si era spinto a masturbare alcuni suoi compagni aspiranti maristi, infine a praticare atti contro natura sul giovane Bourde.
In quel periodo era rimasto sconvolto dal sermone di un missionario che esponeva tutti gli orrori accaduti tra i selvaggi, le mutilazioni e le torture a cui venivano sottoposti. «Inoltre», aggiunse rovistando nei suoi fogli «contrasse una malattia venerea. Ecco qui dei referti del dottor Girard di Grenoble, che lo curò per orchite blenorragica. Si sottopose poi al trattamento del dottor Gailleton ad Antiquaille, ma non funzionò, perdette una parte di testicolo e questo potrebbe spiegare perché in futuro avrebbe infierito sui genitali di alcune vittime».
Anche la sua esperienza militare, incominciata a ventidue anni, aveva confermato i gravi disturbi psicologici del Vacher. La difesa evidenziò alcune testimonianze di suoi commilitoni, che lo dipingevano come un soggetto minaccioso e violento: «si strappava i capelli e i peli dalle braccia, per mostrare la propria insensibilità al dolore. Intimidiva i camerati con forbici e soprattutto rasoi, che a quanto dicono aveva sempre in tasca. Vorrei ricordare che Vacher, contrariamente a quanto dice, ha usato il rasoio almeno otto volte in undici massacri».
Il delegato Benoist ricordò ai presenti che non era in discussione il fatto che Vacher fosse un uomo violento, si trattava bensì di stabilire se fosse responsabile o meno delle proprie azioni. Fourquet aveva annuito, compiaciuto, mentre l’avvocato della difesa, irrigidito, aveva alzato il tono della voce: «ho qui alcune lettere scritte da suoi compagni d’armi che lo dipingono come ossessionato da manie di persecuzione. Vedeva spie e nemici ovunque. Inoltre aveva l’idea fissa dello spargimento di sangue. Il suo compagno di stanza Grunfleder, poi divenuto sergente, sostiene che… cito testualmente…» affermò inforcando un paio d’occhialini e leggendo dal foglio che stringeva con la mano destra: «per numerose notti consecutive il Vacher si svegliava in preda a spasmi, tutto sudato, parlava da solo con discorsi strampalati, nei quali ricorrevano gesti minacciosi e la parola “sangue”». Poi sfilò gli occhiali e concluse: «Signori, Vacher è stato dimesso per disordini mentali con la diagnosi di delirio di persecuzione. Gli venne dato un congedo di quattro mesi, nella speranza che non si ripresentasse mai più».
Il giudice De Coston allargò le braccia: «abbiamo un incubo e il racconto di un commilitone. E un congedo temporaneo…»
«Un momento giudice», insisté lo Charbonnier, «vorrei completare».
De Coston assentì, col mento.
«Vacher, nel periodo in cui era nell'esercito, si era innamorato di una giovane, una certa Louise, che non lo corrispondeva. Tutti voi sapete come ha reagito: le ha sparato quattro colpi, poi ne ha sparati altri due nella sua testa, cercando di suicidarsi. L’emisfero sinistro del suo volto, deformato e paralizzato, è la conseguenza del proiettile che gli è rimasto conficcato nell’orecchio. Questo…» concluse, porgendo un documento al giudice, «è il rapporto medico-legale redatto dal dottor Guillemin, datato 12 settembre 1893. Stabilisce che il mio assistito soffriva di una spiccata follia e delirio delle persecuzioni, tali da renderlo irresponsabile delle proprie azioni».
Terminato l’ascolto della difesa, il giudice introdusse l’uomo seduto alla propria destra, pregandolo di prendere la parola.
Il professor Alexandre Lacassagne era considerato un luminare in tutta la Francia come esperto di medicina legale, nonché antropologo criminale. Nei mesi precedenti aveva potuto interrogare a lungo l’accusato. Avvolto dentro un elegante doppiopetto, esibiva una fronte fiera con profonde stempiature, compensate da folti baffi. La sua parola era tenuta in grande considerazione da tutti.
«Prima di tutto», esordì il professore, «vorrei ricordare alla difesa che Vacher uscì dall’istituto psichiatrico di Saint-Ylie completamente guarito, come dimostrano numerosi referti medici. Quanto ai miei rilievi posso assicurare che l’imputato sceglie le sue vittime. Il verbo utilizzato non è casuale. Lui opta per adolescenti che esercitano su di lui una speciale attrazione sessuale. È affascinato da carne fresca e giovane».
«Ha ucciso una donna cinquantottenne», interruppe Charbonnier.
«Se si eccettua la quale», lo incenerì il professore, «Vacher ha ucciso una decina di ragazzi e ragazze dai nove ai ventuno anni d’età, la grande maggioranza dei quali sotto i diciassette anni d’età. Ora però, prima che io prosegua», disse Lacassagne, «sarebbe utile che l’esimio dottor Boyer illustrasse il modus operandi del Vacher in base alle rilevanze oggettive sulle vittime».
