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Marino Maiorino
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leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.

Siamo davvero fatti a immagine e somiglianza del nostro Creatore:
siamo polvere di stelle che ama, non ricambiata.

Prima che i prodi elleni dai grandi scudi di bronzo giungessero nel Mediterraneo, un’orsa guidò il nipote del capo-clan del lupo verso nuove terre fino al fiume-che-scorre-sotto-la-terra, come predetto da un oracolo, e un nuovo clan era nato, un nuovo villaggio era stato fondato col nome del monte che dominava imponente le terre dei padri.
Una sola generazione e il racconto di quell’impresa era diventato mito, allora che l’uomo rispettava e temeva la divinità nella Natura e nelle sue molteplici forme, allora che una fanciulla poteva vagare senza alcuna paura per boschi che non avevano conosciuto l’ascia.
Nel pieno rigoglio della sua bellezza, Isora percorreva colline frondose con un passo veloce, non ostacolato dal confortevole chitone adatto a correre e saltare tra alberi e cespugli. Sulle spalle aveva sempre un sottile arco da caccia in legno di cipresso, una faretra e una rete. Conosceva i boschi, Isora, né avrebbe potuto essere altrimenti: la vita del villaggio e la propria dipendevano da quella conoscenza. Lei, sacerdotessa della Dea, aiutava le donne a partorire, gli uomini ad attendere alle fatiche del suolo, i malati a guarire con erbe medicamentose. Udire l’approssimarsi di un agile cerbiatto, incoccare un dardo, vedere e centrare la preda in un solo gesto era alla sua portata: quale offerta avrebbe potuto essere maggiormente gradita alla Dea?
Che bella bestia! Le mani esperte di Isora la scuoiarono sul posto e la fecero a pezzi: sarebbe stato più facile trasportarne i resti nella capace rete, piuttosto che caricarsi della carcassa intera.
E poi c’erano i comandamenti della Dea, da onorare: ogni vita nutre molte vite, e Isora dispose i resti della caccia tra le radici degli alberi, su rocce nude e piatte, nel mezzo di sentieri aperti nel fitto sottobosco dal passaggio degli animali.
Terminate le offerte rituali, la ragazza si accorse di essere tutta macchiata di sangue e no, così non andava proprio: bestie feroci e affamate sarebbero state attratte dall’odore, ma lì vicino c’era un corso d’acqua fresca, Isora vi si diresse per lavarvisi.
Depose sulla riva tutto quanto aveva con sé: la rete con i resti della caccia, l’arco, il coltello, gli indumenti. S’immerse nell’acqua limpida e rinfrancante e dimenticò quanto tempo era necessario per tornare alla sua capanna, laggiù al limitare del villaggio.
Godendo di quel bagno non s’accorse dell’allungarsi delle ombre nel meriggio assolato, di come presto avrebbe dovuto cercare un riparo di fortuna per la notte, ma che importava? Il mondo era bello e senza pericoli, in quei giorni. Anzi, da una cascatella, dalle lunghe foglie e dai rami aggettanti sull’ansa riparata, grosse gocce cadevano ritmicamente a comporre una musica alla quale la giovane non si sottrasse, al contrario vi si abbandonò come fosse stata una richiesta della Dea e, muovendo prima la testa, poi le braccia in superficie, prese a provare dei passi di danza sentendo il proprio corpo più leggero nell’acqua, perché dov’è che Isora non ha danzato?
Quando s’avvide delle prime luci del crepuscolo era già tardi: si rivestì rapidamente, raccolse le armi, la preda, e si diresse verso il bordo della foresta, verso le cime dei colli, dov’era più probabile trovare qualche grotta per ripararsi durante la notte.

La luce del dì era già scomparsa da un pezzo quando, sulle pendici del Latmos, intravide da lontano, nei pressi di una parete rocciosa, un gregge di pecore immerso nel sonno. Temette che nei dintorni vi fossero pastori, perché la giovane aveva fatto voto di servire solo la Dea e non poteva perciò rischiare di diventare preda del desiderio di un uomo.
I due cani che accompagnavano il gregge annusarono l’avvicinarsi della ragazza: il forte, tipico odore della carne di cervo non poteva essere nascosto e li aveva messi in agitazione, ma l’istinto di cacciatori aveva suggerito loro di non abbaiare per non far scappare la preda che si avvicinava.
Isora ebbe così gioco facile ad ammansirli offrendo loro due succulenti bocconi che le bestie presero a masticare appartate, tenendo la golosa preda tra le zampe e senza più badare ad altro; poi la fanciulla si diresse verso la roccia, dove intravide l’imboccatura di una grotta.
Dalla rete estrasse una maschera fatta di pelle d’orso e l’indossò: un segno dell’appartenenza al Culto. Avrebbe potuto incutere rispetto in chi l’avesse vista o forse no, l’uomo è così imprevedibile, ma lei si sentì più protetta con quella vecchia pelliccia sul capo.
Entrò nella grotta di soppiatto e vi vide steso Endimione, pastore di un altro villaggio. Stanco dopo una lunga giornata trascorsa a badare al gregge, aveva trovato anch’egli rifugio lì e dormiva un sonno ristoratore. Russava, naturalmente, come chiunque si sia dedicato infaticabile al proprio lavoro, e ciò tranquillizzò la giovane che vide il piccolo fuoco da campo sul punto di spegnersi, volle godere un po’ di quel tepore e pensò che ne avrebbe approfittato fintantoché il pastore dormiva.
Raccolse qualche ramo secco dalla radura antistante la grotta e lo depose sul fuoco, che si riattizzò. Ah, il benedetto tepore di un fuoco durante la notte nei boschi! La luce si fece più vivida e Isora provò la curiosità di sapere chi fosse quel pastore, donde venisse, quanti anni avesse… Così i suoi occhi si posarono su Endimione che mai lei aveva visto prima, e quel corpo, quel viso, l’innamorarono al primo sguardo.
Giovane Endimione dalle membra aggraziate come quelle d’una fanciulla eppure virili, senza dubbio! Che dissidio lacerante: era contravvenire ai voti il solo godere della vista di quel corpo dormiente, di quel viso che invitava a baci ardenti? La ragazza si avvicinò al giovane e, nel voltare il capo, la maschera cadde rivelando il viso.
Un «Oh!» di sorpresa sfuggì dalle sue labbra e il riposo di Endimione ne fu interrotto. Tra il sonno e la veglia, il giovane aprì gli occhi per un istante e ciò che vide l’attribuì a un sogno: che altro poteva essere l’accecante bellezza che si stava chinando su di lui, avvolta dalla luce della Luna che entrava dall’imboccatura della grotta? Richiuse gli occhi, si rigirò nel suo giaciglio e desiderò di tornare subito in quel sogno, inseguire quella folgorante bellezza.
Isora si rimproverò l’essere rimasta impietrita: aveva corso il pericolo di essere aggredita da un uomo, per fortuna non era successo niente ma… ma…
Osservò il massimo silenzio, attese che il pastore tornasse nel sonno profondo e andò via prima che si destasse, tornò al proprio villaggio.

