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Pè continuava a fare su e giù nell’ampio salone. In altre circostanze si sarebbe divertito un mondo a udire l’eco dei propri passi; un suono inedito, poiché fino al giorno prima quello stanzone era stipato di vecchi mobili, ampi divani e un lungo tavolo. La connotazione “gigante” che solo una casa abitata da tre rami della stessa famiglia può assumere.
Le ante delle finestre, spalancate sul golfo, sembravano accompagnare gentilmente fuori uno degli ultimi inquilini invisibili della casa, ovvero l’odore di fumo. Pè se ne accorse e chiuse gli occhi; sapeva isolarsi dal mondo, proiettando nella propria mente ciò che gli aggradava. Si concentrò su quell’odore e per qualche secondo rivide i tre uomini della famiglia fumare la pipa del dopocena: boccate lente e assopite dal vino, un rito al quale Pè si sarebbe unito di lì a qualche anno.
«Ancora così stai?» lo folgorò la madre. «Sicuro di aver preso tutto?».
Pè fece una rapida panoramica delle poche cose che possedeva e annuì. La donna, uscendo per un attimo dall’isteria della modalità-trasloco, gli carezzò la testa.
«Ti abituerai presto alla nuova casa. In città avremo tutti più spazio, sai? Tu e tuo fratello avrete una stanza tutta vostra».
Il bambino la fissò con feroce e sarcastica perplessità. Nei suoi occhi apparvero delle corse in spiaggia, uno scoglio e una piccola canna da pesca.
«Il mare, be’… potrai rivederlo quest’estate».
Pè serrò le palpebre e si allontanò da quel sepolcro senza mobili.
Città, periferia del centro storico. Un primo piano, separato dalla strada da pochi metri. Là sotto ci stava un negozio in cui, come recitava il cartone appeso al vetro, “S’impagliano sedie”. A Pè, sceso dal camioncino di zio Nuto, sembrò assurdo poter scorgere la finestra di casa nuova alzando di pochi centimetri il mento.
«Levati, sei in mezzo alla strada!» gli gridò un signore a bordo di una bici.
Pè sudò freddo. Non riusciva a scorgere gli sbocchi di quella stretta strada, si sentiva imbottigliato. Il passaggio dei rari veicoli a motore sollevava dei polveroni che rendevano l’aria torbida per interi minuti. In quelle nuvole, il piccolo intravedeva le sagome dei passanti che si fermavano a chiacchierare con coloro che si affacciavano dalle case. Specie dai primi piani.
Funzionava così? Sarebbe diventato anche lui una sentinella appostata alla finestra, col compito di scandire il flusso della via? Niente a che vedere con casa vecchia, dove il suo sguardo veniva assorbito dall’azzurro, dalla salsedine, dalle barche.
«E sali!».
L’invito della mamma fu l’ultimatum.
La palazzina, di tre piani, era malandata. Pè venne accolto da un odore di tabacco ben diverso da quello che conosceva; era stantio, mitigato parzialmente da una leggera brezza di sugo e un soffio di aceto passato sulle scale. Il buio avvolgeva il pianerottolo, una cupezza ancestrale di mura rassegnate all’assenza di luce.
Pè inspirò forte, udì la voce di Mino, il fratello, già all’interno della casa. Varcò l’ingresso e si ritrovò in uno stretto corridoio dalle pareti bianco sporco. La loro stanza si trovava sulla destra; era piccola e illuminata da una fragile lampadina, un ragno elettrico che scendeva dal soffitto. Il fratello era seduto a gambe incrociate sulla rete del letto. Si guardarono senza parlare finché Mino fece spallucce e si alzò per raggiungere il resto del parentado che stava sacramentando appresso ai bagagli.
Il trasloco occupò una giornata sana e solo a lavori conclusi Pè si decise a fare capolino dalla stanza. I grandi erano scesi in strada, stavano improvvisando un brindisi sul cofano del camioncino di zio Nuto. Il nonno, già brillo, offriva bicchieri di casereccio ad alcuni coetanei che si aggiravano per impicciarsi degli affari dei nuovi arrivati.
Pè poggiò i gomiti sul davanzale della cucina, sporcandosi di bianco. Sembrava sfarinarsi tutto, là dentro. Erano le sette di sera e per la prima volta in vita sua non avrebbe visto il tramonto, schermato dai palazzi.
Le prime lacrime di Pè vennero battezzate da una pallonata in faccia, accompagnata dal grido «Mazzolaaa!». La sfera, un satellite di stracci e nastro adesivo, si fermò sul pavimento della cucina. In basso, sotto la finestra, Dino e altri tre bambini lo stavano fissando con aria impaziente.
«Pè, vuoi calarti con una fune o pensi di usare le scale?».
Tutti risero, ma era goliardia e un invito a unirsi a loro. Il bambino raccolse il “pallone”, attraversò il corridoio, scese gli scalini di corsa – protetto dal dio delle ossa del collo – e si ritrovò nel viale.
«Altafiniii!» gridò calciando la sfera verso il fratello e gli altri ragazzini. Il palleggio riprese rapido sotto lo sguardo delle sentinelle dei primi piani. I loro rimbrotti per il caos divennero cori d’incitamento, i panni stesi garrirono come bandiere colorate, i lampioni acquisirono la potenza dei riflettori. Per quel momento, nella mente di Pè il golfo rilucente si dissolse; il primo passo verso l’accettazione di quella nuova situazione.