La Terrazza
La Terrazza
Il 1970 aveva da poco fatto la sua comparsa nel grande ingranaggio del tempo, nell'aria l'eco del '68 ancora era viva e palpabile ma lontano da un ragazzino delle medie come me.
I racconti che ci giungevano comunque erano affascinanti ma poco pubblicizzati, c'era solo una misera TV in bianco e nero con appena due canali.
La terrazza era sopra il terzo piano di una palazzina, in fondo a Via La Maielletta. Il proprietario era un uomo di mezza età, rispettosamente da noi chiamato Signor Antonio. Al piano terra aveva un consorzio che oggi avrebbe il nome altisonante di "consorzio agro alimentare". Per tutti noi era solo "il consorzio". La via era chiusa appena dopo di esso dal muro di recinzione della casa di Ernesto.
Il Signor Antonio non ci guardava mai di buon occhio, aveva con noi sempre un aspetto burbero di rimprovero. Certo a impedire di cementare la nostra amicizia ci si metteva di traverso pure la malasorte.
Avete presente un albero? Si riveste a sua protezione di una corazza spessa e dura chiamata corteccia. Questa aveva il brutto vizio di rispondere con tutta la sua forza agli oggetti che la colpivano, incluso le pietre che scagliavamo con la fionda.
Orbene, fino a qui niente di strano. L'unico problema era che lui le deviava con traiettorie machiavelliche che sarebbero sfuggite anche a un redivivo genio come Leonardo. Parecchie volte queste traiettorie finivano per infrangersi contro la vetrina del consorzio mandandola in frantumi.
Inutile dire che dopo poco bussava alle porte delle nostre case chiedendo il corrispettivo in denaro dell'acquisto del nuovo vetro.
Mia madre faceva la sarta, passava tutto il giorno con la sua Singer a cucire. Lavoro che la impegnava molto infatti, io sono stato cresciuto da un scricciolo di donna che mi viene il magone solo a nominare, la nonna Rosaria "Rosa". Un metro e cinquanta con la forza di un gigante e un amore infinito nei miei confronti.
Mia madre come tutti i bipedi aveva ai piedi due ciambelle, le scagliava con una mira da fare invidia a uno "shooters", i cecchini dei Marines. Non riesco a ricordare, ma credo che non mi abbia mai mancato neppure una volta. Chi la pigliava in pazienza era il mio grande papà adducendo a giustificazione il fatto che fossi un ragazzino. Mio padre, persona che ho amato e stimato tutti i giorni della sua breve vita. Forse posso addirittura dire di essere a sua immagine e somiglianza per quanto lo ammiravo. Ma... niente, mia madre era convinta che era meglio flagellarmi a ciambellate.
Ma basta menare il can per l'aia, anche perché povera bestia non ci aveva disturbato affatto. Torniamo alla terrazza.
Il Signor Antonio pur non vedendoci di buon occhio ci lasciava andare perché con noi c'era suo nipote Giancarlo, detto "Pablo". Il soprannome era originato dalla profondità dei suoi pensieri e come omaggio a Pablo Neruda. Infatti oggi Pablo è uno stimato professore di filosofia negli istituti di media superiore, tant'è.
Il secondo si chiamava Ottorino abbreviato ad "Otto", due anni più grande di me. Ragazzo serio da Liceo Scientifico.
Il terzo era Fabrizio, anche lui abbreviato a "Brizio". Quando volevamo farlo arrabbiare, ai nostri tempo la espressione "girare le palle" non era ancora stata coniata ma rende l'idea, allora lo chiamavamo "mammuttello" per via di una leggera pinguedine che lo affliggeva da giovinetto. Ovviamente non si esagerava perché delle volte non la prendeva per il verso giusto e se ne andava. Non molto studioso tipo da Istituto Tecnico appena sufficiente.
Poi arrivo io soprannominato "Joe West". Il soprannome lo coniò Otto perché secondo lui guidavo la graziella come un selvaggio, a tal punto da ricordargli i personaggi che cavalcavano speditamente nei film di quel genere. Certo loro non erano da meno, aspettavamo la pioggia per andare a fare le derapate con le bici sul fango. Il risultato era che ci combinavamo come porci, ma il soprannome me lo tenevo io.
Sulla terrazza ci andavamo la sera dopo cena, nelle notti afose d'estate quando le scuole erano in vacanza. Come vista c'erano solo le campagne di "Zì Ursin" recintate da una rete, tantissime lucciole, olivi e ciliegi meta dei nostri raid a maggio. Zì Ursin, che lo sapeva, ci faceva gli agguati nascondendosi con un bastone, da qui la mia passione per lo sport. Facevamo gli 80 metri a tutta e poi il salto della rete, ma niente medaglie salvavi solo le chiappe dalle bastonate.
