L'esecuzione
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L'esecuzione
I condannati giunsero al patibolo con una carrozza da piazza noleggiata dal negoziante di vetture Francesco Fedeli, trainata adagio e con pigrizia da un ronzino indolente.
Dai sedili del calesse, immersi nell’aria frizzante del primo mattino, osservarono la loro ultima alba, arancione e zuccherina come un pompelmo. L’amata città tributava loro l’ultimo saluto, avvolgendoli nello straripante spettacolo di monumenti, di botteghe, di ciabattini e friggitori, di carrozze e vetturini, di orti e di fienili. Sotto la Torre del Papito incapparono in un carrettiere in panne. Bestemmiava nell’impresa di riparare la cerchiatura in gomma di una ruota. Poco più avanti era tutto un brulicare di mendicanti, pezzenti di professione che - bastone in mano, baciando l’immagine della Vergine - offrivano al passante la possibilità di redimere i propri peccati esigendo in cambio un obolo. Era una Roma interlocutoria, quella lì, affossata nel suo passato di malaffare e delinquenza, ma in potenza già capitale di un nuovo avvenire. In quella pittoresca e sudicia indeterminatezza c’era spazio per tutto e il contrario di tutto. In quel vuoto pieno di contraddizioni, quasi ognuno riusciva a trovare la propria dimensione.
I due morituri erano stati assolti dai loro peccati durante la notte, grazie al gesuita Padre Blosio, al Reverendo Padre Giuliano e al canonico Pigliacelli. Così le loro teste sarebbero rimbalzate più leggere sul palco di legno di Piazzale de’ Cerchi al Velabro, dove il boia li attendeva.
L’ombrellaio Giovanni Battista Bugatti, vale a dire il famigerato Mastro Titta, s’era ormai ritirato. Per più di sessant’anni aveva avvolto le spalle nella mantella scarlatta da carnefice, e per meno di trenta scudi al mese aveva attraversato ponte sant’Angelo per portare la morte in città. Stavolta la sentenza di morte sarebbe stata eseguita dal suo aiutante e successore, il meno esperto Vincenzo Balducci. Si vocifera che gli spettatori più disturbati già fantasticassero di qualche errore: una testa che rotolasse troppo, fin giù dal palco; una giugulare mal recisa che imbrattasse di sangue le prime file.
Quel giorno i più morbosi auspicavano lo squartamento. Perlomeno che la testa dei rei venisse conficcata su una pica, a margine del palco. I giocatori di lotto s’apprestavano a contare gli schizzi di sangue lasciati a terra, auspicio di possibili vincite. I più compassionevoli s’auguravano in extremis un gesto di pietà del Santo Padre, che invece le malelingue volevano fosse sotto l’influsso nefasto del gesuita Pierre-Jean Beckx, il papa nero. Altri confluivano con lo stesso spirito col quale si recavano a uno spettacolo circense: era la folta schiera dei curiosi, che non si potrebbero ascrivere a nessun’altra categoria. Nella folla si confondevano personaggi poco raccomandabili, loschi figuri e una pletora di viziosi e buoni a nulla. Come il campagnolo forlivese Luigi Ceccoli, ozioso, habitué di uno scantinato presso Porta Castello dove si giocava d’azzardo. Oppure il vetturino della carrozza 1341, Michele Galloni, che si avvinazzava presso il caffè di Luisa Zeppi, lasciando sempre incustodita la carrozza e prendendo a malaparole le guardie. Sopra il caffè si incontrava con Cecilia, un’avvenente signorina maggiorata, frivola e sensuale, che lo riceveva in un boudoir profumatissimo. Lo sapevano bene i suoi colleghi vetturini Giovanni Cameli e Antonio Gunter, più volte pizzicati per contrabbando di volpi e quel giorno avvistati in compagnia di Paolo Galli, che aveva un’incredibile collezione di cacciagione clandestina in via della Salara: allodole, tordi, merli, pavoncelle. C’erano perfino i fratelli Canestri, grassatori nei cui volti da predoni non c’era traccia di pietà. L’occasione era propizia anche per Lorenzo Ruja e Dario Antini, due infidi manutengoli e smaltitori di oggetti furtivi. Addirittura erano accorsi da fuori il diciassettenne Pietro Valenti, detto Pietruccio, e il ventiquattrenne Luigi Botti, detto il Marinese, del giro di grassatori di Rocca di Papa.
