Diario di ricette da poco - (autrice: Susanna Boccalari)

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Diario di ricette da poco - (autrice: Susanna Boccalari)

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leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.

Saranno queste prime giornate autunnali, in cui un divano, un plaid e una tisana profumata regalano un momento per lasciar liberi i pensieri, o forse l’età, con la memoria che ha bisogno di spazio per ricordi nuovi e cerca quindi di liberarsi di roba antica.
Sia quel che sia, da qualche giorno mi ritrovo a pensare spesso a quando ero bambina, a come le stagioni, ora impazzite, scandissero il tempo, composto di giornate lunghe dove trovavano posto anche ore per annoiarsi.
È proprio la lentezza del tempo che mi manca: sicuramente per i miei genitori, come per me da adulta, le ore non bastavano mai e i giorni volavano, ma quante cose riuscivo a fare anche solo in un pomeriggio!

Sono nata in un paese di campagna, praticamente alle porte di Pavia, una bella città ricca di storia, con una famosa università, ma per me per è stata, durante l’infanzia, solo un posto dove ogni tanto mi portavano in visita a parenti, a vedere i presepi di Natale e poco altro. Il mio mondo piccolo era questo paese, circondato da risaie, prati, campi di grano e mais, orti; e poi i pioppeti a ridosso dell’argine del Po, le strade polverose: per tanti anni solo la strada principale, che divideva il paese e le sue storie, era asfaltata.
Il tempo di noi bambini, al pari del tempo per i contadini, seguiva le stagioni.
Il nostro letargo terminava a marzo, dopo un breve risveglio per il carnevale, con i golfini leggeri, i calzoni corti, le gonne colorate e quelle calze bianche di cotone traforate, al ginocchio, che non stavano mai su. Quanto le ho detestate!
«Ma mamma, ho freddo con questo golf! Mi dai quello più pesante?»
«Ma che freddo e freddo! Siamo in primavera, su!»
Mai contestare il calendario di Frate Indovino e una madre che ha appena completato il cambio degli armadi, giusto in tempo per una settimana di tempo ballerino! Comunque si usciva sempre ben coperti, anche troppo per le prime corse nel cortile della scuola.
Erano i giorni dei primi nuovi giochi all’aperto, qualcuno con la bicicletta ricevuta a Natale, qualcun altro cresciuto di quattro dita durante l’inverno; i compiti liquidati in fretta perché il fuori ci aspettava.
«Se poi stasera arrivi con la poesia ancora da imparare…» Il resto si perdeva dietro il richiamo degli amici.
Le risaie, allagate in attesa del trapianto delle piantine di riso, allettavano, nonostante o forse proprio per il divieto di andarci a giocare: nelle giornate con un po’ di vento comparivano barchette di carta, che non arrivavano mai dall’altra parte del campo, perdendosi troppo lontane dalla riva per essere recuperate con un bastone.
Qualcuno scopriva di aver usato, nella fretta di partecipare al gioco, le pagine del quaderno con i compiti per il giorno dopo e allora via di corsa a ricopiarli da un amico, prima che la ciabatta della madre se ne accorgesse! Eh, l’educazione aveva i suoi momenti critici.
Poi le scuole finivano, arrivavano il caldo umido dell’estate e le zanzare: ai piedi sandaletti aperti o scarpette di tela e via, animaletti in libertà!
Si giocava per strada, per strada si dimenticavano talvolta i giocattoli: auto ce n’erano poche nelle strade secondarie e chi guidava era prudente, si fermava a spostare giochi e biciclette, senza arrabbiarsi più di tanto.
Con cosa si giocava? A volte con niente, giochi inventati lì per lì, con regole quando mai variabili. I bambini ricchi i giochi li tenevano in cortile, condivisi con pochi amici; gli altri condividevano, ma poi si andava a cercare dell’altro. Anche il pericolo.
Ricordo l’estate in cui dei nostri vicini avevano fatto costruire un garage. Niente aree transennate, cartelli con divieti di accesso: via il cancello e nel cortile un mucchio di sabbia e uno di ghiaia, in un angolo la betoniera con accanto i sacchi di cemento e il tubo per l’acqua.
Quel mucchio di sabbia fu un invito a nozze: lo trasformammo in un paesaggio di montagna, con strade per le macchinine, alberi fatti con rametti e piccoli laghi che duravano ben poco. Ogni tanto i muratori facevano la voce grossa, che avevamo sparpagliato troppo la sabbia, ma il giorno dopo trovavamo le macchinine disperse bene in vista.