Boyer ringraziò. Aveva fama d’essere un eccellente prosettore anatomopatologico. Era stato lui a esaminare tutti i rapporti forensi sul caso Vacher.
«Il modus operandi è tanto chiaro quanto raccapricciante», incominciò. «Il Vacher aggredisce all’improvviso, prendendo per il collo le sue vittime e strangolandole con le sue stesse mani. È un uomo vigoroso, dotato di una forza muscolare sopra la media, e unghie molto lunghe che in alcuni casi hanno ha lasciato evidenti segni sul collo. Dopo aver strangolato la propria vittima, Vacher la massacra con un coltello o con delle lame, praticando ferite irregolari e profonde al collo, come un macellaio, a volte penetrando fino alla colonna vertebrale. In genere il fendente viene praticato su un lato, aprendo una ferita trasversale, vicino alla mascella oppure più basso, a forma di “T”».
«Dottore», interruppe la difesa, «come spiega che un simile macellaio, che va in giro a dissanguare ragazzi, non avesse sangue suoi propri vestiti?»
«Dall’esame del gocciolamento degli schizzi e delle macchie ematiche», rispose il dottor Boyer, «emerge che tutte le vittime erano sdraiate a terra quando gli è stata tagliata la gola. Questo spiega perché fossero dissanguate, dal momento che le ferite al collo generano emorragie importanti, ma spiega anche la scarsa presenza di sangue sui vestiti dell’assassino».
Charbonnier scosse la testa, in un’espressione incredula.
«Con la vittima stesa a terra e semi-incosciente», proseguì il dottor Boyer, «il carnefice la mutilava e profanava senza pietà, praticando le sue perversioni, compresi atti di pederastia e coiti anali. In alcuni casi abbiamo notato perdita di feci dall'ano». Il giudice De Coston chinò il capo in avanti, tradendo un’espressione di disgusto. «Dietro all'apertura anale, vicino alla linea mediana, abbiamo ravvisato lacerazioni della mucosa, che indicano atti di pederastia recenti e reiterati. Ci sono evidenti segni dell'introduzione brutale di un corpo estraneo, mentre gli sfinteri sono ancora rilassati. Durante l’atto l’omicida il Vacher preleva i testicoli o i seni, con l’intero fascio vascolare-nervoso. La presenza di coaguli e sangue infiltrato mostrano che queste ferite vengono inferte mentre la vittima è ancora in vita, o quantomeno le funzioni vitali non sono ancora cessate».
A questo punto anche il delegato Benoist portò una mano a copertura della bocca, quasi avesse l’istinto di rimettere, mentre la sua fronte si imperlava di sudore.
«Signori», intervenne ancora il giudice De Coston, «sappiamo che si tratta di raccapriccianti manovre sanguinarie, implacabili e mortali, ma vi ricordo che siamo qui soltanto per stabilire se questo sia il lavoro di una persona consapevole, oppure, al contrario, l’opera di un pazzo incosciente».
A questo proposito prese la parola il pubblico ministero Fourquet: si lisciò i folti baffi e il paltò, sospinse con l’indice della mano destra i tondi occhialini, facendoli scorrere dalla punta del naso verso gli occhi, poi raccontò agli astanti di come il Vacher avesse discusso le proprie accuse punto per punto, in modo molto lucido, abile, con argomenti del tutto logici, che doveva aver maturato durante la permanenza in carcere.
«Nulla lo ha impressionato: non i magistrati, né i gendarmi, tantomeno le mie domande. Neanche l’imbarazzo della sua famiglia: potrebbe rinnegare i suoi stessi parenti senza provare alcuna pietà. Con i giornalisti il suo cinismo è ancora più rivoltante. Ha scritto degli appunti per la stampa, in cambio di denaro, all'insaputa del gendarme assegnato alla sua sorveglianza».
Mentre il magistrato parlava, il professor Lacassagne annuiva, finché intervenne in suo sostegno: «non è pentito di quel che ha fatto e neppure se ne vergogna. La completa assenza di manifestazioni sentimentali spontanee verso le vittime o i parenti è significativa. Siamo al cospetto di un criminale attivo, intelligente, previdente, al tempo stesso violento e ostinato, privo di sensibilità e con forti tendenze egoistiche, alimentate dal suo vivere senza contatti sociali. L’assenza di amicizie e di rapporti sentimentali lo hanno privato di ogni forma d’amore e di gentilezza, lasciando che i suoi desideri più istintivi potessero essere soddisfatti solamente attraverso la brutalità di atti che annichiliscono l’eccitazione dei centri nervosi da cui irradiano i sopra citati sentimenti».
Charbonnier appariva scuro in volto e contrariato, tentò di interrompere il professore, che con un gesto esplicito della mano lo pregò di attendere.