Tutti loro ammutolirono alle ore 7 in punto di quel 24 Novembre dell’anno del Signore 1868, quando Mastro Peppe - al secolo Giuseppe Monti - udì quel suono stridulo che conduceva al trapasso. Quel rumore lacerante fu accompagnato da un’espressione collettiva di stupore. L’aria scintillò d’adrenalina mentre la mannaia veniva liberata, pronta per l’impietosa discesa. È proprio in quelle frazioni di secondo che preludono ai rimbalzi della testa sanguinante sul patibolo, che sempre una macabra e vergognosa eccitazione si disperde e serpeggia tra gli astanti.
Con la mascella appesa rimasero il macellaio Persigo e l’agente della polizia pontificia Paolo Brulsini, stanziato presso la Mole Adriana. Brividi percorsero le schiene della guardia pontificia Rapini, in servizio presso Porta Pia, come quella dell’impiegato doganale Fraschetti, stanziato presso il movimentato porto di Ripa Grande, sempre affollato di velieri e di lance. Allo straziante spettacolo aveva voluto presenziare perfino il sacerdote ottuagenario Don Angelo Argenti, abitante in Piazza dell’Apollinare 38. In quel periodo il vecchio prete era inconsolabile, per essere stato derubato dal suo ex servitore Luigi Corradi, che era fuggito fuori città dopo avergli sottratto un’importante somma di denaro.
Quella di Monti fu un’esecuzione pulita, impeccabile. Da manuale. Con buona pace dei morbosi. Alla fine si contava una vedova in più, due ragazzini (uno di soli tre anni) rimasti senza padre e un rivoluzionario in meno. Aveva trentatré anni, come Nostro Signore, ed era morto quasi come lui. Bell’aspetto, baffi curati, mosca nera e carnagione bronzina. Faceva il muratore a Trastevere, prima di finire decollato dal Papa sanguinario, l’imbelle Re che con una mano tagliava teste e con l’altra predicava la sacralità della vita umana.
Non distanti dal macchinario mortifero, il barone Rulli, il cavalier Scala e il cavalier Forte – che avevano tutti fama d’esser personaggi poco specchiati – fecero capannello nel disquisire i dettagli del reato di cui s’era macchiato il condannato. Si dà il caso che tutto fosse cominciato il 22 ottobre dell’anno precedente, nell’osteria della Sora Rosa, presso la Chiesa Nuova. All’ingresso campeggiava un’epigrafe in marmo con su scritto “Omnium rerum vicissitudo est”, cioè “Tutte le cose cambiano”. In quella taverna la luce del giorno stentava a penetrare, le sedie in legno scricchiolavano implorando riposo, per i troppi fondoschiena di ubriaconi sostenuti negli anni. Monti e Tognetti erano assembrati proprio lì dentro agli ordini di Ansiglioni, con una squadriglia di congiurati. Mastro Peppe, insieme allo stagnaro Achille Semprebene, aveva caricato un trippone d’esplosivo che il cocchiere avrebbe condotto fino alle cantine della Caserma di Serristori.
Poi il boato.
Si era udita in tutta la città un’unica grande esplosione. Una polvere densissima, spinta dal vento, aveva volteggiato intorno all’angolo esterno della fortezza, tra la via dei Penitenzieri e quella di Borgo Vecchio. La caserma s’era inabissata come un veliero impallinato dai cannoni, era sprofondata capovolta. Il fitto polverio aveva invaso l’aria in ogni parte. Al cessare degli echi del boato tutto era divenuto tenebre e mortale silenzio.
Venticinque zuavi erano rimasti uccisi.
Con loro morì anche il civile Francesco Ferri, che passava di lì, mano nella mano, con la figlioletta Rosa di soli sei anni. La bambina l’attimo prima stava saltellando allegra nel suo vestitino azzurro, e l’attimo dopo era stata dilaniata dall’esplosione. Sua madre, Giuseppa Cecchi, era stramazzata anch’essa al suolo, con la sventura di sopravvivere al marito e alla creatura.
Monti veniva mandato alla forca per questo? Certo, ma in realtà quella testa veniva separata dal corpo perché rea di voler risvegliare il popolo romano, da tempo assopito all’ombra del potere temporale dei papi.