Le mamme, le nonne e le zie tenevano d’occhio tutti, distribuendo equamente merende, sgridate e qualche scappellotto. Oggi? Ci sarebbe la fila dai carabinieri per le denunce: a quei tempi - mi fa un po’ specie dire a quei tempi, ma tant’è - c’era consapevolezza.
Noi di aver combinato qualcosa che non andava e che, se protestavamo, a casa si sarebbe fatto conto tondo.
I genitori di conoscere i propri polli.
E le merende? Pane e marmellata fatta in casa, oppure burro e zucchero ma anche senza niente andava bene, così non c’erano mani appiccicose o magliette da non sporcare.
Si cadeva, ci sbucciavamo mani e ginocchia: un pianto, a volte più per far scena che altro, allarmava sempre una mamma o una nonna, che arrivava con cotone, acqua ossigenata e cerotti, ma anche col flacone rosa dell’alcol, miracoloso per una guarigione immediata. Il giorno dopo si cominciava, come scimmiette, a togliere le crosticine.
E poi c’erano i fossi: a parte provare a saltare dall’altra parte, ce ne stavamo seduti sulla riva, coi piedi a mollo, a ridere e chiacchierare, chissà di che cosa ma doveva essere qualcosa di interessante perché non c’era mai fretta di fare dell’altro.
I più grandicelli riuscivano sempre a catturare qualche rana, per i soliti scherzi e per qualche esperimento di cui si era parlato a scuola.
Mio padre e mio nonno ne portavano spesso a casa: mia madre le spellava e poi le friggeva, per i grandi. Per noi, quando eravamo piccole, una volta spellate ne legava alcune per una zampetta e, appese al manico della pentola, insaporivano la minestra di verdure: una carne rosa, tenerissima e delicata, finiva poi spezzettata tra patate, piselli e carote.
Era anche il tempo dei vartìs, che ho scoperto essere i germogli del luppolo selvatico. Era divertente raccoglierli, quasi un’avventura: crescevano accanto alle robinie o ai grandi cespugli di rovi, si arrampicavano sulle reti metalliche di vecchi orti. Con le mie sorelle si faceva a gara a chi ne raccoglieva di più, ottima scusa per un po’ di ritardo. Venivano sbollentati e poi ripassati in padella con burro e formaggio, oppure nella frittata, forse il miglior modo per gustarli.
A volte mi capita di vederne, ma non li raccolgo più.
Attorno al paese, spesso a ridosso delle case, c’erano tanti campi di mais, che quando diventava alto era un alleato perfetto per giocare a nascondino. Noi ci nascondevamo, ma in bella vista: per sapere dov’eravamo, ai grandi bastava vedere dove salivano nugoli di zanzare. Si tornava a casa con giusto qualche punturina, ma poca roba, mentre con chi approfittava del fresco per innaffiare orti e giardini le zanzare banchettavano.

