L'uomo del banco dei pegni

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Roberto Bonfanti
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L'uomo del banco dei pegni

Messaggio da leggere da Roberto Bonfanti »

leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.

Era la quarta volta che quell’anello gli capitava fra le mani. Ormai lo riconosceva subito, come riconosceva i modi della persona che glielo portava per impegnarlo, il suo fare furtivo e sbrigativo era sempre lo stesso, anche se l’uomo ogni volta era diverso. Quattro uomini nel giro di poco meno di due anni. Non trattavano mai sul prezzo, anche quello si accontentò dell’offerta minima. Ma erano gli occhi che lo colpivano, scrutavano intorno senza incrociare il suo sguardo, cercavano aiuto nei pochi particolari che circondavano il suo mezzobusto che affiorava dietro il banco: lo scaffale alle sue spalle, le venature del vecchio bancone di legno, la sua incipiente calvizie. Gli occhi di un uomo segnato dalla vita, accompagnati da poche parole e da un sorriso triste.
Appena rimasto solo si rigirò l’anello tra le mani, lo soppesò, osservò i tre piccoli diamanti incastonati e la pregevole fattura, poi si soffermò sul bordo interno, sapeva già cosa c’era inciso, ancora prima di leggere con la sua lente le minuscole lettere in corsivo. Poi lo mise nel cassetto del bancone, il primo; l’anello non sarebbe rimasto lì a lungo, prima o poi qualcuno, o meglio, qualcuna sarebbe venuto a comprarlo. Un’altra persona si sarebbe domandata perché un anello chiaramente femminile arrivava sempre con un uomo e se ne andava con una donna, ma lui aveva sviluppato da tempo un’attrazione più per gli oggetti che per le vicende umane, la sua fantasia era ormai corrosa dall’abitudine.
Nel pomeriggio invernale vennero altri clienti, lui li accolse con fare professionale e distaccato, come sempre, ma ogni tanto, quando era solo, apriva il cassetto e dava un’occhiata all’anello, quasi a sincerarsi che fosse ancora lì, senza più riprenderlo in mano, gli bastava un’occhiata. Alle otto della sera l’uomo del banco dei pegni si mise il vecchio cappotto grigio, spense le luci del locale, chiuse con doppia mandata la massiccia porta blindata e abbassò la serranda, come faceva alla fine di ogni giorno da oltre trent’anni. Si incamminò a piedi verso casa, era una lunga passeggiata, ma visto la sera asciutta e non troppo fredda, decise di non prendere il 21 notturno, tanto non aveva fretta. A casa non c’era nessuno che lo aspettava.
Le strade erano quasi deserte a quell’ora, alcune vetrine dei negozi chiusi erano accese, addobbate per le prossime festività natalizie. Pensava che quello spreco di energia elettrica fosse quasi disdicevole, le spese per i regali sarebbero stati comunque inferiori a quelle dell’anno prima, solo i suoi affari erano migliorati grazie alla crisi economica, la gente aveva bisogno di soldi e anche chi, in tempi migliori, non avrebbe mai pensato di doverlo fare, ora non si faceva troppi scrupoli a impegnare oggetti di valore.
Prima di aprire il portone della malandata palazzina controllò la cassetta della posta, c’erano due volantini pubblicitari e la bolletta del gas. Mentre saliva le scale che portavano al suo appartamento al secondo piano aprì la busta, lesse l’importo e la scadenza: aveva ancora due settimane per pagare, la cifra era simile a quella del bimestre precedente, abbastanza irrisoria; si congratulò con se stesso per non essere un tipo freddoloso, accendeva raramente il riscaldamento e quel poco di gas che consumava per riscaldare l’acqua e cucinare i suoi frugali pasti non incideva troppo sulla sua economia domestica.
Girò due volte la chiave nella serratura ed entrò nel piccolo ingresso con le pareti ricoperte dalla carta da parati. Appese il cappotto all’attaccapanni a muro e andò in cucina. Riempì la pentola con l’acqua del lavello e la mise sul fuoco. Aspettò che bollisse, aggiunse il sale grosso e poi ottanta grammi di riso, misurati con la bilancia impegnata da una casalinga in difficoltà, diversi anni prima. Controllò l’orologio appeso al muro, calcolando l’orario di cottura, quindici minuti, che impiegò aggiornando il suo registro con le entrate e le uscite del giorno. Mangiò il riso in bianco, senza condimento, come faceva tutte le sere, accompagnato da due bicchieri d’acqua. Cenare leggero era una regola che si era imposto fin da giovane, prima come cura per una gastrite che lo aveva tormentato per anni, poi come abitudine di vita.