Per compagnia avevamo la chitarra di Otto, dire che suonavamo era sicuramente una esagerazione, “strimpellare” è il termine più adatto alla descrizione. Con un semplice giro dell'accordo di DO sono state coniate un’infinità di canzoni quindi, alla fine, qualcosa si riusciva a fare tutti. Cantavamo le canzoni di Lucio Battisti seguendo le parole sui libricini che acquistavamo nelle edicole a poche centinaia di lire. Anche per la radio era la stessa situazione della TV, solo due canali e per ascoltare una canzone di successo a volte non bastavano le giornate.
A una data ora dovevamo smettere per non disturbare chi cercava di riposare, le finestre delle camere erano aperte. I climatizzatori erano in là da venire.
Mettevamo via la chitarra e ci allungavamo supini con le braccia all'insù in modo da farci cuscino dentro il palmo delle mani infilate sotto la nuca. Così si cominciava a parlare, ognuno esponeva qualcosa e si discettava di varie argomentazioni. Ogni tanto c'era una battuta ricorrente quanto scontata, se si avvistava nel cielo un oggetto che si muoveva velocemente si faceva a gara a guardare l'orologio per dire "l'ufo delle ore 00:10", giochi innocenti…
Certo un argomento ricorrente delle nostre conversazioni era il futuro e tutto quello di grande che avremmo fatto per cambiare il mondo. Quando sei un giovinetto la vita la senti come un fiume in piena, possente nella sua corsa verso il mare, indomabile e capace di spazzare via tutte le ingiustizie del mondo in cui vivevamo. Avremmo fatto questo e quello perché era giusto, lo sentivi, era impellente dentro di te che ti esplodeva nel petto. Certo eravamo dei sognatori ma da giovani la vita “è” un sogno, dovresti avere un'altra possibilità dalla vita, rinascendo saresti molto più ponderato che sognatore. Mentre tutte queste parole sgorgavano senza sosta gli occhi erano fissi al cielo, anche per scoprire l'improbabile ufo delle 00:25, ma soprattutto perché il fascino di un cielo stellato ti rapisce. Io avevo la sensazione di potermi liberare della opprimente gravità terrestre e con leggerezza sollevarmi nell'aria. Avevo la sensazione che aprendo le braccia mi sarei librato nell'aria salendo verso il cielo come un Dio. Pensate, nel 2000 avrò 42 anni, questo numero 2000 ricorreva spesso anche perché influenzato dai racconti di fantascienza foriera di miracolosi aggeggi per smaterializzarsi o volare in un batter d'occhi su un altro pianeta.
Poi piano piano la vita asciuga il tuo fiume, gli toglie impeto e forza. Passi il 2000 senza che nulla sia cambiato, anzi a volte ho l'impressione che siano stati anni buttati al vento e che l'uomo non abbia voluto imparare nulla.
Guardi con nostalgia quello che oramai è un ruscello, l'acqua non è più quella limpida che potevi bere senza timore ma ha un colore scuro e limaccioso.
Ti volgi con gli occhi verso il cielo implorandolo di donarti ancora un sogno perché ti dia la forza di svegliarti domani e ancora domani. Cerchi la forza di sentirti leggero e di sollevarti su tutte le miserie che ti circondano e che ti stanno uccidendo. Lo preghi perché non vuoi, svegliandoti, essere di un giorno più vecchio e di un giorno più vicino alla meta finale della tua vita.
Lo prego tutti i giorni, perché il cielo è giusto. Se volgi gli occhi a lui vedi le stesse cose che vedo io, ti può dare la stessa forza che io gli imploro. Sono le persone a essere sbagliate, non lui…
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Re: La Terrazza
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Ho letto questa tua opera e ho ritrovato alcuni dettagli anche della mia infanzia/adolescenza perché sono più o meno coetanea del tuo protagonista. Questa è la parte più tenera del tuo racconto, con i ricordi buoni e allegri. Verso la fine diventi invece più malinconico e si sente quel pizzico di cinismo e di rimpianto che ci ritroviamo tutti da adulti.
Queste considerazioni che fai, però, allontanano da quello che è il cuore della narrazione, che dà anche il nome al titolo. Inoltre cambia il soggetto narrante e anche questo contribuisce a staccare il finale dal corpo del racconto.