Né lei né il pastore trovarono requie nel ritorno alle loro occupazioni quotidiane, entrambi erano presi da un altro pensiero che spesso interrompeva qualunque cosa stessero facendo: chi era quel volto su cui non era possibile indugiare col solo ricordo senza essere presi da un’ardente passione? Isora sapeva che Endimione era un pastore che forse alle volte riposava col suo gregge in una tal grotta lontana, ma Endimione…
Lui si struggeva d’amore senza alcuna speranza di poter rivedere quel viso tanto desiderato, che solo poteva comparare in bellezza e splendore alla stessa Selene, se non fosse stato sacrilegio dire così: i sogni sono materia che l’uomo non può comandare.
I sogni, il sonno. Egli prese a dormire in qualunque momento: tale era la bellezza contemplata in un unico istante del proprio dormiveglia, che al confronto tutto il resto della propria esistenza non aveva più valore. Dormire era l’unica cosa che desiderasse, dormire per poterla rivedere in sogno.
Fu così che la gente del suo villaggio prese a estraniarlo, perché un pastore per il quale ogni istante è buono per dormire anziché badare alle greggi non è di alcuna utilità, ed egli decise allora di ritirarsi a vivere in solitudine, lontano da tutti, lì dove il suo sogno si era palesato la prima volta, dimentico di ogni altro assillo, di ogni altra cura. A quella grotta tornò, appena preparandosi un giaciglio, affinché ogni cosa fosse esattamente come quella notte, affinché nulla ostacolasse il ripetersi del sogno.
Lì tornò Isora, preda di un amore impossibile perché i suoi voti non erano sciolti. Scesa la notte, s’accorse che qualcuno era nella grotta perché un piccolo fuoco vi crepitava. La fanciulla entrò e rivide l’amato viso, le amate forme, distese, consumate da un deliquio che lei riconobbe perché lo stesso fuoco consumava anche lei, ma mai, mai fece alcunché per destare Endimione, la cui sola contemplazione era sufficiente a soddisfare ogni suo desiderio, ed era il tossico che la vincolava a ripetere ogni notte come un insano rituale la visita al bel dormiente. Prima dell’alba gli si accostava, appoggiava un bacio nell’aria sulle labbra di lui, desiderava ch’egli si destasse finalmente, ma il desiderio di Endimione di trovarla nel sonno era troppo forte, ed egli non si svegliava mai.
Dicono che la cosa si ripeté per molte e molte notti, finché pochi seppero cosa ne era stato di Endimione, e i più non lo rividero. In accampamenti notturni, intorno a un fuoco, nacque la storia del pastore che aveva osato contemplare la nudità della Dea presso una fonte d’acqua, e che per quell’insolenza era stato trasformato in cervo e sbranato dai cani, o altre punizioni più terribili gli erano state inflitte, ma sempre egli era stato sottratto ai suoi simili, forse portato tra le stelle.
E ancora in tempi molto più tardi si raccontò che un pastore era stato irretito dalla bellezza di una ninfa, o di una fata chiamata la Dama del Lago, e per seguire quella bellezza si era alienato dalla propria gente che non riusciva più a comprendere il suo agire.
Nella realtà, molto apprese Endimione dalla vita nella solitudine, quando era desto, e venne così considerato al pari di uno stregone o di uno sciamano da quelli che ancora lo ricordavano. Di tanto in tanto qualcuno passava a trovarlo presso la grotta, e a chi gli chiedeva della sua vita lì, del suo sogno, di cos’avrebbe fatto, visto che nel sonno continuava a non trovare traccia della sua amata, rispondeva con la disperata sicurezza di chi ama: «Aspetterò!»

Passarono così le stagioni e gli anni, e finalmente Isora, nella pienezza della sua maturità, fu sciolta dai voti e passò ad altra fanciulla le incombenze del culto della Dea. Libera da ogni vincolo, una notte si recò presso la grotta dell’amato intenzionata a destarlo, a rivelargli la propria identità, a dirgli che la donna da lui per tanti anni considerata solo frutto di un sogno era fatta di carne, e che ricambiava il suo sentimento. Ahimè, troppo tardi: nella mano dell’uomo, immerso in un sonno senza ritorno, Isora riconobbe bacche di atropos, oggi nota come belladonna. Consumato da tanti anni di infruttuosa attesa, pur di raggiungere nel sonno l’oggetto del proprio desiderio, Endimione aveva cercato l’amata nelle allucinazioni prodotte da quella pianta, il cui abuso è letale.
A vederlo sembrava fosse riuscito nel suo proponimento: il suo volto, rivolto all’imboccatura della grotta, era perso nell’estasi di chi vede la persona amata, e gli occhi ancora aperti sembravano guardare proprio lei. Non un solo giorno sembrava aver velato la pura bellezza dell’uomo del quale si era innamorata una notte tanto lontana.
Pianse, Isora, lei che aveva consolato tanti del suo villaggio per la perdita di una persona amata, e allora le tornarono alla mente gli insegnamenti della Dea, si stese accanto al corpo di Endimione, l’abbracciò e recitò:

[i]Una volta urania mi mostrai,
terrena mi sapesti giammai,
ctonia per sempre mi avrai.[/i]

Masticando le bacche che Endimione stringeva tra le mani, lo baciò e lo raggiunse nella terra dove i sogni sono l’unica realtà.
Ultima modifica di Marino Maiorino il 24/09/2023, 8:42, modificato 1 volta in totale.
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Roberto Di Lauro
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Messaggio da leggere da Roberto Di Lauro »

In genere non leggo libri/racconti sulla mitologia greca, preferisco quelli della fantascienza (chissà perché !).
Questo tuo racconto, per com'è scritto, la trama e sviluppo, mi è piaciuto molto. Comincerò a interessarmi a questi racconti.
Voto 5.
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Marino Maiorino
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Grazie Roberto.
La fantascienza piace anche a me, non ne faccio un problema di genere, ma in questo momento sto cercando radici e fisso su carta quello che trovo mentre compio il viaggio.
Avevo cominciato a buttare giù un racconto di fantascienza che si richiamasse ai motivi della mitologia greca, ma stava diventando un trattato di filologia e l'interesse del lettore sarebbe andato a farsi benedire.
Chissà, quando avrò diverse cose più chiare, non escludo di riprenderlo.
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Andr60
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Messaggio da leggere da Andr60 »

Bellissimo racconto che mi rimanda alla memoria al saggio di R. Graves (letto molto tempo fa). Linguaggio adeguato, poetico ed evocativo dell'incantamento che gli antichi provavano verso la Natura e i suoi abitanti, uomini e animali. Il mito di Endimione è stato sfruttato dall'arte, sia classica che moderna, perché tocca temi universali: l'amore illecito, l'eterna giovinezza...
A noi contemporanei cosa può suggerire? Nel tempo della realtà virtuale, la rinuncia a una vita insoddisfacente per il sogno. Almeno finché paghi le bollette dell'energia elettrica :-D
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Marino Maiorino
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Grazie Andr60,
in effetti la citazione di Graves segue il cammino che sto facendo io, e mi lusinga la sfilza di aggettivi che hai attribuito al linguaggio che ho usato.
Temo però che del mito abbiamo perso le chiavi di lettura. Storicamente al mito di Endimione sono stati attribuiti diversi significati, addirittura s'è voluta riscontrare traccia della memoria dei primi uomini che osservavano la Luna.
Io l'ho "sentito" diversamente e questo ne è il prodotto, ma da un punto di vista filologico ho visto che s'intreccia con cose molto più "grosse" della fuga nei sogni, soprattutto in cosiderazione dei protagonisti (o meglio della protagonistA, della quale ho voluto mascherare il nome visto che per alcune popolazioni era tabú).
Ad un tratto cerco di spiegare qual è il mio pensiero al riguardo: "In accampamenti notturni, intorno a un fuoco, nacque la storia del pastore che aveva osato contemplare la nudità della Dea [...], e che per quell’insolenza [...] era stato sottratto ai suoi simili." Chi cerca la divinità può trovarla, a prezzo della propria umanità.
Ho gettato nel testo richiami più o meno espliciti ad altri miti coi quali ho riscontrato affinità, che alcuni lettori potranno divertirsi a sbrogliare.
Un saluto
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Selene Barblan
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Messaggio da leggere da Selene Barblan »

Un’ottimo racconto che si legge con piacere grazie al linguaggio ricercato e coerente con il tema e con l’impronta classica. Si sviluppa in modo sempre coerente spiegandosi e spiegando tutto nei tempi e nei modi giusti. Il finale è anch’esso piuttosto “classico”, non posso dire che mi abbia particolarmente sorpreso o colpito, ma non è necessariamente lo scopo di un racconto, quello di togliere il fiato. Non è proprio il mio genere preferito e quindi non sarebbe corretto dire che mi è piaciuto tantissimo, ma data la qualità oggettiva del racconto dò il voto massimo.