Poi arrivava l’autunno: il primo ottobre a scuola, col profumo degli astucci nuovi, i quaderni ancora senza orecchie, i grembiulini neri e i fiocchi rosa e azzurri. Eh, ho avuto anche il piacere di usare la penna con inchiostro e calamaio: un incubo per mia mamma, quando mi mettevo a fare i compiti accanto a lei, mentre stirava!
L’inverno sapeva di buccia di arancia messa sulla piastra della stufa economica, di brodo, di biscotti fatti in casa, del tepore del letto in cui era stata messa la borsa dell’acqua calda, o il prete, uno scaldaletto al cui interno si posizionava lo scaldino riempito con delle braci.
L’autunno e l’inverno mi sono sempre piaciuti, da ragazzina: niente sorelle da recuperare dalle amiche o all’oratorio, ma pomeriggi in cui poter leggere in tranquillità, a volte coi piedi nel forno.
Sì, i piedi nel forno. All’epoca avevamo ancora la stufa economica ed essendo la più grande, a un certo punto ero io a dover badare che non si spegnesse, mentre mia madre sfaccendava. Postazione perfetta per leggere: mettevo nel forno un vecchio cuscino e ci poggiavo su i piedi, un paio di mandarini e non avevo bisogno di altro.
Ogni tanto arrivava mia madre:
«Ma insomma, i piedi nel forno con le calze bianche, che poi ingialliscono!»
«Ma chi le vede, con le scarpe!»
«Eh già! Ma se ti succede qualcosa? Metti che stai male e ti tolgono le scarpe eh? Faccio la figura di una che non sa neanche lavare un paio di calze!»
Catastrofismo materno.
Ed è di quegli inverni il ricordo di due piatti semplicissimi, che ho cucinato per anni anche nel forno a gas, ma nel forno della stufa avevano un qualcosa in più.
Le mele al forno e la torta di pane.

Le mele al forno? E chi non le sa fare! Vero, eppure… eppure vedo ancora mia nonna togliere con perizia il torsolo, velocemente e senza forare il fondo delle mele, con un semplice coltello. Le sistemava con cura nella teglia, uno o due cucchiaini di zucchero al posto del torsolo, un po’ di acqua e un chiodino di garofano. Un po’ di acqua e zucchero anche sul fondo della teglia e poi, via in forno.
Ogni tanto controllavamo con la forchetta la cottura, e quando erano pronte, non spappolate ma ancora un po’ sode, metteva la teglia su un angolo del piano della stufa, al caldo ma non troppo, per ancora una decina di minuti.
Il primo “assalto” era per quella pellicina tipo gelatina che si era formato sul fondo della teglia: la si alzava appena con la punta del cucchiaino e poi la si sollevava, cercando di farne piccole striscioline. Poi si passava alla mela: la sfida era mangiarne la polpa senza romperne la buccia, per trasformarla in una piccola scodella.
Mio nonno lo chiamava “mangiare da ospedale”.

Ma la torta di pane!
Il pane non mancava mai in casa: saziava e completava a dovere il companatico, dalla semplice bistecca al pollo in umido, per fare la scarpetta col sugo della pastasciutta e il panino per la merenda. Era buono anche senza niente.
In paese i “prestinai” cuocevano tre o quattro tipi di pane: quello comune, il più ricco biove, quello all’olio e al sabato dei bei micconi, perché c’era pane doppio: fino al martedì i negozi di alimentari sarebbero stati chiusi.
Al sabato si tornava dalla spesa con chili di pane: la domenica c’era sempre qualcuno a pranzo e in tavola si mettevano delle belle pagnotte sode o spesse fette di miccone, magari scaldato un po’ in forno; e se al pomeriggio capitavano amici in visita, si tagliava un buon salame nostrano per dei panini robusti. Rustici e sazianti.
Il pane avanzato si sposava bene col caffelatte a colazione, per una panada serale, magari con l’uovo sbattuto che si rapprendeva in mille forme strane; e poi grattugiato per la panatura delle cotolette o per il polpettone.
Alla fine, c’era sempre qualcuno che aveva cani e maiali da nutrire con quello che proprio avanzava.
E nel mezzo, la torta di pane.
Ogni casalinga aveva la sua ricetta, con le dosi a occhio perché tutto dipendeva dal pane.
Bambinetta che voleva imparare, mi ero segnata i passaggi su un vecchio quaderno di ricette di mia nonna, dove aveva riportato le ricette del lievito Bertolini con la sua scrittura un po’ infantile, da donna che aveva fatto la seconda elementare e detestava gli sprechi.
È una ricetta semplice, con pochi ingredienti e non si riempie il secchiaio con ciotole e ciotoline: ne basta una.
Prima di tutto occorre tagliare il pane, compresa la crosta, a cubetti, non troppo piccoli ma neanche troppo grandi: meglio il tipo con della buona mollica, le rosette non vanno bene; poi pian piano si aggiunge del latte, quanto basta a farne un composto non troppo asciutto.
«Lo lasci riposare una mezz’ora» si raccomandava mia nonna. «Se quando lo mescoli c’è un po’ di latte, ma poco, in fondo alla terrina va bene. Se ce n’è troppo metti ancora un po’ di pane, se è troppo asciutto, metti del latte. Ricordati di tenerne sempre un mezzo bicchiere di scorta.»
E io a guardare il fondo della terrina, per imparare.
All’impasto si aggiunge del cacao in polvere, meglio fondente: tre o quattro cucchiai abbondanti, anche cinque se piace un sapore molto deciso, cui segue dello zucchero, anche qui tre o quattro cucchiai.