Dopo tornò ai suoi conti, per una mezz’ora, poi andò a coricarsi. Non possedeva una televisione, non l’aveva mai avuta, così come non leggeva mai i quotidiani, non ci teneva ad essere informato sulle cose del mondo, il suo negozio e le vicende del quartiere erano i suoi soli interessi. Disteso nel suo letto a una piazza pensò all’anello, chiuso nel cassetto del bancone, alle tre piccole pietre preziose e alla scritta nel bordo interno, poi si girò su un fianco e si addormentò.
Il mattino dopo si alzò, andò in bagno, poi si preparò la colazione: un pacchetto di cracker e una tazza d’acqua calda con il limone. Anche quel giorno decise di andare a piedi, gli piaceva camminare, incontrare le persone che andavano al lavoro, augurava il buon giorno a tutti, non gli importava se erano pochi quelli che ricambiavano il saluto. Non si curava troppo neanche di quelli che cambiavano strada per evitarlo, tanto sapeva che prima o poi sarebbero tornati da lui per saldare i loro piccoli debiti, l’età gli aveva insegnato la pazienza.
Quando arrivò al negozio alzò la saracinesca e aprì la porta blindata, entrò e la richiuse, non era ancora l’ora per iniziare l’attività, lui era un tipo metodico, amava la precisione. Andò ad aprire il cassetto e rimase a guardare l’anello per qualche minuto, poi, alle otto in punto, premette il pulsante sotto il bancone e fece scattare la serratura elettrica.
Il primo cliente della giornata fu una donna di mezz’età, gli mostrò una collana d’oro e fece la sua richiesta. Doveva averla fatta valutare, perché la cifra era abbastanza adeguata al suo valore. L’uomo del banco dei pegni trattò un po’ il prezzo, senza esagerare al ribasso, sapeva già a chi rivenderla con un discreto profitto.
Non era avido, anzi, si considerava quasi un benefattore, in fondo aiutava chi era in difficoltà, non era altro che un piccolo ingranaggio, una rotellina ben oliata di un sistema più grande e complesso che funzionava da tanto tempo e che avrebbe continuato a farlo ancora a lungo.
Ciononostante a volte pensava a come era cambiato, nel tempo, quel quartiere. Non era mai stata una zona tranquilla, piccoli delitti e misfatti erano all’ordine del giorno, molti dei residenti erano occupati in attività che spesso si svolgevano oltre i limiti della legalità, anche lui faceva affari ai quali non era conveniente accennare in pubblico, ma tutti lo conoscevano e lo rispettavano, nessuno si sarebbe azzardato a recare danno a lui o alla sua attività. Questo, almeno, fino a qualche anno prima. Ormai gli capitava sempre più spesso di vedere facce sconosciute che si aggiravano nei paraggi, occhi nei quali leggeva una disperazione diversa, più cupa e feroce; giovani che ignoravano le regole non scritte che assegnavano un ruolo preciso a ognuno dei vecchi abitanti di quella comunità. Nuovi vizi si erano insinuati in quelle strade, spesso alimentati dai figli di persone che non erano state capaci di trasmettere loro un codice d’onore che, per quanto distorto, aveva fatto in modo di mantenere un ordine nel quale ognuno poteva trovare un suo posto.
Poco dopo la riapertura pomeridiana entrò un ragazzo, lo riconobbe subito, non era la prima volta che veniva a proporgli un acquisto. Questa volta voleva impegnare un cellulare, sicuramente non era suo. Il vecchio tergiversò, non era interessato a quel tipo di oggetti, ma l’altro non voleva desistere, allora gli propose una cifra ridicola per il telefono, giusto per tagliare corto quella contrattazione. Il giovane si adirò, cominciò a sbraitare e insultarlo, sempre più furioso, incurante degli inviti ad andarsene, finché tirò fuori dalla tasca un coltello a scatto e glielo agitò in faccia, con fare aggressivo. L’uomo del banco dei pegni accarezzò il pulsante della porta, sotto il bancone, ma non lo premette, sarebbe stato come rinchiudersi in una gabbia con una belva feroce. Minacciandolo con la lama il ragazzo girò intorno al banco, aprì i cassetti e arraffò il denaro e l’anello, prima di darsela a gambe.
Lui chiuse la porta e andò nel retrobottega, prese una scatola di legno dallo scaffale e l’aprì. Tirò fuori la vecchia pistola, non sapeva se era ancora funzionante, non aveva neanche le pallottole, tanto non sarebbe stato capace di usarla. Era la prima volta, in tanti anni, che subiva un furto, si era sempre chiesto come avrebbe reagito nell’eventualità, se avrebbe provato paura o tentato una reazione, ma ora che era accaduto non era come l’aveva immaginato, tutto era successo così in fretta che quasi non aveva avuto il tempo di pensare. Rimise la pistola al suo posto e tornò nel negozio, riaprì la porta e si mise ad aspettare.