Bello è il modo in cui descrivi quei giorni lontani, è quello del ragazzino di allora, si sentono il suo sguardo, i suoi sentimenti, il suo essere felice nelle cose belle e nelle birichinate. Penso che dovresti aggiungere qualche virgola per migliorare alcune parti e ho un dubbio su questa frase: "quando le scuole erano in vacanza".
Sono i bimbi che vanno in vacanza, quindi dovresti dire "erano chiuse per" ma potresti anche togliere questo pezzetto perché si sa che d'estate (e per di più nelle notti afose d'estate) le scuole sono chiuse.
Perdonami per averti fatto un po' a pezzi. Leggerti è stato comunque un piacere.
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Re: La Terrazza
tranquilla sono ancora tutto intero. Ti ho letto con attenzione è sicuramente, avendo molta più esperienza di me, avrai ragione su tutto. Mi riprometto, quando rivedo Max, di farmi spiegare alcune cose che mi sono poco chiare.
Per quanto riguarda "le scuole erano in vacanza" l'ho scritto volutamente. Mi piaceva immaginare che stessero chiuse riposando dai ns schiamazzi, finalmente in santa pace.
A presto risentirti.
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Forse manca una struttura alla storia: la continuità tra le parti della narrazione. Poco male; essendo un flusso di pensieri e di impressioni ci sta.
Mi è piaciuto il linguaggio spontaneo della memoria con la sua urgenza di mostrare il collage di emozioni che rendono significativi certi episodi di un tempo mai morto. Mi sono rimaste la paura delle ciabattate della mamma, essere “bipede” dalla mira infallibile, l’ammirazione per il padre che ha lasciato in dono non solo la lezione della pazienza, la ruvidezza del proprietario della palazzina e del consorzio che si confonde con la corteccia quasi magnetica dell’albero in grado di rendere ancora più eccitanti le bricconate dei ragazzi del quartiere (anche se un po’ contorta questa parte in cui non è esplicito se l’identità del soggetto che incassa i colpi sia dell’albero o del Signor Antonio, o almeno non è chiaro a me), le scuole che quando chiudono “erano in vacanza” alludendo a contesti di rilassata beatitudine agli occhi di studenti “svogliati”, i soprannomi dei compagni di scorribanda con cui si condividevano canzoni, giochi, piccoli furti vegetali, avvistamenti di ufo, desideri, fiumi di vita e di parole.
La terrazza del titolo è il luogo della confidenza e del racconto per i ragazzi del passato, ma non solo questo. Immersa nel miscuglio di ricordi diventa anche metafora dello spazio in cui il narratore, ora cresciuto, condivide le sue considerazioni. La terrazza diventa pretesto per affermare l’amarezza dell’età matura che serba la consapevolezza di aver perso, nelle battaglie dell’esperienza, la vitalità, la forza e la leggerezza che furono.
Non se n’è andato invece il desiderio di poter ancora alzare gli occhi al cielo per trovare un sogno da realizzare, una lezione da apprendere, una causa giusta in cui credere, e un senso da scovare e poi tramandare.
Forse non se n’è andata neppure la voglia di farsi rapire da quell’extra terrestre che sicuramente aspetta, anche lui invecchiato, di essere ancora avvistato da chi non ha mai smesso di guardare in alto! In fondo non è vero che il cielo rende tutti gli esseri, e non solo quelli umani, più vicini e uguali?
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è vero che si tratta di un ricordo, però due dialoghi per spezzare il monologo credo li avrebbero graditi tutti. a meno che sia solo una mia fissa, nel qual caso chiedo scusa.
è una rivistazione del periodo della vita nel quale pensi di poter fare tutto quanto, anche spaccare il mondo, fra le altre cose. ma soprattutto non sei molto proiettato nel futuro "tanto c'è tempo per pensarci".
e invece il tempo ti frega e ti ritrovi oggi a guardare indietro con rimpianto e nostalgia.
penso accada un po' a tutti.
da questo lato mi è piaciuto, il racconto.
a rileggerti
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Sono d'accordo con Laura: ho letto un "torrente di parole" che si sono trasformate in immagini.
Le mie immagini.
Anch'io sono stato colpito dalle ciabatte.
Poi sono cresciuto e mia madre ha usato il manico della scopa.
Finché non l'ho spezzato in due. Va be', altri tempi.
Il giro di DO, la gara di rutti, il desiderio di incontrare un Ufo.
L'unica cosa che mancava nelle nostre serate a osservare il cielo stellato era il numero 2000.
Si viveva alla giornata, cercando di averne una sempre migliore della precedente.
Il futuro non esisteva, contava solo il presente.
Racconto scritto bene, molto evocativo, con personaggi descritti in modo credibile.
Solo il finale volge alla tristezza. Non lo avrei messo.
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