Alambrado
Alambrado
Quel fischio garrulo li accompagnava dalla nascita alla morte, cozzando aspramente contro tutto ciò che trovava sulla sua strada siano state persone, automobili o pareti di legno delle abitazioni, facendo cigolare porte e finestre, alzando polvere rosa e foglie gialle, scompigliando i capelli di chi si avventurava per le sue vie.
Te lo ritroverai anche nelle tasche, diceva nonno Josè al nipote Dieguito, facendolo ridere a crepapelle.
“Ama questo vento perché quando cessa, gli uomini diventano pazzi. ”
“Perché nonno?”
“E’ un’antica leggenda Tehuelche che penso abbia un fondamento di verità. Il vento è il nostro compagno di vita, ci segue sempre, e quando improvvisamente scompare, ci sentiamo soli e cominciamo ad aver brutti pensieri. Quando hai paura Dieguito, puoi commettere qualsiasi follia.”
Il ragazzo frequentava l’ultimo anno di liceo. Mancava poco all’esame finale e poi avrebbe continuato gli studi all’università per diventare pediatra come nonno Josè. Da Puerto Deseado a Buenos Aires, sede dell’università, sarebbe stato un salto importante nella sua vita.
Tra le tante cose e persone che avrebbe lasciato nel paesino, la più importante portava il nome di Marcela, una ragazza con sangue mapuche da parte di madre. Il suo corpo felino e lo sguardo fiero tipico dei nativi gli erano subito piaciuti, appena vista nella gelateria di Avenida Ushuaia.
Dieguito e Marcela abitavano agli estremi opposti del paese. Lui viveva in una villetta vicino alla grande arteria che attraversando una pampa sconfinata portava a Santa Cruz. Marcela invece stava in una casa a est del paese, in un quartiere di pescatori direttamente sul mare. Il vento la faceva da padrone in entrambi i casi, secco e violento verso la pampa, umido e salmastro vicino al mare.
I due ragazzi avevano l’abitudine di ritrovarsi a metà strada, dove un enorme campo incolto custodiva decine di macchine e camion abbandonati. La rapacità dell’uomo aveva lasciato il segno, rubando tutto ciò che era più o meno commerciabile. Ruote, sedili, cambi delle marce, finanche i cassoni dei furgoni congelatori erano spariti nelle notti stellate. Dell’antica vita rombante rimanevano solo desolati scheletri di metallo che mandavano bagliori sinistri nelle notti serene.
Un pick up, forse di recente abbandono, era diventato il loro piccolo nido. Mancava solo delle ruote, mentre l’interno era rimasto perfettamente integro. I sedili, leggermente sfondati per l’uso, erano ancora discretamente sostenuti dalle potenti molle e si erano trasformati in grandi e comode poltrone. I vetri intatti sigillavano perfettamente l’abitacolo.
In uno dei tanti pomeriggi passati là dentro, Marcela confidava a Dieguito la sua tristezza.
“Tra poco arriverà il momento che dovremo lasciarci.”
“Stiamo diventando grandi, Marcela. Tu continua la scuola e poi vedremo cosa fare.”
“Dieguito fra tre mesi andrai a Buenos Aires e forse ti dimenticherai di me. Conosco tante ragazze più grandi che sono rimaste sole. I ragazzi sono andati nelle città a studiare, e poi poco alla volta si sono staccati perché hanno trovato altri interessi.”
“Non sarà così per me, lo vedrai. Tu verrai a trovarmi, parlerò con i tuoi per convincerli. Quando sarò laureato, tornerò a Puerto Deseado a fare il pediatra.”
“Oh Dieguito, qui a volte mi sento fuori dal tempo.”
Si abbracciarono ascoltando il ritmo delle stagioni che passavano e le incognite di un distacco prossimo ad avverarsi. Il vento fischiava a piccole ondate intorno al pick up, saliva in un crescendo di tono fino ad arrestarsi improvvisamente e arretrare verso le pianure che si stendevano oltre la piccola collina che delimitava quel terreno, per poi ritornare con maggior virulenza.
Si erano portati due piccoli scaldamani per darsi calore all’interno dell’auto. Si strinsero forte come fosse un addio prima del ritorno a casa.
Si avvicinava il periodo delle vacanze pasquali e Dieguito con nonno Josè sarebbe andato a Buenos Aires per cercare un monolocale in vista del trasferimento.
Le due settimane di vacanza passarono veloci. Entrambi avevano una gran voglia di rivedersi, colpiti da quella nostalgia giovanile che faceva tremare le gambe e accorciava il respiro.
Finalmente un mercoledì pomeriggio poterono darsi appuntamento nel campo dei rottami d’auto.
Il primo ad arrivare fu Dieguito. Camminava a passo svelto, e seppur fosse ancora lontano, notò subito che qualcosa non tornava. Il forte vento alzava un leggero pulviscolo, lui pensò che la stranezza del panorama fosse dovuta a quella specie di nebbia che galleggiava nell’aria, impedendogli una visione limpida.
Una volta giunto sul posto rimase a bocca aperta.
Il campo era completamente deserto, niente più macchine e camion dismessi ma solo un desolante pianoro di stoppa giallastra. A delimitare il tutto un alambrado di ferro luccicante sostenuto da pali colorati, mentre nell’angolo a destra era stata costruita una casetta di legno dipinta di azzurro.
