Memento mori
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Memento mori
La crisi economica non permetteva di sostenere ulteriori costi. Fu deciso quindi di inviare un solo esploratore a verificare cosa fosse successo. Lo sfortunato estratto a malasorte fu il giovane Matteo Berni, risorsa umana preparata ma sottopagata con un contratto capestro. Matteo sapeva di essere sacrificabile, Mapsan nascondeva forse un pericolo mortale, ma quei manufatti erano un irresistibile motivo di attrazione per la Comunità Scientifica; anche se fino a quel momento erano tutti concordi sull'ipotesi di uno scherzo perpetrato da un archeologo spaziale.
Matteo atterrò con la sua Fiat Dune di fianco alla navicella che lo aveva preceduto. La perlustrò accuratamente. Tutto funzionava alla perfezione, non c'erano danni né all'interno né all'esterno. L'unica cosa che mancava era l'equipaggio. Scese alla ricerca di qualche traccia nei dintorni, ma non era facile trovare delle impronte dopo tre settimane, su Mapsan il vento non smetteva mai di soffiare. Aveva 24 ore di tempo, dopo di che sarebbe ripartito, gli ordini erano quelli. L'unica cosa che restava da ispezionare erano i manufatti. Matteo accese il suo neuro-regolatore emozionale per non farsi prendere dal panico. Mentre si avvicinava a uno dei monoliti cominciò a speculare sulla loro origine.
"Forse sono templi di una civiltà scomparsa, in cui si rinchiudevano individualmente per pregare. Se non è uno scherzo, allora queste che sembrano cabine telefoniche devono essere il ricordo ancestrale di un popolo che è venuto in contatto con noi. Però sono loro a ricordare noi o siamo noi a ricordare loro?"
Non aveva mai visto una cabina se non in foto, era sempre rimasto affascinato dalla loro funzione. Gli sovvenne un episodio che gli raccontava suo nonno, il cui protagonista era il bisnonno del nonno. Egli si era opposto alla rimozione di una cabina nel suo paese perché da quella cabina aveva chiamato la sua prima fidanzata per dirle che l'amava, con un gettone rubato alla madre, che dopo lo picchiò a lungo per questo. Matteo s'intenerì. Adesso era di fronte a una perfetta riproduzione di un reperto terrestre. Con la punta del fucile provò ad aprirla. Una delle ante cedette silenziosa. A un primo sguardo il materiale con cui era costruita pareva ignoto: non era plastica, non era metallo. Sembrava più una sorta di pietra nera, forse come quella che si trova nella Mecca. La sua mente iniziò a fare collegamenti assurdi.
C'era un fumetto americano da cui avevano tratto dei film; il protagonista si chiamava Superman, proveniva da un altro pianeta, ma viveva sotto un'identità terrestre, col nome di Clark Kent, un giornalista un po' goffo. Quando c'era bisogno di Superman, il buon Clark si introduceva in una cabina telefonica per trasformarsi nel supereroe. Era una metafora semplice: siamo tutti Clark Kent, un po' impacciati e maldestri, ma in alcune situazioni possiamo superare i nostri limiti e diventare eroi. "Ecco perché avevano rimosso le cabine! Il Sistema non voleva che ci rendessimo conto dei nostri superpoteri!" Ora aveva l'opportunità anche lui di trasformarsi.
Improvvisamente udì alle sue spalle dei tonfi, sempre più forti. Qualcosa stava arrivando, ed aveva il suono del pericolo; era la causa della sparizione dei suoi colleghi? Varcò deciso la porta della cabina e si girò di scatto. I tonfi erano cessati, non c'era niente che si muovesse, tutto era come prima. Come prima? Non proprio. Non aveva contato le cabine intorno a lui ma aveva la sensazione che ce ne fosse qualcuna in più.
Fu in quel momento che ritrovò la lucidità. Si accorse che il neuro-regolatore emozionale non si era mai acceso, altrimenti non si sarebbe intenerito al ricordo del bisnonno, non avrebbe fatto quei ragionamenti assurdi, e soprattutto si sarebbe girato prima di entrare nella cabina. Invece si era fatto guidare dalla paura, e la paura non sa guidare. Allungò tremante una mano verso la porta per avere la peggiore delle conferme: non si apriva. Spinse con tutte le sue forze, poi provò a tirare ma le sue mani non riuscivano a infilarsi nella sottilissima fessura centrale. Sparò col fucile su quella materia trasparente che sembrava vetro e vide che assorbiva i proiettili, i quali restavano intrappolati nello spessore della porta per poi lentamente sparire, come digeriti. Digeriti? Ad un tratto si rese conto che c'era un altro respiro oltre al suo. Dall'esterno non si avvertiva. Quella cosa era viva, vibrava. Si girò lentamente verso il telefono. Sulla tastiera erano incisi dei segni, potevano essere numeri o lettere, ma non avrebbe saputo decifrarli. Poi sul display apparve una scritta: "Memento mori". Era un'allucinazione? No, era una morte annunciata, anzi telefonata: la sua. Entrambi i respiri si fermarono per un attimo, subito dopo la creatura-cabina implose su di lui, assunse la forma di una clessidra, e lo divorò.
Pochi minuti dopo che l'eco delle urla strazianti dell'uomo si fu spento, il predatore tornò alla forma originale e iniziò a saltare in avanti soddisfatto, producendo il suono di quei tonfi che avevano spinto la vittima nelle sue fauci. Era la sua abituale passeggiata digestiva. "Grazie Matteo" pensò la cabina, "la tua trasformazione, che voi chiamate morte, non era quella che sognavi, ma mi ha allungato la vita, non è stata inutile, come sempre accade. È stato bello incontrarti. Avete anche un buon sapore. E poi siete così facili da catturare!"
- Domenico Gigante
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Piccolo suggerimento, se mi è permesso: c'è qualche problema di punteggiatura da sistemare.
Complimenti per la splendida fantasia. La fantasia è qualcosa che invidio tanto.
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La cabina aliena antropofaga è una bella trovata, potrebbe essere una metafora dell'aggeggio che teniamo in tasca e che ci fotte (per ora) solo il cervello.
Voto 4
- Marino Maiorino
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Ok, sì, sfizioso, nessun problema di scrittura (da te, non erano da aspettarsi), ma...
Grazie per avermi fatto sorridere con un po' di fantaumorismo (la Fiat Dune e il contratto capestro di Matteo Berni...



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Re: Memento mori
Mi sarebbe piaciuto un finale a sorpresa in cui la cabina, per la prima volta in "vita" sua, non riesce a digerire il poveretto e lo vomita (pardon!)nello spazio.
Lui, prima di morire, avrebbe potuto esclamare:" per fortuna sono indigesto a tutti!"
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La morale di questo racconto, leggero e,divertente, potrebbe essere: evitate anche gli ascensori...
Mi sarebbe piaciuto un finale a sorpresa in cui la cabina, per la prima volta in "vita" sua, non riesce a digerire il poveretto e lo vomita (pardon!)nello spazio.
- Laura Traverso
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Commento : Memento mori
Complimenti per la splendida fantasia. La fantasia è qualcosa che invidio tanto.
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R. Matheson, F. Brown, ma sopra tutti Robert Sheckey. Bel racconto. Nelle serie di fantascienza quando scendono su un pianeta sconosciuto il primo che muore è sempre una comparsa senza battute che è un negro oppure ha un cognome polacco o, appunto, italiano.
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Re: Memento mori
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