A questo punto entravano in gioco le ricette “di famiglia”. Mia madre aggiungeva al composto dell’uvetta sultanina, fatta rinvenire nell’acqua tiepida, asciugata ma non strizzata:
«Gli acini devono rimanere bei cicciotti, meglio se li passi leggermente nella farina bianca, così non vanno in fondo.»
Poteva anche capitare che nell’impasto ci finisse qualche amaretto sbriciolato o qualche Oro Saiwa dimenticato. Certo erano Oro Saiwa di altra generazione, non come quelli di adesso, smortini e che appena vedono il tè, plaff, hanno già capitolato.
Mia zia aggiungeva anche qualche pinolo o gheriglio di noce spezzettato, una pera oppure una mela che cominciava ad avvizzire, a tocchetti.
Una nostra vicina, che non aveva bimbi per casa e un marito ad alta gradazione alcolica, all’acqua dell’ammollo per l’uvetta aggiungeva un paio di cucchiai di liquore, non importava quale.
Mescolato per bene il tutto, lo si versa in una tortiera imburrata e poi in forno ben caldo.
Nel forno a gas, 180° per circa 45 /50 minuti, controllando ogni tanto. Niente prova stecchino, è pronta quando il bordo della torta fa la crosticina, ma senza bruciare, e la superfice “gratta” un pochino per via delle croste del pane.
È buona tiepida, ma il giorno dopo - se ci arriva - è ancora meglio.
È una torta umida, che necessita di piattino e forchetta.
A me però è sempre piaciuto tagliarne una fettina sottile, afferrare al volo la punta e… niente forchetta, c’è più gusto a leccarsi le dita, fettina dopo fettina.
Cucinata di tanto in tanto negli anni, è una torta che ha risentito della diversa qualità del pane.
O forse il pane era più buono perché… perché erano altri tempi, dove il poco era tanto.
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Re: Diario di ricette da poco - commento 1

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Ecco un lavoro che rende l’idea della differenza tra Anonimania e le atre gare: senza l’obbligo non l’avrei mai commentato.

Non va, mi dispiace. Non ho alcun interesse a leggere le ricette di cucina della nonna e della mamma. La retorica sui “bei tempi andati”, su quanto fosse più bello vivere in maniera semplice e con poco è, appunto, solo retorica.


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Re: Diario di ricette da poco - commento 2

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“Saranno queste prime giornate autunnali, in cui un divano, un plaid e una tisana profumata regalano un momento per lasciar liberi i pensieri; o forse l’età, con la memoria che ha bisogno di spazio per ricordi nuovi e cerca quindi di liberarsi di roba antica…”

Un punto e virgola e poi prosegui con “o”, la principale nascosta nei puntini.

“Sia quel che sia, da qualche giorno mi ritrovo a pensare spesso a quando ero bambina, a come le stagioni, ora impazzite, scandissero il tempo, composto di giornate lunghe dove trovavano posto anche ore per annoiarsi.

È proprio la lentezza del tempo che mi manca: sicuramente per i miei genitori, come per me da adulta, le ore non bastavano mai e i giorni volavano, ma quante cose riuscivo a fare anche solo in un pomeriggio!”

Un po’ di banalità? Non ci sono più le mezze stagioni, avrei bisogno di giornate di 48 ore...

“Qualcuno scopriva di aver usato, nella fretta di partecipare al gioco, le pagine del quaderno con i compiti per il giorno dopo e allora… via di corsa a ricopiarli da un amico, prima che la ciabatta della madre se ne accorgesse! Eh, l’educazione aveva i suoi momenti critici.”