Voto 5
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Marino Maiorino
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Grazie mille Selene per il generoso giudizio.
Sì, in effetti sorprendere non era tra gli obiettivi di questo racconto, col quale volevo invece raccogliere e "riordinare" un po' di materiale sulla protagonista, e riproporre diversi altri spunti di rilettura del mito (quello esposto e gli altri che vi si intrecciano).
A presto.
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Namio Intile
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Messaggio da leggere da Namio Intile »

Ritorni al Mito, si vede che hai necessità di archetipi, di fissare ciò che conta, ma come in un'altra occasione anche questo mito in qualche modo lo rivedi, ne riutilizzi parti e lo reinterpreti, lo fai vivere in una narrazione moderna che risente e rispecchia la tua sensibilità di uomo moderno. E se il Mito si focalizzava su Selene ed Endimione, sul fascino e sul mistero delle fasi lunari, sull'irresistibilità e sulla verità di per sé della bellezza e della natura, sulla Necessità di un amore che sfida subito il volere degli dei e lo piega a sé, il tuo sentire si orienta verso una più cristiana attesa, che già il titolo richiama e di cui è indizio probante di un certo modo di vedere. E ci trovo soprattutto una calvinista posticipazione del piacere, che relega in un angolo i piaceri della vita. Anzi il nucleo del Mito di Marino sta forse proprio là in quel richiamo al dovere, alla necessità di onorare gli dei del lavoro e dell'impegno per primi e poi solo in ultimo, nel finale della vita, quando i legami sono sciolti, e i corpi sono ormai maturi, i desideri appannati, andare avanti, o tornare indietro, nella speranza di poter, non dico recuperare, ma di vivere nel tempo come se il tempo fosse una variabile neutra, come se il tempo non ci potesse cambiare. E quindi Isora ritorna a cercare Endimione come se anche per lui il tempo non fosse trascorso.
E se quell'Endimione aspetta ancora la sua Isora, in realtà quanti Endimione e Isora provano a recuperare il tempo perduto per poi trovarsi in un incubo? Quanti adolescenti di cinquanta e sessanta anni ho conosciuto? Hanno dedicato la vita a un dio e poi si sono accorti che quel dio non valeva nulla.
E quindi il tuo Mito, a differenza di quello Greco che sempre svela e risolve e apre al futuro, come ogni moderno Mito chiude il presente, annichilisce il futuro come fosse materia oscura, angoscia e costringe l'uomo.
Il racconto è un buon racconto, didascalico nella descrizione iniziale di cosa sia il Mito (io l'avrei evitata, chi sa già comprende e chi non sa non ci sarà verso di farglielo capire) di cosa rappresenti. Il linguaggio è adeguato, e in questo genere di narrazione è già una vittoria, il narratore impersonale e il punto di vista della sacerdotessa rappresentano bene al lettore la storia.
Se dovessi farti un'annotazione, questa riguarda l'architettura della sintassi, a mio avviso tutt'altro che lieve.
Faccio un esempio e riporto il tuo testo:
"Depose sulla riva tutto quanto aveva con sé: la rete con i resti della caccia, l’arco, il coltello, gli indumenti. S’immerse nell’acqua chiara, e così rinfrancante ne fu il contatto che la giovane dimenticò quanto tempo era necessario per tornare alla sua capanna, laggiù al limitare del villaggio.
Godendo di quel bagno non s’accorse che le ombre s’allungavano nel meriggio assolato, e che presto avrebbe dovuto cercare un riparo di fortuna per la notte, ma che importava? Il mondo era bello e senza pericoli, in quei giorni. Anzi, c’era una piccola cascatella che si gettava in quell’acqua chiara, e dalle lunghe foglie e dai rami che si protendevano dal corso d’acqua superiore, grosse gocce cadevano ritmicamente nel bacino inferiore, componendo una musica alla quale la giovane non si sottrasse, al contrario si abbandonò a quel ritmo come fosse una richiesta della Dea e prese a provare dei passi di danza, perché dov’è che Isora non ha danzato?"
Perché non organizzare le proposizioni in modo diverso?
Deponeva sulla riva la rete con i resti della caccia, l’arco, il coltello e gli indumenti, e immersa nell’acqua chiara e rinfrancante dimenticava il tempo necessario per tornare al villaggio.
Nel godere di quel bagno non s’accorgeva dell'allungarsi delle ombre, di come questo presto l'avrebbe costretta a cercare un riparo di fortuna per la notte, ma che importava? Il mondo era bello e senza pericoli, in quei giorni. Anzi, da una cascatella fluide correvano le acque, e dalle lunghe foglie e dai rami grosse gocce cadevano ritmicamente a comporre una musica alla quale la giovane non seppe sottrarsi, al contrario vi si abbandonava come fosse stata una richiesta della Dea, perché dov’è che Isora non ha danzato?

Insomma, senza mettersi a riscrivere basterebbe poco per alleggerire, accorciare, sfrondare, rendere lieve a chi legge il compito.
Ottimo racconto.
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Marino Maiorino
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Carissimo Namio,
parafrasando non ricordo chi, "l'attenzione dei meritevoli è la lode più alta".
Quanto è piacevole lasciarsi leggere da chi sa leggere, non per vanagloria, ma per riuscire a comunicare, per non sentirsi soli.
Sulla differenza tra mito greco e moderno non so se essere d'accordo: gli eroi greci muoiono tutti, quasi sempre per aver peccato di hybris. Non è anche questo un modo per annichilire il futuro, per costringere l'uomo? Se persino gli eroi sono infine condannati, che può fare l'uomo comune?
Sul fatto che il racconto sia didascalico, credo (non ne sono sicuro) di essermene accorto, perché mentre stendevo il racconto vergavo a mano (anche qui, di getto) su un mio taccuino:
"Il discorso su quanto mostrare in un'opera [...] che illustra, spiega concetti esoterici, non è la solita contrapposizione minimalismo/barocco, perché nel linguaggio ermetico c'è sempre una dose di didattica.
Ma la didattica va per gradi che dipendono dal discente. è pertanto perfettamente lecito fornire più indizi del necessario quando siparla a un perfetto "ignorante".
La minima comunicazione possibile ha solo senso tra pari, i quali non hanno perciò bisogno di spiegarsi niente, solo di riconoscersi.
Il minimalismo nell'ermetismo è un segno di riconoscimento.
Al contrario un maestro DEVE abbondare in nozioni per essere sicuro di comunicare il proprio messaggio: il barocco o il manierismo sono linguaggi didascalici."
Ora, lungi da me ergermi a maestro di niente, il racconto mi è servito a fissare idee su un mito che ho voluto investigare, quindi sì, è didascalico, ma il discente in questo caso sono io: rielaborare è il mio modo di raccogliere e far decantare le idee mediante l'abbandono all'ispirazione (quando c'è).
L'architettura della sintassi... È la mia croce, e posso solo ammettere quanto hai ragione! Ma temo che dovrò incaricare qualcuno di pensarci: amo quello che scopro, lo fisso su carta per non dimenticarlo, ma visto che il primo destinatario sono io... Appena terminata qualcosa, sono già partito per un'altra opera.
Grazie del generoso giudizio.
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Marino Maiorino
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