«Se spingiamo questa predisposizione al massimo grado», proseguì alzando il tono della voce, «si arriva a intuire perché Vacher faccia precedere l'atto sessuale dall'assassinio e dalla mutilazione degli organi sessuali delle sue vittime. Si tratta di una insensibilità morale che è tipica del sadismo estremo. In questo senso Vacher può ritenersi anormale, ma non certo irresponsabile. Al contrario è un ragionatore i cui atti sono del tutto ponderati e premeditati», concluse.
Di fronte alle obiezioni della difesa sia il Fourquet che il Lacassegne ribadirono la loro posizione: saltare al colo delle vittime per poi tagliargli la gola era un atto premeditato e deliberato che richiedeva audacia, freddezza, completo controllo di sé, perfino una certa convinzione - basata sull'esperienza - che il manuale operativo utilizzato conducesse l’aggredito rapidamente e fatalmente alla morte.
Anche la fase successiva, quella della macellazione, dimostrava una precisione, una calma e una volontà imperturbabili. La posizione distesa della vittima e il tipo di incisione sul collo, sembravano studiati per non sporcarsi di sangue. Perfino le operazioni effettuate dal Vacher sui cadaveri dimostravano una certa lucidità. Il carnefice non infliggeva colpi a caso, ma effettuava uno sventramento quasi scientifico, a volte completo. Sulla vittima di Vidauban, che era stata sventrata ancora viva, si contavano sette ferite all'addome. Era stato praticato lo sventramento mediante una lunga incisione dallo sterno al pube. Lo stesso sui due pastori di Bénonces e Saint-Etienne-de-Boulogne. La vittima di Saint-Honorat aveva lo stomaco aperto sul fianco destro, come quello di Truinas. Quanto alla vittime di Courzieu aveva le parti genitali esterne mutilate e aperte da una grossa ferita che risaliva alla pancia.
«Praticare questo sventramento e queste mutilazioni portava il Vacher a raggiungere il parossismo dell'eccitazione sessuale», sentenziò Lacassagne. «Non è un caso che questo scempio avvenga sulla vittima più giovane e sui quattro ragazzi. Perfino in quelle fasi di estrema agitazione il Vacher rimane un erotomane sadico, che infierisce sull’ano, sui seni e sui genitali. Il fatto che i vestiti di tutte le vittime siano stati trovati tolti, strappati, o parzialmente rimossi, indica come questi fossero degli ostacoli che Vacher rimuoveva per raggiungere l'ambita meta».
Charbonnier tentò un colpo di coda: «Lei parla di eccitazione sessuale, ma sappiamo che almeno due vittime non sono state violente. L'imene era intatto».
Il professor Lacassagne aveva una risposta anche per questo. «Le due vittime a cui si riferisce», disse, «erano entrambe sventrate e orribilmente mutilate. È possibile che l’aggressione, lo strangolamento, la macellazione, la vista del sangue, lo squarcio della carne, tutto ciò era abbastanza perché questo sadico abbia eiaculato senza dover arrivare alla penetrazione».
«Ma l’eccitazione sessuale non dovrebbe appunto essere qualcosa che porta l’aggressore a perdere il controllo?»
A questa domanda tentò di rispondere Fourque: «il professore sta cercando di spiegarle che Vacher sceglie le proprie vittime, sceglie anche il momento e il luogo del delitto. Inoltre utilizza un metodo ben preciso. Devo aggiungere che anche dopo il misfatto si comporta con abilità e cautela per evitare di essere scoperto. Ad esempio cammina tutta la notte, allontanandosi dal luogo del delitto, oppure nasconde il cadavere dietro qualche siepe o nei boschi, coprendone il corpo con foglie e asciugando le pozze di sangue con la terra, per ritardare i tempi della scoperta. A Saint-Ours, Vacher chiuse la porta di casa a doppio giro e tolse la chiave. A Tassin, addirittura, buttò il cadavere in un pozzo. Sono questi i modi di un impulsivo, di un pazzo che agisce in modo inconsapevole?»
«Tutte queste premure», chiosò il professor Lacassagne, «testimoniano di atti ponderati e premeditati, proprio come la sua lettera di confessione con la quale vuole apparire alienato e irresponsabile, quando invece non lo è».
L’ultima parola spettò ancora al magistrato Fourquet: «proprio in questi mesi abbiamo un altro criminale simile al Vacher che sta seminando morte in Inghilterra. Ho sentito dire che lo chiamano Jack lo squartatore. L’unica differenza è che gli inglesi gli hanno attribuito un nome di fantasia, perché non riescono a prenderlo. Noi, signor giudice, abbiamo quello vero, lo abbiamo acciuffato. Mi auguro che gli daremo la punizione che la legge prevede».