Nonostante tutto, il chiacchiericcio non accennò a diminuire. Parlottavano fitto-fitto Longo-Vignataro, il barone Malvica e il Conte di Chiaramonte, quest’ultimo iscritto come sovversivo nei registri italiani ma gradito ospito nelle terre di Pio IX. Lo stesso facevano, poco oltre - verso il palco - galantuomini come Giovanni Ruiz, il Cavalier Raucci e il commendator Volpicelli. Non erano da meno i vetturini Girolamo Giorgi e Francesco Martini e dietro di loro un certo Francesco Celletti, manigoldo di Trastevere, che aveva abbandonato il tetto coniugale e tre figli per andare a stare con l’amante – tale Cecilia Piccinilli, vedova Monti - in Via de’ Vascellari.
La giugulare del povero decollato sprizzava ancora sangue, quando il boia fece cenno di far entrare l’altro, Gaetano Tognetti, detto Gaetanino: giovanissimo, celibe, garzone e muratore. Il giovanotto aveva avuto un ruolo cruciale nel permettere ai dinamitardi l’accesso alla caserma degli zuavi. L’unica possibilità d’ingresso era allora rappresentata da un viottolo, nel quale si trovavano due feritoie, di cui una sprovvista di inferriata. Per raggiungere quel vicolo bisognava passare attraverso il Casamento Moroni, il cui stalliere era un ex garibaldino che si sarebbe lasciato corrompere. Ma Roma pullulava di spie, e ben presto quel vicolo era stato piantonato giorno e notte dagli zuavi, che avevano provveduto anche a far chiudere le feritoie sul muro di cinta della caserma. Tognetti era divenuto fondamentale perché aveva coinvolto l’amico chiavaro Giuseppe Moresi, che sapeva falsificare la chiave della porta di un locale terreno a uso di munizione del Genio Pontificio.
La sua testa ruzzolò vicino a quella del consorte. Morì con serenità e consapevolezza, da rivoluzionario e da uomo, a soli ventitré anni.
Il giustiziere di Dio raccolse entrambe le teste, una per mano, afferrandole dai capelli. Spostandosi sui quattro lati del palco, le esibì alla folla. Gli zuavi soddisfatti rullarono i tamburi. In molti si fecero il segno della croce, mentre alcuni menarono un ceffone ammonitore ai figli: ecco cosa succede a chi non rispetta il papa e la legge, a chi si mette contro la giustizia!
Una giustizia al sapor di ritorsione, già iniziata un anno prima in via della Lungaretta, con la strage al lanificio Agliani.
Quella fu l’ultima volta che a Roma venne azionata una ghigliottina. Non si udì mai più quel suono stridulo.
* Questo racconto è liberamente ispirato alla decapitazione dei rivoluzionari Monti e Tognetti, fatti realmente accaduti, adattati alle esigenze narrative ma ricostruiti attraverso numerose fonti, tra cui documenti originari dell’epoca (compreso il processo) reperiti presso l’Archivio di Stato di Roma (presso Sant'Ivo alla Sapienza, in Corso Rinascimento). Tutti i nomi presenti si riferiscono a persone non necessariamente presenti all’esecuzione ma realmente vissute a Roma e nello Stato Pontificio in quegli anni.
- Eliseo Palumbo
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A presto.
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in linea di massima è ben scritto e discretamente esposto, però mi permetto di fare degli appunti.
intanto ci sono molte ripetizioni a stretto contatto. per esempio, nel primo capoverso la parola "come" è ripetuta 4 volte e il fatto si ripete altrove. in alcuni casi la si potrebbe omettere, in altri cercherei parole alternative.
il secondo appunto che faccio è relativo ai personaggi presenti: troppi, a mio personale parere.
è vero che si tratta di una narrazione di fatti accaduti, ma mi pare superfluo egnalare la presenza di tanti elementi che, alla fine, col succo della storia poco c'entrano.
buon lavoro, comunque, e con una revisione può diventare splendido
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Mi è piaciuta questa narrazione, anche se romanzata è la ricostruzione storica di uno degli episodi chiave della cosiddetta “Questione Romana”, nei primi anni dall’Unità d’Italia.
Ben scritto, bel lavoro.
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