P.S.: perché è meglio rispondere più articolatamente ad argomenti più articolati.
Più che bisogno di archetipi, la mia è una ricerca del loro senso: siamo ancora umani, benché moderni, e certe cose non cambiano con l'ultimo iPhone o andando sulla Luna. Per me resta sempre valido "Homo sum, nihil humanum a me alienum puto". Il giorno che la massima non sarà più valida, non saremo più in grado di apprezzare Omero (e in effetti...)
Come hai più giustamente osservato, "di fissare ciò che conta".
Io ho effettivamente aspettato, tanto. Un'educazione di altri tempi, imposta ad un carattere come il mio, raffinata da obiettivi di una certa difficoltà (vieppiù accentuata da condizioni al contorno sulle quali non voglio esprimermi), mi ha fatto sviluppare una capacità di "trizziare" i risultati che mi prefiggo. Finché hai 20, 30 anni, va ancora bene, ti senti un "maratoneta intellettuale", pensi che "sulla lunga distanza non mi batte nessuno"; tra i 50 e i 60 senti che il tempo per giocare è finito ed esigi il conto.
Come osservi tu, l'orrore: il tempo, questa variabile della quale nessuno ti ha mai insegnato il valore (anche perché il tempo è realmente l'UNICO valore delle nostre vite: come si calcola un preventivo di personale? in ORE/UOMO), NON è una variabile neutra, non si può andare avanti e indietro a piacimento, PERCHÉ (2 Principio della Termodinamica) il tempo CI cambia.
Dov'è l'orrore? Che chi ti ha educato, cresciuto, istruito, ha instillato in te questo senso del dovere "calvinista" (ho vissuto in Olanda con angoscia questo modo di pensare), ha vissuto la propria vita piena di sbagli e continua così davanti al tuo naso, ancora richiamandoti a quel dovere, come se tu fossi una macchina e non avessi il diritto di sbagliare anche tu. La critica più velenosa è diventata di moda con un nomignolo tanto spregiativo quanto ridicolizzante: "bamboccioni". Si applica bene a una generazione che è estromessa da ogni forma decisionale persino sulla propria personalità (oggi che le personalità si formano nelle agenzie pubblicitarie). Nasci, lavora, consuma, crepa. Questo deve fare il probo componente della società (parlare di "cittadino" sarebbe già un lusso).
L'incubo non è trovarsi faccia a faccia con Isora o Endimione cambiati dopo tanti anni. L'incubo è non trovare più Isora o Endimione, o peggio, altri con le loro sembianze, perché il tempo (di nuovo) ci cambia.
Io non so quanti adolescenti di 50 e 60 hai conosciuto, ma non ti sembra l'ovvia conseguenza (almeno partendo dall'impostazione che ho esposto) in una società che TI IMPONE di essere contento se raggiungerai i tuoi traguardi più in là? Il Dio al quale sono stati votati (non ci si sono certo votati da soli) questo chiede, e mente spudoratamente. Pericolose, le menzogne degli Dei.
Il mio perciò non è un mito. I miti non esistono. Sono storie reali. Passa il tempo, loro passano di bocca in bocca, il significato cambia qui, poi lì, elementi si aggiungono, altri si perdono, il motivo della riflessione resta.
Inoltre, i finali sono due: Endimione che promette a sé stesso di aspettare è il primo. Non riesco a trovare in questo finale la soluzione per un futuro, come dovrebbe fare il mito greco. Che soluzione è? È quella della società: dormi, che prima o poi...
Prima o poi (è il secondo finale) morrai, e tutto il rispetto della morale cristiana e calvinista di questa ceppa ti avrà fatto perdere tutto quello che della vita avresti desiderato davvero: vivere la vita con leggerezza.
Quando immaginiamo un bambino, lo associamo al riso e al gioco. L'essere umano che più simboleggia la vita lo vogliamo intelligente e lo facciamo giocare. Parlo di leggerezza, non di perdere il cervello in modi più o meno sanitariamente discutibili, perché la vita è... vita! E va vissuta!
Per il resto, per la burocrazia, per i mutui, per il posto fisso, per la FAMIGLIA (intesa in modo oppressivo, opposto all'"intimo luogo dei cari"), c'è la fossa. Guarda caso, niente di tutto ciò ce lo portiamo lì. Ti pare una bamboccionata, se voglio finalmente prendermi quello che ho a cuore, con leggerezza, prima che arrivi la signora in nero? Io qui posso viverlo, di là...
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Marino Maiorino
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

P.P.S.: Dimenticavo, a proposito di minimalismo/barocco. Dal momento che il destinatario del racconto sono io stesso, il racconto è effettivamente un mandala: un oggetto che raccoglie elementi la cui contemplazione, tanto individualmente come nel complesso delle loro relazioni, aiuta la meditazione.
P.P.P.S: Come vedi, se ogni sostanza ha la sua forma, il racconto non poteva avere forma più leggera.
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Namio Intile
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Namio Intile »

Marino Maiorino ha scritto: 20/07/2023, 18:19 Carissimo Namio,
parafrasando non ricordo chi, "l'attenzione dei meritevoli è la lode più alta".
Quanto è piacevole lasciarsi leggere da chi sa leggere, non per vanagloria, ma per riuscire a comunicare, per non sentirsi soli.
Sulla differenza tra mito greco e moderno non so se essere d'accordo: gli eroi greci muoiono tutti, quasi sempre per aver peccato di hybris. Non è anche questo un modo per annichilire il futuro, per costringere l'uomo? Se persino gli eroi sono infine condannati, che può fare l'uomo comune?
Sul fatto che il racconto sia didascalico, credo (non ne sono sicuro) di essermene accorto, perché mentre stendevo il racconto vergavo a mano (anche qui, di getto) su un mio taccuino:
"Il discorso su quanto mostrare in un'opera [...] che illustra, spiega concetti esoterici, non è la solita contrapposizione minimalismo/barocco, perché nel linguaggio ermetico c'è sempre una dose di didattica.
Ma la didattica va per gradi che dipendono dal discente. è pertanto perfettamente lecito fornire più indizi del necessario quando siparla a un perfetto "ignorante".
La minima comunicazione possibile ha solo senso tra pari, i quali non hanno perciò bisogno di spiegarsi niente, solo di riconoscersi.
Il minimalismo nell'ermetismo è un segno di riconoscimento.
Al contrario un maestro DEVE abbondare in nozioni per essere sicuro di comunicare il proprio messaggio: il barocco o il manierismo sono linguaggi didascalici."
Ora, lungi da me ergermi a maestro di niente, il racconto mi è servito a fissare idee su un mito che ho voluto investigare, quindi sì, è didascalico, ma il discente in questo caso sono io: rielaborare è il mio modo di raccogliere e far decantare le idee mediante l'abbandono all'ispirazione (quando c'è).
L'architettura della sintassi... È la mia croce, e posso solo ammettere quanto hai ragione! Ma temo che dovrò incaricare qualcuno di pensarci: amo quello che scopro, lo fisso su carta per non dimenticarlo, ma visto che il primo destinatario sono io... Appena terminata qualcosa, sono già partito per un'altra opera.
Grazie del generoso giudizio.
Ho sempre paura che le repliche inneschino discussioni a mai finire e perciò le evito. Ma qui e ora faccio un'eccezione.
Con quel didascalico mi riferivo unicamente al tuo incipit: "In quel tempo i prodi elleni dai grandi scudi di bronzo non erano ancora giunti nel Mediterraneo. Solo una generazione prima un’orsa aveva guidato il nipote del capo-clan del lupo verso nuove terre fino al fiume-che-scorre-sotto-la-terra come predetto da un oracolo, e un nuovo clan era nato, un nuovo villaggio era stato fondato col nome del monte che dominava imponente le terre dei padri.
Da siffatte epopee nascevano i miti, in quel tempo, e l’uomo rispettava e temeva la divinità nella Natura e nelle sue molteplici forme. In quel tempo una fanciulla poteva vagare senza alcuna paura per boschi che non avevano conosciuto l’ascia."
Qui il narratore sente l'esigenza di esemplificare e chiarire al lettore cosa sia un Mito e come esso nasca. È il narratore a dire, eppure ho l'impressione che sia l'autore. Ecco, in questa linea bagnasciuga tra autore e narratore la narrazione è spezzata e diventa appunto una mera esposizione di circostanze che il lettore dovrebbe conoscere. Non so se mi spiego. Si può essere didascalici senza esserlo, se invece di " da siffatte epopee..." ti fossi limitato a narrare ti saresti forse limitato a scrivere: A quel tempo l'uomo rispettava e temeva la divinità... e una fanciulla poteva..."
Un maestro deve abbondare in nozioni, tu scrivi, e lo condivido. Ma quando scrivi un racconto io non devo accorgermi del maestro, della sua esistenza. Non è la presenza di informazioni, ma come queste vengono veicolate attraverso il discorso narrativo. Il patto narrativo tra autore e lettore funziona solo se il lettore crede a quanto sta leggendo. Se io autore trasforma il discorso narrativo in un discorso meramente didascalico, in quel momento vengo meno al patto, qualcosa si rompe in quel punto. Il che non significa che il discorso narrativo non possa essere didascalico, anzi l'esatto contrario. Le più belle pagine di narrative sono didascaliche, ma chi le le legge neanche se ne accorge.
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Marino Maiorino
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Namio! Posso incorniciarmela? Grazie!
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Namio Intile »