Con uno stile così semplice, una sinestesia cala come un maglio.

“Si giocava per strada, per strada si dimenticavano talvolta i giocattoli:”

Perché questa ripetizione nello stesso periodo?

“Ogni tanto i muratori facevano la voce grossa, che avevamo sparpagliato troppo la sabbia, ma il giorno dopo trovavamo le macchinine disperse bene in vista”

Un “che” usato come “perché”? Tipo: “che la diretta via era smarrita”? Chi ha disperso le macchinine? I bimbi perché scappati impaurito o gli operai per lavorare o che altro?

“Le mamme, le nonne e le zie tenevano d’occhio tutti, distribuendo equamente merende, sgridate e qualche scappellotto. Oggi? Ci sarebbe la fila dai carabinieri per le denunce; a quei tempi - mi fa un po’ specie dire a quei tempi, ma tant’è - c’era consapevolezza.”

Eh, i tempi sono cambiati sì. C’era consapevolezza nelle cinghiate date per il bene dei ragazzi, gridando “quando sarai grande mi ringrazierai”.

“Noi di aver combinato qualcosa che non andava e che, se protestavamo, a casa si sarebbe fatto conto tondo.”

Manca il verbo nella principale. Probabilmente è legato in qualche modo a consapevolezza, ma bisogna usare molta fantasia.

“Pane e marmellata, del buon pane e marmellate fatte in casa, oppure pane, burro e zucchero o miele. Anche solo il pane andava bene,”

In una riga e mezza quattro volte la parola pane.

“L’inverno sapeva di buccia di arancia messa sulla piastra della stufa economica, di brodo, di biscotti fatti in casa, del tepore del letto in cui era stata messa la borsa dell’acqua calda, o il prete, uno scaldaletto al cui interno si posizionava lo scaldino riempito con delle braci.”

Dopo “prete” vanno i due punti, visto che stai spiegando cosa è quel termine gergale. Lo stesso termine si capirebbe meglio se fosse contrassegnato in qualche modo.

“Il primo “assalto” era per quella pellicina tipo gelatina che si era formato sul fondo della teglia”

Perché dover costruire la frase in modo da dover mettere la parola assalto tra le virgolette? Credo che la parola “formato” debba andare al femminile.

“Il pane non mancava mai in casa: saziava e completava a dovere il companatico, dalla semplice bistecca al pollo in umido, per fare la scarpetta col sugo della pastasciutta e il panino per la merenda. Era buono anche senza niente.

In paese i “prestinai” cuocevano tre o quattro tipi di pane: il pane comune, il più ricco pane biove, quello all’olio e al sabato dei bei micconi, perché c’era pane doppio: fino al martedì i negozi di alimentari sarebbero stati chiusi.

Al sabato si tornava dalla spesa con chili di pane: la domenica c’era sempre qualcuno a pranzo e in tavola si mettevano delle belle pagnotte sode o spesse fette di pane semplice, magari scaldato un po’ in forno; e se al pomeriggio capitavano amici in visita, si tagliava un buon salame nostrano e il pane non poteva mancare di certo.

Il pane avanzato si sposava bene col caffelatte a colazione”

In dieci righe la parola pane è ripetuta nove volte.



“Una nostra vicina, che non aveva bimbi per casa e un marito ad alta gradazione alcolica, all’acqua dell’ammollo per l’uvetta aggiungeva un paio di cucchiai di liquore, non importava quale.”

Intendi dire che era un ubriacone? Se scrivi “che non aveva bimbi per casa e un marito” la “e” congiunge le due cose e si capisce che non aveva bimbi né marito; se invece vuoi indicare che non aveva bimbi, ma aveva un marito devi usare il “ma”.

“Cucinata di tanto in tanto negli anni, è una torta che ha risentito della diversa qualità del pane.

O forse il pane era più buono perché… perché erano altri tempi, dove il poco era tanto.”

In due righe, ecco di nuovo due volte la parola pane. Si stava meglio quando si stava peggio.