***

L’inizio della fine è un suono stridulo, come quello di un maiale scannato. Però più metallico e squillante, come una lama. Come il coltello del macellaio affilato sull’acciaino. Come un rapace a cui hanno appena sottratto i cuccioli.
Il condannato giunse al patibolo a Champ de Mars con una carrozza trainata adagio da un ronzino pigro e indolente.
Dai sedili del calesse, immerso nell’aria frizzante del primo mattino, osservò la sua ultima alba, arancione e zuccherina come un pompelmo.
Il cappellano della prigione non se la sentì di intercedere presso Dio di fronte all’immensità di tali colpe. Era stato necessario chiamare un sostituto. Così il morituro era stato assolto dai suoi peccati dal coraggioso padre Roman, grazie al quale la sua testa sarebbe rimbalzata più leggera sul palco di legno, dove il boia lo attendeva.
Gli spettatori più disturbati già fantasticavano che la testa rotolasse giù dal palco con la giugulare mal recisa che imbrattasse di sangue le prime file. I più morbosi auspicavano lo squartamento. Perlomeno che la testa del mostro venisse conficcata su una pica, a margine del palco. I giocatori di lotto s’apprestavano a contare gli schizzi di sangue lasciati a terra, auspicio di possibili vincite. I più compassionevoli s’auguravano in extremis un gesto di pietà del Vescovo. Altri confluivano con lo stesso spirito col quale si recavano a uno spettacolo circense: era la folta schiera dei curiosi, che non si potrebbero ascrivere a nessun’altra categoria.
Alle sette meno un minuto Vacher svenne. Lacassagne aveva previsto anche questo. Sarebbe morto da codardo, dando così un'ultima prova che la spada della legge non stava colpendo un pazzo. Fu condotto agli ultimi metri come fosse un sacco di patate e il suo collo posizionato di peso tra i due montanti a forma di semiluna.
Tutti ammutolirono alle ore 7 in punto di quel giorno dicembre di fine secolo, nell’anno del Signore 1898, quando Joseph Vacher non udì il suono stridulo del suo trapasso. Quel rumore lacerante fu accompagnato da un’espressione collettiva di stupore. L’aria scintillò d’adrenalina mentre la mannaia veniva liberata, pronta per l’impietosa discesa.
Quaranta chili di lama d’acciaio impiegarono poco più di un secondo per compiere la loro corsa verso il basso: due metri e venticinque centimetri, dalla puleggia del macchinario al collo del condannato.
In quegli istanti, che preludevano ai rimbalzi della testa sul patibolo, una macabra e vergognosa eccitazione serpeggiò tra gli astanti.
I resti del mostro furono gettati in una bara situata accanto alla ghigliottina, tra gli applausi della folla.

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Racconto liberamente ispirato alla vera storia del serial killer Joseph Vacher. La principale fonte di informazioni è stato il libro “Vacher l’éventreur et les crimes sadiques”, di Alexandre Lacassagne.
Ultima modifica di Leonardo74 il 09/12/2022, 13:11, modificato 2 volte in totale.
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Marino Maiorino
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Re: Tra gli applausi della folla

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Il racconto è ben scritto, a parte l'uso di troppe virgole che rompono i periodi quando non ce ne sarebbe alcun bisogno.
Alcuni vocaboli mi sembrano fuori posto: ho notato un "tinello" dove avrei visto un "catino".
È indubbia una ricerca storica la cui fonte principale ci viene anche fornita.
È evidente lo sforzo per realizzare una sceneggiatura quasi cinematografica con l'esposizione di dettagli visivi vividi e calzanti al tempo dell'azione, eppure qualcosa resta freddo, distante.
Finalmente, le fila del racconto vengono raccolte nella frase finale, da quella folla che non è meno bestiale del condannato. Se è questo il senso del racconto, mi spiace solo che non sia reso più evidente, ma apprezzo il tentativo tutto sommato ben riuscito.
«Amare, sia per il corpo che per l'anima, significa creare nella bellezza» - Diotima

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Authors: Massimo Baglione and Alessandro Napolitano.
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La Gara 46 - Non più in vita

(maggio 2014, 17 pagine, 337,04 KB)

Autori partecipanti: nwLodovico, nwAnnamaria Vernuccio, nwNunzio Campanelli, nwPatrizia Chini, nwAwomanofnoimportance,
A cura di Ser Stefano.
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