Marino Maiorino ha scritto: 21/07/2023, 7:31 P.S.: perché è meglio rispondere più articolatamente ad argomenti più articolati.
Più che bisogno di archetipi, la mia è una ricerca del loro senso: siamo ancora umani, benché moderni, e certe cose non cambiano con l'ultimo iPhone o andando sulla Luna. Per me resta sempre valido "Homo sum, nihil humanum a me alienum puto". Il giorno che la massima non sarà più valida, non saremo più in grado di apprezzare Omero (e in effetti...)
Come hai più giustamente osservato, "di fissare ciò che conta".
Io ho effettivamente aspettato, tanto. Un'educazione di altri tempi, imposta ad un carattere come il mio, raffinata da obiettivi di una certa difficoltà (vieppiù accentuata da condizioni al contorno sulle quali non voglio esprimermi), mi ha fatto sviluppare una capacità di "trizziare" i risultati che mi prefiggo. Finché hai 20, 30 anni, va ancora bene, ti senti un "maratoneta intellettuale", pensi che "sulla lunga distanza non mi batte nessuno"; tra i 50 e i 60 senti che il tempo per giocare è finito ed esigi il conto.
Come osservi tu, l'orrore: il tempo, questa variabile della quale nessuno ti ha mai insegnato il valore (anche perché il tempo è realmente l'UNICO valore delle nostre vite: come si calcola un preventivo di personale? in ORE/UOMO), NON è una variabile neutra, non si può andare avanti e indietro a piacimento, PERCHÉ (2 Principio della Termodinamica) il tempo CI cambia.
Dov'è l'orrore? Che chi ti ha educato, cresciuto, istruito, ha instillato in te questo senso del dovere "calvinista" (ho vissuto in Olanda con angoscia questo modo di pensare), ha vissuto la propria vita piena di sbagli e continua così davanti al tuo naso, ancora richiamandoti a quel dovere, come se tu fossi una macchina e non avessi il diritto di sbagliare anche tu. La critica più velenosa è diventata di moda con un nomignolo tanto spregiativo quanto ridicolizzante: "bamboccioni". Si applica bene a una generazione che è estromessa da ogni forma decisionale persino sulla propria personalità (oggi che le personalità si formano nelle agenzie pubblicitarie). Nasci, lavora, consuma, crepa. Questo deve fare il probo componente della società (parlare di "cittadino" sarebbe già un lusso).
L'incubo non è trovarsi faccia a faccia con Isora o Endimione cambiati dopo tanti anni. L'incubo è non trovare più Isora o Endimione, o peggio, altri con le loro sembianze, perché il tempo (di nuovo) ci cambia.
Io non so quanti adolescenti di 50 e 60 hai conosciuto, ma non ti sembra l'ovvia conseguenza (almeno partendo dall'impostazione che ho esposto) in una società che TI IMPONE di essere contento se raggiungerai i tuoi traguardi più in là? Il Dio al quale sono stati votati (non ci si sono certo votati da soli) questo chiede, e mente spudoratamente. Pericolose, le menzogne degli Dei.
Il mio perciò non è un mito. I miti non esistono. Sono storie reali. Passa il tempo, loro passano di bocca in bocca, il significato cambia qui, poi lì, elementi si aggiungono, altri si perdono, il motivo della riflessione resta.
Inoltre, i finali sono due: Endimione che promette a sé stesso di aspettare è il primo. Non riesco a trovare in questo finale la soluzione per un futuro, come dovrebbe fare il mito greco. Che soluzione è? È quella della società: dormi, che prima o poi...
Prima o poi (è il secondo finale) morrai, e tutto il rispetto della morale cristiana e calvinista di questa ceppa ti avrà fatto perdere tutto quello che della vita avresti desiderato davvero: vivere la vita con leggerezza.
Quando immaginiamo un bambino, lo associamo al riso e al gioco. L'essere umano che più simboleggia la vita lo vogliamo intelligente e lo facciamo giocare. Parlo di leggerezza, non di perdere il cervello in modi più o meno sanitariamente discutibili, perché la vita è... vita! E va vissuta!
Per il resto, per la burocrazia, per i mutui, per il posto fisso, per la FAMIGLIA (intesa in modo oppressivo, opposto all'"intimo luogo dei cari"), c'è la fossa. Guarda caso, niente di tutto ciò ce lo portiamo lì. Ti pare una bamboccionata, se voglio finalmente prendermi quello che ho a cuore, con leggerezza, prima che arrivi la signora in nero? Io qui posso viverlo, di là...
Riprendo questo tuo intervento: "Sulla differenza tra mito greco e moderno non so se essere d'accordo: gli eroi greci muoiono tutti, quasi sempre per aver peccato di hybris. Non è anche questo un modo per annichilire il futuro, per costringere l'uomo? Se persino gli eroi sono infine condannati, che può fare l'uomo comune?"
L'uomo greco e l'uomo moderno non vedono e non sentono nello stesso modo. L'uomo greco non viene costretto da ciò in cui crede. Nel Mito l'uomo sfida la Natura perché è nella sua natura, e non viene punito per questo. Quando, nel Mito da cui hai preso ispirazione, Selene si innamora di Endimione lo vuole con tutte le sue forze. Ma non pecca di hybris per questo. E infatti Zeus le concede quanto desidera. La hybris è la tracotanza che non conosce limiti e finisce inesorabilmente per perdere chi la persegue. Non è una punizione, bada bene, ma una conseguenza naturale di chi agisce senza avere limiti. Prometeo non viene incatenato sulle rocche del Caucaso perché ha voluto sfidare Zeus, non è questo il nesso. Prometeo non sfida il Dio in quanto tale e la sua non è una punizione per aver osato farlo. E neanche, nell'affidare la tecnica nelle mani dell'uomo, pecca contro la Natura. Difatti l'asticella della sfida dell'uomo alla natura è sempre stata spostata in avanti per mezzo della tecnica. No, la hybris di Prometeo, la hybris greca attiene a quel dato momento in cui l'uomo, o il Dio, non sa riconoscere i propri limiti. Non è contro la Natura come oggi la intendiamo, ma contro se stessi e la Necessità che di volta in volta si manifesta la tracotanza.
Noi figli del pensiero giudaico siamo in grado di penetrare nel pensiero greco? A mio avviso no. Per noi si pecca contro qualcuno, si offende qualcuno, si travalica un limite fissato da qualcuno, o al contrario non esiste alcun confine, alcun limite.
Nel capito uno del Genesi, al versetto 28 si legge:
Dio li benedisse e disse loro:
«Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra;
soggiogatela e dominate
sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra».
29 Poi Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. 30 A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne."
Noi dobbiamo dominare la Natura e la Necessità perché l'Universo ci è stato donato da Dio. Noi pecchiamo solo contro Dio, offendiamo solo Dio, Dio è il nosto unico limite. E di conseguenza possiamo fare tutto, perché Dio sarà sempre dalla nostra parte. In altre parole, col giudaismo l'uomo inventa/diventa Dio e non riconosce alcun limite oltre il Suo/il Sé.
Nel secondo capitolo del Genesi trovi questo passo: "1 Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2 Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. 3 Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto."