Nel pomeriggio vennero altri clienti, ma l’uomo del banco dei pegni era distratto e nervoso, la tensione per l’aggressione subita gli stava salendo piano piano, non concluse buoni affari quel giorno. Alle otto della sera chiuse il suo negozio e andò a casa.
Arrivato nel suo appartamento mise l’acqua a bollire, ma presto si rese conto di non avere fame, così spense il fuoco e tornò a rimuginare su quello che gli era accaduto.
Il furto dell’anello lo aveva scosso, forse più di quanto gli era sembrato in un primo momento. Non era tanto per il valore economico ma per una questione di principio, era l’atto in sé che lo angosciava. Lo vedeva come una mancanza di rispetto per quello che lui rappresentava per il quartiere, ma c’era anche qualcos’altro: ormai si sentiva legato a quell’oggetto, gli attribuiva un valore simbolico più che materiale, e ora gli sembrava che una parte di lui gli fosse stata portata via.
Andò a letto più presto del solito, ma quella sera aveva difficoltà ad addormentarsi, cosa inusuale per lui. Lo sgarro subito lo tormentava. Aveva deciso di lasciar perdere, in fondo il danno non era stato un granché ma, per quanto tentasse di scacciarlo, il pensiero del suo anello nelle mani di quel giovane arrogante, gli impediva di prendere sonno. Dopo essersi girato e rigirato più volte nel letto, si alzò e si mise a misurare a piccoli passi i pochi metri quadri del suo appartamento.
Si ritrovò a fissare il telefono che teneva nell’ingresso, appoggiato su un mobiletto di legno vicino all’attaccapanni. Era un vecchio apparecchio a disco, la compagnia telefonica gli aveva tante volte proposto di sostituirlo con un modello più attuale, con i tasti oppure cordless, ma lui aveva sempre rifiutato di cambiarlo, non amava la modernità e, per il poco uso che ne faceva, andava più che bene.
Dopo una lunga riflessione si decise a fare la chiamata. Compose lentamente il numero, aspettò con pazienza la risposta, disse solo poche parole, quelle necessarie, non una di più, poi tornò in camera e si infilò sotto le coperte.
Il mattino dopo, alle sette, uscì e s’incamminò verso il banco dei pegni. Quel giorno ignorò tutti i passanti che incontrava, anche quelli che di solito rispondevano al suo saluto.
Sul marciapiede, davanti al negozio, trovò un pacchetto, avvolto con carta marrone e legato con lo spago. Aprì la saracinesca e la porta blindata, entrò e poi la richiuse, esponendo un cartello con la scritta “torno subito”.
Appoggiò il pacco sul bancone, la confezione era anonima, non c’erano né mittente né destinatario. Tagliò lo spago e tolse via la carta, senza strapparla, la piegò accuratamente e la mise da parte, non amava gli sprechi. Dentro c’era una scatola da scarpe, di una nota marca sportiva, la soppesò, poi aprì il coperchio. L’interno era pieno di fogli di giornale appallottolati. Ne prese uno e lo spiegò distendendolo sul bancone e stirandolo ben bene. Lo lesse tutto, da cima a fondo, e lo stesso fece con gli altri, uno ad uno. Per tutta la mattina, ostinatamente, lesse quelle pagine, vecchie di qualche giorno, che parlavano di guerre, intrighi politici, cronaca nera, eventi sportivi e mondani, amori di soubrette e calciatori, recensioni di film e necrologi, palinsesti televisivi e annunci economici.
Spiegando uno degli ultimi fogli rimasti sul fondo della scatola trovò una sorpresa all’interno: un dito mozzato, forse un mignolo, sì, viste le dimensioni probabilmente era un mignolo. Infilato a quel dito c’era il suo anello, quello che gli era stato sottratto il giorno precedente. Andò a cercare un barattolo di vetro, ci mise dentro il dito, dopo aver sfilato il gioiello, e lo riempì con l’alcol che teneva nella cassetta del pronto soccorso nel retrobottega, quindi lo chiuse con il coperchio a vite e lo mise su uno scaffale, dietro a una vecchia sveglia in acciaio con le campane della suoneria.
Pulì accuratamente l’anello con un batuffolo di cotone impregnato con il disinfettante. Prima di rimetterlo al suo posto nel cassetto lo contemplò per qualche istante, lesse la scritta incisa nel bordo interno: “Per sempre”. Ancora una volta si domandò se per caso non fosse lui il vero destinatario di quella promessa.
Ultima modifica di Roberto Bonfanti il 30/09/2018, 10:38, modificato 1 volta in totale.
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Ida Dainese
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Messaggio da leggere da Ida Dainese »