Nel titolo si parla di ricette, ma, per iniziare a vederne una, bisogna attendere mezzo racconto. Dalla prima parola del titolo ci si aspetta di leggere una sorta di resoconto giornaliero, ma qui c’è solo un ricordo continuo, che nulla ha a che fare con un diario. Se fosse stato presentato in forma di annotazioni giornaliere, forse il risultato sarebbe stato più interessante.

È un quadro che dipinge una bella infanzia in una campagna del millennio scorso. Un tema molto bello, ma già letto molte volte. Il rischio di cadere nel banale è alto e difatti qui lo si fa parecchie volte, a mio avviso. Banalità e luoghi comuni. Ogni tanto è presente qualche figura retorica, qualche tentativo di abbellimento che, al contrario dell’intento di chi ha scritto il racconto, non fanno altro che appesantire il testo, essendo fuori luogo.

Innumerevoli ripetizioni di termini, errori grammaticali e di forma, una impaginazione non convincente, la mancanza di corrispondenza tra titolo e racconto, sono riusciti a trasformare una bella immagine bucolica in un banale mappazzone di appunti di ricordi. Mancano la forma e lo stile.

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Re: Diario di ricette da poco - commento 3

Messaggio da leggere da Il Guru »

Sento di dovermi soffermare su questo racconto, dato che qui c'è molto da dire.

Il titolo "Diario di ricette da poco" è uno dei più azzeccati in questo contest, oltre a un altro che però non menziono per correttezza di gara (non parlo del mio).

E' un titolo che racchiude poco e molto al contempo, evocandone la valenza e il valore sia del poco che del tanto. Leggendolo ho trovato disturbante quel continuo punto esclamativo a fine rigo, che non ha ragione di essere, non c'è a rafforzare nulla, dato che nel rigo stesso è già stato evocato gusto, ricordi, differenza di tempi e di generazioni. La scrittura è a tratti imprecisa, ma non di certo "povera", anzi c'è un'ottima padronanza della lingua italiana e dell'uso degli aggettivi, utilizzati anche per creare frasi delicate, ne ho evidenziata una: "Bambinetta che voleva imparare, mi ero segnata i passaggi su un vecchio quaderno di ricette di mia nonna, dove aveva riportato le ricette del lievito Bertolini con la sua scrittura un po’ infantile, da donna che aveva fatto la seconda elementare e detestava gli sprechi".

E' vero che il testo si pone al lettore come un quaderno di ricette, ne descrive i passaggi, quindi proprio per questa caratteristica appare noioso e fastidioso perché in esso c'è l'assenza di trama.

Concordo con l'assenza di trama, eventi, e personaggi portanti, ma la struttura c'è, quella di una diario di ricette (come del resto) ha intitolato chi lo ha scritto.

C'è una vena che percorre tutto il testo, attraverso la narrazione di ingredienti, piatti e altro che poco interessano, invece interessante è quel riportare il lettore indietro nel tempo, ad altri tempi, usi e costumi di una generazione antecedente, presentando anche la fotografia di una comunità rurale con i suoi pensieri e abitudini. E' una vena di pregio, e io la sottolineo, capace di infondere malinconia e riflessione, anche attraverso ricette e ingredienti. E' una vena narrativa pacata, che non offre colpi di scena, ma ugualmente bella e voglio aggiungere "comoda" intesa come confortevole e confortante. Questo racconto letto con attenzione, non ci mostra quello che di solito si cerca in una lettura, movimento, azione, personaggi, ma ci offre uno spaccato di vita vissuta, singola e di comunità, anche se lo fa attraverso dei punti di debolezza nello stile, ma siccome è una narrazione altamente suggestiva io vado oltre i suoi limiti assegnando a questo Diario di ricette da poco...

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Re: Diario di ricette da poco - commento 4

Messaggio da leggere da Il Guru »

Il testo è un ibrido tra un diario dei ricordi e un ricettario; seppur certe descrizioni sono anche efficaci trovo davvero esagerato il peso dato alla descrizione della preparazione dei piatti. Rende la lettura poco coinvolgente e non regge lo scopo di voler far sentire quei profumi e quelle consistenze. Insomma è sicuramente interessante per chi l’ha scritto e forse per i suoi cari, ma non per chi non ha un legame affettivo con quelle vicende. Anche la parte iniziale, sicuramente più riuscita, risulta un po’ troppo un elenco di ricordi, slegato, non coinvolge abbastanza. Anche la struttura delle frasi non aiuta, spesso troppo lunga e macchinosa. Il tutto poi si riduce a “i bei tempi andati”, direi un po’ troppo semplicistico. Non ho notato niente di particolare a livello formale, perciò direi che “si lascia leggere”.