Ecco, qui il pensiero giudaico pone le basi anche al calvinismo. Dio lavora e crea per sei giorni e il settimo si riposa. Questo è il suo insegnamento. La creazione è frutto di fatica, una fatica estenuante premiata col riposo alla fine. Si posticipa il premio in vista del risultato. No pain no gain. Poco importa che Isora ed Endimione non esistano più, si siano estinti nell'attesa della ricompensa. Ciò che conta è il progetto, non l'uomo in sé, ma la sua creazione. È un'eterogenesi dei fini, se ci fai caso, non importa la creatura, ma la creazione. Nel senso che Dio/l'Uomo sembra creare l'Universo per la sua creatura, ma in realtà ciò che conta è l'insieme, la specie, la società, la nazione, la collettività.
Perché "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" ciò che importa è appunto il risultato generale, non il particolare, non era importante che la creatura in sé fosse felice.
I Miti non esistono, scrivi, sono storie reali. Ed è vero, solo che la nostra realtà è diversa da quella riflessa dai miti greci. Se il tuo Endimione e la tua Isora aspettano, come tu scrivi, perché questo ti impone oggi la società, la Selene e l'Endimione del Mito non aspettano. E vivono la loro vita col consenso del Dio.
Guarda, io credo che oggi noi abbiamo perso la capacitò di capire cosa sia il Mito, come anche la Tragedia. Non possediamo più quel senso tragico della vita proprio dei greci. Tutto è stato trasformato in dramma o farsa, le quali sono le uniche unità in cui siamo capaci di specchiarci e di comprendere. E ugualmente per il MIto, il nostro mito è quella dannata Genesi.
Va ben, il discorso diventerebbe davvero troppo lungo, a rileggerti.
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Non voglio trattenerti oltre, però:
"la hybris greca attiene a quel dato momento in cui l'uomo, o il Dio, non sa riconoscere i propri limiti. Non è contro la Natura come oggi la intendiamo, ma contro se stessi e la Necessità che di volta in volta si manifesta la tracotanza."
Questa è la nostra società, e il racconto di questo parla. Noi ci siamo fissati limiti insostenibili credendo in chissà quale ricompensa futura. Non c'è nessuna ricompensa (almeno io in questo momento non la vedo). La Natura, lasciando semplicemente scorrere il tempo, letteralmente senza far niente, punisce la nostra superbia di credere che, con con lo sforzo "adeguato", possiamo raggiungere qualunque obiettivo.
Ma ciò non mi rende pessimista, al contrario divento epicureo! Se solo sapessi applicare il Carpe diem.
Ora però basta abusare della tua dottrina, ti ringrazio per la conversazione.
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Ciao Xarabass (interessante anagramma...),
No, nessun libro, è proprio così, e sebbene apprezzi oltremodo la profondità e la cultura di Namio, ho un handicap che niente può curare: sono lentissimo nell'apprendimento. Il rischio è quello di farmi sfanculare senza tanti complimenti dopo un po', e non ci tengo particolarmente.
Inoltre, sto seguendo un mio cammino, e non posso impegnarmi anche in altre cose: le giornate hanno solo 24 ore e bisogna permettersi anche il lusso di dormire.
Permetti che esprima curiosità per il tuo stile, nello scrivere e nel commentare: dilungati. Spesso non trovo coerenza tra i tuoi periodi, alle volte percepisco addirittura un che di malizioso (ma da un Xarabass...) nel fare così, e alla lunga stanca.
Ecco, mi sono dilungato troppo e la mia signora se n'è avuta a male. Come ti dicevo, la giornata ha solo 24 ore, e lo stile non conta quanto il viaggio.
A presto
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Messaggio da leggere da Athosg »

Pur non avendo nessuna dimestichezza con il mondo greco ho letto un bel racconto di un amore eterno. Mi è tornato alla memoria La casa in riva al mare di Lucio Dalla, pur con gli addendi del racconto diversi. Una speranza che dura una vita e che non viene esaudita. Bello.
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Marino Maiorino
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Grazie Athosg.
In fondo, Spes ultima Dea, e gli Dei sopravvivono agli uomini (per un po', finché ci sono altri uomini che credono negli stessi Dei).
Chissà, magari si scrive anche per diffondere un culto al quale si riconosce la propria (momentanea) salvezza.
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commento Aspetterò

Messaggio da leggere da Alberto Marcolli »

Il tuo racconto è riuscito a interessarmi e visto il suo genere ce ne vuole. Ho iniziato, infatti, la lettura di malavoglia, poi via via che scorrevano le righe l’attrazione è migliorata e ho finito in bellezza.

Detto questo, adesso passo ai miei soliti barbosi suggerimenti:

Ahimé --- Ahimè

piccola cascatella – per me il “piccola” non ci vuole – una cascatella è già piccola

in alcuni casi la lettura avrebbe bisogno di qualche virgola in più.
Es.
Solo una generazione prima un’orsa aveva guidato il nipote del capo-clan del lupo verso nuove terre fino al fiume-che-scorre-sotto-la-terra come predetto da un oracolo, e un nuovo clan era nato, un nuovo villaggio era stato fondato col nome del monte che dominava imponente le terre dei padri.
Proposta
Solo una generazione prima, un’orsa aveva guidato il nipote del capo-clan del lupo verso nuove terre fino al fiume-che-scorre-sotto-la-terra, come predetto da un oracolo. Un nuovo clan era nato, e un nuovo villaggio era stato fondato col nome del monte che dominava imponente le terre dei padri.

"Da siffatte epopee nascevano i miti, in quel tempo, e l’uomo rispettava..."
Tutto sommato la subordinata “, in quel tempo, io la toglierei
Proposta
Da siffatte epopee nascevano i miti, e l’uomo rispettava

“nell’acqua chiara, - hai già detto sopra che le acque erano limpide! Serve rincarare la dose con l’aggettivo “chiara”?

“che si gettava in quell’acqua chiara,” – “acqua chiara” già detto sopra,

Una curiosità:

“S’immerse nell’acqua chiara” … “Godendo di quel bagno non s’accorse” – si presume che fosse ancora in acqua quando, più avanti, Isora prese a provare dei passi di danza, - deduco che qui hai applicato la regola sotto menzionata del “show, don’t tell”, oppure i passi di danza li fa nell’acqua?