Dieguito, ripresosi dalla sorpresa, si ricordò che nonno Josè gli aveva raccontato che nell’antica legge patagonica, chi delimitava un terreno con un filo di ferro automaticamente ne assumeva la proprietà. Al momento non sapeva se un alambrado avesse ancora quelle particolarità giuridiche.
Dopo qualche minuto arrivò Marcela.
“Dio, che è successo?”
Dieguito le corse incontro.
“Non lo so Marcy, non so chi possa aver ripulito tutto.”
La ragazza cominciò a piangere davanti a quello spiazzo enorme. Era rimasto solo qualche segno sul terreno degli automezzi trascinati via, qualche riga sbilenca qua e là e poi il nulla fino alle colline.
Rimasero abbracciati con il vento che arruffava i capelli e rendeva fredde le lacrime, fino a che sentirono una voce. Si girarono, e videro vicino alla casetta un uomo che li chiamava, facendo loro segno di avvicinarsi.
Chini e con le mani sugli occhi per ripararsi dalla polvere, s’incamminarono verso l’uomo.
“Buongiorno ragazzi, mi chiamo Alberto Luque e sono il nuovo proprietario di questo spazio.”
Dieguito e Marcela lo guardarono stupiti.
“Non so bene come iniziare a spiegarvelo, ma ci provo. Negli ultimi mesi sono passato davanti a questo campo tante volte, e spesso vi ho visto salire e rintanarvi su quel pick up giallo per delle ore. Ho capito che era il posto dei vostri incontri, il vostro luogo magico. Mi sono rivisto giovane, quando anch’io cercavo un posto tutto per me e così, quando ho acquistato questo spazio, non ho potuto non pensare a voi.”
“Sì, era il nostro angolo sicuro.”
L’uomo li prese per mano e li condusse verso la casetta.
Aprì la porta e li fece entrare.
“Questo posto lo potrete usare come facevate con il pick up. Io non so cosa farò di questo terreno ma per ora rimarrà tutto così.”
La casetta era piccolissima e accogliente. Un divano, un tavolo con tre sedie e nient’altro.
“Grazie!” urlò Marcela, “lei non sa che regalo ci ha fatto. Almeno per i prossimi tre mesi avremo un posto sicuro. E bello e comodo.”
Dieguito lo guardò serio e non seppe dir nulla. Guardò dritto l’uomo e gli strinse vigorosamente la mano.
“Bene, ecco le chiavi, sono vostre.”
Gliele consegnò.
“Beh, non mi resta che augurarvi un grosso in bocca al lupo. Vi ho già fatto perdere troppo tempo” disse il signor Luque salutandoli.
Dieguito e Marcela lo guardarono incedere a passo svelto verso l’auto, salutandolo con la mano fino a che l’uomo vi salì e sparì dalla visuale.
Rientrarono nella casetta.
“Ci potremo appendere qualche quadro” disse il ragazzo.
“Oh sì, per un po’ sarà nostra. Chissà…”
Marcela commossa si strinse forte al suo ragazzo, mentre il vento urlava sempre più forte. Sembrava che anche lui avesse assistito alla scena e aumentasse d’intensità per comunicare la sua approvazione.
Alberto Luque fece in auto un paio di chilometri, poi fermò la macchina, prese il telefono e compose un numero.
“Josè?”
“Sì Alberto, dimmi.”
“Tutto ok. Ho parlato ai ragazzi e ho dato loro le chiavi. Dovevi vedere com’erano sorpresi. La ragazza poi era al settimo cielo.”
“Grazie Antonio, sei un amico. Fra tre mesi potrai farne quello che vuoi. Toccherà a me pensare ad altre soluzioni.”
“Va bene. Poi mi racconterai il seguito” disse Alberto.
“Sì, ti dirò tutto. Alberto, te lo giuro, farò di tutto perché mio nipote non lasci questa ragazza. Sono proprio una bella coppia.”
Una volta chiusa la telefonata, Josè si guardò allo specchio. Era ancora un bell’uomo anche se il sole, il vento e il correre degli anni avevano indurito il suo volto. Ormai aveva settantasette primavere, le tante esperienze e battaglie affrontate lo avevano fatto diventare un uomo esperto e sicuro di sé.
Eppure in tutti quegli anni non aveva potuto cancellare il ricordo di quel viso dolce che lo aveva fatto sognare durante la gioventù. Isabelita non era mai stata dimenticata e stupido, non aveva mai smesso di darsi dello stupido, per averla lasciata andare attratto dalle mille tentazioni di Buenos Aires. Ogni uomo uccide ciò che ama, pronunciò a voce alta.
Finì di bere il caffè e tese l’orecchio stupito da uno strano silenzio che lo circondava. Non udiva il solito fischio potente né le vibrazioni delle pareti di casa.
Uscì sul porticato e guardò verso la pampa. Il sole era ancora caldo e l’aria pulita, incredibilmente ferma. Il vento era andato via.
Josè sorrise al pensiero che ogni pazzia aveva il suo lato positivo.
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storia d'amore giovanile e rimpianti che arrivano con l'età.
bello il gesto del nonno, che cerca di riparare un danno fatto a se stesso e alla sua bella aiutando una giovane coppia che rischierebbe lo stesso destino.
molto buone le descrizioni, anche emozionali.
forse c'è qualche ripetizione e alcune virgole, poche, fuori posto.
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Suggestive le descrizioni e tutto quello che riguarda il vento, con le sue leggende e la sua presenza costante, da elemento di sfondo diventa quasi protagonista.
Mi sembra un buon racconto.
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