Un racconto misterioso che lascia al lettore immaginare risposte e spiegazioni. La narrazione ha un andamento un po' lento con descrizioni che si dilungano sulla vita monotona del personaggio. Non si sa nulla del suo passato, di quali strane conoscenze abbia, perché si sia così isolato da tutti. Si ha l'impressione a volte che sia l'anello il protagonista della storia. L'attenzione si sposta verso la fine, su quella strana vendetta che sembra animare tutta la storia.
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Draper
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Messaggio da leggere da Draper »

Mettendomi nei panni dell'autore, non cambierei una virgola. Il ritmo è l'elemento che mi è piaciuto di più, e dal punto di vista di equilibrio fra azione e descrizioni l'ho trovato piuttosto armonico. Più che lento, è pacato, è un racconto che si lascia gustare, a patto che si facciano bene i conti con l'Ignoto. Ai lettori non necessariamente servono spiegazioni o risposte, è un testo ottimo e che non lascia passivi o indifferenti.
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Fausto Scatoli
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Messaggio da leggere da Fausto Scatoli »

mah, sono un po' combattuto. la storia è bella e misteriosa quanto basta, senza eccessi.
però l'ho trovato lungo e lento, troppo raccontato. la mancanza di dialoghi lo penalizza molto, a mio parere.
e poi segnalo due cose, a mio parere fondamentali:
1_sarebbe opportuno andare a capo più spesso, per rompere il muro di parole, impatto visivo poco gradevole.
2_alcune frasi sono troppo lunghe e andrebbero spezzate. basterebbe togliere qualche virgola e mettere dei punti.
a rileggerti
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Messaggio da leggere da Daniele Missiroli »

13.035 caratteri per un racconto che si snoda lentamente e che mi ha ricordato Dickens.
Anche Scrooge si comportava così.
Sono d'accordo con quello che dice Draper: "il ritmo più che lento è pacato".
Dato che ci sono degli intermezzi (la donna di mezz'età - nel pomeriggio vennero altri clienti) si poteva inserire del dialogo senza alterare il ritmo, credo.
In questo modo avresti anche "mostrato" il suo nervosismo, invece di descriverlo.
Qualche punto al posto delle virgole?
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Roberto Bonfanti
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Re: L'uomo del banco dei pegni

Messaggio da leggere da Roberto Bonfanti »

Grazie a tutti per i commenti, cercherò di far tesoro dei vostri consigli. Di solito il mio stile è minimale, frasi brevi, poche descrizioni, molti dialoghi, in questo caso ho voluto sperimentare, cercando di rendere, anche con lunghe descrizioni e ritmo volutamente rarefatto, il senso di monotonia della vita del protagonista.
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Nunzio Campanelli
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Messaggio da leggere da Nunzio Campanelli »

In effetti c'è una certa somiglianza tra il mio e il tuo racconto. Una questione di ambientazione, di dettagli. Le storie sono completamente diverse. A me il tuo racconto piace, non c'è dubbio, e pur essendo abbastanza lungo, la sua facilità di lettura lo rende comunque gradevole. Buono il racconto e buona la scrittura.
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