A proposito, ci sono molti aggettivi/avverbi da valutare in virtù della regola “show, don’t tell”

Es. leggero – saettante – rapidamente - più comodamente – chiara – golosa – confortevolmente – ardentemente –

La vicenda, presumo mitologica, ma non sono un esperto, è ben narrata e scorrevole, e mi adeguo al commento di Namio che ne sa mille volte più di me. Presumo che tu ci abbia anche messo tanto impegno per scriverlo e perciò il mio voto è 5.
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Grazie Alberto,
come sempre i tuoi commenti sono ricchi di osservazioni perfettamente circostanziate, e permettono così di rendersi davvero conto delle sciocchezze che uno scrive (quando sono sciocchezze, beninteso). Ad ogni modo, sono sempre notevoli spunti di riflessione.
Ahimè, grazie! 😅
Le virgole... Hai ragione, ma seguirò una via di mezzo. Ora ti rispondo dal cell e non ho modo di apportare correzioni, ma appena su un PC...
Sì, cascatella è già piccola... 🤦🏻‍♂️
No, dal momento che è già chiaro che l'acqua è limpida... 😓
Show, don't tell - sto cercando di rendere la mia scrittura più diretta, fresca, anche quando tratta temi mitologici, e credo che lasciare al lettore la libertà di immaginare sia nel suo diritto (del lettore, e anche più potente del paternalistico guidarlo per mano). La sequela di aggettivi/avverbi... Hai ancora ragione, e in effetti... Ma non sono riuscito a immaginare, al momento della scrittura, come altro coniugare suggestione e freschezza dell'espressione. Alle volte lo show don't tell richiede più spazio, col rischio di dilungarsi in dettagli secondari (per lo scrittore).
Impegno, non molto nello scrivere. C'è un gran lavorìo dietro (considerato il tempo che mi resta per dormire) in termini di ricerca, e poi di attesa, di maturazione delle idee, ma non molto è dedicato allo scrivere. Quello mi esce sempre di getto, e infatti avevo cominciato il racconto credendo che avrei parlato d'altro, che la storia sarebbe stata diversa e sarebbe finita diversamente dopo aver toccato temi e circostanze che qui appena s'intravedono (a volte, a tratti).
Boh! Và a saper tu come mi dettano 'ste cose...
Ad ogni modo, ancora grazie, e a presto! Buone vacanze!
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Messaggio da leggere da Il_Babbano »

"in alcuni casi la lettura avrebbe bisogno di qualche virgola in più"

Meno male che non sono l'unico.

Secondo me, anche di qualche punto e virgola.

Non farò liste né elenchi, perché lo riscriverei tutto, sfrondando ma anche deturpando (e non è il caso).

Quattro comunque lo meriti.
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Marino Maiorino
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Grazie mille per il commento, che cercherò di rispettare.
E pensare che ero abituato a esagerare con le virgole...
Ma la giusta dose è la giusta dose, e il segreto sta nel trovarla, non nel conoscerla per scienza infusa.
A presto!
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Messaggio da leggere da Laura Traverso »

Ciao Marino, anche a me il genere da te trattato, degli antichi greci, non piace moltissimo. Ma devo dire di essere stata catturata subito dalla storia assai bene descritta, come ambientazione e come terminologia dei tempi. Leggendo il tuo racconto sono andata d'istinto a Giulietta e Romeo e al loro tragico amore, anche se con caratteristiche diverse nello svolgimento ma uguale nel finale, in cui ha cercato e trovato la morte, vedendo l'amato privo di vita (nel caso di Giulietta era una morte dapprima apparente, finta, diventata poi tragicamente vera...per entrambi). Quindi bravo, un bel racconto, scritto assai bene. Ciao, massimo dei voti, 5
Ultima modifica di Laura Traverso il 25/08/2023, 11:50, modificato 1 volta in totale.
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Grazie Laura,
mi fa naturalmente piacere che il racconto abbia riscosso il tuo gradimento (e che gradimento!)
Sul perfezionarsi... Perché pazienza? Quando qualcuno consiglia una cosa del genere dà sempre piste preziose. Hai certamente ragione quando dici che lo stile va mantenuto, in fondo è quello che ci rende unici, ma io la vedo come un processo di distillazione: lo stile non cambierà, ma farò più caso a ciò che mi è stato suggerito.
Un caro saluto.
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Laura Traverso »

Marino Maiorino ha scritto: 24/08/2023, 17:20 Grazie Laura,
mi fa naturalmente piacere che il racconto abbia riscosso il tuo gradimento (e che gradimento!)
Sul perfezionarsi... Perché pazienza? Quando qualcuno consiglia una cosa del genere dà sempre piste preziose. Hai certamente ragione quando dici che lo stile va mantenuto, in fondo è quello che ci rende unici, ma io la vedo come un processo di distillazione: lo stile non cambierà, ma farò più caso a ciò che mi è stato suggerito.
Un caro saluto.
si si certo, forse mi sono spiegata male, non mi riferivo ai consigli in generale sul perfezionamento, che è ovvio siano utili per tutti. E i consigli di alcuni qui sono preziosissimi, mi riferisco a Namio e non solo. Ma lasciamo perdere...evidentemente non sono riuscita a farmi capire a cosa mi riferivo... Pertanto, preso atto di ciò e onde evitare altri fraintendimenti, modificherò il mio precedente. Poco male! Un caro saluto, ciao
Merceds Cortani
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Allora, ho letto gli altri commenti direi più che entusiasti, mi spiace ma sarò un po' fuori dal coro, a mio avviso il racconto è buono ma lo stile è un po' un troppo carico. E' un lirico non pienamente riuscito, risulta pesante, alcune scelte lessicali le ho trovate forzate ma soprattutto manca il ritmo, a mio avviso il ritmo e la musicalità è ciò che davvero fa "funzionare" la scrittura lirica. E io qua non l'ho sentito. Voto 3.
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Marino Maiorino
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Re: Aspetterò

Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Grazie Merceds, ti ringrazio per il commento e per il voto.
Lo stile troppo carico... non posso negarlo, è un mio difetto (uno dei tanti), e non desidero imporlo, dunque capisco perfettamente la tua valutazione.
Lirico? Davvero? Non avevo pensato che potesse essere definito così e non ho chiaro cosa tu possa intendere con "lirico". Ti sarei grato se elaborassi un po' questa valutazione.
Sulle scelte lessicali, mi piacerebbe poterle discutere, magari ci comprendiamo meglio. In genere arrivo all'uso di una parola perché ha un senso e una storia ben specifica, ma evidentemente non sono riuscito a veicolare quello che volevo.
E il ritmo. Manca il ritmo perché, se è qui che volevi arrivare con "lirico", per l'appunto il mio testo NON lo è. Ma, nuovamente, non so se ho capito cosa tu intenda con "lirico".
Resto in attesa. A presto!
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Merceds Cortani
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Re: Aspetterò

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Ti rispondo immediatamente. Mi rifaccio a una definizione di “lirismo” presa dalla treccani: Con accezione più partic., tendenza, caratteristica della letteratura moderna, a dare forma lirica a composizioni in prosa, anche di altro genere che lirico, come racconti, romanzi, ecc., nelle quali viene accentuato il valore evocativo e musicale della parola;
Parliamo quindi di valore evocativo e musicale della parola. Il tuo testo è senza dubbio evocativo, che tu ne sia consapevole o meno, credo che sia senz’ombra di dubbio un tentativo di fare un racconto che rimandi all’epica, e l’epica classica è lirica. Quello che appunto manca è la musicalità. Purtroppo non ho la capacità di spiegarti la musicalità, io ne faccio una questione di “orecchio” non so spiegarla in altro modo, magari qualcuno più competente lo sa spiegare meglio. Posso però entrare maggiormente nel dettglio anche per quanto riguarda le scelte lessicali. Prendiamo il tuo incipit:
In quel tempo i prodi elleni dai grandi scudi di bronzo non erano ancora giunti nel Mediterraneo. Solo una generazione prima un’orsa aveva guidato il nipote del capo-clan del lupo verso nuove terre fino al fiume-che-scorre-sotto-la-terra come predetto da un oracolo, e un nuovo clan era nato, un nuovo villaggio era stato fondato col nome del monte che dominava imponente le terre dei padri.
Da siffatte epopee nascevano i miti, in quel tempo, e l’uomo rispettava e temeva la divinità nella Natura e nelle sue molteplici forme. In quel tempo una fanciulla poteva vagare senza alcuna paura per boschi che non avevano conosciuto l’ascia.