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Re: Diario di ricette da poco - commento 5

Messaggio da leggere da Il Guru »

Un bel racconto che riesce a condensare la dolce malinconia dei “vecchi tempi”. La narrazione è sciolta, anche se qualcosa stride nella punteggiatura. Nella prima parte, quella dei ricordi d’infanzia, il racconto si snoda in maniera accattivante; nella seconda, invece, le ricette si dilungano un po’ troppo e si perde la genuinità iniziale. Ma indubbiamente si fa leggere con piacere.

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Re: Diario di ricette da poco - commento 6

Messaggio da leggere da Il Guru »

Sono perplesso a leggere alcune recensioni, una in particolare, su questo lavoro prezioso. Leggerei mai un racconto così? No. Nemmeno leggerei una tesi sugli umori degli insetti. Ma sono qui a giudicare, perché nel quadro del gioco vale l’aspetto contributivo. E allora, chiamato al compito, mi calo nell’intento dell’autore e devo riconoscergli /le che ha dipinto un affresco di identità e riconoscenza verso un passato che riguarda tradizioni, conoscenze da mantenere. In questo racconto non c’è una ricerca di “sensazione“, di sorpresa, perché si predilige l’esperienza, la tradizione, il “rammento “. È un dipinto generoso e malinconico di un vissuto. E alla Penna scrittrice gli /le è riuscita perfettamente. Ci sono errori? Non so. Nemmeno mi interessa. Quando ho letto lo splendido “Atzeco” di Gary Iennings, un best sellers, trovandomi al dubbio “razzi” quando non potevano esistere i razzi nel panorama atzeco, ammetto di essermi fermato un attimo, ma poi ho proceduto. So che questo lavoro non è nelle mie corde, eppure mi piace, mi coinvolge nella ricerca di di sapori e valori dimenticati e che vanno riscoperti. Chiedo ai certosini della sincope di guardare all’anima del racconto e di esser meno pedissequi sulla forma. Che, peraltro, giudicandola, senza un fine prevaricante e strumentale, trova il tempo che trova. Bel, sano, importante racconto. Grazie Penna.

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Re: Diario di ricette da poco - commento 7

Messaggio da leggere da Il Guru »

Il racconto è stato, per me, come una coccola. L'ho goduta sino alla
fine. Dichiarato dal titolo, è una pagina di diario. Mi ha scaldato
come quel plaid o quella tisana dell'inizio.
Ricette da poco, nel senso che con poco si faceva. Il gioco o la
torta. L'autore (maschile o femminile) ci apre una porta su quel
mondo.
Il testo mi ha fatto trascorrere pochi minuti in modo piacevole.
Scontato, banale e pieno di luoghi comuni? Non siamo tutti uguali e,
per fortuna, non a tutti piacciono le stesse cose!
Non fosse per quei punti di sospensione..
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Re: Diario di ricette da poco - commento 8

Messaggio da leggere da Il Guru »

Un bel titolo che lascia riflettere su quel “poco”. Si potrebbe pensare che non valgano nulla perché sono ricette povere, ma con la lettura ci si accorge invece che sono ricette capaci con “poco” di creare felicità. Certo, sono loro le protagoniste della storia, legate a tutte le figure di grandi e piccoli che riempiono i ricordi dell’Autore, sono come dei rintocchi che scandiscono le tappe del tempo. Non è un racconto classico e si può anche non essere d’accordo nel valutare migliore il passato rispetto al presente, ma si legge bene e risveglia la malinconia del ricordo.

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Re: Diario di ricette da poco - commento 9

Messaggio da leggere da Il Guru »

Anche qui l'ennesima lunga cavalcata d'un io narrante, ma questa volta a caccia di ricordi d'infanzia.