Intanto in poche righe hai usato due volte la locuzione “In quel tempo”, primo tentativo di essere evocativo/lirico. Anche il campo semantico di alcune scelte lessicali è lirico-mitologico, come oracolo, fondazione, dominazione, terre dei padri, epopee, miti, divinità, Natura, conoscere l’ascia. Questo per spiegare il perché l'ho inquadrato senza mezzi termini nel lirico.
I termini che secondo me sanno di stantio, di cattiva prosa di primo novecento sono “prodi”, “siffatte epopee”, “molteplici”. Alleggerendo e lavorando di ritmo secondo me il racconto diventerebbe molto più potente.
Spero di aver risposto alla tua domanda. Un caro saluto.
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Marino Maiorino
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Re: Aspetterò

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Ciao Merceds,
grazie del tempo dedicato a rispondermi così puntualmente, e grazie per avermi reso evidenti i punti che indicavi.
La scelta dei termini può non essere sempre ideale, però è anche vero che è difficile sostituirne alcuni con altri più "moderni" (se il problema sta principalmente nella prosa del primo '900).
Cominciamo da quel "prodi" riferito a "elleni". Treccani propone sinonimi per la parola usata come aggettivo (ardito, coraggioso, eroico, intrepido, valoroso) e come sostantivo (eroe, valoroso). Tutte le alternative, usate in luogo di "prodi" hanno (a mio modo di vedere) connotazioni fuorvianti per il lettore.
"Arditi" - Sì, certamente, ma non ci sono stati tramandati come arditi (tra parentesi, altrettanto novecentista, giacché legato ad "ardimento");
"Coraggiosi" - È già meno di "prodi", e assai più generico. E poi, perché coraggiosi nel giungere in Ellade? Questo distrarrebbe (mi spiego meglio più giù a proposito di "valorosi"). Inoltre attribuisce un senso positivo alla parola che è surretizio: gli elleni giunsero nel Mediterraneo come invasori, mentre un "coraggioso" è generalmente visto come un "difensore" (ad esempio contro un nemico soverchiante e, quello sì, invasore);
"Eroici" - Assolutamente certo, (da dove nascono le epopee?), ma in questo racconto non compaiono eroi, e non volevo alcun richiamo ad eroi;
"Intrepido" (che non trema, che non vacilla) - altrettanto novecentista di "prodi" e più comunemente usato per i pirati. Sì, i greci praticarono la pirateria, ma prima giunsero in Grecia via terra;
"Valorosi" - Ok, "che avevano valore". Per fare cosa? Se la parola è troppo chiara nel suo significato, perde evocatività e induce più domande di quelle alle quali volevo rispondere. Inoltre, mi pare troppo lunga: stavo cercando di limitare gli aggettivi e "prodi" mi sembrava abbastanza corto da sparire (quasi), evocare senza spiegare e senza distogliere l'attenzione su altro.
Inoltre, sebbene attinga alla cattiva prosa del primo '900, va considerato che quella prosa ha formato un immaginario difficile da scardinare o sostituire. Il rischio è scrivere un'insulsaggine (in partenza) come la sceneggiatura di Troy con Brad Pitt nella parte di Achille... Io ho voluto approfittare di quell'immaginario per ambientare il mio lettore nel più breve tempo possibile. Mi sono dilungato troppo? Noterai che ho gettato qui e lì dei semi di dubbio sulla ricostruzione didattica di quel periodo. Insomma ho provato a:
- introdurre ambientazione e tempo come riconoscibili per tema;
- instillare il dubbio in ció che generalmente è dato per assodato per catturare l'attenzione del lettore;
- il tutto senza fare un trattato di 200 pagine con controprove, solo per buttare giù un raccontino tuto sommato inconcluso;
A proposito di "molteplice"... Trovo i sinonimi: complesso, composito, composto, plurimo, diverso, molto, numeroso, parecchio, svariato, vario. L'unico che intenda quello che volevo scrivere è "plurimo". Credo sia peggiore di "molteplice", relativamente alle indicazioni che mi dai. E "svariati" mi è sempre sembrato un termine molto superficiale, la parola usata da chi non vuole darsi la molestia di quantificare. Ciascuno ha i propri rapporti con le parole, e purtroppo credo di non essere immune da influenze professionali.
E ora andiamo su leggerezza, ritmo e "potenza". Qual è la potenza di questo racconto? Credo che ciascun lettore amerebbe vedere potenziati in un racconto quegli aspetti che ha letto, se non lo hanno soddisfatto. Ma è quell'aspetto amato dal lettore che lo scrittore voleva sottolineare? Il mio non è un racconto fatto per essere letto leggermente o con un ritmo. Se ti sembra leggero al principio e suscettibile di essere più ritmato è perché ho voluto tendere al massimo la dicotomia tra la freschezza di Isora e il fato che l'attende. Io non so che versione tu abbia in mente quando pensi a Cappuccetto Rosso o a Biancaneve, ma io non sono esattamente un fan di Disney, in questi temi. The grim Grimms.
Si può certamente alleggerire il lessico e ritmare il tutto di più, ma non "mi è stata dettata" così, "non volevano" che la rendessi più leggera o ritmata. Erano molto seri.
Terrò certamente in considerazione le tue indicazioni nei miei prossimi scritti, soprattutto perché SO che la leggerezza è davvero uno dei miei talloni d'Achille, ma ti prego anche di rivalutare quanto mi hai indicato alla luce della mia risposta.
Resto a tua disposizione
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Re: Aspetterò

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Ma non intendevo dire che quei termini che secondo me non stanno bene vanno sostituiti con sinonimi :roll: :roll: ! Cioè in caso riformulare tutto per evitare di usare quei termini e un lessico meno stantio. Io non ho parlato di leggerezza ma di stile troppo carico, è diverso, ti faccio un esempio pratico, Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, argomento mitologico, stile lirico, evocativo, epico ma estremamente elegante, non carico, in altre parole poetico. Ecco dovresti cercare la poeticità. Ma non solo Pavese anche Gesualdo Bufalino, o Carlo D'amicis.

Ti riporto l'incipit di due loro opere, Diceria dell'untore di Bufalino:
O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l'estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi... Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l'impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre più retratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient'altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell'imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).

E "quando eravamo prede" di D'amicis:
«In principio erano gli animali, e i cacciatori vivevano della loro morte. […] I cacciatori avevano mani di fango e nomi da bestia. Le proprie generalità le avevano sepolte venendo al mondo, e da quel giorno si facevano chiamare come l’animale a cui, per indole o fisionomia, sentivano di assomigliare».

Belli no?!

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