Gradevole, seppur scontata, la narrazione, e d'altra parte non poteva che essere così.

Lo schema narrativo è povero, poverissimo, come il susseguirsi di sequenze: perché l'autore ha inserito un'unica sequenza narrativa e non è stato generoso neanche nell'offrire dei dialoghi al lettore; dialoghi poi in cui sono persino assenti le cornici citanti. Nel finale una sequenza riflessiva in cui si rimpiangono i bei tempi andati in cui il poco era tutto che sa tanto di retorica.

In realtà si rimpiange solo la propria infanzia, o la giovinezza, ma questo è meglio non dirlo.

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Re: Diario di ricette da poco - commento 10

Messaggio da leggere da Il Guru »

Confesso che la mia prima impressione è stata quella di leggere un racconto banale, intriso di retorica, in cui si favoleggia dei bei tempi andati… Poi però mi sono letteralmente immerso nella lettura, facendo un salto indietro nel tempo, antecedente a quello in cui ho vissuto da bambino, e ritrovandomi così in una realtà che non è mai stata la mia… Eppure, nonostante questo, mi sono lasciato avvolgere dalle sensazioni, vivide e autentiche, dell’autore / autrice. Che dire, esprimere in modo sincero e genuino le proprie emozioni paga sempre…

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Re: Diario di ricette da poco - commento 11

Messaggio da leggere da Il Guru »

Il primo dubbio che mi viene è se questa sequenza di ricordi di fanciullezza e gioventù possa essere considerato un racconto. Dal momento che si trova qui evidentemente sì, dunque la perplessità svanisce.

Ovvio che una storia, o meglio un compendio di storie, del genere abbia il suo senso al netto di una trama (che non esiste) o di picchi di tensione (che al massimo, passatemi il paragone elettrotecnico, raggiungeranno i due volt). Proprio uscendo da queste aspettative si ritrova il pieno senso di questo scritto. Momenti di vita vissuta che vengono proposti come fotogrammi, in alcuni dei quali mi riconosco ancora, in altri ritrovo i miei genitori. Raccontati in tutta semplicità, in tutta calma, come la nonna li racconterebbe ai nipoti. Indugiando su particolari del tutto inutili, alle volte, ma che sicuramente saranno rimasti impressi nella mente di chi li ha vissuti.

Sempre in quest’ottica non è possibile scegliere una scrittura diversa da questa, rustica e semplice, proprio come le ricette che sono presentate: ripetizioni? Ce ne sono, ma anche la nonna ce le mette. Termini dialettali? Idem.

Un racconto che nasce senza alcuna pretesa se non rievocare i tempi passati e… in questo ci riesce perfettamente.

Nel complesso, però, non vedo alcuna forma di originalità e di abilità letteraria: avrebbe potuto comporre questo racconto chiunque sappia correttamente in italiano e non percepisco particolari sforzi per renderlo attraente agli occhi di un lettore medio, magari un po’ stanco di sentirsi dire sempre le stesse cose da chi è più grande di lui. Proprio per questo non riesco a fargli superare la sufficienza, che comunque c’è.

VOTO: 3
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Il Guru
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Re: Diario di ricette da poco - commento 12

Messaggio da leggere da Il Guru »

Testo che non mi entusiasma particolarmente , molto offensivo il primo commento però che proclama di non voler commentare questo testo perchè lo vede come una ricetta ,se non gli andava di fare commenti su testi che hanno stili e narrative differenti non doveva iscriversi ad un concorso in cui l’obbiettivo probabilmente è anche confrontarsi su stili differenti.
Come ho detto il testo non mi entusiasma ma rileva comunque una buona tecnica narrativa e autoriale.
Vuole trovare una sua forma di semplicità e sotto questo aspetto l’ha assolutamente trovata.
Il problema però più grosso di questo testo sta nelle ripetizioni : pane è ripetuto una miriade di volte e mentre all’inizio può anche sembrare un segno stilistico dopo , come si dice, “il troppo stroppia”.
Poi ci sono frequenti errori grammaticali e qualche volte la forma lascia a desiderare.
Insomma c’è l’idea ma la realizzazione ha dei problemi formali da sistemare.
VOTO: 2
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